Storie de Il Gladiatore |
Storie
ispirate dal film Il Gladiatore |
Lettura sconsigliata ai minori di anni 18 |
Massimo
l’Immortale
VITA
OLTRE LA VITA
Prima Parte
di Lalla Usai
MASSIMO DECIMO MERIDIO, IL GLADIATORE
Era difficile che qualcuno
piangesse gli uomini come lui, il cui destino si chiamava morire. Prima o poi,
ai più capitava, si sa, la ruota della fortuna non gira sempre nella stessa
direzione anche se per i miserabili di quella risma poteva essere consolatorio
crederci. Cento combattimenti vinti. Il rudis, la spada di legno con
inciso il tuo nome sopra l’impugnatura. La libertà, un sogno covato nei recessi
della mente, un incubo che costava il sangue tuo e degli altri ai quali i casi
della vita avevano riservato, in circostanze più o meno diverse, l’identica
sfortuna. Ammazza, o muori. Lui aveva ammazzato ed era stato ucciso.
Dov’era la gente che lo aveva
applaudito? Quando il gelo gli era sceso negli occhi, nella mente e nel cuore,
il grande anfiteatro era ammutolito. Il tirannicida era crollato morto su
quella sabbia rossa del sangue vecchio di centinaia e centinaia di disgraziati,
rossa del sangue del tiranno a cui la sua spada aveva squarciato la gola. Un
attimo, un lampo. Che cercasse giustizia o vendetta, forse neppure lui lo
sapeva. Sapeva che doveva fare presto, perché il gelo della morte dai lombi gli
stava salendo fino al cuore e perché gli occhi non vedevano ormai quasi più
niente. Coraggio, stringi i denti. Stringi i denti, dagli quello che si merita.
Dagli quello che si merita perché si è portato via, con le vite dei tuoi cari,
la tua anima e la tua dignità, prima ancora di cacciarti nella schiena lo
stiletto che ti avrebbe dato una morte lenta e subdola, una morte che della
morte avrebbe avuto l’angoscia, ma non il dolore. Nascondetegli la ferita, e
gettatelo nell’arena, aveva abbaiato il despota agli inservienti, perché tutta
Roma possa guardare con i suoi occhi come muore un bandito. Dovevi essere già
morto da un pezzo, Massimo Decimo Meridio: da quando, a Vindobona, avevo
ordinato ai miei pretoriani di giustiziarti e tu eri riuscito a scappare. Erano
mesi che aspettavo questo momento, sangue bastardo, schiavo, animale…
LUCILLA
Non sembrava morto, semplicemente
addormentato. Lei non aveva mai avuto occasione di vederlo mentre dormiva, solo
quando chiudeva gli occhi per concentrarsi sui suoi pensieri o per sforzarsi di
cacciarne via qualcuno molesto e inopportuno e allora l’espressione della sua
faccia non era certo quella. Ma forse neanche nel sonno aveva mai trovato pace,
perché da lui la vita aveva preteso molto di più di quanto non fosse stata in
grado di offrirgli. Povero Massimo.
Con le dita cariche di anelli,
gli accarezzò il viso bellissimo, sereno nel sonno dell’ultimo riposo. Era
stata lei a chiudergli gli occhi, come avrebbe fatto con uno sposo amato per
davvero e non imposto dalla ragion di stato perché era la figlia
dell’Imperatore e la sua volontà non contava niente.
Presto sarebbe calato il buio.
Molto presto le avrebbero detto è tempo di andare via, Augusta. E lei avrebbe
pensato che era giunto il momento dell’addio definitivo e avrebbe pianto le
ultime lacrime che le restavano da piangere, di nascosto, perché era quella che
era e sarebbe stato indecoroso mostrare le sue debolezze a tutti quanti, anche
agli schiavi addetti alla preparazione dei cadaveri per la sepoltura. Annia
Lucilla Galeria, figlia del Cesare Marco Aurelio,sposa del Cesare Lucio Vero,
sorella dal Cesare Lucio Aurelio Antonino Commodo, il cui cadavere sarebbe
stato sotterrato in una fossa comune e la cui memoria sarebbe stata dannata nei
secoli a venire. Aveva un figlio, pensò. Un bambino di neanche otto anni. Pregò
in silenzio, affinché quegli dei nei quali suo padre aveva fatto finta di
credere gli risparmiassero un destino amaro, negli anni a venire. Doveva pur
esserci un dio capace di stornare il pericolo dalla testa d’un fanciullo di
neanche otto anni, si ritrovò a pensare. O, in realtà, a quegli dei
indifferenti e freddi come il marmo bianco in cui erano scolpiti, dei poveri
mortali non importava nulla, che fossero sangue di re o schiavi, feccia della
terra, come quelli che si muovevano silenziosi nei sotterranei del Colosseo,
davanti alla panca di marmo dove Massimo dormiva il suo sonno ultimo e
definitivo.
“Massimo…” Una lacrima calda le
attraversò la guancia pallida. Massimo, che sembrava addormentato ed era bello
come lo era stato da vivo, di lì a qualche giorno appena sarebbe diventato
vermi, ossa e marciume. Non era mai stata sua, per il destino, i casi della vita,
la volontà degli altri. Non aveva potuto dividere con lui che pochi attimi di
un’esistenza che non le era mai appartenuta. Fosse stata una qualsiasi, come
quella moglie che lui aveva amato e che gli scherani di Commodo gli avevano
ammazzato…Neppure di morire in quel modo, brutalizzata, stuprata, crocifissa e
bruciata quand’era ancora viva le sarebbe importato, perché quella vita breve,
almeno, aveva avuto un senso. La sua, invece, cos’era stata? Un idillio
stroncato prima che potesse diventare amore, il matrimonio d’interesse con un
vecchio e, da ultimo, il terrore angosciante che quel pazzo di Commodo potesse
in qualche modo nuocere al suo bambino. A Lucio, non a lei. Perché di ciò che
sarebbe potuto accaderle se il suo modo di comportarsi fosse, in qualche modo,
dispiaciuto a suo fratello gliene importava come di sapere in anticipo se il
giorno successivo avrebbe portato pioggia o bel tempo: niente.
-Augusta…
Erano venuti a dirle non è più
tempo? O vattene, dobbiamo prepararlo per la sepoltura e sotto il lenzuolo è
nudo? Se si fosse trovata nelle condizioni di spirito adatte, avrebbe riso in
faccia a quella gente ipocrita. Quando aveva visto Massimo nudo per la prima e
unica volta, lei aveva sedici anni, lui diciotto. Era stato lungo i confini
settentrionali, tanto tempo prima. Avevano fatto il bagno in un’ansa tranquilla
del fiume, si erano baciati e accarezzati. Per lei era stata la prima volta.
Prendimi, gli aveva detto. Non pensare a niente, lasciati andare e basta.
Invece l’aveva sciolta dal suo abbraccio, ed era andato ad asciugarsi e a
vestirsi senza guardarla neppure in faccia. Non sapeva ancora che quella donna
non era per lui e non lo sarebbe mai stata. Lo immaginava soltanto, ed era
sempre stato troppo leale e onesto per prendersi di nascosto qualcosa che non
gli apparteneva. Povero Massimo, era stata la sua lealtà a perderlo, la sua
onestà cristallina a scavargli la fossa. Per il bene dell’Impero aveva
sacrificato la sua stessa esistenza, e Roma che cosa gli avrebbe dato in
cambio? Esequie degne di un eroe e da ultimo l’oblio, come sempre succedeva?
-Augusta… Non puoi stare ancora
qui…
-A chi osate dare ordini…
schiavi!
La voce che le uscì di bocca era
un grido stridulo, e qualcuno degli inservienti e degli uomini di fatica,
guardandola così alterata, dovette pensare che non era poi così diversa da
com’era stato suo fratello, Commodo il pazzo che non avrebbe avuto le esequie
dei sovrani e degli eroi ma sarebbe stato sepolto in una fossa comune, quindi
ricoperto di calce viva,come la carcassa di un cane idrofobo.
-Domina…
La vecchia che avanzava sulle
gambe sbilenche reggendo un piccolo bacile d’argento contenente acqua mista ad
essenza di mirra e di rose era quella che, ormai da decenni, era stata chiamata
ad assumersi l’incombenza di preparare i cadaveri per la sepoltura. Doveva
trattarsi d’una puttana ormai da anni in disarmo, della guardiana di qualche
postribolo d’infimo ordine, e i suoi occhi e il suo onore non sarebbero stati
certo compromessi dalla vista di un uomo nudo. Aveva la faccia grinzosa, i
denti marci, ed era brutta quanto le Graie[1].
-Lascia che sia io a farlo. - Le
disse Lucilla, tuffando nell’acqua profumata il lungo velo di seta che s’era
tolta dalla testa.
-Dovevi volergli bene.
Gli occhi cisposi della vecchia
erano buoni, tristi e rassegnati. Lucilla accennò di sì con la testa, mentre
uno schiavo teneva sollevato il corpo possente di Massimo.
Dov’è la ferita che ti ha ucciso?
Pensava la donna. La pelle dell’uomo era intatta, a parte alcune vecchie
cicatrici e i segni ancora rossi delle ferite più recenti. La spada di Commodo
non aveva potuto trafiggergli il petto, protetto dalla corazza, e non gli aveva
neppure tagliato la gola che invece l’armatura lasciava scoperta. Non era
possibile che un uomo del coraggio di Massimo fosse stato colpito alle spalle,
come succede ai codardi… E com’era successo a lui. Ma la ferita che lo aveva
ucciso non gli era stata inferta con la spada. Era piccola come il morso di un
insetto, e non doveva aver sanguinato molto. Lo stiletto o il lungo spillone
con cui era stata inflitta doveva aver perforato il polmone sinistro, e Massimo
era morto soffocato dal suo stesso sangue. O, forse, la punta dello stilo era
stata intinta nel veleno. Commodo. Era stato lui. L’aveva colpito a tradimento,
come un serpente che si nasconde tra le pietre, prima del duello, per fiaccare
la sua resistenza e poterlo uccidere senza rischiare di essere ucciso, anche se
aveva sbagliato a non includere nei suoi calcoli la furia del gladiatore, la
stessa di una belva morente. Ed aveva finito col farne le spese.
-Dio abbia pietà di te, domina… -
Sibilò la vecchia fra i denti guasti e traballanti. Indossava sul corpo
scheletrito una tunica sudicia e dal collo, appeso ad un laccio bisunto, le
pendeva un fascinum[2]:
la Croce dei cristiani.
PRISCA
Quale dio? Il piccolo ebreo
straccione che il Proconsole di Giudea aveva fatto appendere alla croce poco
meno di duecento anni prima? Il figlio del falegname il cui cadavere era stato
fatto sparire da quei quattro fanatici dei suoi seguaci, giusto per darla a
bere al popolino e a un paio di donnette credulone che fosse tornato
dall’aldilà? Lucilla avrebbe riso in faccia a quella vecchia puzzolente, se si
fosse trovata nelle condizioni di spirito adatte a farlo, invece aveva soltanto
voglia di piangere.
-Era un uomo giusto, e deve aver
sofferto tanto. Dio ne terrà conto, nella sua misericordia infinita.
Parlava tenendo semichiusi gli
occhi pallidi e acquosi, che sembravano vedere aldilà di quel che guardavano. Se
ci fosse stato davvero un dio misericordioso e buono, questi non avrebbe
permesso che un uomo come Massimo morisse. Gli dei erano tutti quanti uguali,
se non ostili almeno indifferenti, e delle pene dei poveri mortali non doveva
importargliene proprio un bel nulla. A quello, poi… Ciclicamente, le autorità
scatenavano persecuzioni sistematiche contro quell’accozzaglia di fanatici che
predicavano l’amore e l’uguaglianza e rifiutavano d’inginocchiarsi, com’era
loro dovere, davanti alle statue di Cesare. Piuttosto, preferivano farsi
ammazzare tutti quanti, uomini fatti, ma anche giovinetti, vecchi, donne,
bambini. Dove andavano a finire, in quei frangenti, l’onnipotenza e la
misericordia del loro dio? Perché non scendeva dal cielo a salvarli?
-La pietà del tuo dio non mi
serve, vecchia. Massimo…
-Si chiama così? Massimo. E’… un
uomo molto bello, somiglia ad uno degli angeli guerrieri che montano la guardia
dinanzi al trono dell’Altissimo.
-Non è più, vecchia. Era.
E scoppiò a piangere. Si stupì di
avere ancora lacrime. Non è morto, vive ancora, in un altro mondo, in una
dimensione diversa da questa. Ha trovato la pace, adesso… Prega per lui il dio
in cui credi, principessa. Ma io non credo e non crederò più in niente e
nessuno, vecchia.
-Il mio nome è Prisca, e vorrei
regalarti…
Regalarmi qualcosa? Regalarmi
qualcosa tu, pezzente indegna perfino di baciare la terra dove io, l’Augusta,
la figlia di Marco Aurelio e la vedova di Lucio Vero, Cesari di Roma, poso i
miei calzari?
-Vorrei regalarti… la speranza,
domina.
Lucilla le indirizzò un sorriso
amaro. Quale speranza voleva regalarle, la vecchia stracciona? Quella di
incontrarlo ancora, chissà come, chissà dove e chissà quando? Che ne capiva,
dell’amore che l’aveva accompagnata per tutti quegli anni come un sogno e
un’illusione, e che forse, chissà, si sarebbe anche potuto riaccendere, se lui
non fosse morto in quel modo? Che poteva saperne, decrepita com’era, e
consunta, e rinsecchita e senza più voglie, di quanto lei li avesse desiderati
allo spasimo, la sua pelle, il suo corpo, i suoi baci, quei suoi occhi, che
avevano il colore del mare in tempesta, nei quali avrebbe tanto voluto perdersi
per sempre?
-Siediti qui, vicino a me, e
ascoltami, domina…
Le ubbidì senza neanche rendersi
conto del perché lo facesse. E l’ascoltò parlare mentre le teneva, imprigionata
tra le sue, sudice, macchiate e rinseccolite, la bella mano sottile, carica di
anelli.
Le raccontò di Gesù. Chiamava
alternativamente il profeta della sua setta figlio di Dio e figlio dell’Uomo.
E’ morto perché predicava l’amore, ma dopo tre giorni è tornato dall’aldilà.
Aveva parole di speranza per chi soffriva… Questa vecchia delira, come tutti i
fanatici della sua specie. Pensava Lucilla mordendosi il labbro nervosamente. I
fanatici che suo nonno, il mite Antonino Pio e suo padre, il saggio Marco
Aurelio, avevano sempre cercato di lasciare in pace, contrariamente a molti
loro predecessori che li avevano perseguitati in quanto sovvertitori
dell’ordine costituito. Razza di schiavi e di miserabili, bisognosi di una
speranza che solo l’aldilà poteva loro offrire. Ma non solo: simpatizzanti di
quella setta giudea allignavano ormai anche tra i patrizi, i ricchi cavalieri,
gli alti funzionari dello Stato, i militi e gli ufficiali delle Legioni,
perfino a Corte. Si diceva che Marzia, la puttana di suo fratello, fosse
anch’essa cristiana. Come facesse quella donna a conciliare i precetti austeri
della sua fede con il suo stile di vita per lei era sempre stato un mistero.
-Aveva parole di misericordia per
i peccatori, ed era pietoso con chi soffriva. Quando la bambina di Giairo esalò
l’ultimo respiro, a lui bastò sfiorarle la veste per restituirla guarita e
felice ai suoi genitori.
Lucilla scosse la testa,
impallidì. Era possibile che… No, non crederle, si disse da sé sola. Ti sta
illudendo e, se credessi alle sue fole, dopo soffriresti ancora di più.
-Quando incontrò il funerale del
figlio della vedova, ebbe per lei parole di compassione, e le restituì il
ragazzo, che era il suo unico affetto e la sua unica fonte di sostentamento.
Lazzaro… Lazzaro se n’era andato da diversi giorni e il suo corpo si stava già
putrefacendo nel sepolcro, quando Lui lo chiamò indietro dal mondo dei morti.
Lucilla serrò le palpebre per non
guardarla, mentre diceva quello che diceva. Era assurdo tutto quanto, i morti
tornati dall’aldilà, la resurrezione del Profeta a tre giorni dalla sua
esecuzione capitale. Eppure quelle assurdità, al momento, erano l’unica
speranza che le restasse.
-Nella sua infinita misericordia,
Nostro Signore Gesù Cristo ha conferito ai suoi seguaci il potere di operare
miracoli nel suo nome.
-Prisca…
Sentì che le mani ossute della
vecchia non stringevano più le sue. E, quando riaprì gli occhi, altro non vide
se non le pareti scabre illuminate dal riverbero delle torce e i lineamenti
regolari, quasi delicati, di Massimo distesi e sereni nel riposo del sonno
senza risveglio.
MARZIA[3]
L’aveva sempre detestata, per
quello che era, una piccola arrivista di origini oscure, e per come era riuscita
ad insinuarsi, una goccia alla volta, alla maniera di certi veleni, nella mente
e nel cuore di suo fratello, per come aveva fatto di lui ciò che aveva voluto.
Suo fratello. Lo era solo per metà, a detta di tutti quanti e, per quanto duro
fosse, lei non aveva faticato ad accettare quella realtà, da subito. Sua madre,
Faustina, la figlia del Cesare Antonino Pio, era notoriamente una poco di buono
che, come altre gentildonne sue pari, si era spesso concessa amori proibiti con
i poveracci destinati a farsi ammazzare nell’arena per il sollazzo della
plebaglia. Tutta Roma lo sapeva, eccetto suo padre che, povero illuso,
continuava a crederla fedele e intemerata come le matrone dei bei tempi andati.
E non fosse bastata la faccia di Commodo a provarlo… Non somigliava a suo
padre, che era gracile, emaciato, già vecchio a meno di cinquant’anni. Quello
che Marco Aurelio s’era illuso fosse sangue del suo sangue era in realtà
progenie di un gladiatore sarmata, da cui aveva preso i capelli chiari, gli
occhi azzurri slavati, la corporatura gagliarda, i gusti rozzi e volgari,
l’amore smodato per il vino non diluito, le puttane, i giochi del Circo… Quel
Commodo a cui il potere aveva dato alla testa come e forse più delle porcherie
che buttava giù per ubriacarsi come una spugna e dimenticare la sua pochezza.
Quel Commodo che Marzia aveva manovrato come un burattino per riuscire a
diventare quella che era diventata.
-Augusta Lucilla! Qual buon
vento…
Un vento di morte e una debole
speranza che forse si alimenta d’illusioni. Ma tu non mi puoi capire, perché
non sai amare, Marzia.
L’aria intorno alla donna
aleggiava del suo profumo. Non l’aroma leggero dei fiori ma quello pesante e
dolciastro che, sotto i cieli dell’Oriente, fa ululare gli zibetti alla luna.
Gli occhi, scuri e scintillanti sotto l’arco delicato delle sopracciglia erano
bistrati di nero e i lunghi capelli corvini, ricciuti come quelli di
un’africana, cosparsi di polvere d’oro.
-Marzia…
-Da quanto tempo non mi rivolgevi
la parola, Augusta Lucilla?
Non c’era traccia di rimprovero
nelle sue parole, solo un’ironia lieve come il sorriso che le scopriva appena
la punta dei denti candidi e le disegnava profonde fossette sulle guance
olivastre. Una bella donna, elegantemente vestita e doviziosamente
ingioiellata. L’amante per la quale Commodo aveva scacciato dal palazzo la
moglie aristocratica impostagli dal padre. Forse l’unica persona per cui il
giovane fosse riuscito a provare affetto. E lei? Ma non c’erano dubbi che
l’avesse usato per gli sporchi tornaconti suoi e del suo socio in malaffare,
quel greco depravato, quell’Ecletto che aveva sposato e che di sicuro non
ricambiava il suo amore, visto come i gusti che ostentava spudoratamente
fossero orientati in tutt’altra direzione.
-Ho bisogno del tuo aiuto,
Marzia…
Ancora? Credevo che non mi
avresti chiesto più niente, dopo aver saputo che, la sera prima del duello
nell’Anfiteatro, avevo propinato a Commodo una pozione per fiaccare le sue
forze. L’imperatore, pazzo, debosciato, bestemmiatore degli dei, schiavo del
vino e dei suoi vizi, stava diventando un pericolo per Roma…Beh, provavo
affetto per lui, un tempo non molto lontano. Perché era bello, e forte, e
potente. Perché mi aveva scelta, anche se non ero nessuno. Ma chi non
ucciderebbe il suo cane preferito, se questi diventasse idrofobo?
-Devi essere proprio disperata,
Lucilla, se sei venuta a cercarmi.
E che cosa fiacca le resistenze
di una donna se non il mal d’amore? L’aveva vista con i suoi occhi mordersi a
sangue le mani, la sera del duello nell’Anfiteatro, l’aveva vista precipitarsi
nell’arena quando quel gladiatore che la gente aveva soprannominato Ispanico
era crollato a terra senza vita. Si chiamava…Massimo? Un gran bell’uomo, non
c’era dubbio. Lineamenti delicati, profilo da medaglione, occhi azzurri, il corpo
che avrebbe avuto Ercole, non fosse stato una delle tante menzogne inventate
dai pagani.Prima di cadere in disgrazia era stato un grande generale e chi
l’aveva conosciuto allora lo definiva un uomo perspicace, probo e coraggioso.
Sicuramente Lucilla, la principessa superba e schizzinosa, sapeva bene come
quell’uomo fosse bravo a fottere anche quando non era ormai più nessuno, solo
uno schiavo che tanfava di cavallo, di sudore e di sangue , suo e degli altri.
-Dicono che tu sia cristiana.
E con ciò? Cristiana…Le brave
donne cristiane hanno orrore del peccato, sono fedeli al marito, non saltano da
un letto all’altro per poter soddisfare i loro sporchi tornaconti, non si
agghindano come baldracche e non propinerebbero una pozione drogata neanche al
demonio in persona, figurarsi all’uomo che amano, seppure di un amore che puzza
di depravazione e di vizio da dieci miglia.
-Non lo so neppure io quello che
sono, Lucilla carissima.
So solamente che ho perso il
ricordo del passato e che non ho futuro. Ho dimenticato la mia infanzia felice
e la mia adolescenza fatta di stenti. Ho dimenticato le mie nozze da burla con
il cubicolario pederasta dell’Imperatore, a cui ero stata venduta come una
merce per arrivare, passando dalla porta principale, nella camera da letto di Commodo.
E lo sai chi mi aveva venduta per un pugno d’oro? Proprio gli zii che mi
avevano accolta in casa per carità, quando i miei genitori erano morti e mi ero
ritrovata senza altri parenti e, quel che è peggio, senza un soldo. Già, loro.
Loro e un prete cristiano. Sacrificando me, speravano di stornare l’ennesima
persecuzione dalla testa dei nostri correligionari… Ho dovuto sottostare al
gioco, Augusta Lucilla, e adesso sono quella che sono, una peccatrice destinata
alla dannazione eterna. Se pensi che, da bambina, avevo promesso di votare a
Dio la mia verginità…
-Anzi, no, una cosa la so con
certezza: noi donne siamo soltanto pedine nelle mani degli uomini. Pedine di un
gioco crudele, la cui posta è alta e da cui nessuno è libero di ritirarsi
quando si è stancato di giocare.
La voce della concubina si fece
cupa, prima di affievolirsi in un rantolo che sapeva di lacrime non versate.
Marzia si alzò dalla sedia, e baciò su entrambe le guance la sorella di
Commodo, sollevandosi sulle punte dei piedi poiché, al contrario dell’altra,
era piccola di statura quasi come una bambina.
Anch’io sono stata usata come la
pedina di un gioco, anche la mia vita non è mai stata mia. Mio padre, mio
marito, mio fratello hanno fatto di me uno strumento nelle loro mani. E l’unico
uomo che ho amato per davvero… Adesso è morto, Marzia…
-Dimmi quello che sei venuta a
chiedermi, Lucilla.
I grandi occhi neri mandavano
bagliori di brace. Se potrò aiutarti lo farò…Ti ho sempre detestata, ma adesso
mi fai pena. Doveva essere proprio bravo, a farti godere, quel gladiatore dagli
occhi azzurri e dalle spalle poderose.
-Tu conosci il Sommo Sacerdote
dei Cristiani.
-Il pontefice Vittore?[4]
Ti accompagnerò da lui adesso stesso.
VITTORE
Oggi, e poi domani, pensava
Lucilla mentre attraverso le tendine della lettiga, vedeva, spiattellate con
crudeltà in tutta la loro bruttura, le varie facce della miseria e fiutava gli
odori fetidi d’immondizia e d’escrementi del Velabro, uno dei peggiori
quartieri dell’Urbe. Domani lo seppelliranno, e sarà tardi, morirà anche
l’ultima speranza, quando il suo corpo avvolto nel sudario verrà rinchiuso nel
sepolcro. Per non sentirsi male, si coprì le narici con una pezzuola profumata,
cosa che, nell’altra portantina, sicuramente la bella Marzia non stava facendo:
a quel puzzo aveva fatto il naso quando, dopo la morte dei genitori, plebei
cristiani benestanti, era stata costretta a trasferirsi proprio lì, presso
certi zii, plebei cristiani miserabili, in un’insula[5]
sbilenca e maleodorante dove dentro due stanze ci stavano in sette. Che i
cristiani fossero gentaglia quella non era una novità, ma Lucilla trovò
alquanto strano che il loro pontefice vivesse in un posto come quello, una
stamberga fatiscente fianco a fianco con una bettola e un bordello, che
sembrava stesse in piedi per miracolo. Scesa dalla portantina,dovette sollevare
le vesti per evitare di tuffarle nelle pozzanghere dove galleggiavano
immondizie d’ogni genere, dalle piume di gallina, alle carogne di animali
morti, agli escrementi umani, e, sempre con le vesti sollevate, seguì per i due
piani d’una scaletta sconnessa e tarlata, Marzia che la precedeva.
Il pontefice Vittore era ancora
abbastanza giovane, ma la barba arruffata e i capelli lunghi e unti come il
vello sudicio delle pecore gli regalavano parecchi anni in più di quelli che
doveva avere. Indossava una lunga tunica logora sotto una dalmatica coperta di
ricami eseguiti con mano maldestra, che dovevano rappresentare simboli sacri o
esoterici: pesci, croci, sigle misteriose… Dei cristiani, Lucilla non sapeva
molto. Suo fratello li aveva disprezzati cordialmente, aveva riso della loro
melensa mitezza e della stravaganza delle idee che si portavano appresso, li
aveva detti codardi e vigliacchi quanto e più dei conigli, ma non li aveva
fatti perseguitare. Doveva essere stata Marzia a chiederglielo, nello stesso
modo in cui aveva chiesto, e ottenuto, prestigio, ricchezze, poteri occulti e,
infine, le teste dei Prefetti del Pretorio Tigidio Perenne e Cleandro, per
spianare la strada all’ultimo dei suoi amanti, Quinto Emilio Leto. E Commodo
non aveva mai negato niente a quella donna.
L’uomo la trattò come una
qualsiasi, probabilmente perché neppure l’aveva riconosciuta. Lucilla notò che
aveva le unghie nere, e le dita sporche d’inchiostro.
-Sei già cristiana, figlia mia… O
ancora catecumena[6]?
Il pontefice aveva una voce
piatta, monocorde e lo stesso sguardo acquoso della vecchia Prisca nei
sotterranei del Colosseo. Come tutti gli adepti della sua setta, usava spesso,
e a sproposito, i termini figlio, fratello, sorella. La familiarità con cui
quell’uomo sudicio e scheletrito la trattava infastidì non poco Lucilla che a
stento si trattenne dal rimproverarlo e dal rivelarglisi: erano altri, e ben
più importanti, i motivi per cui lo aveva cercato.
No, non sono niente, solo una
donna disperata, che ha riposto in te e nel tuo dio le ultime speranze… Non mi
hai riconosciuta? Eppure, chiunque mi riconoscerebbe in questa città.
Papa Vittore osservò la donna che
gli stava davanti: una dama dell’aristocrazia di una trentina d’anni, alta,
elegante e bella. Erano finiti i tempi in cui la sua religione attirava
unicamente le simpatie di schiavi, miserabili e diseredati.
-Mi hanno riferito che il profeta
della tua setta era capace di resuscitare i morti.
-Gesù operò guarigioni, scacciò i
demoni dagli invasati, riportò in vita persone morte… E, a tre giorni dalla sua
esecuzione capitale, ritornò dall’Aldilà, com’era stato profetizzato fin dai
tempi dei tempi.
-Era un mago, questo tuo Gesù?
-Era il figlio di Dio fatto uomo.
E’ una donna astuta,
manipolatrice, abituata a comandare. Ha lo sguardo duro, nonostante si capisca
che deve aver pianto tutte le sue lacrime. E non è venuta a chiedermi il
battesimo, ma qualcosa di ben diverso… Papa Vittore si mise in guardia, come un
animale selvatico che abbia fiutato un pericolo nascosto.
-E’ vero che quel vostro… profeta
aveva concesso ai suoi seguaci il potere di operare miracoli nel suo nome?
Vittore non abbassò la guardia.
Poteva venire un pericolo, come no, da quella bella dama alta e sottile,
vestita di bianco con squisita, elegante semplicità. Era un uomo, malgrado si
fosse votato totalmente a Dio, e non gli sfuggirono i lineamenti fini e
aristocratici, gli occhi verdi dallo sguardo malinconico, i riccioli dorati che
facevano capolino sotto il lembo della stola che le velava la testa, il
delicato profumo di fiori che impregnava le sue vesti. Ma sapeva bene che il
demonio conosce mille astuzie per perdere gli uomini.
-Il nostro Imperatore è morto, lo
sai?
Lo sapeva. Commodo era stato
ammazzato nell’arena durante uno dei consueti duelli che aveva sempre amato
concedersi con i gladiatori: questa volta la situazione gli era sfuggita di
mano…E il potere era rimasto vacante. Che cosa sarebbe successo, dopo? Pur
essendo stato fin dalla più tenera età una sentina di tutti i vizi possibili e
immaginabili, Commodo aveva lasciato in pace i cristiani. Sicuramente il suo
successore, un senatore ambizioso, un generale, o chissà chi altro, si sarebbe
comportato in maniere del tutto diversa.
-Il nostro Imperatore è morto, lo
so. Dio abbia misericordia della sua anima.
-Potrei… Potrei renderti ricco,
se…
-Se operassi il miracolo di
riportarlo in vita? Io sono solo un povero peccatore, il servo dei servi di
Dio. E non sono capace di tanto, domina.
-Non ti chiedo d’aver
misericordia di lui… Ma dell’uomo che è morto per liberare Roma dalla tirannia.
E di me, che lo amavo più della mia stessa vita.
Massimo. Un valoroso giovane
generale, un galantuomo caduto in disgrazia e costretto a giocarsi la pelle
nell’arena. Vittore aveva sentito parlare di lui, anche se non l’aveva mai
visto combattere: assistere a simili spettacoli era, per i cristiani, peccato
mortale, punibile con l’interdetto e la scomunica.
-Noi uomini non possiamo cambiare
a piacimento i disegni di Dio, figliola. Pregherò per te… e per lui, affinché
possa riposare in pace, povero ragazzo.
LA SUBURRA
E io? L’avrò mai la pace che
cerco? Me la pagherai, e cara, cane di un cristiano… Lo guardò fisso, gli occhi
cattivi come lame affilate, la bocca dura che non proferiva parola, prima di
voltare le spalle alla sua figura scheletrita e alla sua sudicia casa, prima di
gettarsi tra le braccia di Marzia singhiozzando come una disperata, incurante
di quelli che passavano e la guardavano.
-Lo immaginavo. Ma non è finita…
Ordinerò immediatamente ai miei servi di rubare il suo cadavere, di portarlo
nella tua casa sul Palatino. Non è difficile far sparire il corpo di un morto,
l’hanno già fatto altre volte e sanno benissimo cosa gli capiterebbe se non
riuscissero ad essere più che discreti. Ma questa è una faccenda che ci
riguarda fino a un certo punto. Comanda ai tuoi schiavi di seguire la mia
portantina, e non fare domande: se ci tieni, mi ringrazierai dopo, a lavoro
concluso.
Lucilla si lasciò sfuggire un
sospiro. Guardati da chi ti promette false speranze, si disse da sé sola. Ma,
nello stesso tempo, non voleva lasciare niente d’intentato: forse, dove non
aveva potuto, o voluto, il Pontefice dei Cristiani, avrebbe potuto, e voluto,
un sacerdote egizio, un mago siriano, qualche strega della Tessaglia…
Specialmente se, sotto i suoi occhi avidi, qualcuno avesse fatto balenare il
riflesso irresistibile dell’oro.
Marzia era una donna piena di
risorse, pensava, seguendo dalla sua la portantina della favorita muoversi in
quel dedalo di stradacce puzzolenti, scansare la folla stracciona, i mendicanti
che imploravano tendendo le mani sudice un obolo di elemosina, i cani randagi e
rognosi, i lenoni e le loro vecchie prostitute con le parrucche gialle, i venditori
di frittelle bisunte, garum[7]
di pessima qualità e impiastri altrettanto maleodoranti per colorare le
guance, schiarire i capelli, estirpare la peluria dalle gambe.
Non fosse stata sopra un’altra
portantina, le avrebbe chiesto dove mi stai portando, cagna? Non fosse stata
sopra un’altra portantina, e non avesse avuto il peso del mondo a schiacciarle
il cuore. Non fosse stata sopra un’altra portantina, e non avesse avuto quel
piccolo barlume di speranza a scaldarle la vita. Finse d’ignorare che quel luogo
dove stava passando era la Suburra, il quartiere più miserabile e malfamato
della città, e che non mancava molto al tramonto. Cercò di scacciare la paura
pensando a Marzia. Era coraggiosa, determinata. Era intelligente. E
spregiudicata. Era stata capace di far ballare sulla punta di un dito Commodo
il pazzo, il terrore di Roma, di fargli fare sempre ciò che lei voleva e,
malgrado affermasse di amarlo e di credere in un Dio di misericordia, non si
era tirata indietro, quando s’era trattato di dare il suo contributo per farlo
fuori. Suo fratello era stato succube di quella femmina diabolica. Come
spiegare diversamente il fatto che, nonostante il suo serraglio fosse pieni di
donne molto più belle di lei, l’avesse sempre preferita alle altre? Forse aveva
saputo dargli qualche momento di felicità, malgrado tutto, pensava Lucilla.
Adesso, quella felicità forse ingannevole la prometteva a lei: e, strano a
dirsi, in cambio di niente.
TIMANDRA
L’abituro dove Marzia la invitava
ad entrare non era molto diverso dalla stamberga di Papa Vittore e il suo
interno sarebbe stato buio come la bocca di un forno, non fosse stato a
malapena rischiarato dalle fiammelle giallognole di alcune piccole lanterne ad
olio collocate sopra mensole d’ordinario legno di castagno.
La donna stava seduta, con
l’attitudine di una regina, sopra uno scranno ricoperto di vecchie pelli
tarlate. Nonostante la debole illuminazione, Lucilla notò gli splendidi zigomi
e gli occhi gialli, tagliati a mandorla come quelli di una pantera. Doveva
essere stata una bella donna, chissà quanti anni prima: i capelli spruzzati di
grigio e le braccia scarnite denunciavano un’età più che matura. Vestiva
completamente di nero e due pesanti pendenti d’oro le deformavano in maniera quasi
grottesca i lobi delle orecchie.
-Che cosa sei venuta a chiedere a
Timandra di Tessaglia, domina?
Timandra di Tessaglia, la strega.
Il buio e il lutto si addicevano a quella sacerdotessa di Ecate la Nera,
esperta di magia e di venefici. Erano in molti a rivolgersi a lei, per curare
le malattie che i medici non riuscivano a guarire, perché i dardi incendiari di
Cupido infiammassero gli animi freddi di chi non voleva amare… E per uccidere.
-Questa donna, che mi è amica, è
venuta a proporti una sfida alla quale forse non ti sei mai assoggettata,
grande Maga…
-Marzia… Lascia che sia lei a
parlare.
-Ha il cuore distrutto dal dolore
e mi ha chiesto di farlo al suo posto.
-Perché è triste e disperata?
-L’uomo che amava è morto ieri.
Assassinato.
-Ah.
E saettò il suo sguardo tagliente
sopra la donna che le stava davanti muta e sconsolata ma non chinava la bella
testa coperta da un lembo della stola. Una donna ricca, e non solo. Anche
potente. Come quell’altra, che, la conosceva bene, era stata l’amante dell’Imperatore.
Forse perfino di più.
-Tu sei Lucilla, figlia del
Cesare Marco Aurelio, vedova del Cesare Lucio Vero, sorella del Cesare Lucio
Antonino Commodo…
E tu sei Timandra
l’avvelenatrice, Timandra la strega e vorrei chiederti…
-L’Augusta vuole chiederti di
riportare indietro dal mondo dei morti Massimo Decimo Meridio, il gladiatore
che la gente chiamava l’Ispanico.
Hai comprato da me veleni,filtri
d’amore, pozioni abortive, nobile Marzia…E adesso mi chiedi di riportare in
vita un morto. Timandra, al pensiero, sorrise, ma il buio nascose la smorfia
che, improvvisa, le aveva piegato per un solo attimo le labbra sottili e dure
nella parodia di un sorriso. Ti dici cristiana… e fai cose che il profeta della
tua setta non approverebbe di certo.
-Lasciaci sole.
E Marzia tornò alla portantina
che l’attendeva in strada, facendo fluttuare i veli che odoravano di muschio e
sandalo. L’avrebbe aspettata lì, sicura che il colloquio sarebbe stato breve.
-Ti pagherò a peso d’oro questo
servigio…grande Maga.
-Non lo metto in dubbio. - le
rispose questa parlando nella sua lingua, il greco. - Ho pietà del tuo grande
dolore e ti prometto che non sarò esosa. Ma…
-Vuoi abbandonarmi anche tu,
come… come…
-Come il Papa dei Cristiani? Io
non ho tutti i suoi scrupoli, ma voglio metterti in guardia. Quello che intendi
fare, potresti essere costretta a pagarlo con lacrime di sangue.
-Non me ne importa niente.
-Lui… La morte, la vecchiaia e le
malattie lo rifiuteranno finché sul mondo sorgerà il sole, e non è detto che…
non arrivi a considerare una maledizione questa vita senza fine che intendi
regalargli.
-Ho detto che non me ne importa
niente.
-Quale età aveva, quando l’hanno
ammazzato?
-Trentatré anni.
-Era nel fiore della giovinezza.
Li avrà per sempre, mentre tu invecchierai, e…
Lucilla scosse la testa,
sbattendo sgarbatamente sopra il tavolo un sacchetto in pelle gonfio di pezzi
d’oro. Niente l’avrebbe fatta desistere dal suo proposito: lo sapeva, e lo
sapeva anche Timandra.
-La luna piena, questa notte, guiderà
la sua anima a percorrere a ritroso il cammino. Tu dovrai solo vegliare accanto
a lui, e aspettare.
-Non voglio che… che si accorga
che io…
Timandra sorrise, sarcastica.
-Non potrai nasconderglielo a
lungo, domina. Presto o tardi, si accorgerà che le ferite e le malattie non lo
uccidono, che il tempo non segna il suo volto, il suo corpo e i suoi capelli.
Ma se proprio non vuoi che cominci a sospettare da subito, quest’ampollina
contiene nepente[8]. Cerca di
propinargliene qualche goccia, e dormirà finché lo riterrai opportuno. Al suo
risveglio, potrai fargli credere che la gravità delle sue condizioni l’aveva
tenuto, per diversi giorni, in stato di totale incoscienza. E se ti parlerà di
quello che ha visto nel mondo dei trapassati, non ti sarà difficile fargli
credere che ha solo sognato.
-Sarà… sarà ancora quello che è
stato?
Timandra annuì con un cenno del
capo. Sarebbe stato quello di sempre, anche se la vecchiaia e la morte lo
avrebbero rifiutato, finché sul mondo avesse continuato a splendere il sole, a
soffiare il vento, a cadere la pioggia. Gli sarebbe piaciuto mangiare, bere,
fare l’amore… Gli sarebbe piaciuto cavalcare nel vento e tagliare con le sue
braccia forti la corrente fredda del fiume. Avrebbe percepito con una
sensibilità resa ancora più acuta dalla sua nuova condizione, il piacere. E il
dolore. Ma senza il conforto delle lacrime.
-Adesso va’ da lui… E tienigli la
mano, mentre la luna illuminerà alla sua anima la strada del ritorno.
LA RICOMPENSA
Il corpo di Massimo giaceva
ancora inerte sopra un piccolo letto, in una stanzetta al riparo da occhi
curiosi. Gli schiavi di Marzia erano stati rapidi, abili e discreti, proprio
come lei aveva promesso. Qualcuno aveva provveduto perfino a fasciargli il
busto con un vistoso bendaggio, anche se la ferita aveva smesso di sanguinare
già da prima che il gladiatore cessasse di vivere.
La finestra inquadrava uno
spicchio di cielo acceso dal tramonto e un raggio di sole morente illuminava il
viso disteso e sereno di Massimo e l’espressione ansiosa di Lucilla.
-La luna sorgerà a momenti.
-Momenti che mi sembreranno
eterni, Marzia. Temo che quella donna mi abbia ingannata.
-Timandra non ha ragione
d’ingannare alcuno, Lucilla, te men che meno: qui in città sei ancora
considerata una persona molto influente.
-Stai adulando una donna che non
è più nessuno, Marzia mia carissima.
-Sei figlia, moglie, sorella e
madre di principi, Lucilla.
-Sono figlia, sorella e vedova
d’ombre di morti, Marzia.
-Ma tuo figlio vive. Ed è il
parente più prossimo del defunto Imperatore.
-Purtroppo per me. E per lui, che
è solo un bambino.
Avanti, dimmi quello che vuoi:
perché una come te non fa niente per niente, lo so. Vuoi una casa, del denaro?
Vuoi andartene lontano da qui? Vuoi che mi prodighi per far arrestare e
giustiziare il tuo marito da burla in modo che tu possa amare alla luce del
sole il nobile Quinto? O forse sei meno egoista di quello che sembri e stai per
chiedermi, col cuore in mano, che io faccia il possibile per fermare la
probabile persecuzione che il successore di Commodo inevitabilmente scatenerà a
danno dei tuoi correligionari?
L’Augusta si chinò su Massimo,
gli accarezzò con tenerezza la guancia barbuta. Era calda, come se davvero…O
forse la speranza la ingannava. Quello che non la ingannava era lo sguardo
famelico e bruciante della concubina imperiale sul corpo inerte, seminudo del
gladiatore bellissimo e maledetto. L’avresti voluto per te, puttana… Pensò
stringendo il labbro fra i denti mentre, oltre il giardino che circondava la
piccola, lussuosa villa sul colle Palatino, il sole tramontava incendiando il
cielo.
La mano sottile di Lucilla scese
dalla guancia alla gola… E le sembrò di percepire il pulsare della vena sotto
le sue dita.
-Marzia… - gli occhi verdi erano
lucidi di lacrime, le labbra le tremavano. - Dimmi solo come posso
ricompensarti, sorella mia.
-Dimenticandomi. E facendomi
dimenticare, come se non fossi mai esistita. - Le rispose la concubina
imperiale, dritta in piedi accanto a lei. Stava per andarsene, e quello che
aveva da dire lo disse di fretta. - Ho paura, sorella mia. Ho paura del fuoco
dell’inferno, ma anche della sorte che presto o tardi potrebbe toccarmi perché…
Tutta Roma sa che sono cristiana, che lo ero… e che lo sarò per sempre,
malgrado tutto. Quando mio marito mi gettò in pasto a Commodo, fingevo di non
esserlo, e dovevo assistere ai giochi del Circo. E’ un peccato meritevole di
scomunica, ma io… Beh, peccati ne ho commessi veramente tanti, un po’ perché
l’ho voluto e molto perché mi ci hanno costretta. Tutti quanti, anche i miei correligionari.
Tutti sapevano che Marzia era la pedina più importante di uno sporco gioco.
Finché quel debosciato dell’Imperatore la vorrà per scaldargli il letto, ai
cristiani non succederà niente. Un giorno (Tigidio Perenne, nemico giurato dei
cristiani, era ancora Prefetto del Pretorio) assistetti al martirio di una
quindicina fra donne, vecchi, ragazzi… Li fecero sbranare da una muta di cani
inferociti. Le loro grida, e tutto quel sangue, ossessioneranno per sempre i
miei sogni. Ho tanta paura, sorella mia…
-Cercherò di fare quanto è in mio
potere per aiutarti. E non ti dimenticherò, stanne certa. Non potrei farlo
nemmeno se volessi.
Di Marzia era rimasto solo il
profumo che aleggiava nell’aria, e del sole qualche raggio infuocato a giocare
contro la linea dell’orizzonte. La luna piena era salita in alto nel cielo e,
sotto la sua mano, Lucilla percepiva i deboli battiti del cuore di Massimo. La
sua anima stava davvero tornando indietro dal mondo dei morti, pensò. Quindi
afferrò l’ampollina che le aveva dato Timandra, si versò qualche goccia di
nepente sull’indice e lo passò dentro le labbra socchiuse dell’uomo. Erano
morbide, umide e calde, vive come lo erano state l’ultima volta che l’aveva
baciata, nelle segrete del Colosseo.
IL RISVEGLIO
Un posto che non erano i
sotterranei del Colosseo fu la prima cosa che i suoi occhi, gonfi di sonno e
feriti dalla luce, videro al momento del risveglio. Una stanza piccola, ma
lussuosamente arredata: tende, tappeti, argento, avorio, legnami pregiati; e un
letto soffice, ricoperto di pelli preziose, che abbracciava i suoi muscoli
intorpiditi dall’immobilità a cui era stato costretto… Da che cosa? Da quanto?
Non sentiva dolore, solo un buco
di fame in fondo allo stomaco e tutto il corpo debole come una corda bagnata. Gli
occhi, quelli sì, gli facevano male, la testa gli ronzava come se qualcuno ci
avesse chiuso dentro un nido di calabroni impazziti.
-Dove sono?
-Sei salvo e al sicuro, Massimo.
Si mise a sedere, puntellandosi
sui gomiti. Un vistoso bendaggio bianco e pulito gli fasciava il torso e la sua
pelle odorava di sudore, di mirra e di olio di rose.
-Che cosa ci faccio qui? E perché
puzzo come un esercito di baldracche?
-Sei stato molto male, Massimo.
Una voce femminile che aveva
sentito tante altre volte: ma non quella della sua donna, che gli era sembrato
di tenere tra le braccia e il sogno era così straordinariamente vivo da potersi
confondere con la realtà.
-Olivia…
-Lucilla.
-Lucilla… Tu?
Il bel viso della principessa,
stravolto dal dolore e dalla disperazione, era stata l’ultima cosa che aveva
guardato, prima di crollare sulla sabbia del Colosseo, accanto al cadavere del
tiranno. Morto… Lo avrebbe creduto, non si fosse trovato in quella stanza
silenziosa e ovattata , con il tanfo dolciastro della mirra, dell’olio di rose,
del sangue e del sudore a solleticargli le narici e i lunghi riccioli dorati di
Lucilla che gli carezzavano il petto. Ma adesso la donna gli sorrideva anche
con gli occhi, dai quali le tante lacrime che doveva aver pianto avevano lavato
via la tristezza.
-Da quanto tempo mi trovo qui?
-Dieci giorni. Temevamo… Temevamo
che non ce l’avresti fatta, la tua ferita era molto grave.
-Tuo fratello…
-Commodo è morto.
-Mi dispiace.
La guardò con gli occhi torvi di
chi sta mentendo. Il succo di papavero aveva ridotto le sue pupille a due
minuscoli puntini neri, proprio al centro delle iridi in cui l’azzurro, il
verde e l’oro si mescolavano senza fondersi, come succede quando i raggi del
sole danzano sulla superficie tranquilla di un lago.
-Non sei obbligato a raccontarmi
delle bugie al solo scopo di sembrare pietoso, Massimo. Io e lui avevamo lo
stesso sangue ma… era diventato un cane idrofobo, questo lo sapevi anche tu.
Un cane idrofobo? Commodo? Beh,
non lo era diventato: lo era sempre stato. Le labbra di Massimo si contrassero
in un ghigno sarcastico.
Lucilla distolse lo sguardo, gli
chiese se avesse bisogno di qualcosa. Vorrei bere, ho la gola arida e
dolorante. Vorrei mettere sotto i denti qualcosa di solido. E vorrei che
qualcuno mi togliesse di dosso questa fasciatura che non mi lascia respirare.
Perché mi avete fasciato come una mummia? E perché mi sento addosso questa
puzza degna del peggior lupanare della Suburra?
-Ti abbiamo fasciato perché la
ferita era profonda e il medico temeva che s’infettasse.
…e quello che ti senti addosso è
l’odore dell’unguento che si strofina sui cadaveri prima di seppellirli. Perché
tu non eri solo ferito, Massimo. Eri morto, e sono stata io che ho voluto ad
ogni costo riportarti indietro dall’aldilà. Timandra le aveva detto che sarebbe
stato impossibile nascondergli a lungo la verità e le parole della maga
tornarono in mente a Lucilla, brucianti come la sete che incendiava la gola
arsa di Massimo.
-Ordinerò che ti sia portato
subito da mangiare e da bere. Bentornato nel mondo dei vivi… Massimo Decimo
Meridio.
FAME E SETE
Divorati il pane fresco e la
carne arrostita, Massimo chiese da bere.
-Acqua?! Con questa mi ci
sciacquerò la bocca, dopo. Fammi portare del vino, Lucilla… Del Falerno non
diluito. Per favore.
Per ubriacarti, come faceva
Commodo? Lucilla storse la bocca. Quell’abitudine non gliela conosceva, e non
le piaceva.
-E’ necessario che tu sia
prudente con il cibo e con il vino, Massimo: sei stato molto male, sono dieci giorni
che non metti quasi niente nello stomaco, e…
Il viso dell’uomo assunse un’aria
cogitabonda.
-Dieci giorni senza mangiare e
senza bere… Come ho fatto a sopravvivere?
-Un paio dei miei servi si sono
dimostrati particolarmente abili a cacciarti in gola le medicine e a farti
inghiottire qualche sorso d’acqua e qualche cucchiaiata di latte mentre eri
incosciente. Sembravi…un gattino neonato rifiutato dalla madre.
Lucilla gli sorrise,
allungandogli la coppa del vino e sentendo le dita calde di lui sfiorare le
sue.
-Un gattino inerme e indifeso,
completamente nelle tue mani… Augusta Lucilla.
La guardava in tralice, gli occhi
azzurri socchiusi che mandavano bagliori di metallo. Puntellandosi sui gomiti,
si sollevò ancora di più a sedere, e il lenzuolo gli scivolò giù per il corpo,
scoprendogli il busto muscoloso fin quasi alle anche.
-Vuoi che ti faccia portare un
altro cuscino?
-Dell’altro vino, piuttosto.
Dicono che faccia sangue, e dovrei averne perso parecchio… - ridacchiò,
tastandosi con il palmo della mano la spalla, il petto e lo stomaco. - Sono
rimasto dieci giorni quasi senza mangiare e… Non mi sembra di essere dimagrito,
rispetto a com’ero. Non è strano?
Non lo so. Non ho mai prestato
assistenza a un ferito grave. Tu sei il primo e spero anche l’ultimo, Massimo.
Lo pensò, ma non glielo disse, e gli voltò le spalle di proposito, perché lui
non notasse il rossore che le aveva imporporato le guance.
-Il dente di lupo. Senza mi sento
nudo.
Non era cambiato, rispetto a
com’era stato. La voce era quella grave, rauca e sensuale che gli aveva sempre
conosciuto e la sua bellezza… Perfino il dolore e la sofferenza erano stati
gentili con lui, pensava Lucilla, percorrendo con lo sguardo i tratti quasi
delicati induriti dalla barba incolta, gli occhi azzurri, la pelle abbronzata
tesa sopra i grossi muscoli e segnata dalle cicatrici:lama di coltello, punta
di freccia, taglio di spada… perfino artigli di tigre. Le bianche dita sottili
gli accarezzarono il collo, mentre annodavano il lacciolo di cuoio dal quale
pendeva il suo portafortuna. Te l’avevo tolto io stessa e l’avevo conservato
nel mio scrigno, con gli altri gioielli: perché se fossi morto, avrei voluto
che mi rimanesse qualcosa di te.
-Lucilla…
La voce di Massimo era diventata
un bisbiglio rauco e la donna ritrasse la mano, come se avesse toccato il
fuoco.
-Lucilla, io…
Avrebbe cercato di farle capire
ancora una volta che nel suo cuore c’era posto solo per quella moglie che gli
avevano ammazzato? O, peggio, la odiava ancora per come l’aveva fatto soffrire
dal momento in cui aveva creduto si fosse presa gioco di lui, del bel
soldataccio dal quale le era piaciuto lasciarsi baciare e accarezzare, ma
stando ben attenta a non compromettersi, perché era la principessa Lucilla, la
figlia dell’Imperatore Marco Aurelio, destinata al letto d’un Cesare di Roma,
che aveva tutto il diritto di prendersi in moglie una vergine illibata, non
certo gli avanzi di un oscuro legionario?
Lo vide abbassare le palpebre,
sospirare, accennare a un vago sorriso a labbra chiuse. Come da ragazzo, quando
aveva amato il contatto delle mani di lei sulla sua pelle, che fosse casuale o
voluto. Come da ragazzo, quando l’aveva desiderata allo spasimo, con il corpo,
il cuore e la mente, ma il destino aveva deciso in maniera totalmente diversa.
Lucilla si sedette accanto a
Massimo, gli cinse i fianchi con le braccia. Era morbida, e profumata. Come a
sedici anni, quando ancora s’illudeva che la sua vita potesse appartenerle per
davvero, senza che nessuno scegliesse per lei quello che non voleva. E’ per il
tuo bene, Lucilla. Sei la figlia di un Cesare di Roma e, se da questa
condizione ti derivano molti privilegi, hai pur sempre dei doveri...
Il dovere di non essere se
stessa, pensò mentre baciava il petto di Massimo e gli toglieva via le bende.
Il dovere di amare un uomo che non amava e non l’aveva mai amata. Il dovere di
mettere al mondo figli nelle cui vene scorresse sangue reale. Il dovere di
accettare senza opporsi l’ineluttabilità del destino… Le mani delicate
accarezzavano, lievi come piume, la pelle dell’uomo. Era calda, morbida, tesa
su una magnifica muscolatura.
-Massimo…
La ferita sulla sua schiena era
un minuscolo segno rosso, asciutto e completamente rimarginato. Poco sopra, il
marchio a fuoco di Proximo, il suo padrone. Non era più schiavo, ma quel segno
non sarebbe mai stato possibile cancellarlo dalla sua carne finché… Finché
fosse vissuto, cioè per sempre, pensò Lucilla, e un lungo brivido le attraversò
il corpo.
-Lucilla… - gentilmente, l’uomo
le strinse il polso.
Adesso scosterai da te la mia
mano, rifiuterai le mie carezze. Mi dirai di no ancora una volta, Massimo. Mi
dirai di no perché con te sono stata cattiva… tanto tempo fa. Mi dirai di no
perché… Perché il fantasma di tua moglie pretende ancora la tua fedeltà… Ma lei
è morta, e tu sei vivo, Massimo.
-Lascia perdere, Lucilla: sono
impresentabile, ho la barba lunga e puzzo come una vecchia baldracca.
Ah, è solo per questo? La donna
gli sorrise, senza distogliere gli occhi dai suoi. Domani ti laverai e ti
spunterai la barba, ma io non aspetterò un minuto. Ho aspettato anche troppo e
mi sono stancata di doverlo fare ancora.
-Hai ancora… fame e sete,
Massimo?
Lui accennò di sì con la testa,
gli angoli delle labbra sollevati in un sorrisetto allusivo.
-Ho ancora fame e sete.
Ma non di carne arrosto, di pane
e di vino non diluito. Le sollevò il mento con la mano, le cercò la bocca per
baciargliela, dapprima dolcemente, un labbro alla volta, quindi con ardore
selvaggio: come qualche giorno prima, nelle segrete del Colosseo, quando lui
era ancora uno schiavo miserabile, e non un nume immortale.
La tunica di seta scivolò via dal
corpo della donna, lasciandola nuda e tremante di freddo, esposta al suo
sguardo ardente. Era bella come quindici anni prima, pensava Massimo sfiorandole
il piccolo seno con le dita, le labbra e la lingua, sentendola gemere mentre le
mordicchiava i capezzoli, glieli lambiva e glieli succhiava. Come quindici anni
prima, in quell’ansa tranquilla del fiume, lungo i confini settentrionali. Solo
che allora… Ma adesso sarebbe stata sua, perché nessuno dei due avrebbe osato
tirarsi indietro. Lo sapeva, prima ancora che lui la penetrasse e, per la prima
volta nella sua vita, le regalasse l’estasi.
L’ALBA DEL GIORNO DOPO
-Grazie, Massimo.
-E di che cosa?
Di esistere. Di avermi perdonato,
anche se mi sono presa gioco di te e ti ho ingannato, anche se ti volevo
esattamente come mi volevi tu. E adesso, non andartene. Roma ha bisogno di te.
Ma soprattutto, io ho bisogno di te.
Le braccia strette intorno al suo
corpo, la testa posata sul petto, Lucilla gli ascoltava i battiti lenti,
regolari del cuore. Avrebbe continuato a pulsare all’unisono con il cuore
stesso della terra, finché agli dei fosse piaciuto che il sole e la luna
continuassero a sorgere, che il vento soffiasse, che la primavera facesse
nascere le foglie e l’inverno cadere la neve, che le nuvole si sciogliessero in
pioggia e, nel folto del bosco, la belva divorasse la preda. Il pensiero le
fece correre un brivido lungo il solco della schiena e ricordare le parole di
Timandra la Maga: “Quello che chiedi potrebbe costarti lacrime di sangue”… Ma,
per il momento, le aveva regalato soltanto felicità, a piene mani.
Ma sono io che dovrei
ringraziarti, Lucilla. Per questa notte, e non solo. Mi hai detto che, quando
ero uno schiavo che metteva a repentaglio tutti i giorni la pelle per il
sollazzo della plebaglia e di quel bastardo depravato del sedicente imperatore,
tramite un tuo uomo di fiducia hai contattato gli amministratori della mia
tenuta di Tergillium e fatto sì che non andasse in rovina. Firmavi a nome mio
le missive, ti occupavi in prima persona della contabilità… Come potrei
ricompensarti onoratamente, con il poco che ho? Se non fossi così indegno da
non osare farlo, ti chiederei di sposarmi. Ma tu sei progenie degli dei, e io
non sono nessuno.
Ho dimenticato il passato,
Massimo, e non oso ipotecare il mio futuro. Viviamo il presente, e non pensiamo
al domani. Non ho il coraggio di pensare a quel che potrebbe riservare, a me e
a mio figlio: sono in molti a contendersi il trono che Commodo ha lasciato
vacante. Sembrano cani affamati intorno a un osso da spolpare. Lucio è il
parente più prossimo di mio fratello, e non ha neppure otto anni. Non voglio
che qualcosa di molto più grande di lui gli divori la vita… come l’ha divorata
a me.
Tuo padre mi diceva sempre che
eri forte, determinata. Che saresti stata un grande Cesare, se solo fossi nata
maschio. Vedi, Massimo, gli somigliavo. Proprio come Commodo rassomigliava
all’uomo che aveva versato il suo seme nel grembo di mia madre, quell’equites[9]
sarmata che sapeva solo cavalcare, ubriacarsi, fottere e ammazzare. E’ da lui
che ho preso il coraggio della sopportazione. Te lo ricordi? Avrebbe voluto
dedicarsi solo ai suoi studi e alle sue meditazioni, e si è ritrovato
schiacciato dal peso del potere. Era un uomo di pace, e ha trascorso metà della
sua vita sui campi di battaglia. Credeva nel valore della famiglia, nella
lealtà e nell’onore e si è ritrovato con una moglie frivola e infedele, un
figlio, che non era nemmeno tale, imbelle, crudele e vigliacco e una figlia che
chiedeva solo di vivere la sua vita e che, senza volerlo fare di proposito, ha
condannato all’infelicità… Povero padre mio. Mi aveva insegnato che ci vuole
più coraggio a sopportare che a ribellarsi. E aveva ragione.
Sono passati più o meno quindici
anni, da quando… Mi ricordo. Quindici anni. Tu ne avevi sedici, io diciotto. Tu
eri la figlia dell’Imperatore, io un provinciale, figlio di un modesto
contadino, e sembrava che la vita, per me, non avesse in serbo niente. Oh,
invece la vita ti avrebbe riservato la gloria e l’amore, Massimo… Li hai pagati
con il prezzo della sofferenza, ma li hai avuti. Io… Io ho dovuto inghiottire i
miei dolori senza avere nient’altro in cambio che pena a non finire, anche se
il popolo che mi vedeva sorridere accanto a mio marito o a mio fratello non
poteva immaginarlo. Ero ricca, ero bella, ero potente: osare chiedere di più
agli dei sarebbe stato l’equivalente di una bestemmia. Non ho mai amato Lucio
Vero, né lui ha mai amato me. Eravamo troppo diversi, per età, carattere,
abitudini. Gli ho dato un figlio, com’era mio dovere, e poi… Basta, siamo
diventati due estranei. Mi tradiva… Mi tradiva con tutte le donne che gli
capitavano a tiro e io… L’hai tradito anche tu? Solo con il pensiero, Massimo.
E ci sei sempre stato tu soltanto, nei miei pensieri. Invidiavo tua moglie, che
poteva darti l’amore che meritavi, mentre io… Mentre tu, l’Augusta, consumavi
la tua esistenza nell’infelicità, prima accanto a un marito che non amavi,
quindi accanto a quel fratello pazzo, imprevedibile e sanguinario che ti
incuteva terrore.
Massimo chiuse gli occhi,
sentendo la carezza leggera delle dita di lei sulle guance e sul collo. C’era
un qualche cosa d’infantile, nei tratti morbidi e nelle labbra imbronciate,
leggermente aperte sul candore dei denti piccoli e regolari. Avremo tempo per
noi, ma la prima cosa che voglio fare appena sceso dal letto è lavarmi via
quest’odore di dosso: sangue, sudore, mirra e olio di rose. Dove l’ho già
sentito? Ti farò preparare un bagno caldo dai miei servi, e lascerò che
qualcuno di loro ti aiuti. O a uno schiavo preferiresti… una principessa
imperiale per insaponarti i capelli e strofinare quella tua magnifica schiena?
Prova a indovinare, Lucilla… Il
sorriso di Massimo s’era fatto malizioso. E la mente della donna tornò a quel
giorno di quindici anni prima, sul greto del grande fiume, lungo i confini
settentrionali. Lui aveva accarezzato e baciato ogni brandello della sua pelle,
e aveva lasciato che lei facesse altrettanto. Ma, al momento del dunque, si era
tirato indietro. Quella era una principessa, lui un soldato senza domani, e non
aveva da offrirle niente che non fosse il suo ardore. Lucilla aveva pianto
lacrime cocenti di delusione, mentre lo guardava stornare la faccia dalla sua e
infilarsi i vestiti sulla pelle ancora bagnata. Ma sapeva che, quello, era un
discorso solo temporaneamente sospeso. E che lo avrebbe portato a conclusione,
avesse dovuto aspettare mille anni ancora.
L’AGGUATO
Non voleva che qualcuno potesse
pensare, adesso che era guarito, che Massimo Decimo Meridio, il salvatore di
Roma, fosse diventato il mantenuto e il trastullo dell’Augusta ex imperatrice.
E’ meglio per me e per te, le aveva detto, comunicandole che un uomo di sua
fiducia gli aveva trovato casa. Tanto, potremo vederci ogni volta che lo
vorremo.
La casa era una villa fatiscente,
mezza diroccata, dalle parti del Celio; benché inabitabile, era circondata da
un grande giardino incolto e affiancata da una piccola foresteria non troppo
malridotta, quattro o cinque stanze. A lui bastavano. Arredatala spartanamente
con un mobilio semplice e ordinario, ci si era trasferito con un servitore
zoppo da una gamba e cieco da un occhio che era stato congedato dall’esercito
dopo aver servito per anni nelle Legioni di stanza in Oriente.
Avrebbe ripulito il giardino
dalle sterpaglie e potato gli alberi, si ripromise. Avrebbe dissodato quella
terra indurita e morta, quando fosse giunto il tempo di farlo. Si sarebbe
procurato un cane, e un altro cavallo. E avrebbe avuto il modo e il tempo di
pensare a cosa farne della sua vita.
Questa bestia ha tutto il diritto
di riposarsi. Se l’era detto tante volte, mentre strigliava il mantello del
vecchio baio che gli era stato venduto con la villa: un brocco sfiatato che, se
non aveva i suoi trentatré anni, poco ci mancava. Dalle parti di Tivoli, un
allevatore affidabile vendeva buone bestie da sella, gli era stato detto. E
quel giorno aveva deciso di recarsi a fargli visita sperando al contempo che
quello potesse essere l’ultimo sforzo che richiedeva al suo vecchio animale
prima di collocarlo a riposo.
Indossò una tunica corta color
vinaccia stretta in vita da un’alta cintura borchiata, brache di pelle morbida
all’uso barbarico, e si avvolse in un lungo mantello nero: era inverno, e
faceva un freddo da lupi. Prese con sé del denaro, perché, se avesse trovato un
cavallo di suo gradimento, era certo che l’avrebbe acquistato e portato via
subito. Non dimenticò la daga: le strade erano infestate di briganti, per i quali
non esistevano estate e inverno, ma le sue esperienze nell’esercito e
nell’arena avevano finito col fare di lui un osso molto duro, semmai a qualcuno
fosse balenata l’idea poco felice di tendergli un agguato allo scopo di
rapinarlo.
Gentile alla maniera dei
mercanti, Gaio lo fece accomodare dinanzi a un camino scoppiettante e gli offrì
da mangiare e da bere. Quindi gli mostrò i cavalli: belle bestie, floride e ben
tenute, con gli occhi vivaci e i mantelli lucidi e puliti. Lui scelse un
giovane stallone biondo e pagò quel che Gaio gli domandava senza
mercanteggiare, come se avesse fretta di andarsene.
-Si è fatto tardi e presto
scenderà il buio.Puoi passare la notte qui, domine, e ripartire domani, se lo
desideri.
-Ti ringrazio della tua
gentilezza, Gaio, ma la città non è così lontana.
-L’aria è fredda, potrebbe
nevicare da un momento all’altro…
-Ero di stanza lungo i confini
settentrionali fino a due anni fa. Non mi fanno paura quattro fiocchi di neve.
Gli rispose Massimo sulla porta;
il suo sorriso gentile tradiva una leggera impazienza. Quindi saltò in groppa
allo stallone biondo, afferrò le redini del vecchio baio e si allontanò,
lasciando il mercante ad arrovellarsi nella convinzione che a quel bel
giovanotto elegante, dai riccioli bruni, dagli occhi azzurri e dal piglio
risoluto mancasse qualche rotella, ad andarsene in giro,per giunta da solo, in
una simile nottataccia.
La strada era deserta, l’aria
gelida. Massimo stava riflettendo sulla situazione dell’Impero, a proposito
della quale Lucilla lo aveva edotto senza reticenze: alla morte di Commodo, gli
aveva detto, mente lui giaceva incosciente tra la vita e la morte, c’era stato
un tentativo, subito abortito, di restaurare la Repubblica. Quindi i
Pretoriani, arbitri come sempre della situazione nei momenti di anarchia e
disordine, avevano venduto la porpora imperiale al miglior offerente. A
spuntarla era stato Elvio Pertinace, un generale valoroso che non capiva niente
della politica e dei suoi maneggi; sicuramente sarebbe durato poco, specialmente
dopo che i Pretoriani si fossero accorti che non aveva nessuna intenzione di
versare loro il denaro pattuito: quei delinquenti sinistramente intabarrati di
nero la prendevano molto male quando venivano contrariati ed erano abituati ad
andare per le spicce.
Era tutto preso dalle sue
riflessioni, quando sentì una voce che lo chiamava con il suo nome. “Generale,
sono io…” Io chi? Qualcuno degli uomini che avevano combattuto al suo fianco lungo
i confini settentrionali? Scese di sella, esplorò la foschia fredda e
lattiginosa del tramonto con i suoi occhi acuti. Forse non era necessario, ma
mise ugualmente la mano sull’elsa della spada.
Alcuni grandi alberi spogli
bordavano il ciglio della strada, sinistri come scheletri. Dieci uomini
spuntarono da dietro quei grossi tronchi. Vestivano modestamente, e non avevano
un aspetto ostile. Forse volevano davvero soltanto parlare con lui, magari
erano davvero veterani delle Legioni del Nord, o forse si trattava di semplici
viandanti che avrebbero avuto piacere ad accompagnarsi al giovane elegante e
dal piglio risoluto, per non percorrere da soli la strada verso casa.
-Massimo Decimo Meridio… Questo è
un dono che ti manda Sua Maestà Imperiale, il Cesare Publio Elvio Pertinace.
Prima che potesse sfilare dal
fodero la sua, sentì la daga di uno degli uomini penetrargli nel ventre. Crollò
a terra in un lago di sangue, con gli intestini che fuoriuscivano da un’orrenda
ferita e il corpo straziato da dolori che mai avrebbe immaginato di poter
provare. Questa volta il fato non gli avrebbe concesso deroghe, pensò, prima di
perdere i sensi. Publio Elvio Pertinace aveva visto in lui un possibile rivale,
e s’era deciso ad assoldare dei sicari per eliminarlo. Eppure, lui lo aveva
conosciuto e sapeva che era un soldato valoroso e un galantuomo.
Il buio che gli accecava gli
occhi come il giorno del suo ultimo duello nell’arena non era la notte, pensò.
Questa volta non avrebbe avuto scampo. Sarebbe morto in aperta campagna, e il
suo cadavere avrebbe sfamato i lupi e i corvi.
RIVELAZIONE
La campagna battuta dal vento
gelido e inargentata dalla falce della luna non erano i Campi Elisi. Sentì
ululare un lupo in lontananza, i cavalli nitrire inquieti. Non provava dolore,
anche se la tunica e le brache erano zuppe di sangue e testimoniavano che
l’agguato non era stato un sogno. Si tastò la ferita e sentì, sotto le dita, i
muscoli addominali induriti dall’esercizio fisico, il calore della pelle, che
era sana a intatta. Non aveva sognato, il dolore l’aveva sentito davvero, come
aveva sentito il sangue scorrere portandogli via la vita, come aveva visto gli
intestini fuoriuscire dallo squarcio orrendo che qualcuno che voleva la sua
morte gli aveva aperto nel corpo. Già, perché ferite simili uccidevano sempre,
gli anni trascorsi nell’esercito e l’esperienza dell’arena glielo avevano
insegnato.
Non provava il dolore di quando
era stato trafitto e la campagna con gli alberi nudi inargentati dalla luna era
il tratto di strada che divideva Roma da Tivoli, non il mondo dei trapassati.
Un gufo che volava basso quasi gli sfiorò la testa con la punta della sua ala.
Non aveva sognato, il sangue, la stoffa strappata dov’era penetrata la punta
della daga lo testimoniavano. E se non era stato un sogno… Se non era stato un
sogno, doveva essere un sortilegio, pensò, mordendosi a sangue il labbro. Si
avvolse nel mantello, per non sentire freddo, e montò in sella: la città non
era lontana.
RANCORE
-Lucilla.
E’ solo, e cerca di me. Pensò la
donna. Forse ha freddo, la notte è gelida e ha ancora bisogno di qualcuno che
gli trasmetta un po’ del suo calore, che lo tenga stretto tra le braccia per
scacciare gli incubi dalla sua mente…Massimo il soldato. Massimo il gladiatore.
E’ fragile, nonostante tutto. Fragile e sensibile, ed è anche per questo che
gli voglio così bene.
-Lucilla.
La sua voce era tesa, e la fiamma
della grande lucerna gli illuminava lo sguardo gelido come non gliel’aveva mai
visto,i tratti impassibili, immobilizzati in una maschera spettrale che
suggeriva l’idea della morte, gli occhi come pozze insondabili d’oscurità.
-Lucilla… Che mi hai fatto?
Lo sguardo di lei lo percorse, e
si fermò sulla larga chiazza di sangue che gli imbrattava i vestiti.
-Massimo… sei ferito?
Lo vide scuotere la testa
lentamente, senza perdere quella calma che, lo sapeva, era presaga di una
gelida collera.
-Sulla strada di Tivoli… Erano in
dieci. Uno mi ha cacciato la daga nel ventre fino all’elsa e… E non sono morto,
donna…
Un lungo brivido l’attraversò
tutta. Prima o poi si accorgerà che le malattie e le ferite non lo uccidono,
gli aveva detto Timandra. E ancora: non è detto che non consideri questo tuo
dono una maledizione…
-Si vede che non era ancora
giunta la tua ora, Massimo…
-Quel genere di ferite uccide
sempre. Che mi hai fatto… puttana?
Lucilla sentì la sferzata
dell’insulto, poi le dita di ferro che le serravano il collo.
-Mi volevi… Mi hai voluto dal
primo momento che mi hai posato gli occhi addosso, ed è solo per questo che mi
hai riportato indietro dal mondo dei morti, maledetta puttana…
La spinse fino al letto e ve la
gettò sopra. Le avrebbe dato quello che si meritava. Quello che lei voleva. Ma
come alle donne dei nemici sconfitti, con rabbia e senza amore. La sentì
tremare, schiacciata dal peso del suo corpo. La sentì singhiozzare, implorare.
Non è come pensi, Massimo. Mi sentivo in debito con te, perché ti avevo usato.
Perché ti ho tradito, quando Commodo mi aveva portato via il bambino e
minacciava di ucciderlo, se non gli avessi raccontato quello che sapevo… Non
potevo vivere con quel peso sulla coscienza, Massimo…
L’uomo si scostò da lei. Non
avrei dovuto farlo, pensava. E ricordò quando, dopo l’assalto a un villaggio in
riva al Reno, aveva egli stesso passato a fil di spada due soldati rei di aver
violentato una donna.
-Tutto quello che ho fatto… Che
fosse giusto o sbagliato… l’ho fatto solo perché ti amo, Massimo…
Il lume della lanterna gli
illuminò il solito sguardo di sempre: quello franco di un uomo che, in
qualunque circostanza, può camminare in mezzo alla gente tenendo alta la testa.
-Lucilla, lo so.
La strinse a sé e le baciò la
bocca teneramente, un labbro alla volta.
-Massimo, perdonami…
Le sorrise, accarezzandole i
capelli morbidi e profumati.
-Quello che mi hai fatto è un grande
dono, Lucilla. Cercherò… cercherò di esserne degno, sempre e comunque.
FINE PRIMA PARTE
Lalla U. 06/11/01
Vita oltre la vita (seconda parte)
Vita oltre la vita (seconda parte) Altre storie |
[1] Creature mitologiche, vecchie ed
orribili.
[2] Amuleto.
[3] Si tratta di un personaggio realmente esistito. Era davvero l’amante di
Commodo, ed era cristiana, anche se potrebbe riuscirci difficile conciliare lo
stereotipo, tutto mitezza e candore, dei primi seguaci di Cristo con la figura
di questa donna, da molti definita malvagia e depravata. Non so molto di lei,
ma penso che fosse anch’essa una vittima dei disegni e degli interessi di
qualcuno, e come tale ho voluto raffigurarla. (N.d.A.)
[4] Era davvero il Papa dei
Cristiani quando morì Comodo.
[5] L’ abitazione della povera
gente, simile a un moderno condominio ma priva di qualsiasi criterio d’igiene e
sicurezza, spesso preda di crolli e incendi.
[6] In attesa di ricevere il
battesimo.
[7] Salsa piccante a base di pesce.
[8] Succo di papavero.
[9] Gladiatore che combatteva a cavallo.