Diario di Giulia – Capitolo I

Come e perché cominciai a scrivere questo diario

Fu Apollinario… caro, vecchio Apollinario… che mi incoraggiò a scrivere questo diario. Accadde in una notte di primavera, non molto tempo fa, quando pianse tra le mie braccia come un bambino, e io desiderai poter mescolare le mie lacrime alle sue. Ma io non ho più lacrime. Versai le mie ultime una notte, sembra una vita ormai, in Moesia, vicino al Mar Nero, per un affascinante generale romano.

Era una notte di pioggia e mi svegliai al frenetico bussare alla porta del mio appartamento. Ero sola, perché Nicia, la mia domestica, tornava ogni sera da suo marito... e nell’appartamento dell’uomo che oggi chiamo “marito”. Ero sola come volevo essere ogni sera, quando il sole tramonta oltre l’orizzonte e le ombre avvolgono la città. In quelle sere, sedevo nella mia camera da letto con il lume e i miei libri, e i miei ricordi di un uomo dagli occhi azzurri.

Presi il lume e andai alla porta, che aprii, trovando il mio sempre elegante istitutore ed amico macchiato di fango e sangue, i ricercati abiti strappati, i capelli scarmigliati e gli occhi rossi e gonfi. Dato che rimanevo sulla soglia assolutamente stupita, Apollinario mi guardò e disse fra strazianti singhiozzi:
- Giulia, oh Giulia! Ippolito è morto!

Fui colpita nel sentire della morte del suo giovane e bell’amante, ma prima che potessi chiedergli com’era accaduto, egli mi cadde tra le braccia piangendo come un bambino. Quando infine riuscì a parlare, Apollinario mi disse che il ragazzo, che aveva solo diciott’anni, era stato calpestato dagli zoccoli dei cavalli di un gruppo di ubriachi che uscivano da una taverna, le leggi della città permettendo l’uso di andare a cavallo nelle vie ad ore tarde.

Apollinario e io trascorremmo quel che restava della notte spartendoci un divano nella mia anticamera, bevendo vino speziato e parlando. O forse dovrei dire che lui parlò e io ascoltai e ogni tanto, quand’era sopraffatto dal suo dolore, io lo abbracciavo come fosse stato il bambino che desidero ardentemente ma non avrò mai.

Povero, caro Apollinario! La morte d’Ippolito era un altro legame fra noi, entrambi nati schiavi, entrambi costretti ad una vita disumana e senza amore fin da tenerissima età, entrambi liberati dalla generosità di uomini potenti e compassionevoli, entrambi lasciati soli a rifarsi una nuova vita, entrambi innamoratissimi dei libri e della storia e della bellezza... entrambi molto soli ed ora entrambi a condividere la perdita del nostro amato, lui a causa della morte, io a causa dell’onore e di un’altra donna.

La pioggia smise all’alba e per allora eravamo tutt’e due esausti e più che un poco brilli. Poco prima di cadere addormentato, Apollinario mi guardò con i suoi occhi nocciola belli ed ora addolorati, e disse:
- Conosco molte cose della tua vita passata, Giulia. Molte cose tranne una: che cosa ti ha fatto lui, per renderti così triste? - Cercai di protestare, di negare la verità che egli aveva visto oltre le pareti che avevo eretto intorno a me fin dal mio ritorno a Roma. Ma Apollinario mi zittì con un gesto della mano. - No, Giulia, - disse. - Non provarci nemmeno, a negarlo. Ti vidi addolorata per lui fin dalla prima volta che t’incontrai. E no, non occorre che tu mi riponda. Ma trova un modo per dar sfogo a ciò che hai nel cuore o farai del male a te stessa più profondamente di quanto fece lui.

Subito dopo, Apollinario s’addormentò tra le mie braccia e io lo seguii nell’oblio. Quando ci svegliammo, eravamo piuttosto imbarazzati e ci affrettammo a preparare il funerale d’Ippolito per evitare di parlare della notte precedente. Per lui, era stata la prima notte della sua vita… e, per quanto ne sappia, l’unica… in cui aveva dormito con una donna. Per me, la seconda in cui avevo dormito tra le braccia di un uomo con il quale non avevo condiviso il mio corpo. Apollinario non aveva bisogno di me in quel senso ma, quella notte in Moesia, l’altro uomo mi aveva desiderata tanto quanto io avevo desiderato lui. Tuttavia, egli aveva rifiutato di prendere quel poco che avevo da offrirgli allora, abbandonandomi senza il conforto del ricordo della sua carne.

Così, subito dopo il funerale d’Ippolito, tornai al mio appartamento e cominciai a scrivere. All’inizio, fu un tentativo impacciato e doloroso. La mia penna sembrava andare in un senso mentre la mia mente andava alla deriva in un altro. Avevo tanta vergogna di mettere in parole ciò che realmente volevo e avevo un gran bisogno di dire! Così, invece di scrivere di ciò che c’era davvero nel mio cuore, cercai più volte di scrivere della poetica di Ovidio e Catullo o della mia opinione su questa o quella tragedia greca.

Alcuni mesi più tardi, ricevetti la più inattesa delle visite: uno dei miei vicini, Mario Servilio Tibullo venne al mio appartamento e mi fece un’offerta di matrimonio. Era un ricco costruttore di navi che trascorreva la maggior parte del tempo nei suoi cantieri navali e nei porti dell’impero, ma aveva un appartamento nella mia stessa palazzina, poiché ritornava a Roma ogni pochi mesi per seguire gli affari. La mia domestica ed il marito sorvegliavano il suo appartamento, che si trovava direttamente sotto il mio, al primo piano della palazzina, e quella era la ragione per cui avevo potuto assumere Nicia senza doverle dare alloggio.

Vidi quell’uomo per la prima volta subito dopo il suo ritorno a Roma, dopo un anno e mezzo di viaggi da un cantiere navale all’altro, quando i nostri passi s’incrociarono all’entrata della palazzina. Stavo andando al mercato con Nicia e lui stava entrando nel proprio appartamento. Mi salutò educatamente e scambiò qualche parola con Nicia, ma il suo sguardò non mi lasciò mai. Poco tempo dopo, la mia domestica mi disse che Mario Servilio Tibullo aveva fatto molte domande su di me. Inoltre disse che l’uomo era vedovo da molti anni, non aveva figli o altra famiglia e, sebbene il suo appartamento romano fosse semplice, lui era molto ricco e preferiva vivere nella sua tenuta vicino al mare. Accantonai le parole di Nicia ed anche l’interesse di Mario Servilio Tibullo, sebbene lo incontrassi di quando in quando, e un paio di volte trovai sul mio tavolo un’anfora di eccellente vino Cecubo([1]), un costoso regalo più adatto ad un conoscente d’affari che ad una donna, ma non così inadatto da costringere a restituirlo.

Benché informata del suo interesse, la sua proposta mi prese alla sprovvista. Mai avevo pensato a me stessa come ad una donna sposata e rifiutai la sua offerta, ma egli insisté ed alla fine mi convinse a diventare sua moglie. Anche se le mie nozze furono una cerimonia riservata e semplice, esse riuscirono ad allontanarmi dallo scrivere per dei mesi, e non fu che dopo mesi, quando ci sistemammo nella sua tenuta vicino al mare e io imparai a dirigerla propriamente, come richiedeva la mia nuova condizione sociale, che cominciai di nuovo a scrivere. Ma era ancora lo stesso esercizio goffo, sterile, vuoto...

E poi, accadde.

Quella sera, stavamo cenando con alcuni soci di Mario Servilio e le loro mogli. La sala da pranzo era piena di vita per le risate e la conversazione e poi, all’improvviso, udii il suo nome. Da quando ci eravamo sposati, a mio marito piaceva invitare i suoi amici e soci in visita e a pranzare, perché sostiene che ricevere è qualcosa che un uomo da solo non riesce né a gestire in modo appropriato né a godersi. In altra occasione, sarei stata intimorita all’idea di dirigere la sua casa e la sua proprietà e anche di essere incaricata di organizzare i suoi banchetti. Ma Apollinario mi aveva insegnato bene e anche se la mia vita passata era stata molto diversa da quella che vivo oggi, alcune delle competenze acquisite in quei giorni terribili si rivelarono non soltanto non essere ignobili, ma addirittura utili. E, soprattutto, non sono più la vecchia Giulia, la ragazza spaventata e confusa che tremò e pianse tra le braccia di un generale romano, ma una donna che è riuscita a sopravvivere sia alla schiavitù che alla libertà e che è riuscita anche a sopravvivere sia alla prostituzione che all’amore... e all’essere respinta. Era questa nuova Giulia che aveva acconsentito a sposare un uomo che conosceva a mala pena; che da sola e a passo fermo aveva camminato alle proprie nozze; che non si era tirata indietro alla vista di quella proprietà enorme e costosa o della dimensione della sua servitù e ne aveva invece preso in mano la conduzione senza difficoltà e con efficienza, per l’orgoglio e piacere del marito. E, da quella notte, questa Giulia… così disinvolta nel comandare… è stato la rispettata Domina, la bella, remota ed impeccabile signora della casa di Mario Servilio Tibullo.

Quanto tempo era trascorso da quando ci eravamo detti addio alle prime luci dell’alba? Quanto tempo era trascorso da quando avevo udito le sue ultime parole, da quando avevo udito la sua voce bella e profonda?

Due anni. Due anni da quando mi ero allontanata da lui a cavallo, senza osare voltare la testa per un’ultima occhiata, temendo di non riuscire a costringere me stessa a proseguire, se l’avessi fatto, temendo di perdere qualunque controllo avessi ancora e di gettarmi ai suoi piedi supplicandolo di non farmi andare via, di tenermi con sé, di permettermi unicamente di rimanergli vicino e di abbeverarmi alla sua bontà e forza dopo una vita di schiavitù e soprusi e solitudine... temendo di voltare la testa solo per scoprire che lui mi aveva semplicemente congedata e non era là a guardarmi andare via dalla Moesia e dalla sua vita....

Mio marito ed il suo socio stavano parlando di politica e guerra, entrambe molto importanti per loro ed i loro affari, poiché Mario Servilio è un ricco costruttore navale che accresce ogni anno la sua ricchezza anche trasportando e vendendo rifornimenti per le legioni. Stavano parlando delle guerre senza fine alla frontiera settentrionale, quando il socio di Mario Servilio accennò che le tribù germaniche dovevano essere molto più scaltre e coraggiose di quanto si pensasse, se un uomo come il generale romano al comando di quel lontano confine dell’impero non era riuscito a sottometterle completamente. Questo generale, disse, era il comandante d’esercito prediletto dell’imperatore, il suo valore e le sue capacità militari tanto leggendari quanto l’ardente lealtà che ispirava nei suoi uomini. Continuarono a parlare sorseggiando il vino, mentre i servi si occupavano di noi e io continuai a parlare con le donne, che chiacchieravano di bambini e gravidanze e delle belle sete che una delle navi di mio marito aveva appena portato, ma la mia mente non era sulla conversazione, ma di nuovo in Moesia, vicino al Mar Nero.

Lo vidi chiaramente come se fosse entrato nella sala da pranzo con il suo passo disinvolto e sicuro di sé, allo stesso modo in cui era entrato nella mia vita... e altresì l’aveva lasciata. Lo vidi come l’avevo visto l’ultima volta, magnifico nell’uniforme di generale, i suoi sorprendenti occhi azzurri che mi fissavano accesi, la sua bella voce profonda che mi rassicurava come aveva fatto la notte in cui avevo dormito tra le sue braccia. Mentre le donne chiacchieravano intorno a me, io mi sforzavo di ascoltare ciò di cui Mario Servilio ed il suo amico stavano parlando, ma potei soltanto cogliere qualche parola qua e là mentre mi obbligavo ad essere la piacevole ospite e la perfetta signora che sono oggi, una donna che nessuno avrebbe sospettato essere un’ex schiava e prostituta. Ma sebbene riuscissi a udire ben poco della loro conversazione, colsi proprio l’informazione che stava per spingermi a fare l’impensabile. Perché il socio di Mario Servilio accennò che il potente generale romano teneva il suo quartier generale all’accampamento della sua legione in Germania, in un luogo chiamato Vindobona.

Non ricordo come si concluse il banchetto o come tornai quella notte nei miei sontuosi appartamenti, gli appartamenti dove mi ritiro appena posso per godere il silenzio e la solitudine e la lettura e la scrittura in compagnia dei miei gatti. Ricordo soltanto che l’espressione corrucciata di mio marito, quando gli augurai la buonanotte, mi fece capire che dovevo sembrare sconvolta. Ricordo soltanto che giacqui insonne un’ora dopo l’altra, rievocando ancora una volta i miei ricordi dell’uomo che aveva condiviso brevemente la mia vita e per sempre l’aveva cambiata, rammentando ogni parola che avevamo scambiato, ogni sguardo, i pochi baci e carezze rubati, il fuoco che scaturiva fra noi ogni volta che i nostri corpi si toccavano.

Sapete cosa accade quando osate amare un dio? E’ una cosa splendida, bella, diversa da qualunque cosa abbiate mai provato prima... e brucia, le fiamme vi trasformano in ceneri e non vi è vento abbastanza forte da disperderle e rendervi liberi. Perché è una sorta di asservimento del tutto differente da quello sperimentato da semplici uomini e donne, da semplici schiavi e padroni. Ecco quel che accadde a me quando osai amare un uomo che era anche un dio. Un uomo troppo buono per essere un semplice mortale. Un dio troppo umano per essere una vuota divinità.

Quando arrivò il mattino, congedai le mie domestiche e rimasi nei miei appartamenti, informando mio marito che non stavo bene. Poiché non ero mai stata ammalata da quando ci eravamo sposati, Mario Servilio era preoccupato e voleva mandare a chiamare il suo medico, ma io gli feci sapere che era soltanto una leggera indisposizione femminile e che non era il caso di discuterne ulteriormente. Rimasi per delle ore sul divano che tengo sulla terrazza aperta, fuori dei miei appartamenti, senza vedere la vista magnifica della città e del mare, ignorando le birichinate dei miei gatti che si scatenavano giocando fra gli alberi in vaso e le piante in fioritura. La mia mente era concentrata solo su di lui. Durante i due anni trascorsi da quando ci eravamo detti addio, avevo creduto di aver imparato a vivere senza di lui, pur non avendo mai smesso di pensare a lui. Ma improvvisamente, ero sopraffatta dal bisogno di vederlo, di essergli vicina, di parlare con lui, di guardarlo negli occhi e scoprire che cosa pensava di questa nuova Giulia che non era né schiava né prostituta, che non era più una ragazza confusa e spaventata, ma una donna adulta, fiera, sicura di sé, oltre che  ricca e libera ed istruita... una donna adatta ad essere la moglie di un uomo del suo alto ceto.

Il sole stava calando oltre l’orizzonte quando ritornai nei miei appartamenti, sedetti al mio scrittoio, presi qualche papiro e una penna e cominciai a scrivere una lettera, la prima lettera personale che avessi mai scritto, dato che non ho nessuno a cui scrivere tranne Apollinario, ed il mio caro, ex istitutore passa la maggior parte del suo tempo vicino a me, il suo desiderio di viaggiare saziato anni fa.

Con mano ferma scrissi, nello stile formale che si confaceva alla corrispondenza fra una donna sposata ed un uomo che non è suo marito, un breve resoconto di che cosa mi era accaduto durante gli ultimi due anni, richiamandogli indirettamente alla memoria certe cose che erano un segreto nostro e nostro soltanto. Lo informai anche del mio status di donna sposata, della confortevole posizione di cui ora godevo, e lo ringraziai per essere stato colui che aveva reso possibile tutto ciò.

Quando finii, arrotolai la lettera e la sigillai con il sigillo che mio marito mi diede il giorno delle nostre nozze, perché lo usassi quando mi occupavo degli affari della casa e della tenuta. Lo tengo in un piccolo cofano sul mio scrittoio, sempre a portata di mano… diversamente dall’altro sigillo che rimane nascosto e della cui esistenza nemmeno Apollinario è a conoscenza. Riponendo la lettera nel baule che tengo sempre chiuso, andai al nascondiglio, la buca segreta dove avevo posto l’altro sigillo subito dopo il mio arrivo in questa casa. Non lo vedevo da lungo tempo, ma ora avevo bisogno di vederlo ancora. Avevo bisogno di vederlo tanto quanto avevo bisogno di vedere l’uomo dagli occhi azzurri che mi aveva cambiata per sempre. Mi inginocchiai sul pavimento coperto da un tappeto, vicino al mio letto a baldacchino, e soppesai nella mano il piccolo involto, prima di aprire il sacchetto di velluto viola… la proibita porpora imperiale… e rivelare il pesante anello d’oro che una volta aveva ornato la mano dell’uomo più potente del mondo. L’anello che mi avrebbe concesso qualunque cosa volessi o di cui avessi bisogno, in qualunque momento avessi voluto o avessi avuto bisogno...

Eppure, tutto il potere del grande imperatore romano non era stato sufficiente a darmi l’unica cosa che realmente volevo: l’amore di un uomo innamorato dell’onore e della propria moglie.

Rimisi l’anello nel sacchetto di velluto, lo restituii al suo nascondiglio e andai a letto.

Per spedire la lettera a Vindobona, dovetti attendere finché potei ritornare in città e ciò accadde solo due settimane più tardi. Un pomeriggio, subito dopo essermi  sistemata di nuovo nell’appartamento di mio marito, uscii sulla mia portantina e mi recai in visita da Emilio Trebuzio Flacco, il banchiere incaricato di aiutarmi a stabilirmi a Roma quando ero tornata nell’Urbe da donna libera. Come sempre, l’uomo mi ricevette con grande deferenza, dal momento che la mia prima visita non aveva lasciato dubbio sulla mia importanza, una diciottenne dai capelli rossi comparsa alla sua porta scortata da sei pretoriani ed un questore, con una lettera suggellata dal sigillo personale dell’imperatore Marco Aurelio. Il banchiere mandò a prendere del vino e dolci di miele e scambiammo convenevoli per qualche minuto prima che io estraessi la lettera dalle pieghe della mia palla ([2]). Se fosse sorpreso dalla natura del servizio che gli chiedevo, non lo mostrò, e non soltanto mi assicurò che la lettera sarebbe partita immediatamente, ma aggiunse anche che sarebbe stato fatto con assoluta discrezione, e quando fosse giunta la risposta, in eguale maniera sarei stata informata. Rifiutò persino di farsi pagare, dicendo d’essere onorato di poter essere di aiuto a una gran signora come me. Lo ringraziai e ritornai a casa in fretta.

Dopo il mio rientro a casa cominciò la parte peggiore. Poiché avevo fatto tutto il possibile: avevo scritto la lettera e l’avevo inviata al lontano confine dove il generale era accampato ed ora non v’era altro da fare che attendere. Attendere la sua risposta, attendere il messaggio da parte di Emilio Trebuzio Flacco, attendere il momento, mesi a venire, quando avrei rotto il suo sigillo militare e letto le sue parole. Attendere, e nel frattempo ricordare e sognare e continuare a vivere un giorno dopo l’altro, svolgendo le mie mansioni, riempiendo pagine con le mie riflessioni sulla poesia ed il teatro e leggendo i lavori di storici e filosofi mentre distrattamente accarezzo i miei gatti. Sono passati mesi da quando mandai la mia lettera a Vindobona e l’attesa non è finita. Sono passati mesi da allora e attendere è ancora l’unica cosa che posso fare. Attendere e andare avanti, riempiendo una sterile pagina dopo l’altra e facendomi forza ogni volta che qualcuno chiama alla porta, facendomi forza contro la speranza che sia lui a chiamare. Che sia venuto da me. Che sia venuto per me.

Estate ed autunno passarono. I Saturnali arrivarono e se n’andarono e cominciò l’inverno, con i suoi venti freddi e le sue piogge anche più fredde. Rimanemmo in città, i porti chiusi fino a primavera, il cielo grigio, il tempo freddo particolarmente fastidioso per mio marito, ma la natura dei suoi affari c’impediva di recarci a sud verso un clima più mite. Isolati nel suo appartamento, ricevevamo pochi ospiti, e io accolsi favorevolmente il cambiamento, tenendomi in disparte, caparbiamente leggendo alla luce delle lanterne e al calore dei bracieri, con i miei gatti che sonnecchiavano intorno a me o persino sul mio grembo, caparbiamente scrivendo di tutto e di niente, caparbiamente evitando la verità mentre l’inverno sfumava in una mite primavera.

Fino alla notte scorsa, quando ho sognato ancora una volta il generale romano e mi sono svegliata boccheggiando in cerca d’aria, il cuore che mi faceva così male da pensare si spezzasse. Nel mio sogno, egli mi carezzava teneramente la guancia con le sue dita incallite dalla spada e io giravo il viso per baciare il palmo della sua mano forte e calda. Sorrideva, quel suo sorriso dolce e fanciullesco… un sorriso che cancellava le rughe che anni di preoccupazione e responsabilità avevano portato sul suo bel viso e lo faceva sembrare tanto giovane e incurante ed anche un poco vulnerabile… mentre bisbigliava:
- Giulia.... -

Fu il rombo profondo della sua voce a svegliarmi. Il mio nome sembrava echeggiare nell’oscurità della mia camera, tanto vividi erano stati il suono della sua voce e il calore della sua presenza. Rimasi a lungo con gli occhi chiusi, cercando di calmare il mio respiro e lottando contro calde lacrime e poi mi alzai e accesi una lampada, cercai un papiro e dell’inchiostro e, malgrado fosse una notte fredda per essere aprile, mi sedetti e scrissi fino all’alba.

Ed ecco come infine scrissi di me, della vera me, e del generale Massimo Decimo Meridio, generale delle legioni Felix, comandante degli eserciti del Nord, l’uomo che mi ha reso colei che attualmente sono, l’unico uomo che io abbia mai amato, l’unico uomo che mai amerò.




 

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[1] “In antico era celebrato dai poeti il Cecubo, che veniva prodotto nelle zone comprese tra Terracina, Fondi e Formia. Vino ritenuto erotizzante; Gabriele d'Annunzio scrive nelle Laudi: "il vecchio / Cecubo porta, e rompi la tua rigida / virtù."” (cfr. L’Italia di Veronelli http://www.veronelli.com/regioni/lazio_vini.htm) (N.d.T.).

 

[2] Indumento, simile alla toga maschile, indossato dalle donne romane quando si mostravano in pubblico (cfr. La vita quotidiana nella Roma Antica http://www.italiadonna.it/public/percorsi/01052/0105224b.htm (N.d.T.).