Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore

Lettura sconsigliata ai minori di anni 18

 Massimo l’Immortale

VITA OLTRE LA VITA
Seconda Parte

di Lalla Usai

Prima di iniziare il racconto, penso siano opportuni un paio di chiarimenti. Ne “Il Gladiatore” la sfasatura più evidente tra le vicende di Massimo e i fatti storici realmente accaduti è quella temporale: nel film sembra che il regno di Commodo abbia avuto una durata molto breve, mentre si sa che durò invece oltre dieci anni. Volendo riportare la Storia al suo naturale corso senza produrre discrepanze con quanto si è visto nel film, ho creato l’artificio di “allungare” di alcuni anni il regno di Marco Aurelio e di ridurre a due la durata di quello del figlio. Questo anche per rendere maggiormente credibile il personaggio di Lucilla che altrimenti dovrebbe risultare, nel contesto di questo racconto, non una signora matura, ma una vecchia decrepita. Comunque, Caracalla fu assassinato nel 217 d.C., Opelio Macrino un anno dopo e il potere passò allora nelle mani del grottesco Vario Avito, più noto come Elagabalo, l’Imperatore bambino, che lo detenne per tre anni e finì anch’egli, neanche a dirlo, assassinato.

 IL RITORNO

Anno Domini 216.

Era tornato. Per restare?

Ogni volta che scrutava la sua immagine nello specchio di lucido argento, Lucilla constatava amaramente che i dieci anni trascorsi dall’ultima volta non erano passati senza lasciare il segno e non poteva fare a meno di ricordare quanto la maga Timandra le aveva detto, tanto tempo prima, per tentare di farla recedere da quella che, perfino per lei, adepta di Ecate la Nera, era una follia e nient’altro: ”Quello che chiedi potresti essere costretta a pagarlo con lacrime di sangue.”

Il sangue… Il sangue che non sgorgava più dal suo corpo, oramai inaridito e sterile, ad ogni ciclo della luna. O quello che aveva visto colare dalla bocca aperta di Massimo, la sera dell’ultimo duello nell’Anfiteatro. O, quanto tempo era passato, quello che aveva macchiato le lenzuola nella sua prima notte di sposa, quando il marito che le era stato imposto l’aveva deflorata e lei aveva chiuso gli occhi per fingere di essere con un altro e non con lui… Proprio con colui che adesso le stava davanti.

Indossava i suoi abiti da viaggio, tunica corta marrone stretta in vita da un’alta cintura di cuoio, brache di pelle morbida, mantello nero che gli arrivava fin quasi ai piedi e che assecondava, con i suoi drappeggi fluidi, la stupenda figura dell’uomo. Non sei cambiato, Massimo… Gli aveva detto, abbracciandolo. Come una madre, come una parente anziana, non come un’amante, aveva pensato con rammarico, posandogli sopra la spalla la lunga mano dalle dita ossute, che l’artrite cominciava a deformare. Una mano che neppure i monili e gli anelli preziosi che la ornavano avrebbero potuto far sembrare bella, con la sua pelle macchiata e il rilievo tortuoso delle vene bluastre sul dorso. Non sono più quella che ricordavi, mio signore, mio nume immortale. Il tempo che su di me lascia i segni sempre più evidenti del decadimento e della vecchiaia, su di te scivola via come l’acqua… Pensò accarezzandogli i capelli. Erano lunghi e ricciuti come li portavano i ragazzi, e non ne aveva uno bianco. Le guance sbarbate lo facevano sembrare ancora più giovane, rispetto a dieci anni prima. Gli occhi erano quelli di sempre, azzurri e dolci come nei suoi sogni e nei suoi ricordi, perché quelli niente avrebbe potuto portarglieli via, nemmeno lo scorrere implacabile del tempo, nemmeno l’avanzare spietato dell’età. Anche se non si vive solo di sogni, e queste erano le lacrime di sangue che avrebbe dovuto pagare, quelle alle quali aveva alluso Timandra la Maga quando lui giaceva senza vita, steso su una gelida panca di marmo nei sotterranei del Colosseo e lei le aveva chiesto, con la voce squassata dai singhiozzi, di riportarlo indietro dall’Aldilà.

-Vuoi che ti faccia portare qualcosa da mangiare?

Lui annuì. Il viaggio, le disse, era stato lungo e faticoso. Anche pericoloso:si era imbattuto un paio di volte nei briganti e, nei boschi della Gallia, era stato assalito da un orso, che gli aveva ucciso il cavallo. Le sorrise, e gli occhi ammiccarono come pietre preziose trafitte dalla luce. Niente avrebbe potuto nuocergli, questo lo aveva scoperto da tempo. Sulle prime se l’era presa molto a male, ma poi aveva accettato come un dono grande il suo destino e l’aveva ringraziata… A modo suo. Quei ricordi le facevano ancora male, nonostante fossero passati tanti anni.

Lo guardò accomodarsi sullo sgabello, accavallare le gambe. Erano snelle e muscolose, come quando combatteva nell’arena, come quando… Conosceva l’odore della sua pelle, conosceva ogni dettaglio del suo corpo, ogni incavo e ogni rilievo, ogni neo e ogni cicatrice. Sapeva bene dove e come gli piaceva essere accarezzato e baciato e quei pensieri avevano ossessionato i suoi sogni da sempre. Lucilla si morse dentro le labbra, fino a sentire il sapore salato del suo stesso sangue e a dimenticare quello che non avrebbe dimenticato mai. Fosse anche campata mille anni.

IL SALVATORE DI ROMA

- Non credevo che saresti tornato.

E invece sono qui. Ti dispiace, Annia Lucilla? Ti vergogni di avermi amato, forse? O ti rifugi nella virtù adesso che non hai più l’età per certe faccende? O magari… magari ti riesce difficile pensare che è per Roma, non certo per quella vecchia che sei, se sono tornato?

La donna credeva di leggere pensieri malevoli, nei recessi segreti della sua mente. Avessi lasciato che il suo destino si compisse senza interferire, forse…A veva ragione Timandra, quei pochi anni di felicità che Massimo le aveva dato li stava pagando a caro prezzo.

- Lucio… Sta bene?

- Lucio si è sposato e ha due bellissimi bambini. Sono nonna, Massimo.

- Allora trascorrerai sicuramente molto tempo con i tuoi nipotini.

Lo sguardo della donna era acuto come la punta di una freccia. Il tempo le aveva arrecato gravi ingiurie, questo era indubbio, ma non era riuscito a distruggere dalle fondamenta le vestigia della sua bellezza: i lineamenti erano fini e aristocratici come lo erano stati nei suoi giorni migliori, gli occhi verdi come foglie nuove, vivaci ed espressivi, ancora, malgrado le rughe e i segni viola del tempo e delle notti insonni.

- Sono anni che non li vedo. - E lo sguardo le si velò di tristezza.

- Lucilla, perché…

- Per gli stessi motivi, immagino, che ti hanno condotto nuovamente qui dopo dieci anni, Massimo.

- Caracalla?

La vecchia signora annuì. Caracalla, sì, lui. Il Carnefice del Genere Umano. Se fosse rimasto, Lucio sarebbe diventato una delle sue tante vittime. E così aveva preferito trasferirsi in Britannia, dove possedeva una vasta tenuta: lì, si supponeva, lui e la sua famiglia sarebbero stati lasciati in pace.

-E tu non hai paura?

-La cosa peggiore che potrebbe capitarmi è morire e alla mia età non ho paure né rimpianti.

Mentiva, e si era augurata che lui non se ne accorgesse. Le paure se l’era lasciate alle spalle, a quasi sessant’anni di età. I rimpianti, invece, le stavano di fronte nella persona di un uomo dai folti capelli castani, gli occhi azzurri e le spalle poderose: Massimo Decimo Meridio, il Salvatore di Roma. Massimo Decimo Meridio, l’uomo che, grazie alla magia, era tornato indietro dall’Aldilà. Per sempre.

I raggi del sole, filtrati attraverso le tende impalpabili che velavano le ampie finestre,gli conferivano un’aura luminosa, rendendolo simile a un semidio, a un eroe delle leggende. Aveva un paio d’anni in più di lei, si ritrovò pensare Lucilla, ma ne dimostrava a malapena una trentina: l’età che aveva quando era stato ammazzato. Trentatré per l’esattezza, se non ricordava male. Anzi, rispetto all’ultima volta che l’aveva visto, con le guance rasate e i capelli lunghi, sembrava ancora più giovane.

-Dimmi come vanno le cose, qui. Non so fino a che punto le notizie che mi giungevano dov’ero fossero attendibili.

-Sono cinque anni che Settimio Severo è morto…

Lo guardò tormentarsi con le dita un ciuffo di capelli, come uno scolaretto scoperto impreparato dal suo maestro. Non gli ricordava quelle ciglia così lunghe, la fossetta sul mento e un pugno di lentiggini dorate sul naso e sotto gli occhi.

-Settimio Severo era un brav’uomo.

Un po’ gli somigliava: poca cultura, molto senso pratico, la dirittura morale di un personaggio d’altri tempi, di quelli che si portano ai ragazzi come esempio da imitare: Cincinnato, Furio Camillo, Attilio Regolo… Quant’acqua era passata sotto i ponti?

-Un galantuomo e un soldato. Proprio come te. Eravate buoni amici…

-Eravamo buoni amici, già.

La voce gli era uscita dalla gola in un brontolio rauco. Non era così che si erano lasciati e non certo per quello che era successo con Julia Domna. Severo parlava volentieri con lui: tra soldati ci s’intende, e Massimo, con i suoi modi franchi e diretti, non aveva la piaggeria ipocrita e falsa dei cortigiani, la tortuosità dei politici di professione che lui non riusciva a sopportare. Se doveva dirgli qualcosa, gliela diceva senza infingimenti e l’Imperatore accettava come consigli anche i suoi rimproveri. Era un bell’uomo non molto alto, snello, dalla pelle scura e dal nobile profilo aquilino. Veniva dall’Africa e parlava latino con un pesante accento fenicio. Tra i suoi antenati, sicuramente c’erano quei guerrieri che, sotto il comando di Annibale, avevano fatto tremare Roma, qualche secolo prima.

-E’ per causa sua che…

-Che me ne sono andato? Anche.

Le sorrise. Settimio Severo era stato indubbiamente un uomo probo, ma anche prepotente, prevaricatore e più cocciuto di un mulo. Aveva sempre ritenuto i Cristiani responsabili d’ogni male all’interno dello Stato e s’era adombrato quando Massimo gli aveva detto che era inutile continuare a perseguitarli, essendo ormai presenti nella società a tutti i livelli. Trattandosi anzi di brava gente, onesta, laboriosa, di costumi irreprensibili e di specchiata onestà, sarebbero potuti diventare i pilastri dell’Impero… Che importanza poteva avere se non erano disposti ad inginocchiarsi dinanzi all’Imperatore per adorarlo come se fosse stato un dio? Era degno forse d’adorazione un criminale pazzo dello stampo di Commodo o degli altri tiranni che, per fortuna o per caso, avevano posato le natiche sul trono imperiale? A quella perorazione, ricordò, la faccia del suo signore era diventata grigia per la collera. Con le tue parole minacci dalle fondamenta l’essenza stessa del mio potere, gli aveva sibilato. E ancora: non sarai per caso cristiano? Solo la magia nera che loro praticano, senza disdegnare i sacrifici di sangue e il cannibalismo, giustifica il fatto che tu… che tu a cinquant’anni suonati ne dimostri sì e no trenta… Beh, oltre che prepotente, prevaricatore e più testardo di un mulo, Settimio Severo era sempre stato anche terribilmente superstizioso.

-E così te ne sei andato.

Se n’era andato, ed era vissuto facendo il contadino nella sua tenuta di Tergillium per oltre dieci anni. Adesso era tornato, per tormentarla con i ricordi di quel che era stato e non poteva essere più, perché lei era una vecchia, lui poco più di un ragazzo.

-Ma sei tornato.

-Sì, sono tornato. Per cercar di salvare Roma un’altra volta.

JULIA DOMNA

Il tablinio era come lo ricordava, piccolo e arredato con lusso e buon gusto, due aspetti che ben difficilmente riuscivano a conciliarsi. E’ strano che mi abbiano fatto accomodare qui, pensò, negli appartamenti privati dell’Imperatrice. Di Julia Domna. Strano ma non poi troppo: era lei, in realtà, a tenere in mano le redini del potere. Stando a quanto Lucilla gli aveva detto, quell’orientale scaltra e ambiziosa, che da giovane era stata straordinariamente bella, era molto più intelligente del marito e del figlio messi insieme: Settimio Severo perlomeno era stato un galantuomo, invece Bassiano… Massimo si morse a sangue la bocca per non pensare, mentre Commodo riviveva nei suoi pensieri perché il giovane imperatore Marco Aurelio Antonino Bassiano, detto Caracalla dal nome della veste gallica che soleva portare, era tale e quale come lui: un mostro assetato di sangue.

Un fruscio di seta e un ticchettio di tacchi sul pavimento a mosaico lo costrinsero a voltarsi in direzione della porta. Era cambiata, anche lei, da come se la ricordava: ingrassata e con tutti i capelli grigi. Gli occhi grandi, scuri e vivaci sarebbero stati gli stessi, non fosse stato per quelle pesanti borse violacee che li cerchiavano, conferendole una fisionomia triste.

-Conoscevo tuo padre. Non sapevo che fosse morto. Mi dispiace.

Neanche la voce era cambiata: bassa e scura, le parole scandite lentamente dall’accento cantilenante dell’Est, la voce dolce e ipnotica d’una donna calda, sensuale. Ma adesso era una vecchia flaccida e ingrigita, mentre lui sarebbe rimasto giovane per sempre.

-Non sapevo che avesse avuto un altro… un altro figlio, oltre a quello che Commodo gli aveva fatto ammazzare.

-Neanche lui lo sapeva. Mia madre aveva partorito da un paio di mesi quando è morta. Io mi sono salvato dal massacro perché era stata male, aveva perso il latte e mi aveva affidato a una cognata, madre anche lei di recente, affinché mi nutrisse. L’ho conosciuto… dieci anni fa, quando è tornato a Tergillium da Roma. I miei zii non mi avevano detto la verità, e sono stato cresciuto nella convinzione di essere figlio loro, finché non è tornato. Mi dispiace di non aver potuto vivere per più tempo al suo fianco. Mio padre era un grand’uomo.

Massimo si stupì di aver imparato a mentire così bene, ma nelle sue condizioni era necessario farlo. L’Imperatrice lo squadrò con i suoi occhi lividi, pesantemente truccati e assentì. Era stato un grand’uomo, Massimo Decimo Meridio, il generale che era divenuto schiavo, lo schiavo che era divenuto gladiatore, il gladiatore che aveva salvato Roma… Massimo. Quanto era bello: tratti regolari, carnagione chiara, capelli bruni e occhi azzurri. E quel corpo da tentazione che lei aveva ben conosciuto… Proprio lì, nel tablinio, sul comodo divano foderato di velluto rosso. Suo figlio gli rassomigliava molto, anzi, sarebbe stato la sua copia perfetta, non avesse avuto le guance rasate e quei riccioli molli che gli accarezzavano le grosse spalle.

-Posso conoscere il tuo nome?

-Valerio. Valerio Decimo Meridio.

Perfino la voce, bassa e calda, era la stessa. Aveva chiesto di arruolarsi nel corpo dei Pretoriani, le aveva detto. Che strano, suo padre li aveva sempre detestati.

-Com’è morto?

-Disarcionato da un cavallo che stava tentando di domare. Una morte stupida, per uno come lui, che cavalcava meglio di un centauro.

-La morte è sempre stupida, Mass… oh, scusa, Valerio.

Lo sguardo s’era fatto ancora più triste: parlare della morte doveva risvegliare in lei ricordi molto dolorosi e su tutti uno, quello di Geta. Suo figlio. Per un padre e una madre è terribile sopravvivere ai propri figli.

Geta. Doveva avere quattro o cinque anni, quando l’aveva visto per la prima volta, in circostanze che solo il caso aveva voluto non avessero conseguenze tragiche. Sotto gli occhi di una serva, il piccolo stava giocando a rincorrersi con il fratellino maggiore Bassiano lungo il bordo di una piscina quando, forse per aver perso l’equilibrio scivolando sulle piastrelle viscide, forse perché spinto da un gesto maldestro dell’altro bambino, era finito dentro l’acqua. Sarebbe annegato, se Massimo, che si trovava a passare di lì per caso, non si fosse tuffato vestito com’era nella piscina e non l’avesse ripescato, grondante d’acqua e mezzo morto dallo spavento ma incolume.

-Oh, Dei, vi sia reso grazie…

La donna che gli aveva strappato il bambino dalle braccia non era la vecchia serva. Era Julia Domna, l’Augusta, sua madre. L’aveva incontrata diverse altre volte, fingendo d’ignorare quanto fosse bella: alta, snella, una cascata di riccioli neri che le ruscellavano disordinati giù per la schiena, gli occhi scuri febbricitanti e l’incarnato olivastro. Veniva dalla Siria, ed era figlia di un sacerdote-mago di Emesa. Una donna intelligente, colta, affabile ma vagamente distante… No, quella che gli diceva “grazie” con le lacrime agli occhi e il bistro che le scolava lungo le guance pallide era soltanto una madre disperata.

-Bisognerebbe che qualcuno insegnasse a nuotare a questo bambino.

Lei non gli aveva risposto. Quell’uomo era il famoso Massimo Decimo Meridio, il gladiatore che aveva salvato Roma dalla follia di Commodo spianando a suo marito la strada che portava al trono imperiale, e aveva ragione. Ma il piccolo Geta era un bambino strano, che aveva paura di tutto ed era, in particolare, letteralmente terrorizzato dall’acqua. Bruno e scuro di carnagione come i genitori, non aveva la loro bellezza. Con il suo aspetto gracile e malaticcio, era l’esatto contrario del fratellino maggiore Bassiano, robusto, prepotente e temerario sin dalla più tenera età. Settimio Severo li aveva designati entrambi quali eredi, alla morte del padre avrebbero regnato insieme.

-E bisognerebbe che qualcuno si prendesse la briga d’insegnargli il coraggio: un giorno avrà molto potere nelle sue mani e, in certe condizioni, la paura può essere una pessima consigliera.

Le aveva parlato con franchezza, ma la donna non s’era adombrata. Ti aspetto domani nei miei appartamenti privati, Massimo Decimo Meridio. Vorrei parlare con te a quattr’occhi di Geta… e di tante altre cose.

 

Gli aveva detto di Geta, prima di sorridergli in quel certo modo che diceva più di mille parole. Forse, gli aveva confidato, non sono stata una brava madre, ho delegato sempre ad altri le responsabilità della sua educazione e non gli ho dato abbastanza affetto. Forse l’ho viziato, per farmi perdonare più dalla mia cattiva coscienza che non da lui. Mio marito invece… E’ troppo severo, sembra non rendersi conto di aver a che fare con un bambino di cinque anni e non con qualcuno dei suoi generali. Piagnucoli come una femminuccia per ogni cosa, gli dice, e io mi vergogno di te… Geta è un infelice: se non lo fosse, non avrebbe paura del buio, dell’acqua, dei cani e della sua stessa ombra. Ha bisogno di fermezza e di dolcezza, domina, per poter crescere sereno. Ha bisogno dell’affetto di entrambi i genitori e questo è vitale, per il suo equilibrio. Un giorno siederà sul trono, e…

E rischierà di trasformarsi in un secondo Commodo. Anche lui era stato viziato indecentemente dalla madre e trascurato dal padre. Lo pensò, e non glielo disse. Ma la guardò e le sorrise. Somigliava a sua moglie come se fossero state sorelle, anche se Olivia non si era mai potuta permettere gioielli preziosi e abiti di seta. Anche se Olivia era stata, per il piccolo Marco, madre e perfino padre, durante le sue lunghe assenze. E Marco, ne era sicuro, sarebbe diventato un galantuomo, se l’avessero lasciato vivere.

 

L’aveva guardato con desiderio, prima di accarezzargli la guancia barbuta, il collo lungo e robusto. Sei bellissimo, gli aveva detto, l’uomo più attraente dell’Urbe. Ammesso che sia vero, Lucilla è una donna molto fortunata. La invidio. Non dico che Severo non mi ami, ma… Ma ti trascura e ti tradisce: Roma è un’amante esigente, domina. Lo so, Massimo. Ma io ho voglia d’amore, voglia di sentirmi donna tra le braccia di un uomo come te…

L’aveva guardato fisso con quei liquidi occhi neri che dicevano, mi accontenterò, e sarà una volta sola. L’aveva baciato sulle labbra e sul collo, gli aveva insinuato tra le cosce la mano sottile sentendo crescere l’urgenza del suo desiderio e, quando entrambi s’erano liberati dei vestiti, l’aveva baciato sul petto e sul ventre, gli aveva succhiato i capezzoli e lasciato che lui facesse altrettanto, prima di entrarle dentro con forza, strappandole un gemito di puro piacere. Sarebbe stata la prima e l’ultima volta, pensava la donna, accarezzandogli il corpo muscoloso, segnato dalle cicatrici: la punta di una zagaglia barbarica sulla parte alta del petto, il marchio di schiavo e la coltellata di Commodo sulla schiena, gli artigli della tigre sul collo, quell’orrenda mezzaluna biancastra che deturpava lo splendore della sua morbida pelle color miele,là dove il braccio si congiungeva alla spalla.

-Non so cosa mi è preso, le aveva detto mentre si rivestiva. Perdonami, Augusta.

Ma il suo sorriso non era quello di un uomo che implora perdono, e si chiedeva da sé solo quanto fosse cambiato, rispetto a quello che era stato in un’altra vita. In questa, aveva imparato a mentire. E a tradire.

-Non hai niente da farti perdonare, gli aveva risposto lei scotendo la testa. Niente. Anzi, grazie avermi trasfuso un po’ della tua vita. E non arrovellarti, non ci sarà disonore per me se nessuno saprà quello che è successo e se non ti cercherò mai più.

 

-Ti accompagnerò a conoscere il prefetto Macrino adesso stesso… Valerio.

Gli posò la mano sull’avambraccio, una mano piccola e fredda, come se nel suo corpo non ci fosse più vita, da quando Bassiano aveva ammazzato il fratello Geta per non dividere il potere con lui. E’ difficile, per un genitore, accettare l’idea di dover sopravvivere a suo figlio. Difficile, anzi, era poco. Intollerabile, mostruoso, lui l’aveva provato quando, dopo una cavalcata estenuante, era giunto a Tergillium squassato dalla febbre e divorato dall’ansia, e s’era trovato faccia a faccia con il cadaverino brutalizzato del piccolo Marco. Del suo bambino adorato.

-Seguimi.

Le dita grassocce della donna giocarono a solleticargli il braccio. Non ti adombrerai, giovane Valerio, alla carezza affettuosa di una vecchia. No. Anzi. Mia madre non l’ho mai conosciuta e mia zia era buona con me, ma avara di gesti d’affetto. In quanto alle donne che ho avuto… Quanto sei diventato bravo a mentire, Massimo, si disse da sé solo.

-Valerio…

L’uomo aveva sollevato il braccio per grattarsi un sopracciglio, e la manica corta gliel’aveva lasciato completamente scoperto. Aveva gli stessi muscoli sodi e torniti di suo padre, la stessa pelle dorata. E la stessa brutta cicatrice biancastra a forma di mezzaluna, pensò Julia Domna, mentre sentiva il suo cuore mancare un battito.

MACRINO

-Ave, Marco Opelio Macrino.

-Ave a te, Valerio Decimo Meridio.

I due uomini, sotto gli occhi ansiosi dell’Imperatrice, si squadrarono un attimo e l’uno giudicò l’altro. Un bel viso, uno sguardo franco e un corpo magnifico, pensò quello che tra i due sembrava il più vecchio. Voleva arruolarsi tra i Pretoriani e sicuramente avrebbe fatto carriera senza dover aspettare troppo tempo, sempre che non avesse avuto gli scrupoli di suo padre. Del resto, quelli erano i tempi in cui, se anche non eri nessuno ma ti portavi appresso poche remore morali e una bella dose di spregiudicatezza, potevi arrivare ovunque tu volessi. E per quel… Valerio, sarebbe stato facile. Molto più di quanto lo fosse stato per lui.

 

Ho conosciuto diversi imperatori, pensava Massimo senza abbassare gli occhi e continuando a fissare il Prefetto del Pretorio che gli stava dinanzi avvolto nell’ampio tabarro, malgrado fosse maggio e facesse già caldo. Tutti, rifletté, avevano amato circondarsi di cose preziose e di belle persone. Perfino Marco Aurelio, che pure aveva sempre anteposto la sostanza alla forma. Perfino quel pazzo di suo figlio. Caracalla, evidentemente, non doveva pensarla allo stesso modo, considerò sforzandosi di reprimere un sorriso ironico. Era, come Commodo, un bel giovanotto con il cervello bacato, una bestia infida costantemente assetata di sangue celata sotto le spoglie di un giovane muscoloso, attraente, dalla carnagione scura e dagli occhi di brace. Anche a lui, gli era stato detto, piaceva scendere nell’arena e misurarsi con i gladiatori stringendo in pugno una daga affilatissima d’acciaio, mentre l’avversario doveva arrangiarsi come poteva, con un’arma fusa nel bronzo e senza filo che, al primo colpo si sarebbe inevitabilmente spezzata… Un uomo spietato e amorale, esattamente come il mostriciattolo che gli stava davanti e lo fissava senza celare un misto d’ammirazione e d’invidia. Massimo era convinto di non aver mai conosciuto, in tutta la sua vita, un uomo brutto come quello. Con la grossa testa crespa che poggiava su un collo esile, incassato nelle spalle curve e il mantello nero che lo avvolgeva da capo a piedi malgrado fosse primavera avanzata, faceva venire in mente un grosso pipistrello. Aveva labbra pendule, naso rotto, occhi globosi e sporgenti da batrace, la pelle scura e untuosa deturpata dai segni di qualche malattia ributtante. Gli era stato detto che veniva dall’Africa. Come il suo amico dei tempi difficili, Juba il Numida, un uomo leale, coraggioso, bello e gentile. Come altri che aveva conosciuto, stimato, ammirato. Macrino sarebbe stato ugualmente orrendo, fosse pure disceso dall’Olimpo. E c’era in lui qualcosa che, aldilà dell’innegabile bruttezza, riusciva a renderlo ancor più ripugnante. Quell’uomo era insinuante,viscido e infido proprio come un serpente velenoso: qualità, queste, che in un ambiente come il Pretorio aiutavano indubbiamente a fare carriera. Anche se si era brutti e sgradevoli come quello sgorbio di Macrino e privi di qualità che compensassero le carenze estetiche.

 

-Come te la cavi con le armi in pugno?

-Sono figlio di mio padre e ho sempre cercato d’essere degno di lui e della sua fama.

-In quanto a questo, conto di metterti subito alla prova e, se mi dimostrerai che vali davvero, ti arruolerò direttamente come ufficiale, evitandoti la solita trafila. Il Pretorio ha bisogno di uomini come te. Cesare ama essere circondato da guardie personali belle e prestanti come sei tu. Io… Io posso e debbo stare nell’ombra a reggere le fila… e…

E a coltivare la tua ambizione, Opelio Macrino. Molti dei tuoi predecessori, partendo dalla tua carica, sono arrivati al trono imperiale. Aspiri a diventare imperatore, forse? Non so dove potrebbe portarti la tua sete di potere, ma, nel caso riuscissi a soddisfarla, non invidio gli scultori a cui commissionerai i ritratti. Con uno come te, la loro piaggeria cortigianesca servirebbe a poco…E faticò a nascondere l’ironia del suo sorriso, prima di salutarlo e di andarsene.

 

IL TRIBUNO

 Le armi sapeva maneggiarle bene. Come suo padre che, prima di diventare il più splendido secutor[1] che mai avesse calcato la sabbia del Colosseo, era stato un grande generale. Valerio era un magnifico combattente. Inoltre, la tunica e il mantello neri e la corrusca armatura delle guardie del Pretorio valorizzavano per contrasto la sua solare bellezza. Somigliava a suo padre tale e quale come una goccia d’acqua: stessi occhi azzurri che diventavano verdi quando lo sguardo gli s’incupiva, stessi lineamenti regolari, quasi delicati. Stessi muscoli scolpiti. Chissà, forse si stava rivoltando nella sua tomba in terra di Spagna,il buon Massimo Decimo Meridio, al pensiero che suo figlio si fosse arruolato nelle guardie dell’Imperatore…Se i morti continuano a sentire e a pensare allo stesso modo dei vivi, come sostenevano le megere africane che lui ben conosceva, le cose stavano andando esattamente così. Ma i morti non vedono e non sentono, nel loro letto di terra, come non avrebbe visto e sentito più niente, e non ci sarebbe stato nemmeno da attendere a lungo l’evolversi degli avvenimenti. Caracalla, il Carnefice del genere umano. Dall’Asia non sarebbe tornato vivo, e senza bisogno d’aspettare che ad ammazzarlo fosse qualcuno degli arcieri di Artabano V, il re dei Parti. E a Roma nessuno l’avrebbe rimpianto. Sua madre, forse, solo lei, quella puttana di Julia Domna.

Quando partirò per raggiungere Cesare in Asia, metterò Roma nelle tue mani, con la certezza che sarà al sicuro, aveva detto Macrino rivolgendosi al Tribuno Valerio Decimo Meridio. Al sicuro, come no. Almeno quanto Caracalla il Carnefice non lo sarà, nel momento stesso in cui sarò di nuovo al suo fianco. E quando tornerò… La mia brutta faccia sarà sempre la stessa, ma non sarà quella del Prefetto Marco Opelio Macrino, bensì del nuovo Imperatore. Peccato, non avere il tuo profilo da medaglione, la tua pelle di seta e la tua statura: avrei reso meno difficile la vita agli scultori e ai coniatori di monete. Questo lo pensò soltanto, e Massimo glielo lesse nello sguardo da rana, che gli era diventato gelido come uno strato di brina sopra un vetro, quando l’aveva alzato da terra per puntarglielo in faccia.

UN DONO PREZIOSO

Partito che fu il Prefetto Macrino a raggiungere in Asia il suo Imperatore, la situazione che Massimo si trovò a gestire, sotto le mentite spoglie di un figlio che non era mai esistito, poteva dirsi tranquilla. Dalla morte di Settimio Severo, deceduto ad Eburacum[2], in Britannia nel corso di una campagna militare, all’ascesa al trono degli eredi designati, Caracalla e Geta, la pace che regnava sull’Urbe e sull’Impero era quella dei cimiteri, come ai tempi di Commodo e di coloro che lui aveva conosciuto solo per sentito dire, i vari Caligola, Nerone, Domiziano. Caracalla era l’ennesimo della serie, un giovane amorale, senza scrupoli, afflitto da delirio di onnipotenza e sospettoso fino alla crudeltà, tanto da arrivare ad uccidere il suo stesso fratello, il pavido e squilibrato Geta, pur di non spartire con nessuno il potere. Non sarebbe durato a lungo, come tutti gli altri della sua specie e il deforme, sordido Marco Opelio Macrino sicuramente ne sapeva qualcosa.

-Ho la sensazione che il suo tempo stia per finire.

Attento a come parli, era tentata di dirgli Lucilla, prima di ricordarsi cos’era diventato Massimo, grazie a lei, o per causa sua. Niente e nessuno avrebbe potuto nuocergli. Sospirò ricordando un passato che niente avrebbe potuto riportare indietro e un futuro nel quale non ci sarebbe stato più posto per loro due ancora insieme: aveva ragione Timandra la maga, pochi anni di felicità li stava pagando lacrime di sangue. Ma rimpiangere quello che non sarebbe più stato era inutile, pensava Lucilla riprendendo il filo della conversazione: un baldo giovane e una vecchia signora potevano anche essere amici: l’ex Imperatrice e il “figlio” dell’eroico Salvatore di Roma. Amici, certo. Amici e nient’altro. Che cosa avrebbe potuto pretendere di più, a sessant’anni?

 

-Temo che tu ti sia accollato compiti gravosi, amico mio.

-Ricevere i doni che i re di terre lontane inviano al nostro Cesare: gemme rare, animali esotici…Mi rimane molto tempo per me, per cavalcare, allenarmi con la spada… E per conversare con te, dolce amica mia.

 

Lucilla gli aveva sorriso come gli sorrideva nei tempi lontani in cui erano stati amanti. E a lui era mancato il coraggio di parlarle dell’ultimo dono di un re lontano al Cesare di Roma, sovrano dell’Impero che dominava il mondo: una splendida donna, coperta di sete e di gioielli. Una donna che, fin dal primo momento in cui l’aveva veduta, gli aveva spezzato il cuore.

IL GIOIELLO DELL’INDIA

Padma aveva fatto un lungo viaggio, per giungere fino a Roma, omaggio di un sovrano del Rajahstan, nella lontana India, al Signore del Mondo. Come una pietra preziosa, come un animale raro, pensò Massimo con tristezza prendendole tra le sue la piccola mano per aiutarla a scendere dalla portantina. Indossava, sui veli di seta che le avvolgevano il corpo minuto, un mantello foderato di pelliccia e aveva tatuato tra le sopracciglia un piccolo segno rosso che rassomigliava a una goccia di sangue. Non era la prima donna indiana che Massimo vedeva, anche nel serraglio di Commodo ce n’erano state un paio: gemme di rara bellezza, sottili come giunchi e agili come gazzelle, i visi dai tratti delicati e aristocratici incorniciati da una cascata di capelli color dell’inchiostro che, sciolti, arrivavano ad accarezzare le loro ginocchia. Padma era uguale e diversa: bella come una bambola, nei suoi veli rossi e nei suoi gioielli d’oro, era seguita da una piccola corte di domestici che avrebbero continuato a servirla nel suo esilio, malgrado non fosse che una schiava, destinata solo al sollazzo di un pervertito a cui era stata donata come un oggetto prezioso, come un cane o un cavallo di razza. Doveva saperlo, tutto questo, eppure, dai suoi tratti da bambola, non trasparivano afflizione o timore, soltanto una quiete immobile e strana di divinità aldisopra del mondo e delle sue angosce. Sono qui, e ti proteggerò, le aveva sussurrato lui continuando a tenerle la mano, e lei gli aveva guardato e gli aveva sorriso, ma solo perché ai suoi grandi occhi neri frangiati da un ventaglio di ciglia incredibilmente lunghe e folte piaceva quel che vedevano. In realtà non aveva capito niente di quel che le era stato detto:qualcosa di gentile, rassicurante, sussurrato da una bella voce calda…Sarebbe stato quello, il suo signore? Se così era, il karma[3] che gli dei le avevano riservato per scontare in quella le colpe commesse in un’altra vita, non poteva certamente dirsi crudele.

-Kyrie…

L’aveva chiamato proprio così: mio signore, in greco. Era stato piacevole scoprire che qualcuno le aveva insegnato a parlare e a intendere la lingua franca dell’Occidente. Massimo non aveva dedicato molto tempo della sua vita agli studi, ma aveva acquisito una conoscenza del greco sufficiente a farsi capire e a spiegarle che il suo signore non era lui, ma un uomo crudele che era andato a combattere in terre lontane. Un uomo crudele che sicuramente non sarebbe tornato vivo dai confini orientali, ma sarebbe stato ucciso da qualcuno che voleva prendere il suo posto e allora sarebbe diventato quello il signore della splendida bellezza bruna che gli stava davanti e lo guardava ammirata chiamandolo come non doveva. Non sono io il tuo signore, né lo sarò mai, Padma… Ora come ora, il tuo signore è l’uomo noto come il Carnefice del genere umano. Tra un mese, una settimana, forse domani, il tuo signore potrebbe essere un sordido nano deforme. Ma non sono io, quello, anche se lo vorrei.

Ho ancora tempo, per spiegarglielo, si disse da sé solo.Perché disilluderla, perché cancellare da quel volto bellissimo il suo sorriso di perla? Massimo distolse il viso da quello di lei e serrò forte le palpebre fino a vedere il buio e quello soltanto.

LA PARTITA

In questa mia seconda vita che non avrà fine sono tante le cose che ho imparato, oltre a questo nuovo gioco: a mentire. A tradire. A rubare.

Massimo dissimulò un brivido, mentre Padma lo guardava muovere sulla scacchiera le pedine del gioco che gli aveva insegnato: una simulazione della guerra, con due eserciti nemici che si fronteggiavano. Soldati bianchi e soldati neri. Le torri, i cavalli, i signiferi. La Regina e il Re.

Nell’altra vita non avrei mai osato mentire, o prendere qualcosa che non mi apparteneva. Tu non mi appartieni, e neanche immagini quanto ti voglio…

-Shah mat, Valerio.

Il Re Nero è in trappola. E’ morto. Il Re Bianco non fa prigionieri.

Padma gli sfiorò la mano, gli sorrise come solo lei sapeva.

-Il mio karma… Quello adesso sei tu.

-E prima di adesso?

-Non lo so. Nella vita attuale scordiamo quella precedente. Forse ero un brahmano[4], o un re guerriero. E le colpe commesse allora, le ho scontate rinascendo donna.

Massimo la circondò con le braccia, se la strinse al petto. Era calda, profumata di spezie. E arrendevole. Era misteriosa come le terre lontane da cui proveniva, come le sue mille esistenze.

-Sei nobile e bella, Padma…

-Sono solo una donna, mio signore: se fossi una vecchia e sudicia sudra[5] invece di quella che sono, non cambierebbe quasi niente.

Il viso immobile e inespressivo non tradiva alcuna emozione, e gli occhi non davano lacrime. E’ come me, un’Immortale, pensò Massimo, una creatura benedetta, o forse maledetta da uno strano destino. Non si spiegherebbe altrimenti quel suo continuo parlare di altre vite, di morti e di rinascite, né quell’indifferenza a qualsiasi cosa la sorte avesse deciso di riservarle. Forse lo era da prima di lui. Da centinaia, da migliaia di anni. Ne dimostrava una ventina. Aveva la pelle scura, i capelli lucenti e neri come un fiume d’inchiostro. Quando si spogliò, continuando a celare dietro la maschera dell’indifferenza le sue emozioni, mostrò agli occhi dell’uomo membra sottili e, per contrasto, un seno grande e florido.

-Prendimi, Kyrie. Sono tua. Il dono di un principe dell’India al Signore del Mondo.

Massimo scosse la testa. Non sono il Signore del Mondo, pensò, ma sono contento che tu lo creda. Sei splendida e non hai idea di quanto ti desideri… Forse farei bene a dirtelo, non sono altro che un ladruncolo bugiardo. Ma sicuramente posso farti felice almeno un attimo. Più di quello che chiami Signore del Mondo, che tu intenda chi lo è oggi e chi lo sarà domani, un pazzo assetato di sangue o un sordido nano deforme. Quello che chiami Signore del Mondo non è nessuno, Padma: soltanto un ex schiavo al quale la sorte ha riservato un dono grande e terribile, quello di vivere per sempre.

-Sei molto bello, Kyrie. Hai gli occhi come una tigre, e un corpo fatto per la guerra… E per l’amore.

Le mani sottili ed esperte, la bocca avida sapevano dove e come toccare un uomo per farlo impazzire di piacere. Quella donna doveva essere stata una prostituta, in una delle sue mille vite: ma le prostitute fingono un piacere che non provano, e non era il caso di Padma, lei non fingeva. Gli disse che, dalle sue parti, erano preziosi manoscritti sacri, riccamente illustrati, ad insegnare l’amore agli uomini e alle donne. Gli disse che l’amore era un dono degli dei all’umanità. Un dono che aveva amato dividere con lui, che all’occasione, avrebbe diviso con il suo vero signore, quel mostro che la gente chiamava Carnefice del genere umano? O con chi gli sarebbe subentrato, un osceno nano deforme?

Massimo chiuse gli occhi, inghiottì il groppo di tensione che gli serrava la gola. Chi sei, Padma? Chi ti ha insegnato a parlare così bene il greco? Sono una donna che sconta in questa vita le colpe commesse in quelle precedenti. E il greco me l’ha insegnato un vecchio schiavo siriano di mio padre, un eunuco di nome Gitone. Mi è sempre piaciuto imparare cose nuove. Allora starai con me abbastanza da imparare anche la mia lingua, e per insegnarmi quello che tu sai e io non so, mia adorata: quante altre donne hai chiamato e chiamerai così, si disse da sé solo, nel corso della tua esistenza senza lacrime, senza vecchiaia e senza fine?

Padma aveva un profilo perfetto, sottolineato da un anello d’oro che le trafiggeva la narice e grandi occhi scuri sottolineati dal bistro. Vestita solo dei suoi fastosi gioielli, era bella come una dea. Massimo le accarezzò la gola pulsante, i seni rotondi; le prese tra le labbra un capezzolo e si meravigliò quando un piccolo fiotto di latte tiepido gli inumidì la bocca.

-Ma… Tu hai un figlio piccolo, Padma… E ce l’hai qui, con te…

-E’ quello che hai visto in braccio alla mia ancella, sicuramente hai creduto che fosse suo. Lo sto svezzando.

Ma quando piange te lo attacchi ancora alla mammella. Anche Olivia faceva così. Era mia moglie, e me l’hanno ammazzata. E con lei nostro figlio.

-E’ un bellissimo bambino.

-E’ tutto quello che mi resta della mia famiglia.

Dimmi di te, Padma: adesso che ho scoperto che hai un figlio, so solo che non sei quella che credevo. E anche adesso, vedendoti piangere: gli Immortali non possono generare figli e non hanno lacrime per lavare via il dolore dall’anima.

Ero sposata al Marajah di Surat, che un cugino invidioso ha scacciato dalla sua terra e dal suo trono. Forse l’ha ucciso: io sono finita schiava, un dono dell’usurpatore al Signore del Mondo, il Cesare di Roma… A te, Valerio.

Ma io sono solo un ex schiavo, Padma… Gliel’avrebbe detto, questo era certo. Ma non allora, pensava mentre la grande mano carezzava leggera la seta della sua pelle.

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[1] Gladiatore armato di spada e scudo, opposto in genere nei combattimenti al retiarius (N.d.A.)

[2] L’attuale York (N.d.A.)

 

[3] Destino (N.d.A.)

[4] La classe sacerdotale hindu, la casta più elevata (N.d.A.)

 

[5] Casta inferiore (N.d.A.)