Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore

Lettura sconsigliata ai minori di anni 18

 

 Massimo l’Immortale

VITA OLTRE LA VITA
Prima Parte

di Lalla Usai

 

MASSIMO DECIMO MERIDIO, IL GLADIATORE

Era difficile che qualcuno piangesse gli uomini come lui, il cui destino si chiamava morire. Prima o poi, ai più capitava, si sa, la ruota della fortuna non gira sempre nella stessa direzione anche se per i miserabili di quella risma poteva essere consolatorio crederci. Cento combattimenti vinti. Il rudis, la spada di legno con inciso il tuo nome sopra l’impugnatura. La libertà, un sogno covato nei recessi della mente, un incubo che costava il sangue tuo e degli altri ai quali i casi della vita avevano riservato, in circostanze più o meno diverse, l’identica sfortuna. Ammazza, o muori. Lui aveva ammazzato ed era stato ucciso.

Dov’era la gente che lo aveva applaudito? Quando il gelo gli era sceso negli occhi, nella mente e nel cuore, il grande anfiteatro era ammutolito. Il tirannicida era crollato morto su quella sabbia rossa del sangue vecchio di centinaia e centinaia di disgraziati, rossa del sangue del tiranno a cui la sua spada aveva squarciato la gola. Un attimo, un lampo. Che cercasse giustizia o vendetta, forse neppure lui lo sapeva. Sapeva che doveva fare presto, perché il gelo della morte dai lombi gli stava salendo fino al cuore e perché gli occhi non vedevano ormai quasi più niente. Coraggio, stringi i denti. Stringi i denti, dagli quello che si merita. Dagli quello che si merita perché si è portato via, con le vite dei tuoi cari, la tua anima e la tua dignità, prima ancora di cacciarti nella schiena lo stiletto che ti avrebbe dato una morte lenta e subdola, una morte che della morte avrebbe avuto l’angoscia, ma non il dolore. Nascondetegli la ferita, e gettatelo nell’arena, aveva abbaiato il despota agli inservienti, perché tutta Roma possa guardare con i suoi occhi come muore un bandito. Dovevi essere già morto da un pezzo, Massimo Decimo Meridio: da quando, a Vindobona, avevo ordinato ai miei pretoriani di giustiziarti e tu eri riuscito a scappare. Erano mesi che aspettavo questo momento, sangue bastardo, schiavo, animale…

LUCILLA

Non sembrava morto, semplicemente addormentato. Lei non aveva mai avuto occasione di vederlo mentre dormiva, solo quando chiudeva gli occhi per concentrarsi sui suoi pensieri o per sforzarsi di cacciarne via qualcuno molesto e inopportuno e allora l’espressione della sua faccia non era certo quella. Ma forse neanche nel sonno aveva mai trovato pace, perché da lui la vita aveva preteso molto di più di quanto non fosse stata in grado di offrirgli. Povero Massimo.

Con le dita cariche di anelli, gli accarezzò il viso bellissimo, sereno nel sonno dell’ultimo riposo. Era stata lei a chiudergli gli occhi, come avrebbe fatto con uno sposo amato per davvero e non imposto dalla ragion di stato perché era la figlia dell’Imperatore e la sua volontà non contava niente.

Presto sarebbe calato il buio. Molto presto le avrebbero detto è tempo di andare via, Augusta. E lei avrebbe pensato che era giunto il momento dell’addio definitivo e avrebbe pianto le ultime lacrime che le restavano da piangere, di nascosto, perché era quella che era e sarebbe stato indecoroso mostrare le sue debolezze a tutti quanti, anche agli schiavi addetti alla preparazione dei cadaveri per la sepoltura. Annia Lucilla Galeria, figlia del Cesare Marco Aurelio,sposa del Cesare Lucio Vero, sorella dal Cesare Lucio Aurelio Antonino Commodo, il cui cadavere sarebbe stato sotterrato in una fossa comune e la cui memoria sarebbe stata dannata nei secoli a venire. Aveva un figlio, pensò. Un bambino di neanche otto anni. Pregò in silenzio, affinché quegli dei nei quali suo padre aveva fatto finta di credere gli risparmiassero un destino amaro, negli anni a venire. Doveva pur esserci un dio capace di stornare il pericolo dalla testa d’un fanciullo di neanche otto anni, si ritrovò a pensare. O, in realtà, a quegli dei indifferenti e freddi come il marmo bianco in cui erano scolpiti, dei poveri mortali non importava nulla, che fossero sangue di re o schiavi, feccia della terra, come quelli che si muovevano silenziosi nei sotterranei del Colosseo, davanti alla panca di marmo dove Massimo dormiva il suo sonno ultimo e definitivo.

“Massimo…” Una lacrima calda le attraversò la guancia pallida. Massimo, che sembrava addormentato ed era bello come lo era stato da vivo, di lì a qualche giorno appena sarebbe diventato vermi, ossa e marciume. Non era mai stata sua, per il destino, i casi della vita, la volontà degli altri. Non aveva potuto dividere con lui che pochi attimi di un’esistenza che non le era mai appartenuta. Fosse stata una qualsiasi, come quella moglie che lui aveva amato e che gli scherani di Commodo gli avevano ammazzato…Neppure di morire in quel modo, brutalizzata, stuprata, crocifissa e bruciata quand’era ancora viva le sarebbe importato, perché quella vita breve, almeno, aveva avuto un senso. La sua, invece, cos’era stata? Un idillio stroncato prima che potesse diventare amore, il matrimonio d’interesse con un vecchio e, da ultimo, il terrore angosciante che quel pazzo di Commodo potesse in qualche modo nuocere al suo bambino. A Lucio, non a lei. Perché di ciò che sarebbe potuto accaderle se il suo modo di comportarsi fosse, in qualche modo, dispiaciuto a suo fratello gliene importava come di sapere in anticipo se il giorno successivo avrebbe portato pioggia o bel tempo: niente.

-Augusta…

Erano venuti a dirle non è più tempo? O vattene, dobbiamo prepararlo per la sepoltura e sotto il lenzuolo è nudo? Se si fosse trovata nelle condizioni di spirito adatte, avrebbe riso in faccia a quella gente ipocrita. Quando aveva visto Massimo nudo per la prima e unica volta, lei aveva sedici anni, lui diciotto. Era stato lungo i confini settentrionali, tanto tempo prima. Avevano fatto il bagno in un’ansa tranquilla del fiume, si erano baciati e accarezzati. Per lei era stata la prima volta. Prendimi, gli aveva detto. Non pensare a niente, lasciati andare e basta. Invece l’aveva sciolta dal suo abbraccio, ed era andato ad asciugarsi e a vestirsi senza guardarla neppure in faccia. Non sapeva ancora che quella donna non era per lui e non lo sarebbe mai stata. Lo immaginava soltanto, ed era sempre stato troppo leale e onesto per prendersi di nascosto qualcosa che non gli apparteneva. Povero Massimo, era stata la sua lealtà a perderlo, la sua onestà cristallina a scavargli la fossa. Per il bene dell’Impero aveva sacrificato la sua stessa esistenza, e Roma che cosa gli avrebbe dato in cambio? Esequie degne di un eroe e da ultimo l’oblio, come sempre succedeva?

-Augusta… Non puoi stare ancora qui…

-A chi osate dare ordini… schiavi!

La voce che le uscì di bocca era un grido stridulo, e qualcuno degli inservienti e degli uomini di fatica, guardandola così alterata, dovette pensare che non era poi così diversa da com’era stato suo fratello, Commodo il pazzo che non avrebbe avuto le esequie dei sovrani e degli eroi ma sarebbe stato sepolto in una fossa comune, quindi ricoperto di calce viva,come la carcassa di un cane idrofobo.

-Domina…

La vecchia che avanzava sulle gambe sbilenche reggendo un piccolo bacile d’argento contenente acqua mista ad essenza di mirra e di rose era quella che, ormai da decenni, era stata chiamata ad assumersi l’incombenza di preparare i cadaveri per la sepoltura. Doveva trattarsi d’una puttana ormai da anni in disarmo, della guardiana di qualche postribolo d’infimo ordine, e i suoi occhi e il suo onore non sarebbero stati certo compromessi dalla vista di un uomo nudo. Aveva la faccia grinzosa, i denti marci, ed era brutta quanto le Graie[1].

-Lascia che sia io a farlo. - Le disse Lucilla, tuffando nell’acqua profumata il lungo velo di seta che s’era tolta dalla testa.

-Dovevi volergli bene.

Gli occhi cisposi della vecchia erano buoni, tristi e rassegnati. Lucilla accennò di sì con la testa, mentre uno schiavo teneva sollevato il corpo possente di Massimo.

Dov’è la ferita che ti ha ucciso? Pensava la donna. La pelle dell’uomo era intatta, a parte alcune vecchie cicatrici e i segni ancora rossi delle ferite più recenti. La spada di Commodo non aveva potuto trafiggergli il petto, protetto dalla corazza, e non gli aveva neppure tagliato la gola che invece l’armatura lasciava scoperta. Non era possibile che un uomo del coraggio di Massimo fosse stato colpito alle spalle, come succede ai codardi… E com’era successo a lui. Ma la ferita che lo aveva ucciso non gli era stata inferta con la spada. Era piccola come il morso di un insetto, e non doveva aver sanguinato molto. Lo stiletto o il lungo spillone con cui era stata inflitta doveva aver perforato il polmone sinistro, e Massimo era morto soffocato dal suo stesso sangue. O, forse, la punta dello stilo era stata intinta nel veleno. Commodo. Era stato lui. L’aveva colpito a tradimento, come un serpente che si nasconde tra le pietre, prima del duello, per fiaccare la sua resistenza e poterlo uccidere senza rischiare di essere ucciso, anche se aveva sbagliato a non includere nei suoi calcoli la furia del gladiatore, la stessa di una belva morente. Ed aveva finito col farne le spese.

-Dio abbia pietà di te, domina… - Sibilò la vecchia fra i denti guasti e traballanti. Indossava sul corpo scheletrito una tunica sudicia e dal collo, appeso ad un laccio bisunto, le pendeva un fascinum[2]: la Croce dei cristiani. 

PRISCA

Quale dio? Il piccolo ebreo straccione che il Proconsole di Giudea aveva fatto appendere alla croce poco meno di duecento anni prima? Il figlio del falegname il cui cadavere era stato fatto sparire da quei quattro fanatici dei suoi seguaci, giusto per darla a bere al popolino e a un paio di donnette credulone che fosse tornato dall’aldilà? Lucilla avrebbe riso in faccia a quella vecchia puzzolente, se si fosse trovata nelle condizioni di spirito adatte a farlo, invece aveva soltanto voglia di piangere.

-Era un uomo giusto, e deve aver sofferto tanto. Dio ne terrà conto, nella sua misericordia infinita.

Parlava tenendo semichiusi gli occhi pallidi e acquosi, che sembravano vedere aldilà di quel che guardavano. Se ci fosse stato davvero un dio misericordioso e buono, questi non avrebbe permesso che un uomo come Massimo morisse. Gli dei erano tutti quanti uguali, se non ostili almeno indifferenti, e delle pene dei poveri mortali non doveva importargliene proprio un bel nulla. A quello, poi… Ciclicamente, le autorità scatenavano persecuzioni sistematiche contro quell’accozzaglia di fanatici che predicavano l’amore e l’uguaglianza e rifiutavano d’inginocchiarsi, com’era loro dovere, davanti alle statue di Cesare. Piuttosto, preferivano farsi ammazzare tutti quanti, uomini fatti, ma anche giovinetti, vecchi, donne, bambini. Dove andavano a finire, in quei frangenti, l’onnipotenza e la misericordia del loro dio? Perché non scendeva dal cielo a salvarli?

-La pietà del tuo dio non mi serve, vecchia. Massimo…

-Si chiama così? Massimo. E’… un uomo molto bello, somiglia ad uno degli angeli guerrieri che montano la guardia dinanzi al trono dell’Altissimo.

-Non è più, vecchia. Era.

E scoppiò a piangere. Si stupì di avere ancora lacrime. Non è morto, vive ancora, in un altro mondo, in una dimensione diversa da questa. Ha trovato la pace, adesso… Prega per lui il dio in cui credi, principessa. Ma io non credo e non crederò più in niente e nessuno, vecchia.

-Il mio nome è Prisca, e vorrei regalarti…

Regalarmi qualcosa? Regalarmi qualcosa tu, pezzente indegna perfino di baciare la terra dove io, l’Augusta, la figlia di Marco Aurelio e la vedova di Lucio Vero, Cesari di Roma, poso i miei calzari?

-Vorrei regalarti… la speranza, domina.

Lucilla le indirizzò un sorriso amaro. Quale speranza voleva regalarle, la vecchia stracciona? Quella di incontrarlo ancora, chissà come, chissà dove e chissà quando? Che ne capiva, dell’amore che l’aveva accompagnata per tutti quegli anni come un sogno e un’illusione, e che forse, chissà, si sarebbe anche potuto riaccendere, se lui non fosse morto in quel modo? Che poteva saperne, decrepita com’era, e consunta, e rinsecchita e senza più voglie, di quanto lei li avesse desiderati allo spasimo, la sua pelle, il suo corpo, i suoi baci, quei suoi occhi, che avevano il colore del mare in tempesta, nei quali avrebbe tanto voluto perdersi per sempre?

-Siediti qui, vicino a me, e ascoltami, domina…

Le ubbidì senza neanche rendersi conto del perché lo facesse. E l’ascoltò parlare mentre le teneva, imprigionata tra le sue, sudice, macchiate e rinseccolite, la bella mano sottile, carica di anelli.

Le raccontò di Gesù. Chiamava alternativamente il profeta della sua setta figlio di Dio e figlio dell’Uomo. E’ morto perché predicava l’amore, ma dopo tre giorni è tornato dall’aldilà. Aveva parole di speranza per chi soffriva… Questa vecchia delira, come tutti i fanatici della sua specie. Pensava Lucilla mordendosi il labbro nervosamente. I fanatici che suo nonno, il mite Antonino Pio e suo padre, il saggio Marco Aurelio, avevano sempre cercato di lasciare in pace, contrariamente a molti loro predecessori che li avevano perseguitati in quanto sovvertitori dell’ordine costituito. Razza di schiavi e di miserabili, bisognosi di una speranza che solo l’aldilà poteva loro offrire. Ma non solo: simpatizzanti di quella setta giudea allignavano ormai anche tra i patrizi, i ricchi cavalieri, gli alti funzionari dello Stato, i militi e gli ufficiali delle Legioni, perfino a Corte. Si diceva che Marzia, la puttana di suo fratello, fosse anch’essa cristiana. Come facesse quella donna a conciliare i precetti austeri della sua fede con il suo stile di vita per lei era sempre stato un mistero.

-Aveva parole di misericordia per i peccatori, ed era pietoso con chi soffriva. Quando la bambina di Giairo esalò l’ultimo respiro, a lui bastò sfiorarle la veste per restituirla guarita e felice ai suoi genitori.

Lucilla scosse la testa, impallidì. Era possibile che… No, non crederle, si disse da sé sola. Ti sta illudendo e, se credessi alle sue fole, dopo soffriresti ancora di più.

-Quando incontrò il funerale del figlio della vedova, ebbe per lei parole di compassione, e le restituì il ragazzo, che era il suo unico affetto e la sua unica fonte di sostentamento. Lazzaro… Lazzaro se n’era andato da diversi giorni e il suo corpo si stava già putrefacendo nel sepolcro, quando Lui lo chiamò indietro dal mondo dei morti.

Lucilla serrò le palpebre per non guardarla, mentre diceva quello che diceva. Era assurdo tutto quanto, i morti tornati dall’aldilà, la resurrezione del Profeta a tre giorni dalla sua esecuzione capitale. Eppure quelle assurdità, al momento, erano l’unica speranza che le restasse.

-Nella sua infinita misericordia, Nostro Signore Gesù Cristo ha conferito ai suoi seguaci il potere di operare miracoli nel suo nome.

-Prisca…

Sentì che le mani ossute della vecchia non stringevano più le sue. E, quando riaprì gli occhi, altro non vide se non le pareti scabre illuminate dal riverbero delle torce e i lineamenti regolari, quasi delicati, di Massimo distesi e sereni nel riposo del sonno senza risveglio.

MARZIA[3]

L’aveva sempre detestata, per quello che era, una piccola arrivista di origini oscure, e per come era riuscita ad insinuarsi, una goccia alla volta, alla maniera di certi veleni, nella mente e nel cuore di suo fratello, per come aveva fatto di lui ciò che aveva voluto. Suo fratello. Lo era solo per metà, a detta di tutti quanti e, per quanto duro fosse, lei non aveva faticato ad accettare quella realtà, da subito. Sua madre, Faustina, la figlia del Cesare Antonino Pio, era notoriamente una poco di buono che, come altre gentildonne sue pari, si era spesso concessa amori proibiti con i poveracci destinati a farsi ammazzare nell’arena per il sollazzo della plebaglia. Tutta Roma lo sapeva, eccetto suo padre che, povero illuso, continuava a crederla fedele e intemerata come le matrone dei bei tempi andati. E non fosse bastata la faccia di Commodo a provarlo… Non somigliava a suo padre, che era gracile, emaciato, già vecchio a meno di cinquant’anni. Quello che Marco Aurelio s’era illuso fosse sangue del suo sangue era in realtà progenie di un gladiatore sarmata, da cui aveva preso i capelli chiari, gli occhi azzurri slavati, la corporatura gagliarda, i gusti rozzi e volgari, l’amore smodato per il vino non diluito, le puttane, i giochi del Circo… Quel Commodo a cui il potere aveva dato alla testa come e forse più delle porcherie che buttava giù per ubriacarsi come una spugna e dimenticare la sua pochezza. Quel Commodo che Marzia aveva manovrato come un burattino per riuscire a diventare quella che era diventata.

-Augusta Lucilla! Qual buon vento…

Un vento di morte e una debole speranza che forse si alimenta d’illusioni. Ma tu non mi puoi capire, perché non sai amare, Marzia.

L’aria intorno alla donna aleggiava del suo profumo. Non l’aroma leggero dei fiori ma quello pesante e dolciastro che, sotto i cieli dell’Oriente, fa ululare gli zibetti alla luna. Gli occhi, scuri e scintillanti sotto l’arco delicato delle sopracciglia erano bistrati di nero e i lunghi capelli corvini, ricciuti come quelli di un’africana, cosparsi di polvere d’oro.

-Marzia…

-Da quanto tempo non mi rivolgevi la parola, Augusta Lucilla?

Non c’era traccia di rimprovero nelle sue parole, solo un’ironia lieve come il sorriso che le scopriva appena la punta dei denti candidi e le disegnava profonde fossette sulle guance olivastre. Una bella donna, elegantemente vestita e doviziosamente ingioiellata. L’amante per la quale Commodo aveva scacciato dal palazzo la moglie aristocratica impostagli dal padre. Forse l’unica persona per cui il giovane fosse riuscito a provare affetto. E lei? Ma non c’erano dubbi che l’avesse usato per gli sporchi tornaconti suoi e del suo socio in malaffare, quel greco depravato, quell’Ecletto che aveva sposato e che di sicuro non ricambiava il suo amore, visto come i gusti che ostentava spudoratamente fossero orientati in tutt’altra direzione.

-Ho bisogno del tuo aiuto, Marzia…

Ancora? Credevo che non mi avresti chiesto più niente, dopo aver saputo che, la sera prima del duello nell’Anfiteatro, avevo propinato a Commodo una pozione per fiaccare le sue forze. L’imperatore, pazzo, debosciato, bestemmiatore degli dei, schiavo del vino e dei suoi vizi, stava diventando un pericolo per Roma…Beh, provavo affetto per lui, un tempo non molto lontano. Perché era bello, e forte, e potente. Perché mi aveva scelta, anche se non ero nessuno. Ma chi non ucciderebbe il suo cane preferito, se questi diventasse idrofobo?

-Devi essere proprio disperata, Lucilla, se sei venuta a cercarmi.

E che cosa fiacca le resistenze di una donna se non il mal d’amore? L’aveva vista con i suoi occhi mordersi a sangue le mani, la sera del duello nell’Anfiteatro, l’aveva vista precipitarsi nell’arena quando quel gladiatore che la gente aveva soprannominato Ispanico era crollato a terra senza vita. Si chiamava…Massimo? Un gran bell’uomo, non c’era dubbio. Lineamenti delicati, profilo da medaglione, occhi azzurri, il corpo che avrebbe avuto Ercole, non fosse stato una delle tante menzogne inventate dai pagani.Prima di cadere in disgrazia era stato un grande generale e chi l’aveva conosciuto allora lo definiva un uomo perspicace, probo e coraggioso. Sicuramente Lucilla, la principessa superba e schizzinosa, sapeva bene come quell’uomo fosse bravo a fottere anche quando non era ormai più nessuno, solo uno schiavo che tanfava di cavallo, di sudore e di sangue , suo e degli altri.

-Dicono che tu sia cristiana.

E con ciò? Cristiana…Le brave donne cristiane hanno orrore del peccato, sono fedeli al marito, non saltano da un letto all’altro per poter soddisfare i loro sporchi tornaconti, non si agghindano come baldracche e non propinerebbero una pozione drogata neanche al demonio in persona, figurarsi all’uomo che amano, seppure di un amore che puzza di depravazione e di vizio da dieci miglia.

-Non lo so neppure io quello che sono, Lucilla carissima.

So solamente che ho perso il ricordo del passato e che non ho futuro. Ho dimenticato la mia infanzia felice e la mia adolescenza fatta di stenti. Ho dimenticato le mie nozze da burla con il cubicolario pederasta dell’Imperatore, a cui ero stata venduta come una merce per arrivare, passando dalla porta principale, nella camera da letto di Commodo. E lo sai chi mi aveva venduta per un pugno d’oro? Proprio gli zii che mi avevano accolta in casa per carità, quando i miei genitori erano morti e mi ero ritrovata senza altri parenti e, quel che è peggio, senza un soldo. Già, loro. Loro e un prete cristiano. Sacrificando me, speravano di stornare l’ennesima persecuzione dalla testa dei nostri correligionari… Ho dovuto sottostare al gioco, Augusta Lucilla, e adesso sono quella che sono, una peccatrice destinata alla dannazione eterna. Se pensi che, da bambina, avevo promesso di votare a Dio la mia verginità…

-Anzi, no, una cosa la so con certezza: noi donne siamo soltanto pedine nelle mani degli uomini. Pedine di un gioco crudele, la cui posta è alta e da cui nessuno è libero di ritirarsi quando si è stancato di giocare.

La voce della concubina si fece cupa, prima di affievolirsi in un rantolo che sapeva di lacrime non versate. Marzia si alzò dalla sedia, e baciò su entrambe le guance la sorella di Commodo, sollevandosi sulle punte dei piedi poiché, al contrario dell’altra, era piccola di statura quasi come una bambina.

Anch’io sono stata usata come la pedina di un gioco, anche la mia vita non è mai stata mia. Mio padre, mio marito, mio fratello hanno fatto di me uno strumento nelle loro mani. E l’unico uomo che ho amato per davvero… Adesso è morto, Marzia…

-Dimmi quello che sei venuta a chiedermi, Lucilla.

I grandi occhi neri mandavano bagliori di brace. Se potrò aiutarti lo farò…Ti ho sempre detestata, ma adesso mi fai pena. Doveva essere proprio bravo, a farti godere, quel gladiatore dagli occhi azzurri e dalle spalle poderose.

-Tu conosci il Sommo Sacerdote dei Cristiani.

-Il pontefice Vittore?[4] Ti accompagnerò da lui adesso stesso.

 

 

VITTORE

Oggi, e poi domani, pensava Lucilla mentre attraverso le tendine della lettiga, vedeva, spiattellate con crudeltà in tutta la loro bruttura, le varie facce della miseria e fiutava gli odori fetidi d’immondizia e d’escrementi del Velabro, uno dei peggiori quartieri dell’Urbe. Domani lo seppelliranno, e sarà tardi, morirà anche l’ultima speranza, quando il suo corpo avvolto nel sudario verrà rinchiuso nel sepolcro. Per non sentirsi male, si coprì le narici con una pezzuola profumata, cosa che, nell’altra portantina, sicuramente la bella Marzia non stava facendo: a quel puzzo aveva fatto il naso quando, dopo la morte dei genitori, plebei cristiani benestanti, era stata costretta a trasferirsi proprio lì, presso certi zii, plebei cristiani miserabili, in un’insula[5] sbilenca e maleodorante dove dentro due stanze ci stavano in sette. Che i cristiani fossero gentaglia quella non era una novità, ma Lucilla trovò alquanto strano che il loro pontefice vivesse in un posto come quello, una stamberga fatiscente fianco a fianco con una bettola e un bordello, che sembrava stesse in piedi per miracolo. Scesa dalla portantina,dovette sollevare le vesti per evitare di tuffarle nelle pozzanghere dove galleggiavano immondizie d’ogni genere, dalle piume di gallina, alle carogne di animali morti, agli escrementi umani, e, sempre con le vesti sollevate, seguì per i due piani d’una scaletta sconnessa e tarlata, Marzia che la precedeva.

Il pontefice Vittore era ancora abbastanza giovane, ma la barba arruffata e i capelli lunghi e unti come il vello sudicio delle pecore gli regalavano parecchi anni in più di quelli che doveva avere. Indossava una lunga tunica logora sotto una dalmatica coperta di ricami eseguiti con mano maldestra, che dovevano rappresentare simboli sacri o esoterici: pesci, croci, sigle misteriose… Dei cristiani, Lucilla non sapeva molto. Suo fratello li aveva disprezzati cordialmente, aveva riso della loro melensa mitezza e della stravaganza delle idee che si portavano appresso, li aveva detti codardi e vigliacchi quanto e più dei conigli, ma non li aveva fatti perseguitare. Doveva essere stata Marzia a chiederglielo, nello stesso modo in cui aveva chiesto, e ottenuto, prestigio, ricchezze, poteri occulti e, infine, le teste dei Prefetti del Pretorio Tigidio Perenne e Cleandro, per spianare la strada all’ultimo dei suoi amanti, Quinto Emilio Leto. E Commodo non aveva mai negato niente a quella donna.

L’uomo la trattò come una qualsiasi, probabilmente perché neppure l’aveva riconosciuta. Lucilla notò che aveva le unghie nere, e le dita sporche d’inchiostro.

-Sei già cristiana, figlia mia… O ancora catecumena[6]?

Il pontefice aveva una voce piatta, monocorde e lo stesso sguardo acquoso della vecchia Prisca nei sotterranei del Colosseo. Come tutti gli adepti della sua setta, usava spesso, e a sproposito, i termini figlio, fratello, sorella. La familiarità con cui quell’uomo sudicio e scheletrito la trattava infastidì non poco Lucilla che a stento si trattenne dal rimproverarlo e dal rivelarglisi: erano altri, e ben più importanti, i motivi per cui lo aveva cercato.

No, non sono niente, solo una donna disperata, che ha riposto in te e nel tuo dio le ultime speranze… Non mi hai riconosciuta? Eppure, chiunque mi riconoscerebbe in questa città.

Papa Vittore osservò la donna che gli stava davanti: una dama dell’aristocrazia di una trentina d’anni, alta, elegante e bella. Erano finiti i tempi in cui la sua religione attirava unicamente le simpatie di schiavi, miserabili e diseredati.

-Mi hanno riferito che il profeta della tua setta era capace di resuscitare i morti.

-Gesù operò guarigioni, scacciò i demoni dagli invasati, riportò in vita persone morte… E, a tre giorni dalla sua esecuzione capitale, ritornò dall’Aldilà, com’era stato profetizzato fin dai tempi dei tempi.

-Era un mago, questo tuo Gesù?

-Era il figlio di Dio fatto uomo.

E’ una donna astuta, manipolatrice, abituata a comandare. Ha lo sguardo duro, nonostante si capisca che deve aver pianto tutte le sue lacrime. E non è venuta a chiedermi il battesimo, ma qualcosa di ben diverso… Papa Vittore si mise in guardia, come un animale selvatico che abbia fiutato un pericolo nascosto.

-E’ vero che quel vostro… profeta aveva concesso ai suoi seguaci il potere di operare miracoli nel suo nome?

Vittore non abbassò la guardia. Poteva venire un pericolo, come no, da quella bella dama alta e sottile, vestita di bianco con squisita, elegante semplicità. Era un uomo, malgrado si fosse votato totalmente a Dio, e non gli sfuggirono i lineamenti fini e aristocratici, gli occhi verdi dallo sguardo malinconico, i riccioli dorati che facevano capolino sotto il lembo della stola che le velava la testa, il delicato profumo di fiori che impregnava le sue vesti. Ma sapeva bene che il demonio conosce mille astuzie per perdere gli uomini.

-Il nostro Imperatore è morto, lo sai?

Lo sapeva. Commodo era stato ammazzato nell’arena durante uno dei consueti duelli che aveva sempre amato concedersi con i gladiatori: questa volta la situazione gli era sfuggita di mano…E il potere era rimasto vacante. Che cosa sarebbe successo, dopo? Pur essendo stato fin dalla più tenera età una sentina di tutti i vizi possibili e immaginabili, Commodo aveva lasciato in pace i cristiani. Sicuramente il suo successore, un senatore ambizioso, un generale, o chissà chi altro, si sarebbe comportato in maniere del tutto diversa.

-Il nostro Imperatore è morto, lo so. Dio abbia misericordia della sua anima.

-Potrei… Potrei renderti ricco, se…

-Se operassi il miracolo di riportarlo in vita? Io sono solo un povero peccatore, il servo dei servi di Dio. E non sono capace di tanto, domina.

-Non ti chiedo d’aver misericordia di lui… Ma dell’uomo che è morto per liberare Roma dalla tirannia. E di me, che lo amavo più della mia stessa vita.

Massimo. Un valoroso giovane generale, un galantuomo caduto in disgrazia e costretto a giocarsi la pelle nell’arena. Vittore aveva sentito parlare di lui, anche se non l’aveva mai visto combattere: assistere a simili spettacoli era, per i cristiani, peccato mortale, punibile con l’interdetto e la scomunica.

-Noi uomini non possiamo cambiare a piacimento i disegni di Dio, figliola. Pregherò per te… e per lui, affinché possa riposare in pace, povero ragazzo.

 

LA SUBURRA

E io? L’avrò mai la pace che cerco? Me la pagherai, e cara, cane di un cristiano… Lo guardò fisso, gli occhi cattivi come lame affilate, la bocca dura che non proferiva parola, prima di voltare le spalle alla sua figura scheletrita e alla sua sudicia casa, prima di gettarsi tra le braccia di Marzia singhiozzando come una disperata, incurante di quelli che passavano e la guardavano.

-Lo immaginavo. Ma non è finita… Ordinerò immediatamente ai miei servi di rubare il suo cadavere, di portarlo nella tua casa sul Palatino. Non è difficile far sparire il corpo di un morto, l’hanno già fatto altre volte e sanno benissimo cosa gli capiterebbe se non riuscissero ad essere più che discreti. Ma questa è una faccenda che ci riguarda fino a un certo punto. Comanda ai tuoi schiavi di seguire la mia portantina, e non fare domande: se ci tieni, mi ringrazierai dopo, a lavoro concluso.

Lucilla si lasciò sfuggire un sospiro. Guardati da chi ti promette false speranze, si disse da sé sola. Ma, nello stesso tempo, non voleva lasciare niente d’intentato: forse, dove non aveva potuto, o voluto, il Pontefice dei Cristiani, avrebbe potuto, e voluto, un sacerdote egizio, un mago siriano, qualche strega della Tessaglia… Specialmente se, sotto i suoi occhi avidi, qualcuno avesse fatto balenare il riflesso irresistibile dell’oro.

Marzia era una donna piena di risorse, pensava, seguendo dalla sua la portantina della favorita muoversi in quel dedalo di stradacce puzzolenti, scansare la folla stracciona, i mendicanti che imploravano tendendo le mani sudice un obolo di elemosina, i cani randagi e rognosi, i lenoni e le loro vecchie prostitute con le parrucche gialle, i venditori di frittelle bisunte, garum[7] di pessima qualità e impiastri altrettanto maleodoranti per colorare le guance, schiarire i capelli, estirpare la peluria dalle gambe.

Non fosse stata sopra un’altra portantina, le avrebbe chiesto dove mi stai portando, cagna? Non fosse stata sopra un’altra portantina, e non avesse avuto il peso del mondo a schiacciarle il cuore. Non fosse stata sopra un’altra portantina, e non avesse avuto quel piccolo barlume di speranza a scaldarle la vita. Finse d’ignorare che quel luogo dove stava passando era la Suburra, il quartiere più miserabile e malfamato della città, e che non mancava molto al tramonto. Cercò di scacciare la paura pensando a Marzia. Era coraggiosa, determinata. Era intelligente. E spregiudicata. Era stata capace di far ballare sulla punta di un dito Commodo il pazzo, il terrore di Roma, di fargli fare sempre ciò che lei voleva e, malgrado affermasse di amarlo e di credere in un Dio di misericordia, non si era tirata indietro, quando s’era trattato di dare il suo contributo per farlo fuori. Suo fratello era stato succube di quella femmina diabolica. Come spiegare diversamente il fatto che, nonostante il suo serraglio fosse pieni di donne molto più belle di lei, l’avesse sempre preferita alle altre? Forse aveva saputo dargli qualche momento di felicità, malgrado tutto, pensava Lucilla. Adesso, quella felicità forse ingannevole la prometteva a lei: e, strano a dirsi, in cambio di niente.

TIMANDRA

L’abituro dove Marzia la invitava ad entrare non era molto diverso dalla stamberga di Papa Vittore e il suo interno sarebbe stato buio come la bocca di un forno, non fosse stato a malapena rischiarato dalle fiammelle giallognole di alcune piccole lanterne ad olio collocate sopra mensole d’ordinario legno di castagno.

La donna stava seduta, con l’attitudine di una regina, sopra uno scranno ricoperto di vecchie pelli tarlate. Nonostante la debole illuminazione, Lucilla notò gli splendidi zigomi e gli occhi gialli, tagliati a mandorla come quelli di una pantera. Doveva essere stata una bella donna, chissà quanti anni prima: i capelli spruzzati di grigio e le braccia scarnite denunciavano un’età più che matura. Vestiva completamente di nero e due pesanti pendenti d’oro le deformavano in maniera quasi grottesca i lobi delle orecchie.

-Che cosa sei venuta a chiedere a Timandra di Tessaglia, domina?

Timandra di Tessaglia, la strega. Il buio e il lutto si addicevano a quella sacerdotessa di Ecate la Nera, esperta di magia e di venefici. Erano in molti a rivolgersi a lei, per curare le malattie che i medici non riuscivano a guarire, perché i dardi incendiari di Cupido infiammassero gli animi freddi di chi non voleva amare… E per uccidere.

-Questa donna, che mi è amica, è venuta a proporti una sfida alla quale forse non ti sei mai assoggettata, grande Maga…

-Marzia… Lascia che sia lei a parlare.

-Ha il cuore distrutto dal dolore e mi ha chiesto di farlo al suo posto.

-Perché è triste e disperata?

-L’uomo che amava è morto ieri. Assassinato.

-Ah.

E saettò il suo sguardo tagliente sopra la donna che le stava davanti muta e sconsolata ma non chinava la bella testa coperta da un lembo della stola. Una donna ricca, e non solo. Anche potente. Come quell’altra, che, la conosceva bene, era stata l’amante dell’Imperatore. Forse perfino di più.

-Tu sei Lucilla, figlia del Cesare Marco Aurelio, vedova del Cesare Lucio Vero, sorella del Cesare Lucio Antonino Commodo…

E tu sei Timandra l’avvelenatrice, Timandra la strega e vorrei chiederti…

-L’Augusta vuole chiederti di riportare indietro dal mondo dei morti Massimo Decimo Meridio, il gladiatore che la gente chiamava l’Ispanico.

Hai comprato da me veleni,filtri d’amore, pozioni abortive, nobile Marzia…E adesso mi chiedi di riportare in vita un morto. Timandra, al pensiero, sorrise, ma il buio nascose la smorfia che, improvvisa, le aveva piegato per un solo attimo le labbra sottili e dure nella parodia di un sorriso. Ti dici cristiana… e fai cose che il profeta della tua setta non approverebbe di certo.

-Lasciaci sole.

E Marzia tornò alla portantina che l’attendeva in strada, facendo fluttuare i veli che odoravano di muschio e sandalo. L’avrebbe aspettata lì, sicura che il colloquio sarebbe stato breve.

-Ti pagherò a peso d’oro questo servigio…grande Maga.

-Non lo metto in dubbio. - le rispose questa parlando nella sua lingua, il greco. - Ho pietà del tuo grande dolore e ti prometto che non sarò esosa. Ma…

-Vuoi abbandonarmi anche tu, come… come…

-Come il Papa dei Cristiani? Io non ho tutti i suoi scrupoli, ma voglio metterti in guardia. Quello che intendi fare, potresti essere costretta a pagarlo con lacrime di sangue.

-Non me ne importa niente.

-Lui… La morte, la vecchiaia e le malattie lo rifiuteranno finché sul mondo sorgerà il sole, e non è detto che… non arrivi a considerare una maledizione questa vita senza fine che intendi regalargli.

-Ho detto che non me ne importa niente.

-Quale età aveva, quando l’hanno ammazzato?

-Trentatré anni.

-Era nel fiore della giovinezza. Li avrà per sempre, mentre tu invecchierai, e…

Lucilla scosse la testa, sbattendo sgarbatamente sopra il tavolo un sacchetto in pelle gonfio di pezzi d’oro. Niente l’avrebbe fatta desistere dal suo proposito: lo sapeva, e lo sapeva anche Timandra.

-La luna piena, questa notte, guiderà la sua anima a percorrere a ritroso il cammino. Tu dovrai solo vegliare accanto a lui, e aspettare.

-Non voglio che… che si accorga che io…

Timandra sorrise, sarcastica.

-Non potrai nasconderglielo a lungo, domina. Presto o tardi, si accorgerà che le ferite e le malattie non lo uccidono, che il tempo non segna il suo volto, il suo corpo e i suoi capelli. Ma se proprio non vuoi che cominci a sospettare da subito, quest’ampollina contiene nepente[8]. Cerca di propinargliene qualche goccia, e dormirà finché lo riterrai opportuno. Al suo risveglio, potrai fargli credere che la gravità delle sue condizioni l’aveva tenuto, per diversi giorni, in stato di totale incoscienza. E se ti parlerà di quello che ha visto nel mondo dei trapassati, non ti sarà difficile fargli credere che ha solo sognato.

-Sarà… sarà ancora quello che è stato?

Timandra annuì con un cenno del capo. Sarebbe stato quello di sempre, anche se la vecchiaia e la morte lo avrebbero rifiutato, finché sul mondo avesse continuato a splendere il sole, a soffiare il vento, a cadere la pioggia. Gli sarebbe piaciuto mangiare, bere, fare l’amore… Gli sarebbe piaciuto cavalcare nel vento e tagliare con le sue braccia forti la corrente fredda del fiume. Avrebbe percepito con una sensibilità resa ancora più acuta dalla sua nuova condizione, il piacere. E il dolore. Ma senza il conforto delle lacrime.

-Adesso va’ da lui… E tienigli la mano, mentre la luna illuminerà alla sua anima la strada del ritorno.

 

LA RICOMPENSA

Il corpo di Massimo giaceva ancora inerte sopra un piccolo letto, in una stanzetta al riparo da occhi curiosi. Gli schiavi di Marzia erano stati rapidi, abili e discreti, proprio come lei aveva promesso. Qualcuno aveva provveduto perfino a fasciargli il busto con un vistoso bendaggio, anche se la ferita aveva smesso di sanguinare già da prima che il gladiatore cessasse di vivere.

La finestra inquadrava uno spicchio di cielo acceso dal tramonto e un raggio di sole morente illuminava il viso disteso e sereno di Massimo e l’espressione ansiosa di Lucilla.

-La luna sorgerà a momenti.

-Momenti che mi sembreranno eterni, Marzia. Temo che quella donna mi abbia ingannata.

-Timandra non ha ragione d’ingannare alcuno, Lucilla, te men che meno: qui in città sei ancora considerata una persona molto influente.

-Stai adulando una donna che non è più nessuno, Marzia mia carissima.

-Sei figlia, moglie, sorella e madre di principi, Lucilla.

-Sono figlia, sorella e vedova d’ombre di morti, Marzia.

-Ma tuo figlio vive. Ed è il parente più prossimo del defunto Imperatore.

-Purtroppo per me. E per lui, che è solo un bambino.

Avanti, dimmi quello che vuoi: perché una come te non fa niente per niente, lo so. Vuoi una casa, del denaro? Vuoi andartene lontano da qui? Vuoi che mi prodighi per far arrestare e giustiziare il tuo marito da burla in modo che tu possa amare alla luce del sole il nobile Quinto? O forse sei meno egoista di quello che sembri e stai per chiedermi, col cuore in mano, che io faccia il possibile per fermare la probabile persecuzione che il successore di Commodo inevitabilmente scatenerà a danno dei tuoi correligionari?

L’Augusta si chinò su Massimo, gli accarezzò con tenerezza la guancia barbuta. Era calda, come se davvero…O forse la speranza la ingannava. Quello che non la ingannava era lo sguardo famelico e bruciante della concubina imperiale sul corpo inerte, seminudo del gladiatore bellissimo e maledetto. L’avresti voluto per te, puttana… Pensò stringendo il labbro fra i denti mentre, oltre il giardino che circondava la piccola, lussuosa villa sul colle Palatino, il sole tramontava incendiando il cielo.

La mano sottile di Lucilla scese dalla guancia alla gola… E le sembrò di percepire il pulsare della vena sotto le sue dita.

-Marzia… - gli occhi verdi erano lucidi di lacrime, le labbra le tremavano. - Dimmi solo come posso ricompensarti, sorella mia.

-Dimenticandomi. E facendomi dimenticare, come se non fossi mai esistita. - Le rispose la concubina imperiale, dritta in piedi accanto a lei. Stava per andarsene, e quello che aveva da dire lo disse di fretta. - Ho paura, sorella mia. Ho paura del fuoco dell’inferno, ma anche della sorte che presto o tardi potrebbe toccarmi perché… Tutta Roma sa che sono cristiana, che lo ero… e che lo sarò per sempre, malgrado tutto. Quando mio marito mi gettò in pasto a Commodo, fingevo di non esserlo, e dovevo assistere ai giochi del Circo. E’ un peccato meritevole di scomunica, ma io… Beh, peccati ne ho commessi veramente tanti, un po’ perché l’ho voluto e molto perché mi ci hanno costretta. Tutti quanti, anche i miei correligionari. Tutti sapevano che Marzia era la pedina più importante di uno sporco gioco. Finché quel debosciato dell’Imperatore la vorrà per scaldargli il letto, ai cristiani non succederà niente. Un giorno (Tigidio Perenne, nemico giurato dei cristiani, era ancora Prefetto del Pretorio) assistetti al martirio di una quindicina fra donne, vecchi, ragazzi… Li fecero sbranare da una muta di cani inferociti. Le loro grida, e tutto quel sangue, ossessioneranno per sempre i miei sogni. Ho tanta paura, sorella mia…

-Cercherò di fare quanto è in mio potere per aiutarti. E non ti dimenticherò, stanne certa. Non potrei farlo nemmeno se volessi.

Di Marzia era rimasto solo il profumo che aleggiava nell’aria, e del sole qualche raggio infuocato a giocare contro la linea dell’orizzonte. La luna piena era salita in alto nel cielo e, sotto la sua mano, Lucilla percepiva i deboli battiti del cuore di Massimo. La sua anima stava davvero tornando indietro dal mondo dei morti, pensò. Quindi afferrò l’ampollina che le aveva dato Timandra, si versò qualche goccia di nepente sull’indice e lo passò dentro le labbra socchiuse dell’uomo. Erano morbide, umide e calde, vive come lo erano state l’ultima volta che l’aveva baciata, nelle segrete del Colosseo.

IL RISVEGLIO

Un posto che non erano i sotterranei del Colosseo fu la prima cosa che i suoi occhi, gonfi di sonno e feriti dalla luce, videro al momento del risveglio. Una stanza piccola, ma lussuosamente arredata: tende, tappeti, argento, avorio, legnami pregiati; e un letto soffice, ricoperto di pelli preziose, che abbracciava i suoi muscoli intorpiditi dall’immobilità a cui era stato costretto… Da che cosa? Da quanto?

Non sentiva dolore, solo un buco di fame in fondo allo stomaco e tutto il corpo debole come una corda bagnata. Gli occhi, quelli sì, gli facevano male, la testa gli ronzava come se qualcuno ci avesse chiuso dentro un nido di calabroni impazziti.

-Dove sono?

-Sei salvo e al sicuro, Massimo.

Si mise a sedere, puntellandosi sui gomiti. Un vistoso bendaggio bianco e pulito gli fasciava il torso e la sua pelle odorava di sudore, di mirra e di olio di rose.

-Che cosa ci faccio qui? E perché puzzo come un esercito di baldracche?

-Sei stato molto male, Massimo.

Una voce femminile che aveva sentito tante altre volte: ma non quella della sua donna, che gli era sembrato di tenere tra le braccia e il sogno era così straordinariamente vivo da potersi confondere con la realtà.

-Olivia…

-Lucilla.

-Lucilla… Tu?

Il bel viso della principessa, stravolto dal dolore e dalla disperazione, era stata l’ultima cosa che aveva guardato, prima di crollare sulla sabbia del Colosseo, accanto al cadavere del tiranno. Morto… Lo avrebbe creduto, non si fosse trovato in quella stanza silenziosa e ovattata , con il tanfo dolciastro della mirra, dell’olio di rose, del sangue e del sudore a solleticargli le narici e i lunghi riccioli dorati di Lucilla che gli carezzavano il petto. Ma adesso la donna gli sorrideva anche con gli occhi, dai quali le tante lacrime che doveva aver pianto avevano lavato via la tristezza.

-Da quanto tempo mi trovo qui?

-Dieci giorni. Temevamo… Temevamo che non ce l’avresti fatta, la tua ferita era molto grave.

-Tuo fratello…

-Commodo è morto.

-Mi dispiace.

La guardò con gli occhi torvi di chi sta mentendo. Il succo di papavero aveva ridotto le sue pupille a due minuscoli puntini neri, proprio al centro delle iridi in cui l’azzurro, il verde e l’oro si mescolavano senza fondersi, come succede quando i raggi del sole danzano sulla superficie tranquilla di un lago.

-Non sei obbligato a raccontarmi delle bugie al solo scopo di sembrare pietoso, Massimo. Io e lui avevamo lo stesso sangue ma… era diventato un cane idrofobo, questo lo sapevi anche tu.

Un cane idrofobo? Commodo? Beh, non lo era diventato: lo era sempre stato. Le labbra di Massimo si contrassero in un ghigno sarcastico.

Lucilla distolse lo sguardo, gli chiese se avesse bisogno di qualcosa. Vorrei bere, ho la gola arida e dolorante. Vorrei mettere sotto i denti qualcosa di solido. E vorrei che qualcuno mi togliesse di dosso questa fasciatura che non mi lascia respirare. Perché mi avete fasciato come una mummia? E perché mi sento addosso questa puzza degna del peggior lupanare della Suburra?

-Ti abbiamo fasciato perché la ferita era profonda e il medico temeva che s’infettasse.

…e quello che ti senti addosso è l’odore dell’unguento che si strofina sui cadaveri prima di seppellirli. Perché tu non eri solo ferito, Massimo. Eri morto, e sono stata io che ho voluto ad ogni costo riportarti indietro dall’aldilà. Timandra le aveva detto che sarebbe stato impossibile nascondergli a lungo la verità e le parole della maga tornarono in mente a Lucilla, brucianti come la sete che incendiava la gola arsa di Massimo.

-Ordinerò che ti sia portato subito da mangiare e da bere. Bentornato nel mondo dei vivi… Massimo Decimo Meridio.

 

FAME E SETE

Divorati il pane fresco e la carne arrostita, Massimo chiese da bere.

-Acqua?! Con questa mi ci sciacquerò la bocca, dopo. Fammi portare del vino, Lucilla… Del Falerno non diluito. Per favore.

Per ubriacarti, come faceva Commodo? Lucilla storse la bocca. Quell’abitudine non gliela conosceva, e non le piaceva.

-E’ necessario che tu sia prudente con il cibo e con il vino, Massimo: sei stato molto male, sono dieci giorni che non metti quasi niente nello stomaco, e…

Il viso dell’uomo assunse un’aria cogitabonda.

-Dieci giorni senza mangiare e senza bere… Come ho fatto a sopravvivere?

-Un paio dei miei servi si sono dimostrati particolarmente abili a cacciarti in gola le medicine e a farti inghiottire qualche sorso d’acqua e qualche cucchiaiata di latte mentre eri incosciente. Sembravi…un gattino neonato rifiutato dalla madre.

Lucilla gli sorrise, allungandogli la coppa del vino e sentendo le dita calde di lui sfiorare le sue.

-Un gattino inerme e indifeso, completamente nelle tue mani… Augusta Lucilla.

La guardava in tralice, gli occhi azzurri socchiusi che mandavano bagliori di metallo. Puntellandosi sui gomiti, si sollevò ancora di più a sedere, e il lenzuolo gli scivolò giù per il corpo, scoprendogli il busto muscoloso fin quasi alle anche.

-Vuoi che ti faccia portare un altro cuscino?

-Dell’altro vino, piuttosto. Dicono che faccia sangue, e dovrei averne perso parecchio… - ridacchiò, tastandosi con il palmo della mano la spalla, il petto e lo stomaco. - Sono rimasto dieci giorni quasi senza mangiare e… Non mi sembra di essere dimagrito, rispetto a com’ero. Non è strano?

Non lo so. Non ho mai prestato assistenza a un ferito grave. Tu sei il primo e spero anche l’ultimo, Massimo. Lo pensò, ma non glielo disse, e gli voltò le spalle di proposito, perché lui non notasse il rossore che le aveva imporporato le guance.

-Il dente di lupo. Senza mi sento nudo.

Non era cambiato, rispetto a com’era stato. La voce era quella grave, rauca e sensuale che gli aveva sempre conosciuto e la sua bellezza… Perfino il dolore e la sofferenza erano stati gentili con lui, pensava Lucilla, percorrendo con lo sguardo i tratti quasi delicati induriti dalla barba incolta, gli occhi azzurri, la pelle abbronzata tesa sopra i grossi muscoli e segnata dalle cicatrici:lama di coltello, punta di freccia, taglio di spada… perfino artigli di tigre. Le bianche dita sottili gli accarezzarono il collo, mentre annodavano il lacciolo di cuoio dal quale pendeva il suo portafortuna. Te l’avevo tolto io stessa e l’avevo conservato nel mio scrigno, con gli altri gioielli: perché se fossi morto, avrei voluto che mi rimanesse qualcosa di te.

-Lucilla…

La voce di Massimo era diventata un bisbiglio rauco e la donna ritrasse la mano, come se avesse toccato il fuoco.

-Lucilla, io…

Avrebbe cercato di farle capire ancora una volta che nel suo cuore c’era posto solo per quella moglie che gli avevano ammazzato? O, peggio, la odiava ancora per come l’aveva fatto soffrire dal momento in cui aveva creduto si fosse presa gioco di lui, del bel soldataccio dal quale le era piaciuto lasciarsi baciare e accarezzare, ma stando ben attenta a non compromettersi, perché era la principessa Lucilla, la figlia dell’Imperatore Marco Aurelio, destinata al letto d’un Cesare di Roma, che aveva tutto il diritto di prendersi in moglie una vergine illibata, non certo gli avanzi di un oscuro legionario?

Lo vide abbassare le palpebre, sospirare, accennare a un vago sorriso a labbra chiuse. Come da ragazzo, quando aveva amato il contatto delle mani di lei sulla sua pelle, che fosse casuale o voluto. Come da ragazzo, quando l’aveva desiderata allo spasimo, con il corpo, il cuore e la mente, ma il destino aveva deciso in maniera totalmente diversa.

Lucilla si sedette accanto a Massimo, gli cinse i fianchi con le braccia. Era morbida, e profumata. Come a sedici anni, quando ancora s’illudeva che la sua vita potesse appartenerle per davvero, senza che nessuno scegliesse per lei quello che non voleva. E’ per il tuo bene, Lucilla. Sei la figlia di un Cesare di Roma e, se da questa condizione ti derivano molti privilegi, hai pur sempre dei doveri...

Il dovere di non essere se stessa, pensò mentre baciava il petto di Massimo e gli toglieva via le bende. Il dovere di amare un uomo che non amava e non l’aveva mai amata. Il dovere di mettere al mondo figli nelle cui vene scorresse sangue reale. Il dovere di accettare senza opporsi l’ineluttabilità del destino… Le mani delicate accarezzavano, lievi come piume, la pelle dell’uomo. Era calda, morbida, tesa su una magnifica muscolatura.

-Massimo…

La ferita sulla sua schiena era un minuscolo segno rosso, asciutto e completamente rimarginato. Poco sopra, il marchio a fuoco di Proximo, il suo padrone. Non era più schiavo, ma quel segno non sarebbe mai stato possibile cancellarlo dalla sua carne finché… Finché fosse vissuto, cioè per sempre, pensò Lucilla, e un lungo brivido le attraversò il corpo.

-Lucilla… - gentilmente, l’uomo le strinse il polso.

Adesso scosterai da te la mia mano, rifiuterai le mie carezze. Mi dirai di no ancora una volta, Massimo. Mi dirai di no perché con te sono stata cattiva… tanto tempo fa. Mi dirai di no perché… Perché il fantasma di tua moglie pretende ancora la tua fedeltà… Ma lei è morta, e tu sei vivo, Massimo.

-Lascia perdere, Lucilla: sono impresentabile, ho la barba lunga e puzzo come una vecchia baldracca.

Ah, è solo per questo? La donna gli sorrise, senza distogliere gli occhi dai suoi. Domani ti laverai e ti spunterai la barba, ma io non aspetterò un minuto. Ho aspettato anche troppo e mi sono stancata di doverlo fare ancora.

-Hai ancora… fame e sete, Massimo?

Lui accennò di sì con la testa, gli angoli delle labbra sollevati in un sorrisetto allusivo.

-Ho ancora fame e sete.

Ma non di carne arrosto, di pane e di vino non diluito. Le sollevò il mento con la mano, le cercò la bocca per baciargliela, dapprima dolcemente, un labbro alla volta, quindi con ardore selvaggio: come qualche giorno prima, nelle segrete del Colosseo, quando lui era ancora uno schiavo miserabile, e non un nume immortale.

La tunica di seta scivolò via dal corpo della donna, lasciandola nuda e tremante di freddo, esposta al suo sguardo ardente. Era bella come quindici anni prima, pensava Massimo sfiorandole il piccolo seno con le dita, le labbra e la lingua, sentendola gemere mentre le mordicchiava i capezzoli, glieli lambiva e glieli succhiava. Come quindici anni prima, in quell’ansa tranquilla del fiume, lungo i confini settentrionali. Solo che allora… Ma adesso sarebbe stata sua, perché nessuno dei due avrebbe osato tirarsi indietro. Lo sapeva, prima ancora che lui la penetrasse e, per la prima volta nella sua vita, le regalasse l’estasi.

L’ALBA DEL GIORNO DOPO

-Grazie, Massimo.

-E di che cosa?

Di esistere. Di avermi perdonato, anche se mi sono presa gioco di te e ti ho ingannato, anche se ti volevo esattamente come mi volevi tu. E adesso, non andartene. Roma ha bisogno di te. Ma soprattutto, io ho bisogno di te.

Le braccia strette intorno al suo corpo, la testa posata sul petto, Lucilla gli ascoltava i battiti lenti, regolari del cuore. Avrebbe continuato a pulsare all’unisono con il cuore stesso della terra, finché agli dei fosse piaciuto che il sole e la luna continuassero a sorgere, che il vento soffiasse, che la primavera facesse nascere le foglie e l’inverno cadere la neve, che le nuvole si sciogliessero in pioggia e, nel folto del bosco, la belva divorasse la preda. Il pensiero le fece correre un brivido lungo il solco della schiena e ricordare le parole di Timandra la Maga: “Quello che chiedi potrebbe costarti lacrime di sangue”… Ma, per il momento, le aveva regalato soltanto felicità, a piene mani.

Ma sono io che dovrei ringraziarti, Lucilla. Per questa notte, e non solo. Mi hai detto che, quando ero uno schiavo che metteva a repentaglio tutti i giorni la pelle per il sollazzo della plebaglia e di quel bastardo depravato del sedicente imperatore, tramite un tuo uomo di fiducia hai contattato gli amministratori della mia tenuta di Tergillium e fatto sì che non andasse in rovina. Firmavi a nome mio le missive, ti occupavi in prima persona della contabilità… Come potrei ricompensarti onoratamente, con il poco che ho? Se non fossi così indegno da non osare farlo, ti chiederei di sposarmi. Ma tu sei progenie degli dei, e io non sono nessuno.

Ho dimenticato il passato, Massimo, e non oso ipotecare il mio futuro. Viviamo il presente, e non pensiamo al domani. Non ho il coraggio di pensare a quel che potrebbe riservare, a me e a mio figlio: sono in molti a contendersi il trono che Commodo ha lasciato vacante. Sembrano cani affamati intorno a un osso da spolpare. Lucio è il parente più prossimo di mio fratello, e non ha neppure otto anni. Non voglio che qualcosa di molto più grande di lui gli divori la vita… come l’ha divorata a me.

Tuo padre mi diceva sempre che eri forte, determinata. Che saresti stata un grande Cesare, se solo fossi nata maschio. Vedi, Massimo, gli somigliavo. Proprio come Commodo rassomigliava all’uomo che aveva versato il suo seme nel grembo di mia madre, quell’equites[9] sarmata che sapeva solo cavalcare, ubriacarsi, fottere e ammazzare. E’ da lui che ho preso il coraggio della sopportazione. Te lo ricordi? Avrebbe voluto dedicarsi solo ai suoi studi e alle sue meditazioni, e si è ritrovato schiacciato dal peso del potere. Era un uomo di pace, e ha trascorso metà della sua vita sui campi di battaglia. Credeva nel valore della famiglia, nella lealtà e nell’onore e si è ritrovato con una moglie frivola e infedele, un figlio, che non era nemmeno tale, imbelle, crudele e vigliacco e una figlia che chiedeva solo di vivere la sua vita e che, senza volerlo fare di proposito, ha condannato all’infelicità… Povero padre mio. Mi aveva insegnato che ci vuole più coraggio a sopportare che a ribellarsi. E aveva ragione.

Sono passati più o meno quindici anni, da quando… Mi ricordo. Quindici anni. Tu ne avevi sedici, io diciotto. Tu eri la figlia dell’Imperatore, io un provinciale, figlio di un modesto contadino, e sembrava che la vita, per me, non avesse in serbo niente. Oh, invece la vita ti avrebbe riservato la gloria e l’amore, Massimo… Li hai pagati con il prezzo della sofferenza, ma li hai avuti. Io… Io ho dovuto inghiottire i miei dolori senza avere nient’altro in cambio che pena a non finire, anche se il popolo che mi vedeva sorridere accanto a mio marito o a mio fratello non poteva immaginarlo. Ero ricca, ero bella, ero potente: osare chiedere di più agli dei sarebbe stato l’equivalente di una bestemmia. Non ho mai amato Lucio Vero, né lui ha mai amato me. Eravamo troppo diversi, per età, carattere, abitudini. Gli ho dato un figlio, com’era mio dovere, e poi… Basta, siamo diventati due estranei. Mi tradiva… Mi tradiva con tutte le donne che gli capitavano a tiro e io… L’hai tradito anche tu? Solo con il pensiero, Massimo. E ci sei sempre stato tu soltanto, nei miei pensieri. Invidiavo tua moglie, che poteva darti l’amore che meritavi, mentre io… Mentre tu, l’Augusta, consumavi la tua esistenza nell’infelicità, prima accanto a un marito che non amavi, quindi accanto a quel fratello pazzo, imprevedibile e sanguinario che ti incuteva terrore.

Massimo chiuse gli occhi, sentendo la carezza leggera delle dita di lei sulle guance e sul collo. C’era un qualche cosa d’infantile, nei tratti morbidi e nelle labbra imbronciate, leggermente aperte sul candore dei denti piccoli e regolari. Avremo tempo per noi, ma la prima cosa che voglio fare appena sceso dal letto è lavarmi via quest’odore di dosso: sangue, sudore, mirra e olio di rose. Dove l’ho già sentito? Ti farò preparare un bagno caldo dai miei servi, e lascerò che qualcuno di loro ti aiuti. O a uno schiavo preferiresti… una principessa imperiale per insaponarti i capelli e strofinare quella tua magnifica schiena?

Prova a indovinare, Lucilla… Il sorriso di Massimo s’era fatto malizioso. E la mente della donna tornò a quel giorno di quindici anni prima, sul greto del grande fiume, lungo i confini settentrionali. Lui aveva accarezzato e baciato ogni brandello della sua pelle, e aveva lasciato che lei facesse altrettanto. Ma, al momento del dunque, si era tirato indietro. Quella era una principessa, lui un soldato senza domani, e non aveva da offrirle niente che non fosse il suo ardore. Lucilla aveva pianto lacrime cocenti di delusione, mentre lo guardava stornare la faccia dalla sua e infilarsi i vestiti sulla pelle ancora bagnata. Ma sapeva che, quello, era un discorso solo temporaneamente sospeso. E che lo avrebbe portato a conclusione, avesse dovuto aspettare mille anni ancora.

 

 

 

L’AGGUATO

Non voleva che qualcuno potesse pensare, adesso che era guarito, che Massimo Decimo Meridio, il salvatore di Roma, fosse diventato il mantenuto e il trastullo dell’Augusta ex imperatrice. E’ meglio per me e per te, le aveva detto, comunicandole che un uomo di sua fiducia gli aveva trovato casa. Tanto, potremo vederci ogni volta che lo vorremo.

La casa era una villa fatiscente, mezza diroccata, dalle parti del Celio; benché inabitabile, era circondata da un grande giardino incolto e affiancata da una piccola foresteria non troppo malridotta, quattro o cinque stanze. A lui bastavano. Arredatala spartanamente con un mobilio semplice e ordinario, ci si era trasferito con un servitore zoppo da una gamba e cieco da un occhio che era stato congedato dall’esercito dopo aver servito per anni nelle Legioni di stanza in Oriente.

Avrebbe ripulito il giardino dalle sterpaglie e potato gli alberi, si ripromise. Avrebbe dissodato quella terra indurita e morta, quando fosse giunto il tempo di farlo. Si sarebbe procurato un cane, e un altro cavallo. E avrebbe avuto il modo e il tempo di pensare a cosa farne della sua vita.

Questa bestia ha tutto il diritto di riposarsi. Se l’era detto tante volte, mentre strigliava il mantello del vecchio baio che gli era stato venduto con la villa: un brocco sfiatato che, se non aveva i suoi trentatré anni, poco ci mancava. Dalle parti di Tivoli, un allevatore affidabile vendeva buone bestie da sella, gli era stato detto. E quel giorno aveva deciso di recarsi a fargli visita sperando al contempo che quello potesse essere l’ultimo sforzo che richiedeva al suo vecchio animale prima di collocarlo a riposo.

Indossò una tunica corta color vinaccia stretta in vita da un’alta cintura borchiata, brache di pelle morbida all’uso barbarico, e si avvolse in un lungo mantello nero: era inverno, e faceva un freddo da lupi. Prese con sé del denaro, perché, se avesse trovato un cavallo di suo gradimento, era certo che l’avrebbe acquistato e portato via subito. Non dimenticò la daga: le strade erano infestate di briganti, per i quali non esistevano estate e inverno, ma le sue esperienze nell’esercito e nell’arena avevano finito col fare di lui un osso molto duro, semmai a qualcuno fosse balenata l’idea poco felice di tendergli un agguato allo scopo di rapinarlo.

Gentile alla maniera dei mercanti, Gaio lo fece accomodare dinanzi a un camino scoppiettante e gli offrì da mangiare e da bere. Quindi gli mostrò i cavalli: belle bestie, floride e ben tenute, con gli occhi vivaci e i mantelli lucidi e puliti. Lui scelse un giovane stallone biondo e pagò quel che Gaio gli domandava senza mercanteggiare, come se avesse fretta di andarsene.

-Si è fatto tardi e presto scenderà il buio.Puoi passare la notte qui, domine, e ripartire domani, se lo desideri.

-Ti ringrazio della tua gentilezza, Gaio, ma la città non è così lontana.

-L’aria è fredda, potrebbe nevicare da un momento all’altro…

-Ero di stanza lungo i confini settentrionali fino a due anni fa. Non mi fanno paura quattro fiocchi di neve.

Gli rispose Massimo sulla porta; il suo sorriso gentile tradiva una leggera impazienza. Quindi saltò in groppa allo stallone biondo, afferrò le redini del vecchio baio e si allontanò, lasciando il mercante ad arrovellarsi nella convinzione che a quel bel giovanotto elegante, dai riccioli bruni, dagli occhi azzurri e dal piglio risoluto mancasse qualche rotella, ad andarsene in giro,per giunta da solo, in una simile nottataccia.

La strada era deserta, l’aria gelida. Massimo stava riflettendo sulla situazione dell’Impero, a proposito della quale Lucilla lo aveva edotto senza reticenze: alla morte di Commodo, gli aveva detto, mente lui giaceva incosciente tra la vita e la morte, c’era stato un tentativo, subito abortito, di restaurare la Repubblica. Quindi i Pretoriani, arbitri come sempre della situazione nei momenti di anarchia e disordine, avevano venduto la porpora imperiale al miglior offerente. A spuntarla era stato Elvio Pertinace, un generale valoroso che non capiva niente della politica e dei suoi maneggi; sicuramente sarebbe durato poco, specialmente dopo che i Pretoriani si fossero accorti che non aveva nessuna intenzione di versare loro il denaro pattuito: quei delinquenti sinistramente intabarrati di nero la prendevano molto male quando venivano contrariati ed erano abituati ad andare per le spicce.

Era tutto preso dalle sue riflessioni, quando sentì una voce che lo chiamava con il suo nome. “Generale, sono io…” Io chi? Qualcuno degli uomini che avevano combattuto al suo fianco lungo i confini settentrionali? Scese di sella, esplorò la foschia fredda e lattiginosa del tramonto con i suoi occhi acuti. Forse non era necessario, ma mise ugualmente la mano sull’elsa della spada.

Alcuni grandi alberi spogli bordavano il ciglio della strada, sinistri come scheletri. Dieci uomini spuntarono da dietro quei grossi tronchi. Vestivano modestamente, e non avevano un aspetto ostile. Forse volevano davvero soltanto parlare con lui, magari erano davvero veterani delle Legioni del Nord, o forse si trattava di semplici viandanti che avrebbero avuto piacere ad accompagnarsi al giovane elegante e dal piglio risoluto, per non percorrere da soli la strada verso casa.

-Massimo Decimo Meridio… Questo è un dono che ti manda Sua Maestà Imperiale, il Cesare Publio Elvio Pertinace.

Prima che potesse sfilare dal fodero la sua, sentì la daga di uno degli uomini penetrargli nel ventre. Crollò a terra in un lago di sangue, con gli intestini che fuoriuscivano da un’orrenda ferita e il corpo straziato da dolori che mai avrebbe immaginato di poter provare. Questa volta il fato non gli avrebbe concesso deroghe, pensò, prima di perdere i sensi. Publio Elvio Pertinace aveva visto in lui un possibile rivale, e s’era deciso ad assoldare dei sicari per eliminarlo. Eppure, lui lo aveva conosciuto e sapeva che era un soldato valoroso e un galantuomo.

Il buio che gli accecava gli occhi come il giorno del suo ultimo duello nell’arena non era la notte, pensò. Questa volta non avrebbe avuto scampo. Sarebbe morto in aperta campagna, e il suo cadavere avrebbe sfamato i lupi e i corvi.

RIVELAZIONE

La campagna battuta dal vento gelido e inargentata dalla falce della luna non erano i Campi Elisi. Sentì ululare un lupo in lontananza, i cavalli nitrire inquieti. Non provava dolore, anche se la tunica e le brache erano zuppe di sangue e testimoniavano che l’agguato non era stato un sogno. Si tastò la ferita e sentì, sotto le dita, i muscoli addominali induriti dall’esercizio fisico, il calore della pelle, che era sana a intatta. Non aveva sognato, il dolore l’aveva sentito davvero, come aveva sentito il sangue scorrere portandogli via la vita, come aveva visto gli intestini fuoriuscire dallo squarcio orrendo che qualcuno che voleva la sua morte gli aveva aperto nel corpo. Già, perché ferite simili uccidevano sempre, gli anni trascorsi nell’esercito e l’esperienza dell’arena glielo avevano insegnato.

Non provava il dolore di quando era stato trafitto e la campagna con gli alberi nudi inargentati dalla luna era il tratto di strada che divideva Roma da Tivoli, non il mondo dei trapassati. Un gufo che volava basso quasi gli sfiorò la testa con la punta della sua ala. Non aveva sognato, il sangue, la stoffa strappata dov’era penetrata la punta della daga lo testimoniavano. E se non era stato un sogno… Se non era stato un sogno, doveva essere un sortilegio, pensò, mordendosi a sangue il labbro. Si avvolse nel mantello, per non sentire freddo, e montò in sella: la città non era lontana.

RANCORE

-Lucilla.

E’ solo, e cerca di me. Pensò la donna. Forse ha freddo, la notte è gelida e ha ancora bisogno di qualcuno che gli trasmetta un po’ del suo calore, che lo tenga stretto tra le braccia per scacciare gli incubi dalla sua mente…Massimo il soldato. Massimo il gladiatore. E’ fragile, nonostante tutto. Fragile e sensibile, ed è anche per questo che gli voglio così bene.

-Lucilla.

La sua voce era tesa, e la fiamma della grande lucerna gli illuminava lo sguardo gelido come non gliel’aveva mai visto,i tratti impassibili, immobilizzati in una maschera spettrale che suggeriva l’idea della morte, gli occhi come pozze insondabili d’oscurità.

-Lucilla… Che mi hai fatto?

Lo sguardo di lei lo percorse, e si fermò sulla larga chiazza di sangue che gli imbrattava i vestiti.

-Massimo… sei ferito?

Lo vide scuotere la testa lentamente, senza perdere quella calma che, lo sapeva, era presaga di una gelida collera.

-Sulla strada di Tivoli… Erano in dieci. Uno mi ha cacciato la daga nel ventre fino all’elsa e… E non sono morto, donna…

Un lungo brivido l’attraversò tutta. Prima o poi si accorgerà che le malattie e le ferite non lo uccidono, gli aveva detto Timandra. E ancora: non è detto che non consideri questo tuo dono una maledizione…

-Si vede che non era ancora giunta la tua ora, Massimo…

-Quel genere di ferite uccide sempre. Che mi hai fatto… puttana?

Lucilla sentì la sferzata dell’insulto, poi le dita di ferro che le serravano il collo.

-Mi volevi… Mi hai voluto dal primo momento che mi hai posato gli occhi addosso, ed è solo per questo che mi hai riportato indietro dal mondo dei morti, maledetta puttana…

La spinse fino al letto e ve la gettò sopra. Le avrebbe dato quello che si meritava. Quello che lei voleva. Ma come alle donne dei nemici sconfitti, con rabbia e senza amore. La sentì tremare, schiacciata dal peso del suo corpo. La sentì singhiozzare, implorare. Non è come pensi, Massimo. Mi sentivo in debito con te, perché ti avevo usato. Perché ti ho tradito, quando Commodo mi aveva portato via il bambino e minacciava di ucciderlo, se non gli avessi raccontato quello che sapevo… Non potevo vivere con quel peso sulla coscienza, Massimo…

L’uomo si scostò da lei. Non avrei dovuto farlo, pensava. E ricordò quando, dopo l’assalto a un villaggio in riva al Reno, aveva egli stesso passato a fil di spada due soldati rei di aver violentato una donna.

-Tutto quello che ho fatto… Che fosse giusto o sbagliato… l’ho fatto solo perché ti amo, Massimo…

Il lume della lanterna gli illuminò il solito sguardo di sempre: quello franco di un uomo che, in qualunque circostanza, può camminare in mezzo alla gente tenendo alta la testa.

-Lucilla, lo so.

La strinse a sé e le baciò la bocca teneramente, un labbro alla volta.

-Massimo, perdonami…

Le sorrise, accarezzandole i capelli morbidi e profumati.

-Quello che mi hai fatto è un grande dono, Lucilla. Cercherò… cercherò di esserne degno, sempre e comunque.

FINE PRIMA PARTE

Lalla U. 06/11/01

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[1] Creature mitologiche, vecchie ed orribili.

[2] Amuleto.

[3] Si tratta di un personaggio realmente esistito. Era davvero l’amante di Commodo, ed era cristiana, anche se potrebbe riuscirci difficile conciliare lo stereotipo, tutto mitezza e candore, dei primi seguaci di Cristo con la figura di questa donna, da molti definita malvagia e depravata. Non so molto di lei, ma penso che fosse anch’essa una vittima dei disegni e degli interessi di qualcuno, e come tale ho voluto raffigurarla. (N.d.A.)

 

[4] Era davvero il Papa dei Cristiani quando morì Comodo.

[5] L’ abitazione della povera gente, simile a un moderno condominio ma priva di qualsiasi criterio d’igiene e sicurezza, spesso preda di crolli e incendi.

[6] In attesa di ricevere il battesimo.

[7] Salsa piccante a base di pesce.

[8] Succo di papavero.

[9] Gladiatore che combatteva a cavallo.