Storie de Il
Gladiatore
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Storie
ispirate dal film Il Gladiatore |
Lettura sconsigliata ai minori di anni 18 |
L’UOMO DI TOBOL’SK
di Lalla Usai
Una musica che mi ha ispirata? Da Borodin a Tchaijcowskij, un po’ tutti
i compositori russi che adoro (e di cui dispero di aver scritto correttamente
il nome…). E, per rimanere in casa, la bellissima “Prospettiva Nevskij” del
grande Franco Battiato.
Prologo
LO STAREC
(Il Veggente)
Qualcuno diceva che fosse un uomo terribile. Qualcun altro che
difficilmente avrebbe perso tempo con una come lei. Ma Irina era abituata da
una vita a scontrarsi con l’ostilità degli altri. E da oltre un anno non sapeva
se l’uomo che amava fosse ancora vivo o fosse morto, ammazzato dalla sua
generosità e da una malattia che non
lasciava scampo.
Dicevano che fosse un individuo terribile, e doveva essere vero. Dicevano
che difficilmente avrebbe perso il suo tempo che valeva oro con una come lei.
Avrebbe insistito, si disse da sé sola, lo avrebbe tormentato finché,
esasperato, lui non le avesse dato ascolto. C’era chi lo odiava, chi lo temeva
e chi lo venerava come un santo. Si diceva che possedesse poteri taumaturgici e
vedesse ciò che la gente comune non vede.
Grigorij Efimovic. Rasputin.
IRINA VASILIEVNA KIROVA
Che quell’uomo fosse un santo o il diavolo, in verità poco le importava.
Sul suo conto correvano strane voci, ma a lei importava solo che fosse in
grado, con le sue parole, di alimentare la speranza che si portava dentro, o di
affossarla definitivamente. Non poteva più vivere in quel purgatorio fatto di
incubi e di attesa. Era un anno esatto che Sasha non dava più notizie di sé. Un
anno che era scomparso senza lasciare traccia. Per la verità, qualcuno asseriva
di averlo visto sul ponte Bulsoj guardare accigliato le acque della Neva, a
pochi giorni dall’incidente, come se avesse avuto in animo di fare un tuffo in
quelle acque profonde e non tornare più a galla. Come se avesse deciso di darsi
da sé una morte pietosa, che fosse rapida e gli risparmiasse le sofferenze che
lo aspettavano. Sapeva a cosa sarebbe andato incontro. E neanche Irina lo
ignorava. A Gracyna, quando lei aveva dodici anni, un mugik[1]
era morto fra inenarrabili sofferenze, dopo essere stato morso da un lupo
idrofobo. Aveva anche sentito dire che, qualche anno prima, uno scienziato
francese[2]
aveva sperimentato con successo un antidoto contro la rabbia e forse… Ma era
difficile. Non era mai stata fortunata, si disse da sé sola, incamminandosi
verso il luogo che le era stato indicato.
Avrei
bisogno di un pizzico di fortuna in più di quella che ho avuto finora, si
disse, mentre attraversava a passi veloci la Prospettiva Nevskij senza
lasciarsi distrarre dalle vetrine dei negozi e dalle occhiate languide dei
militari. Non aveva tempo da perdere, la principessa l’aspettava, alla solita
ora. Era generosa, la vecchia principessa Jusupova, ed era soltanto grazie a
quella generosità, se lei poteva mangiare e continuare a pagare la pigione della
soffitta all’angolo della Starorusskaja che, per un anno, aveva diviso con
Sasha. Non sta lontano, le avevano detto. Non sta lontano. Ed è il solo che ti
possa aiutare a conoscere la verità, a sapere se è il caso di continuare a
sperare. O se è meglio per te entrare in una chiesa e pregare per la salvezza
della sua anima immortale.
C’erano parecchi soldati armati, in giro per la strada. Tempi brutti,
quelli, si diceva. La gente era scontenta dell’andazzo, c’erano stati rivolte e
moti di piazza, e i tempi che sarebbero venuti sarebbero stati ancora più
brutti di quelli, a Gracyna lo dicevano tutti quanti. Fai male ad andartene. Ma
dacché suo padre era morto, per lei non c’era più posto in quella casa.
La sua matrigna le aveva proposto, anzi, ingiunto, di sposare un vedovo
cinquantenne carico d’acciacchi e di figli. L’alternativa, lo aveva capito
subito, era andarsene, e lei aveva preso il coraggio a quattro mani, caricato
le sue poche cose sulla carretta del vecchio Dima, e raggiunto San Pietroburgo.
Anche se erano tempi difficili e lo zar si era trovato costretto tante volte a
imporre l’ordine con la punta delle baionette, o peggio. Pochi anni prima, il
Paese era uscito con le ossa rotte dalla guerra contro il Giappone e il popolo
affamato reclamava pane, gli intellettuali giustizia. Mentre nel resto del
mondo il progresso avanzava inesorabile, nella Grande Madre Russia si viveva
ancora come nel medioevo. O la situazione cambia, o tutto scoppia, dicevano gli
uomini a Gracyna, tenendo bassa la voce. E le vecchie si segnavano, dopo aver
rigirato tra le dita i grani dei loro rosari. Anche in quell’angolo sperduto di
mondo, tutti sapevano che c’erano i lavori forzati in Siberia nel futuro dei
sovversivi e dei ribelli.
Non ho niente da perdere, si era detta Irina Vasilievna mentre, per
l’ultima volta, si girava a guardare i tetti di paglia del suo villaggio. Lei
era vissuta in una casa di mattoni, mantenuta decorosamente da suo padre, che
era stato l’amministratore del conte Golycyn, il feudatario locale. Dai sette
ai quattordici anni era andata a scuola dalle monache, che le avevano
insegnato, oltre che a pregare, a leggere, scrivere, far di conto, parlare il
francese, ricamare e suonare il pianoforte. Non dubitava che la sua istruzione
le avrebbe permesso di trovare facilmente impiego come governante presso
qualche ricca famiglia o, alla peggio, come commessa in un negozio elegante
della prospettiva Nevskij.
Sua madre era morta già da diversi anni e la donna con cui suo padre si era
risposato l’aveva sempre trattata con indifferenza. Forse era invidiosa della
giovinezza che lei non aveva più, Natasha Ivanovna. Magari pure della bellezza
che non aveva mai avuto, con quei capelli quasi albini, gli occhietti slavati,
la faccia larga e piatta, il corpaccione grande e sfatto che si ritrovava. Come
la matrigna cattiva delle favole.
Irina sentiva su di sé gli sguardi ammirati dei militari che presidiavano
la strada e, quando si specchiava nelle vetrine, vedeva una bella ragazza bruna
e scura come una zingara. O come un’ebrea, diceva Natasha Ivanovna sputando tra
le labbra quella parola, quasi fosse stata un insulto. Suo nonno, il padre di
sua madre, ingegnere addetto alla costruzione della ferrovia, era vissuto a
lungo nelle province dell’Asia Centrale e aveva sposato una ragazza khazaka.
Anche sua madre era stata bruna e scura, come lei.
Quanti soldati, pensò allungando il passo. E quanti mendicanti cenciosi,
quanti cani randagi dal pelo rognoso e dallo sguardo sfuggente. Rabbrividì,
prima d’infilarsi nel piccolo portone che si apriva su di un andito buio come
la bocca di un forno. Era arrivata a destinazione.
Il PASSATO NON TORNA
Vorrà
sapere chi sono e perché ho voluto incontrarlo. La gente dice che sia un uomo
terribile… Le due rampe di scalini sconnessi dovettero sembrarle più
invalicabili di una montagna. Stare davanti a lui, parlargli, avrebbe richiesto
tutte quante le sue forze e chissà se ne sarebbe valsa la pena o se anche
Grigorij Efimovic, il Piccolo Padre, le avrebbe detto rassegnati, ragazza, il
passato non torna, magari dopo averle svuotato le tasche fino all’ultimo copeco[3].
Si era arricchito, si diceva, vendendo false speranze a poveri infelici come
lei.
Nei
pochi istanti che impiegò a salire quella scala sconnessa e tarlata, Irina
Vasilievna rivide gli ultimi mesi della sua vita. Non era stato facile come
credeva, trovare un lavoro con il quale mantenersi, una volta giunta in città.
I tempi si erano fatti difficili per gli uomini, figurarsi per una donna sola.
Ma Zina, la vecchia che le aveva affittato un buco di stanza in un casermone
cadente sulla Starorusskaija, pretendeva di essere pagata con puntualità, e i
risparmi erano finiti in fretta. Ancora un paio di giorni, Babushka, mi hanno
promesso lavoro, una modista che sta sulla Suvorovskij cerca una commessa e mi
ha promesso che… Oggi è come ieri e come oggi sarà domani, le diceva la vecchia
fissandola con gli occhietti scoloriti da gallina. E domani sarà tardi. E
domani sarà inverno. E d’inverno, a venti gradi sotto zero, si muore, di freddo
e di fame, senza un rifugio che ti protegga dal gelo, senza un piatto di
stufato e una fetta di pane da mettere sotto i denti.
Sapeva
che a Gracyna non sarebbe tornata, si era detta tante volte da sola, dopo aver
contato i rubli che, di giorno in giorno, diminuivano a vista d’occhio. Lavoro,
niente. Anche se si sarebbe accontentata di qualsiasi cosa, perfino di
sfacchinare in fabbrica come una schiava. Di qualsiasi cosa, già. Ma non di
quello che facevano le inquiline del piano di sotto, che le era capitato di
incontrare tante volte nell’androne, e avevano le facce dipinte, i capelli
gialli e tanfavano di sudore e di violetta di Parma. Erano puttane, quelle. E
magari, prima di diventarlo, erano state brave ragazze giunte dalla campagna in
cerca di un lavoro onesto che non avevano trovato.
Il
giorno in cui l’aveva incontrato per la prima volta, si era consumata le suole
delle scarpe in cerca, tanto per cambiare, di quello che non trovava, un lavoro
onesto che le permettesse di mangiare e di pagare la pigione della stanza.
Aveva i crampi allo stomaco perché da un paio di giorni non buttava giù che
zuppe di latte e pane raffermo, e le vesciche ai piedi. Il tempo stringeva, la
vecchia Zina reclamava i soldi dell’affitto, tra poco non avrebbe accettato più
scuse. E l’inverno non avrebbe impiegato troppo ad arrivare.
Aveva
girato in lungo e in largo, eppure c’era qualcuno, a due isolati da dove
viveva, disposto a pagarla, in cambio
di un facile lavoretto. Sasha. Il suo angelo, colui che le aveva salvato la
vita per poi sparire, inghiottito dal nulla.
Irina
Vasilievna bussò. Le venne aperto quasi subito e quando varcò la soglia si
ritrovò in una grande stanza buia, con le finestre schermate da pesanti cortine
nere e illuminata dal bagliore di cento candele. Appese alle pareti, rare e
preziose icone antiche, riproducenti volti ieratici di santi e di Madonne. Era
stato il Piccolo Padre in persona ad aprirle la porta. Un omiciattolo brutto e
sporco, che indossava una sorta di saio bisunto su cui ruscellavano una lunga
chioma forforosa e una gran barbaccia. La penombra della stanza non era
sufficiente a nascondergli i denti guasti e le unghie lunghe come artigli, né
il profumo dell’incenso così forte da mascherare il puzzo intenso e nauseabondo
che emanava. Tuttavia la voce dell’uomo era dolce e ipnotica. E lo sguardo
degli occhi chiarissimi, profondamente infossati nelle orbite, sembrava davvero
in grado di vedere ciò che gli altri non vedevano.
SASHA
Irina
chiuse gli occhi, ingoiò il groppo che le serrava la gola. Rivide sé stessa e
Sasha, in quel minuscolo frammento di istante, e tutto quello che di bello e di
buono c’era stato fra loro, prima che lui scomparisse ingoiato dal niente,
annegato nel fiume, fulminato da un colpo della sua stessa rivoltella o
torturato e ucciso da un male che non lasciava scampo.
Aveva
saputo, e non ricordava chi gliel’avesse detto, che il pittore che stava nel
palazzo di fronte cercava una modella. Neppure sapeva che nel grosso, squallido
casamento dall’altra parte della strada ci fosse un pittore. Forse si era
trasferito lì da poco. Sapeva però che le modelle, di solito, si mettono nude
davanti agli artisti che le ritraggono.Lei non aveva mai neppure baciato un
ragazzo e aveva vergogna del suo corpo. Ma sapeva che l’alternativa a
quell’umiliazione erano la fame, la strada, o la fine che avevano fatto quelle
del piano di sotto. In fondo, si era detta per darsi coraggio, i pittori vedono
talmente tante di quelle donne nude che i loro occhi, il loro cuore e il loro
istinti non provano più niente di fronte a quello spettacolo. Gli artisti erano
una razza a parte, diversi dai comuni mortali. Sicuramente, quello doveva
essere un vecchio. Meglio.
-Un
grande dolore ti rode l’anima, figlia…
Irina
sentì sulla testa la carezza della mano adunca di Rasputin. Sì, Piccolo Padre,
il tormento di non sapere mi sta uccidendo.
-Sei
innamorata. E’ per lui che piangi.
La
luce delle candele gettava ombre cupe sulla faccia pallida e barbuta dell’uomo.
Era talmente vicina alla sua che la ragazza poteva sentire le zaffate rancide
del suo alito.
-Mi…
mi aiuterete?
Le
dita di Rasputin le si infilarono in mezzo ai folti capelli neri che portava
raccolti in due morbide trecce. A Sasha piacevano, e si era rabbuiato quando
lei gli aveva detto che avrebbe potuto tagliarle e venderle a un fabbricante di
parrucche per rimediare qualche soldo. Guai a te se lo fai, le aveva detto: il
tono della sua voce era scherzoso, eppure gli occhi non ridevano.
Ma
Sasha era il passato, non certo il presente e men che meno il futuro.
La
fetida bocca di Rasputin era vicinissima alla sua. Sta per baciarmi, pensò
Irina. Sta per farlo, ed io non posso fuggire. Non voglio. Lui solo può
squarciare il velo spesso che mi nasconde ciò che è stato di Sasha. Del solo
uomo che amerò. Per sempre.
Sul
portone della soffitta dove alloggiava, c’era un monogramma, inciso nel legno
con un temperino. MDM, in caratteri latini. Irina non si era domandata quale
significato potessero avere, forse anche quello faceva parte del suo bagaglio
di eccentricità d’artista. Come i lunghi capelli bianchi e le mani sottili che
doveva avere. Neppure sapeva come si chiamava, ma non gliene importava. L’unica
cosa di cui le importasse in quel momento erano i morsi feroci della sua fame.
L’uomo
doveva avere poco più di trent’anni e, nella luce del primo pomeriggio estivo
che entrava dalle grandi finestre, le sembrò incredibilmente bello: alto di
statura, muscoloso e forte, aveva le mani grandi e un po’ tozze di un
boscaiolo, l’aria sana di chi mangia bene e trascorre parecchio del suo tempo
all’aria aperta. Vestiva modestamente e i suoi colori erano comuni a moltissimi
russi, carnagione chiara, occhi blu, capelli e barba castano miele, ma non
aveva il naso concavo, le labbra strette, gli zigomi piatti e i tratti slavati
e indecisi e men che meno i denti gialli e guasti tanto consueti da quelle
parti. Doveva essere un lituano, si ritrovò a pensare, o magari un polacco. O
un tedesco, perché no. Questo avrebbe spiegato anche il monogramma inciso sulla
porta in caratteri latini invece che cirillici.
-Mi
chiamo Sasha. - Le aveva detto. Aveva una voce morbida e calda, e la sua
espressione accigliata si era sciolta in un sorriso cordiale che gli aveva
disegnato due profonde fossette sulle guance ispide di barba.
-Come
si chiamava?
Le
dita adunche del Monaco Nero continuavano a giocare con i riccioli che
sfuggivano dalle trecce e le incorniciavano il viso.
-Sasha.
-E
poi?
-Sasha e basta. E’ tutto quello che so di lui.
Era
davvero così, anche se sembrava assurdo. Sasha. Alexander, forse. Ma non
glien’era importato nulla, quando, debilitata dalla cattiva nutrizione, dalla
febbre e dalla fatica, gli era crollata ai piedi svenuta senza riuscire nemmeno
a dirgli il suo nome. Per quanto tempo aveva dormito il sonno senza sogni
dell’ottundimento e dell’incoscienza? In quell’ovattato dormiveglia, aveva
perfino creduto di essere morta. L’aldilà? E’ un’invenzione dei potenti per
tenere buona la povera gente. Lo diceva sempre, il vecchio maestro ateo ed
anarchico del villaggio e se quel che aveva sentito lei in quei momenti era la
vita oltre la morte, doveva essere lui, non il pope[4]
ad aver ragione.
-Corrispondeva
il tuo amore?
-Vivevamo
insieme. Come marito e moglie.
Irina
arrossì, sentendosi scrutata dagli occhi chiari e acuti di Rasputin.
L’archimandrita[5] Feofan, il
confessore della zarina, l’aveva
introdotto a Corte e non era passato molto tempo prima che la poveretta cadesse
sotto la sua nefasta influenza. Le aveva fatto credere d’essere dotato di
facoltà taumaturgiche e di poter rendere la salute al granduca Alessio. Dopo
quattro deliziose ragazze belle e sane, la zarina aveva messo al mondo il tanto
atteso erede maschio. Ma il bambino aveva ricevuto in eredità dalla madre la
maledizione dell’emofilia, una malattia inguaribile che lo avrebbe ben presto
condotto alla tomba. E anche se le condizioni di salute dello zarevic[6] erano tenute segrete, tra
la nobiltà come tra il popolo, notizie e dicerie cominciavano a filtrare.
“S’illude che quel ciarlatano lo
guarirà. Comprendo il suo attaccarsi
disperatamente a qualsiasi appiglio, anch’io sono madre, forse nei suoi panni
avrei fatto gli stessi sbagli. Ma quell’individuo sta approfittando della sua
posizione per influire negli affari di stato e gettare discredito sulla Corona.
I tempi sono difficili, il nostro Zar è troppo debole per prendere in pugno la
situazione e troppo influenzabile per distinguere chi gli è amico da chi
approfitta di lui.”
In
casa Jusupov tutti quanti detestavano il Monaco, anche la vecchia principessa
che aveva gli occhi annebbiati dalla cataratta, la pagava perché le leggesse
Hugo e Dostoijevskij e amava chiacchierare con lei di tante cose, davanti al samovar[7] d’argento che gorgogliava.
Nessuno doveva sapere che era andata da lui per conoscere se Sasha era vivo, se
era ancora lecito sperare o conveniva rassegnarsi.
L’aldilà
se lo sono inventato i potenti per mettere paura ai poveracci e impedire che si
ribellassero all’ordine costituito. I potenti sono pieni di astuzia e di
risorse, quando si tratta di difendere il loro tornaconto. Del resto, è da
secoli che lo fanno: da quando gli uomini sono usciti fuori dalle caverne e si
sono dati delle leggi e un assetto sociale… Da quando hanno delegato a qualcuno
il potere, e sono cominciati i soprusi e le ingiustizie… Che strano, nel
dormiveglia le parole del maestro
Metanov le echeggiavano nei pensieri ed era proprio il sibilo della voce che veniva fuori dalla sua
bocca sdentata quello che le sembrava di sentire. Ma il tepore piacevole che
sentiva contro di sé era quello della pelle calda e sudata di Sasha, che le
giaceva accanto. Era il suo cuore che batteva i colpi lenti e regolari che
cullavano il suo sonno. Non ho approfittato di te, le aveva detto, quando si
era risvegliata. Avevi la febbre, Irina. Avevi freddo, nonostante l’estate non
sia ancora finita.
-Guardami
negli occhi, ragazza…
Non
era facile, reggere il suo sguardo gelido da rettile. E poi forse aveva ragione
la principessa Jusupova, quell’individuo era soltanto un imbroglione della
peggiore specie e aveva fatto male ad andare da lui.
-Temi…
che lui sia andato via con un’altra?
Rasputin
aveva visto i delicati tratti asiatici della sua interlocutrice indurirsi. Era
bella, pensò. Più della contessa Vyrubova che gli aveva aperto le gambe oltre
alle porte dei salotti di chi contava. E doveva amarlo davvero, quell’ingrato
che l’aveva lasciata per un’altra. Sentì di desiderarla. Seguimi nella mia
stanza e te lo farò dimenticare, ragazza. Forse non sono giovane e bello come
lui, ma conosco mille magie per rendere felice una donna. Nobili e principesse
non si sono vergognate a scaldare il letto di Grigorij Efimovic Rasputin, il
Santo. O l’Imbroglione.
-Temo
che lui sia morto, Piccolo Padre.
Che
cosa te lo fa credere? Il fatto che tu stessa preferiresti saperlo morto
piuttosto che disteso sul letto di un’altra? Gli uomini sono brutte bestie,
ragazzina. Tutti quanti.
Irina
Vasilievna aveva labbra carnose rosse come ciliegie e piccoli denti bianchi e
regolari. La sua pelle aveva le tonalità dorate tipiche delle genti
dell’Armenia e dell’Iran e i capelli erano neri come le ali di un corvo. Dio,
quanto sei bella, aveva pensato Sasha ogni volta che la guardava.
Si era spogliata completamente senza provare
vergogna per quel che sarebbe stato, era molto più facile di quanto avesse
immaginato, e si era adagiata sopra un vecchio divano dalla fodera tarlata e
bisunta. Non era così che si faceva? E lui? L’avrebbe trovata bella? Era
sparito, e l’aveva lasciata sola nello studio a togliersi tutti i vestiti,
mentre lui cercava i carboncini e il blocco degli schizzi in qualche altro
angolo della casa? Non doveva trattarsi di un artista famoso. Diversamente, non
sarebbe vissuto in quella soffitta squallida e spoglia ma in una bella casa.
Perché non è vero che chi vive della sua creatività è destinato ad una vita
grama. Qualche giorno prima, mentre vagabondava in giro per la città alla
ricerca d’uno straccio di lavoro, le era capitato di incontrare il danzatore
Nijiskij sulla Prospettiva Newskij: sembrava un principe. Lui era stato
fortunato. Ma Sasha era uno dei tanti che si erano illusi. Forse aveva
rinunciato ad una vita agiata e serena, per rincorrere i suoi sogni.
Probabilmente non andava in cerca di facili guadagni, voleva soltanto seguire
la sua vocazione e di vivere in quella squallida soffitta non gliene importava
nulla, perché dipingere per lui era una necessità primordiale, come l’aria e il
cibo. Come l’amore.
-Perché
ti sei spogliata?
C’era
durezza nella sua voce bassa e profonda. E gli occhi azzurri che non riusciva a
distogliere dal suo corpo non nascondevano l’imbarazzo che provava.
-Non
avrei dovuto? Le modelle non si spogliano per farsi ritrarre?
-Io
volevo ritrarre il tuo viso, Irina. Non ti avrei mai chiesto di spogliarti.
A
meno che non volessi farlo per me. Perché sei bella e ti desidero, anche se non
so quasi niente di te, chi sei, cosa fai, cosa sogni…
Irina
si era coperta i seni con un cuscino e gli aveva raccontato che veniva da un
villaggio dell’interno. Un brutto posto dove l’aria stessa che si respirava
sapeva di miseria e di fame.
-Tu
la fame non l’hai mai provata. Sei cresciuta in una bella casa… E sei andata a
scuola.
Come
avete fatto a indovinare? Avete forse osservato che parlo correttamente e che
le mie mani non sono sciupate dai bucati e dalle rigovernature? O forse gli
uomini come voi hanno esperienza delle cose di mondo, e una donna gli basta
guardarla per capire che… che vi desidera, anche se è vergine, anche se non
capisce niente della vita e quasi non sa neppure chi siete. Ma sa bene che
sicuramente sbaglia a legare il suo destino a quello di un uomo come voi, che
non può darle niente.
Niente?
Chissà se il modo in cui baciava era tutto suo, o anche gli altri uomini
facevano così. Il suo labbro inferiore era soffice, carnoso. La barba pungeva,
ma non era una brutta sensazione, tutt’altro. Sei vergine, vero? Io sono il
primo. Allora dimmelo adesso se devo fermarmi perché tra poco sarà tardi e
potresti essere tu stessa a implorarmi di continuare.
“Mi
aveva pregato di stare con lui. Da tanto tempo sono solo, e la solitudine mi
pesa, Irina. Io sono rimasta. E sono stata felice, nonostante sapessi così poco
di lui.”
“Alternava
scoppi di allegria contagiosa a momenti di tristezza infinita, durante i quali
sembrava che volesse reggere tutto il peso del mondo sulle sue spalle. Avevo
accettato di dividere con lui la sua casa perché non sapevo dove andare. E poi
mi piaceva perché era giovane e bello, ma anche dolce, gentile, generoso.
Secondo il mio modesto parere era bravo, ma lui era convinto di non avere le
qualità dell’artista destinato a diventare grande. Sono solo un mediocre
imbrattatele, diceva, e non diventerò qualcuno neppure dopo morto. Forse era
quello che lo rattristava tanto, perché l’arte era tutta quanta la sua vita.
Non mi parlava mai della sua famiglia e per questo mi ero fatta l’idea che
avesse deciso di tagliare i ponti con il suo passato, di andarsene, abbandonando
forse una vita agiata, per campare stentatamente dipingendo quadri che vendeva
per pochi rubli e collaborando come illustratore con alcuni giornali. Era un
uomo intelligente, colto. Ricordo un libro, sul suo comodino. Un libro scritto
in latino, con a fronte la traduzione in francese. Le “Meditationes” di Marco
Aurelio. E’ stato un grande statista e un grand’uomo, mi disse una volta. Ebbe
una vita infelice, perché, uomo di pensiero, si sarebbe voluto dedicare
soltanto ai suoi studi e si ritrovò schiacciato dal peso del potere. Perché,
uomo di pace, fu costretto a trascorrere metà della sua vita sui campi di
battaglia. Perché, uomo di specchiata moralità, si ritrovò marito di una
sgualdrina e padre d’una figlia che, senza volerlo fare di proposito, aveva reso
egli stesso infelice e di un figlio debosciato, crudele e vigliacco.”
“Un
giorno, lui era già scomparso dalla mia vita, presi in mano quel libro, lo
sfogliai, lessi qualcosa: conosco bene il francese. Trovai una frase
sottolineata “Un ragno, quando ha
catturato una mosca, è convinto di aver compiuto chissà quale impresa. E così
crede chi ha catturato un Sarmata. Ma né l’uno né l’altro si rendono conto di
essere soltanto due piccoli ladri.”
-E’
ancora di questo mondo, Piccolo Padre? O farei meglio a rassegnarmi e pregare
per la salvezza della sua anima?
Gli
occhi acuti di Rasputin non avevano lasciato un attimo i suoi. Sta per parlare.
Sta per dirmi se debbo continuare ad aver fiducia o smetterla di illudermi, una
volta per tutte. Ma forse ha ragione la principessa Jusupova, costui non è che
un piccolo ladro di speranze e nel futuro non vede un bel niente. E’ solo uno
squallido arrampicatore sociale che ha trovato un filone d’oro con cui
arricchirsi e che sta trascinando l’Imperatore e la Santa Madre Russia verso la
rovina. Un ciarlatano che è stato reso onnipotente da quelle che lui sa
benissimo essere false promesse. E che adesso, dall’alto della sua posizione
privilegiata, può permettersi perfino di manovrare la politica interna ed
estera del Paese. Il popolo lo odia, lo Zar ne è succube. Se non troverà il
coraggio di liberarsene sarà la rovina. Per tutti.
-Ditemi…
Ti
dirò, ragazza. Ti dirò ciò che i poteri che mi vengono da Dio mi consentono di
vedere. Ma non sperare che tornerà da te, anche se è vivo. Conosco la genia di
mascalzoni a cui appartiene.
Non
ti ha mai rivelato il suo nome, non ti ha mai detto del suo passato. Hai
indovinato qualcosa nelle notti in cui accarezzavi il suo corpo nudo e sentivi
il rilievo delle cicatrici sotto le dita. Era perfino marchiato sulla schiena.
E quando gli hai chiesto perché, come al solito, si è mostrato evasivo. Poi ti
ha detto di essere stato arrestato a causa delle idee in cui credeva. Idee di
giustizia. Idee proibite. Ti ha parlato di un guardiano sadico che lo avrebbe
marchiato con un ferro di quelli che si usano con il bestiame. E tu gli hai
creduto, perché sai poco di come va il mondo, ragazza…
Rasputin
abbassò sugli occhi infossati le palpebre cascanti, trasse un sospiro rauco e
profondo, inghiottendo l’aria di quella stanza, che sapeva di muffa, d’incenso
e di candele. Li riaprì subito dopo, e Irina vide il suo volto farsi paonazzo,
le vene del collo tendersi come funi. L’afferrò per le spalle con le sue mani
adunche e le gridò, soffiandole in faccia una zaffata del suo alito marcio,
vattene, esci da questa casa. E lei riuscì a divincolarsi e a fuggire prima
che, con uno spintone, Rasputin potesse mandarla a ruzzolare giù dalle scale.
IL CANE PAZZO
Tutti,
dallo zar all’ultimo dei mendicanti sapevano che la granduchessa Anastasia era
una sventata. Una che avrebbe cambiato volentieri la sua vita fatata con quella
di una ragazza qualsiasi, né troppo povera né troppo ricca, perché solo così
avrebbe potuto godere delle piccole gioie che danno senso all’esistenza. Queste
bizzarrie di solito gliela rendevano simpatica, ma quella mattina Irina l’aveva
maledetta perché s’era cambiata d’abito ed era uscita da sola, per intrufolarsi
in mezzo alla gente qualsiasi, per assaggiare il gusto del pane nero o delle
frittelle inzuccherate comprate in una bancarella da una vecchia a cui
tremavano le mani e che, vedendola vestita come una qualunque, non l’avrebbe
riconosciuta.
L’ho
maledetta, pensava Irina allontanandosi a grandi passi dal luogo dove aveva
incontrato Rasputin. Se non si fosse decisa a mescolarsi con la folla proprio
quel giorno, la sua strada e quella di Sasha non si sarebbero incrociate di
fronte agli occhi vitrei e al muso bavoso di un grosso cane malato di rabbia.
Era sfuggito a coloro che stavano per catturarlo, e doveva essersi parato
dinanzi alla granduchessa, pronto ad assalirla. A Sasha non importava chi
fosse, probabilmente non l’aveva neppure riconosciuta, ma generoso com’era lo
avrebbe fatto per chiunque. E Anastasia si era salvata dall’attacco del cane.
Ma lui era stato morso.
Perché,
si domandò, Rasputin mi ha respinta senza tendermi la mano e chiedere quanto
gli è dovuto? Era come se la mia vista gli facesse orrore, come se riuscisse a
leggere la data precisa della sua morte in fondo ai miei occhi. Non mi ha
mandata via per non dirmi il tuo Sasha è morto, si è gettato nel fiume, si è
sparato in bocca per non soffrire, oppure se n’è andato perché tu non fossi
testimone della sua agonia atroce. Eppure, esisteva una cura contro la rabbia.
Era stata scoperta e sperimentata di recente. Forse non era facile da reperire
né alla portata di tutte le tasche, ma la ragazza che Sasha aveva salvato dai
morsi del cane idrofobo era la figlia dello Zar… E Nicola II gli doveva
riconoscenza, per quello, se era davvero il gentiluomo che si vantava di
essere.
Il
tuo Sasha è vivo, Irina Vasilievna. E sarà per me causa di grande sventura. Per
me, e per la Santa Madre Russia, che crollerà dalle fondamenta se io morirò.
Irina
aveva serrato forte le palpebre sugli occhi, immaginando quel che avrebbe
voluto il Veggente le dicesse. Non le aveva detto nulla, l’aveva solo guardata
come avrebbe guardato un rettile, e scacciata via. Ma illudersi che quel
pensiero assillante fossero le parole dell’uomo che era andata a cercare per sentirsi
dire spera ancora o dimenticalo era balsamo per le ferite aperte e sanguinanti
del suo cuore.
MAKSIM DIMITROVIC MEJIEV
Pietrogrado, marzo
1916.
Erano
passati ormai quasi tre anni, dal giorno in cui Irina si era recata dal Veggente
per chiedergli se c’era ancora una ragione per sperare. Tante cose erano
cambiate. La Russia era entrata in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa,
contro gli Imperi Centrali. E alla grande città sul Baltico, porta
sull’Occidente voluta dallo Zar Pietro il Grande perché il suo Paese si aprisse
al resto del mondo, era stato cambiato nome. Non potendo cambiare la sostanza
delle cose, si cambia loro il nome, come se questo potesse servire a influire
in qualche modo sugli eventi. Forse, lo Zar l’aveva fatto per convincere il
popolo dei suoi sentimenti antitedeschi.[8]
Forse, solo per distrarre la gente dai suoi problemi e tentare di smontare la
collera popolare, che saliva come una marea. La guerra durava ormai da due
anni, senza prospettive di una conclusione nell’immediato futuro. L’economia
ristagnava. La miseria cresceva, il malcontento spesso esplodeva in violente,
sanguinose rivolte che repressioni altrettanto violente non riuscivano più a
tenere sotto controllo. Anzi, dall’esilio, i sovversivi rientravano in patria,
per fomentare la rabbia della gente. E si sospettava che dietro il ritorno del
più temuto, Vladimir Ulijanov,[9]
si nascondesse la lunga mano della Germania. Lo zar faticava a mantenere il
controllo della situazione: debole e irresoluto, non era che un ostaggio nelle
mani delle grandi famiglie nobili che, temendo di perdere i loro privilegi,
ostacolavano qualsiasi riforma volta alla modernizzazione della Russia. E
l’ombra sinistra di Rasputin continuava ad esercitare la sua nefasta influenza
a Corte e sulla vita politica di un Paese allo sfascio.
Tante
cose sono cambiate, ma non la mia vita, pensava Irina. Per raggranellare
qualche soldo, continuava a recarsi quasi ogni giorno al palazzo Jusupov per
allietare, con la lettura dei suoi libri preferiti, le giornate alla vecchia
principessa, ormai ridotta alla cecità dalla cataratta. Era difficile mettere
assieme il pranzo con la cena, e c’era anche l’affitto da pagare. Per
arrotondare i guadagni, quando le capitava, faceva piccoli lavori di rammendo e
traduzioni dal francese. Quello che racimolava era appena sufficiente a non
morire di fame e di freddo.
Dal
Palazzo Jusupov a casa sua la strada era abbastanza lunga perché le mani e i
piedi le si gelassero, malgrado fossero protetti dai guanti di lana e da
robusti stivali foderati di pelo d’agnello. Una volta giunta a destinazione, si
sarebbe scaldata vicino alla stufa, poi avrebbe preso in mano quel lavoro di
traduzione, prima di cenare a pane e latte e andare a coricarsi. L’ennesima
d’una serie di giornate tutte uguali l’una all’altra.
Infilando
la chiave nella toppa, si accorse di non aver chiuso la porta, prima di uscire.
Era la prima volta che capitava e non avrebbe dovuto farlo mai più, non era
prudente. Ma era strano che fosse capitato proprio a lei, di solito così
metodica. C’erano dei risparmi, in fondo a un cassetto del comodino, gli
orecchini e la catena d’oro di sua madre, il suo rosario di filigrana… Qualche
malintenzionato avrebbe potuto approfittarne. O anche farle del male. Avrebbe
dovuto accettare la proposta della principessa Jusupova, trasferirsi a palazzo.
Ma di lasciare quella casa non se la sentiva. Nonostante tutto, non aveva perso
ancora la speranza che Sasha tornasse.
Quando
la fiamma balenò nella boccia del lume, lo vide seduto al tavolo della cucina,
i gomiti sulle ginocchia, la testa tra le mani. Il cuore prese a batterle
forte, quando si accorse di essere in trappola. Forse lei aveva chiuso la porta
e lo sconosciuto l’aveva forzata. Non poteva fuggire, se ne sarebbe accorto e
chissà… Non le restava che mormorare una preghiera, invocare i santi e
rimettersi alla volontà di Dio.
L’uomo
si voltò e le sorrise, guardandola. Non dovete aver paura di me, le disse. E le
sorrise ancora. Indossava un lungo pastrano militare, sotto il quale si
intravedevano gli stivali di pesante cuoio nero. Si era tolto i guanti e il
colbacco, e li aveva posati sul tavolo. Non voglio farvi del male… Irina. Lei
non sapeva se crederci o no. Sulle maniche del pastrano, l’uomo portava cuciti
gradi da ufficiale. Le era sembrato enormemente alto e grosso, ma sicuramente
quell’impressione era uno scherzo crudele della sua mente agitata, anche perché
il tono pacato della sua voce lenta e grave sarebbe dovuto essere rassicurante.
Nonostante fosse evidente che si trattava di un soldato, non portava armi con
sé. A meno che non ne nascondesse qualcuna sotto il pastrano.
Le
si avvicinò. La luce della lanterna illuminò grandi occhi chiari, frangiati da
lunghe ciglia e un volto dai tratti delicati. Aveva capelli castani, tagliati
corti, e le guance sporcate appena da un’ombra di barba.
-Perdonate
la mia intrusione, signorina, e lasciate che mi presenti. Il mio nome è Maksim
Dimitrovic Mejiev. Sono… Sono il fratello di Sasha.
DAL PASSATO
-Vorrei
che vi fermaste a cena, se questo vi fosse possibile. Sono tante le cose che
avrei da chiedervi.
-A
proposito di Sasha?
Irina
non rispose, ma si dice che chi tace acconsente. Si sarebbe fermato, certo.
Avrebbe consumato la cena con quella bella figliola dagli occhi di cerbiatta
che per oltre un anno aveva diviso con suo fratello casa e letto. Sasha, quella
testa matta.
Patate.
Della salsiccia. Pane nero. Una bistecca tigliosa di bue vecchio da dividere in
due: grazie al cielo, sia lei che il suo ospite avevano buoni denti. I tempi
erano quelli che erano, e le autorità avevano razionato i generi alimentari.
-E’
superfluo che vi chieda di accontentarvi. Non sono mai stata un granché come
cuoca e in giro non si trova molto.
-Sono
sempre stato abituato a mangiare qualsiasi cosa. Eppoi, beh… Il profumino è
delizioso: sarete sicuramente più brava di quell’incapace che cucina il rancio
a me e ai miei soldati.
Aveva
la stessa bella voce profonda del suo Sasha, il suo sguardo a tratti dolce, a
tratti crudele.
-E
così eravate fratelli, voi e lui…
-Gemelli.
Perfino nostra madre faceva fatica a distinguerci.
Irina
si sorprese a sorridere. Tante volte aveva cercato di immaginare come fosse
Sasha sotto tutto quel pelo, e adesso la risposta alla sue curiosità le stava
davanti. La barba ombreggiava, senza nasconderli del tutto, due nei che Sasha
aveva sotto lo zigomo sinistro e profonde fossette sulle guance e sul mento. E
in qualche modo, gli induriva i tratti delicati. Il viso rasato di Maksim avrebbe avuto qualcosa d’infantile, non
fosse stato per i grandi occhi sornioni e sonnolenti, che brillavano di
bagliori verdi, azzurri e dorati sotto le palpebre pesanti. Quelli erano gli
occhi di una tigre: anche a proposito di Sasha l’aveva sempre pensato.
Che
ne è di lui? E’ vivo? E’ morto? La domanda le bruciava sulle labbra, ma non
osava formularla, poiché temeva la risposta che avrebbe ricevuto. E’ bello come
lo era Sasha, continuava a pensare, guardandolo. Ha la sua stessa voce
profonda, le sue stesse labbra tenere, i suoi stessi occhi acuti e ardenti. Se
avesse la barba e i capelli lunghi, sarebbe identico a lui. Identico in tutto,
perfino in quei piccoli nei sulla guancia. Possibile che due gemelli siano
l’immagine speculare l’uno dell’altro, senza nemmeno un neo che li distingua?
Da bambina, si era spesso domandata come le pecore del vecchio Dima potessero
riconoscere i loro piccoli, visto che gli agnelli sono tutti uguali. E il
pastore le aveva risposto che li riconoscevano dall’odore. Ciascuno di noi, uomini
e animali, si porta addosso un particolare odore ed è diverso per tutti. Non
esistono al mondo due creature viventi la cui pelle emani lo stesso odore.
La
luce bassa sull’orizzonte che filtrava attraverso le imposte e quella più calda
e viva del lume a petrolio gli accendeva riflessi caldi sui capelli, che erano
corti e ricciuti. Come quelli di Sasha, avevano una base castana alla quale se
ne mischiavano pochissimi grigi e parecchi biondi o ramati anche se, essendo
molto più corti, i suoi sembravano più scuri.
Che
dirgli? Sasha non mi parlava mai di voi, non sapevo neppure che avesse dei
fratelli. Lui le avrebbe risposto che se n’era andato, che aveva tagliato i
ponti con la sua solida famiglia borghese, con il padre funzionario presso
qualche ministero, la madre timorata e benpensante, il fratello ufficiale, per
farne quel che voleva della sua vita. Sasha era come il vento, come un cavallo
selvaggio e indomabile al quale era impossibile imporre le briglie, la sella e
il peso fastidioso di un cavaliere. Sasha era l’uomo più generoso e gentile di
questo mondo, ma era anche terribilmente impulsivo: si ubriacava come un
carrettiere, usava con disinvoltura il peggiore turpiloquio che mai orecchie
umane pensassero di poter sentire, se c’era da menare le mani lo faceva senza
remore… Sasha era come una candela che brucia da entrambi i lati. Era destino
che Sasha morisse giovane.
Le
avrebbe risposto così, se gli avesse chiesto di parlargli di lui. E lei avrebbe
continuato a chiedersi, senza peraltro osare dirglielo in faccia, come mai se
Sasha aveva davvero rotto i ponti con la sua famiglia, lui aveva le chiavi di
casa sua. Perché era evidente che non aveva forzato la porta, per entrare lì
dentro. E che non l’aveva trovata aperta, come Irina aveva temuto in un primo
momento. Era sempre stata troppo prudente per fare qualcosa di così avventato.
-Siete
qui in licenza?
-In
convalescenza. Ho riportato una brutta ferita a un fianco e poi, come se non
bastasse, mi sono ammalato. Broncopolmonite. E’ un miracolo che io sia ancora
vivo.
L’aveva
detto tutto d’un fiato, come quando si stanno raccontando a qualcuno delle
bugie e non si vuol dare al proprio interlocutore il tempo di accorgersene. E,
come sempre succede in casi del genere, era stato veloce a cambiare discorso. Le aveva detto di essere al comando
di un battaglione di cavalleggeri cosacchi e di aver preso parte a numerose
battaglie. Aveva le mani forti. Come Sasha. E il colorito sano che non era
certo quello di chi è sopravissuto per miracolo a una grave ferita e a una
malattia che di solito uccide.[10]
-Potrei
offrirvi… del the? Non ho altro.
-Non
vi preoccupate, Irina, sto bene così.
Conosceva
il suo nome. Le si era rivolta chiamandola così prima ancora che lei si
presentasse. Era evidente che qualcuno doveva avergliene parlato: non c’era il
suo nome sul portone di casa. E chi poteva essere stato, se non quel fratello
che con la famiglia aveva rotto i ponti per mettersi a campare d’arte, di sogni
e di fame?
-Toglietevi
il cappotto… Maggiore Mejiev.
-Maksim.
Non siamo forse cognati?
Si
era sganciato le bandoliere di cuoio che portava incrociate sul petto, tolto il
pesante pastrano di panno grigioverde, con i polsi e il colletto in pelo di
agnello d’astrakan. Qui non c’è freddo, gli aveva detto lei posandolo sopra la
sua vecchia poltrona e aveva aggiunto, se non avete un posto migliore dove
andare… questa è casa vostra. In fondo al corridoio c’è una stanzetta con un
letto. Lui l’aveva ringraziata, senza dire né sì né no. Le si era avvicinato, e
le aveva preso il viso tra le sue grandi mani calde. Calde, già, nonostante il
freddo che faceva. Ma non era certo per quello che Irina rabbrividiva mentre
Maxim la baciava. Dolcemente, un labbro alla volta. Come faceva Sasha. E lei,
invece di schiaffeggiarlo, aveva lasciato che quel bacio diventasse più
selvaggio e bruciante, che la passione la travolgesse.
E’
da tanto che non tocchi una donna, Maksim Dimitrovic. Già, la guerra è la
guerra. Le sue dita lunghe e forti le sbottonarono i vestiti e la biancheria,
le stuzzicarono, attraverso la camiciola di batista, i capezzoli tesi per il
freddo e il desiderio. Starai con me questa notte, Maksim Dimitrovic? Le
strofinò le labbra sui seni, prima di scoprirglieli e di continuare ad
eccitarla, con le labbra, i denti e la lingua, scendendo poi sul ventre, tra le
cosce. Lei lo guardò spogliarsi e aspettò con il cuore in tumulto e il respiro
ansante implorandolo che la prendesse, che le entrasse dentro… E che non le
lasciasse il tempo di impazzire.
Maksim
Dimitrovic Mejiev giaceva appagato, dopo aver versato il suo seme dentro di
lei. Forse l’avrebbe presa ancora, quella notte. Irina se lo augurò, mentre
lasciava scorrere la mano sul corpo gagliardo del suo amante. Era forte, come
lo era stato Sasha. Chiaro di carnagione, sotto la leggera abbronzatura. I
muscoli che gli si gonfiavano sulle braccia e gli si allargavano sulle spalle e
sul petto erano sodi e definiti. Gli accarezzò delicatamente un capezzolo e si
ritrovò a pensare a quanto fosse sensibile, lì. Tanto quanto lo era lei. Tanto
quanto lo era stato Sasha.
Come
Sasha, anche Maksim era grande, potente. Dappertutto. Irina ripensò alla prima
volta e sorrise, rivivendo le sue paure. Ma Sasha era un amante tenero e dolce,
e il dolore della prima volta era stato assai meno devastante del piacere che
aveva provato. Irina chiuse gli occhi, abbandonò la testa sul largo petto di
Maksim, lasciò che la sua mano gli percorresse lentamente la pelle calda, che
le narici ne percepissero il sentore pulito, mascolino. E rivide sé stessa,
bambina, seduta su una catasta di tronchi fuori dall’isba[11]
del vecchio Dima. Quando gli aveva domandato come facessero le pecore a
riconoscere i loro figli, visto che gli agnelli sono tutti uguali, lui le aveva
risposto che li riconoscevano dall’odore. Dio ha dato a ognuno il suo, le aveva
detto. Non esistono due creature viventi che abbiano lo stesso odore. E questo
vale per tutti, uomini e bestie.
-Sasha…
-No,
non Sasha. Maksim.
Irina
scosse la testa, gli sorrise. Non puoi continuare a mentire. Credi che avrei fatto
l’amore con te, se non fossi stata sicura di chi eri? Quando sei sparito dalla
mia vita e non sapevo se eri vivo o morto, avevo giurato di appartenere
soltanto a te. Per sempre.
I
giuramenti e le promesse sono fatti apposta per essere infranti, Irina. Parole,
quelle, che suonavano strane, sulla bocca di un soldato.
Puoi
mentire quanto vuoi, Sasha. Ma l’odore della tua pelle non può mentire. E
nemmeno le cicatrici. Dimmi: chi sei veramente?
Un
uomo che viene dal passato. Un uomo che ha vissuto mille altre vite. Non le
avrebbe risposto, ne era sicura, se gli avesse chiesto come aveva fatto a
sopravvivere al morso di un cane idrofobo, a qualcosa di molto peggio di una
ferita o di una malattia, per quanto gravi potessero essere. Dimmi, è lo Zar
che ti ha fatto curare? E’ lui che ha fatto venire chissà da dove il siero che
ti ha salvato? In fin dei conti, se non avessi rischiato la vita per lei, quel
cane avrebbe morso la granduchessa Anastasia… E il nostro sovrano è un uomo di
parola, lo sanno tutti.
Avrebbe
dovuto dirle che la vita di un sovversivo non vale la parola di un re. Che lo
Zar non s’era neppure degnato di ringraziarlo, anche se aveva salvato sua
figlia e che non aveva alzato un dito per aiutarlo. Sarebbe stato difficile
convincerla che sbagliava a pensare che forse quel cane non era idrofobo ma
solamente inferocito… Eccome se lo era! Prima di essere abbattuto, aveva morso
e contagiato altri cinque cani. Ma come dirle senza essere preso per pazzo, che
lui non poteva morire?
La
strinse a sé, la baciò, e lei si abbandonò nuovamente alla passione, come se
avesse dimenticato tutto quello che le aveva detto e quello che non le avrebbe
detto mai. Che Sasha e Maksim non erano due gemelli, ma la stessa persona. Che
il suo vero nome non era né l’uno né l’altro, che non era un pittore, né un
sovversivo, né il comandante di un battaglione di cavalleggeri cosacchi. Che
non era neppure russo. Che da ben oltre mille e settecento anni aveva pagato
alla morte il suo tributo e vagava ramingo per il mondo, e avrebbe continuato a
vagare fino alla fine dei secoli, perché qualcuna che lo amava gli aveva
regalato la maledizione della vita immortale.
INTRECCIO DI
DESTINI
E’ tornato. E non me ne importa
niente se di lui non so nulla, se da quel che ha detto ho capito solamente che
non è chi credevo. Ma è vivo, ed è con me, e conta questo, e questo soltanto.
Irina
si accomodò sulla poltrona, a fianco della vecchia principessa cieca. Doveva
essere stata bella, Olga Pavlovna Jusupova, nei suoi giorni migliori. Lo pensava
ogni volta che la guardava perché il tempo non era riuscito a demolire
completamente le vestigia della sua bellezza. Le mani piene di macchie e
deformate dall’artrite dovevano essere state lunghe e sottili, il profilo
delicato, le labbra tenere. I capelli bianchi come fiocchi d’ovatta dovevano
aver avuto i bagliori dell’oro fuso, gli occhi spenti le sfumature del cielo
nelle calde giornate d’estate… Chissà come mai non c’era, nei suoi
appartamenti, un ritratto che avesse fissato per sempre sulla tela lo splendore
della sua giovinezza.
-Che
cosa desiderate ascoltare oggi, principessa?
Le
piaceva quella giovane riservata, che parlava il francese con buona pronuncia e
aveva modi gentili ed educati ma non servili. Sapeva che la vita l’aveva
duramente provata, malgrado non avesse che venticinque anni. Ma le avversità le
aveva affrontate con un’encomiabile forza d’animo, e adesso era felice: il suo
uomo, che credeva morto, era ricomparso nella sua esistenza. La sua
perseveranza era stata premiata. Anche se la vita avrebbe avuto in serbo per
lei altre prove, altri dolori, questo era certo.
-“Anna Karenina”.
Irina
non le domandò come mai, proprio quel giorno, la principessa Jusupova
desiderasse che le venissero letti alcuni capitoli di quella storia così
terribilmente triste.
-L’ho
conosciuto, Lev Tolstoij. Era un uomo strano. Come tutti gli artisti.
Strano
come lo era stato il pittore Alexander Dimitrovic Mejiev, il suo Sasha, prima
di rinascere con il nome di Maksim e i gradi di maggiore di cavalleria? Chissà
se era tornato per restare, per decidere di costruire con lei qualcosa di
solido e concreto, una famiglia, dei figli. Lo avrebbe desiderato tanto, Irina,
anche se si sarebbe accontentata, pur di restargli accanto, di vivere il suo
amore giorno per giorno, senza pensare al domani.
“Mio caro, mio
adorato, piccolo Cutik… - disse Anna chiamandola con il nomignolo che soleva
dargli quando egli era piccino - E tu non mi dimenticherai… Tu…”
La
principessa Jusupova alzò la mano, le disse basta così, ne ho a iosa di lacrime
e di tristezza. Allungami una tazza di the, Irina. Per favore. E abbi la
pazienza di sopportare questa vecchia noiosa che oggi ha voglia di scambiare
quattro chiacchiere con te.
Le
parlò di suo nipote Feliks. Quel ragazzo debole ed effeminato era il suo
cruccio, più del tempo che passava inesorabile, più dei suoi occhi spenti.
Odiava il Monaco, anche lui, ma non avrebbe osato far niente contro di lui. Non
avrebbe fatto niente, no, anche se, frequentando la Corte, poteva vedere ogni
giorno come quell’individuo stesse trascinando la Russia verso una catastrofe
che avrebbe travolto, inevitabilmente, anche tutti loro. Avevano offerto allo starec del denaro per ritirarsi in buon ordine dalla Corte
e dalla vita pubblica, e quel denaro l’aveva rifiutato. Ormai, solo uccidendolo
avrebbero potuto liberare il Paese dall’influenza nefasta di quel parassita.
Qualcuno di coloro che frequentavano il Palazzo Jusupov ne aveva parlato. Il
granduca Dimitri Pavlov. Vladimir Puriksevic, il deputato alla Duma.[12] Ma Feliks cambiava discorso.Era molto delusa
da suo nipote, la principessa Jusupova.
-Ha
paura. Tempo fa, lo starec profetizzò allo Zar che i
destini della Russia erano legati a doppio filo alla sua vita. Se morirò nel
corso di una rivolta popolare, ci saranno lunghe lotte, ma alla fine
trionferete. Se sarà un boiaro[13] ad uccidermi, scoppierà una
rivoluzione nel corso della quale perderete la corona ma avrete salva la vita.
Ma se a uccidermi sarà qualcuno legato a Voi da vincoli di sangue, allora
perderete anche la vita, Maestà. E per il nostro mondo sarà la fine.
Irina
rabbrividì. Quell’uomo era in grado di leggere nella mente e negli occhi degli
altri il passato, il presente e il futuro. Le era bastato poco a capirlo,
quando era andata a cercarlo nella sua casa sulla Gorohavaja, per conoscere se
Sasha era vivo o era morto. Anche se la principessa continuava a sostenere che
si trattava soltanto di superstizioni e che lo starec era semplicemente un individuo malvagio e astuto, capace di
servirsi senza alcuno scrupolo dell’influenza che riusciva ad esercitare sugli
altri per i suoi sporchi tornaconti: dai mugik,
che lo veneravano come un santo, all’abulica e annoiata nobiltà pietroburghese,
alla zarina, che lo considerava l’unica medicina in grado di rendere la salute
all’infelice zarevic, e non gliene importava
nulla delle chiacchiere della gente.
-Vorrei
che Feliks fosse diverso da com’è. Che mi somigliasse, almeno un po’. E’
vergognoso che l’unico uomo di questa famiglia sia una vecchia cieca.
L’aveva
vista trarre un profondo sospiro dal petto scarno, prima di chiederle vuoi che
ti racconti un paio di storie, Irina Vasilievna? Mi pagate per questo, avrebbe
voluto rispondere lei: per leggervi a voce alta i libri che preferite, e per
ascoltarvi rivangare i ricordi del passato. Ma non parlò, e accennò a un sì con
la testa.
-Allora
ti racconterò di me, e potrai scoprire curiose analogie tra le mie vicende e
quelle di Anna Karenina. Anch’io sposai per convenienza, a vent’anni neppure
compiuti, un uomo che non amavo, e che sarebbe potuto essere mio padre. Anch’io
conobbi l’amore vero e lo vissi di nascosto, per non compromettere il mio buon
nome e la posizione di mio marito, che non ho mai amato, ma stimavo e
rispettavo. Non credo che avrei avuto il coraggio di andare fino in fondo, come
quella poveretta, di abbandonare la mia famiglia per trasferirmi a vivere con
lui: non lo avrei fatto neppure se non avessi saputo… se non avessi saputo che…
Un
breve, secco colpo di tosse e un rauco sospiro interruppero le sue parole. Poi
la vecchia principessa riprese fiato e ricominciò a raccontare.
-Era
un uomo di bassa condizione sociale, un ex soldato che mio marito aveva
ingaggiato perché insegnasse a nostro figlio a cavalcare e a tirare di scherma.
Aveva modi riservati e cortesi ed era bellissimo.
Ricordare
quegli attimi le faceva chiudere gli occhi spenti per riassaporare la felicità
perduta e sembrava avesse il potere di spianare le rughe sulla sua fronte,
ringiovanendola di parecchi anni. Si chiamava Maksim, le disse. E, chissà come
mai, lei rabbrividì fino alle ossa. Eppure, anche se non comunissimo, quel nome
non era nemmeno poi così raro.
Neppure
lei sapeva perché le avesse chiesto “Com’era? Descrivetelo.” Un uomo che
potrebbe entrare nei sogni di qualsiasi donna… anche nei tuoi, Irina. Aveva
capelli castani non troppo scuri, occhi azzurri, tratti regolari e un
bellissimo corpo. Un corpo capace di risvegliare in me sensazioni mai provate…
Eravamo coetanei. Avevamo entrambi trentatré anni.
Gli
occhi della principessa Jusupova la fissavano senza vederla, e il suo viso era
tornato ad essere quello di una vecchia d’ottant’anni che le vicissitudini
dell’esistenza avevano indurito e piegato senza tuttavia riuscire a spezzarla.
-E’
come se la sentissi ancora sotto le dita, la sua pelle di seta. Aveva molte
vecchie cicatrici, sulle braccia, sul collo, sulla schiena, e io sulle prime
pensai a colpi di kurbash.[14]
Una, invece, sembrava un marchio impresso con un ferro rovente. Non gli chiesi
nulla, ma scoprii il perché, e chi era, quando un giorno…
Volevano
appartarsi in una piccola dacia[15] in mezzo ai boschi, il
luogo consueto dei loro incontri segreti. Ma mentre cavalcavano alla volta del
posto, un bandito solitario li aveva assaliti per rapinarli e, forse spaventato
dalla vigorosa reazione dell’uomo, aveva sparato un colpo di pistola che lo
aveva centrato in pieno petto.
-Mi
vidi perduta, Irina. Come te, quando hai saputo che, per salvare la
granduchessa Anastasia, il tuo uomo aveva affrontato un cane idrofobo ed era
stato morso. Per lui sarebbe stata la morte, per me l’infelicità e il disonore,
pensai. Era evidente per chiunque, la gravità di quella ferita. Com’era
altrettanto evidente che non avrei potuto far altro che tenergli la mano e
guardarlo morire. Invece…
-Invece
impiegò pochi minuti a rimettersi in piedi, e del ricordo di quella grave
ferita restava solo il sangue che gli impregnava lo sparato della camicia.
Sulla pelle, nessun segno. Non ci avrei creduto, se non l’avessi visto con i
miei occhi. Non mi lasciò il tempo di domandarmi perché, men che meno di
spaventarmi; e quando mi strinse la mano e mi chiese di seguirlo dentro la
dacia lo feci senza esitare. Mi raccontò tutto di lui. Fu l’ultima volta che ci
vedemmo, dopodiché scomparve dalla mia vita. Per sempre. Almeno, così credevo.
Perché
dite questo, principessa? Se è tornato dal vostro passato, adesso sarà un
vecchio cadente. O forse… Irina si morse il labbro. Come Sasha era
sopravvissuto al morso di un cane rabbioso, il lontano amore della principessa
Jusupova non era stato ucciso da una rivoltellata in pieno petto. Aveva tratti
somatici che potevano essere i suoi, le stesse cicatrici, lo stesso nome con
cui si era presentato quando era tornato, millantando l’identità di un
ufficiale della cavalleria cosacca.
-Mi
disse di un uomo che, per non tradire i principi in cui gli era stato insegnato
a credere, era stato crudelmente privato dei suoi affetti, spinto a faccia in
giù nella polvere… Era stato un valoroso generale, al servizio dell’imperatore
di Roma Marco Aurelio, che lo avrebbe adottato come figlio e designato quale
erede al trono, se non fosse morto
all’improvviso, senza lasciare disposizioni sulla successione. Lui non inchinò
la testa di fronte al nuovo Cesare, il turpe Lucio Aurelio Antonino Commodo e
pagò il suo atto d’insubordinazione con lo sterminio dei suoi cari e con la
riduzione in schiavitù. Divenuto gladiatore, fu costretto a battersi a morte
per il sollazzo della plebaglia… E’ alla sua prima vita che risalgono le
cicatrici che gli segnano il corpo. La prima di tante vite, perché da quando
una donna perdutamente innamorata di lui, la principessa Annia Lucilla Galeria,
con l’aiuto della magia lo riportò indietro dal mondo dei morti, non deve
temere il tempo, la vecchiaia, le ferite, le malattie… Capisci adesso perché,
nonostante non sia stato curato, non è morto di rabbia? E perché quel colpo di
pistola non l’ha ucciso?
Irina
strinse forte le palpebre sugli occhi. Colui che nella grande arena di Roma era
crollato morto dopo aver ammazzato il tiranno… Colui al quale una donna
innamorata aveva regalato la maledizione della vita eterna… E’ tornato, Irina.
Massimo Decimo Meridio è tornato per te. Ma anche per infondere il coraggio nel
cuore di coniglio di Feliks Feliksovic Jusupov… E’ tornato perché possa essere
compiuto un atto di giustizia e i pericoli che la minacciano siano stornati
dalla Santa Madre Russia.
FERRO, FUOCO E VELENO
Nella
sua prima vita aveva ucciso. Molte volte. Perché la guerra è guerra; perché
l’uomo è un lupo nei confronti dei suoi simili. Un lupo. Proprio così, pensò
accarezzando l’elsa del suo pugnale, un ricordo dell’altra vita, qualcosa che
veniva, come lui, da un lontano passato. Un passato nel quale gli era stato
ingiunto di uccidere, da schiavo, altri schiavi: ammazza, o muori, gli aveva
sibilato il suo padrone, minacciando di levargli via la pelle a frustate, se
non si fosse deciso a combattere. Ma se il suo corpo viveva, la sua anima era
morta, e di quel che ne sarebbe stato di lui non gliene importava nulla. Si
sarebbe lasciato morire, non fosse stato per quel demone che gli rodeva l’anima
come un cancro. Non ci sarebbe stata giustizia, finché Commodo avesse
continuato a camminare sopra la terra, a gozzovigliare, a divertirsi rubando la
vita agli altri. E Massimo, il Generale, la vittima, il gladiatore aveva
vissuto gli anni della sua abiezione unicamente in ragione di quell’odio di cui
il suo cuore si nutriva solo per non morire prima che giustizia fosse fatta.
-Maksim
Dimitrovic Mejiev…
Jusupov,
Puriskevic e il granduca Dmitrj Pavlovic gli avevano esposto i loro piani. Gli
avevano detto che altri tentativi di eliminare lo Stregone non erano andati a
buon fine. E che c’era bisogno dell’aiuto di un uomo come lui per sperare che,
finalmente, il piano funzionasse a dovere. Era possibile che qualcuno avesse
rivelato loro il suo segreto, o quelle erano semplici frasi di circostanza?
Optò per la seconda ipotesi: era la più logica. Jusupov, infatti, non lo
guardava certo come si dovrebbe guardare qualcuno tornato dall’aldilà per
sempre: era un bel ragazzo biondo, dalla corporatura minuta e dai tratti
delicati e, non fosse stato per i capelli corti e i sottili baffetti che gli
ombreggiavano il labbro superiore, lo si sarebbe potuto tranquillamente
prendere per una donna. Delle sue stranezze parlava tutta Pietrogrado, ciò
nonostante Maksim era vissuto abbastanza da imparare che non sono le preferenze
sessuali di un uomo a determinare ciò che egli è nel profondo del cuore.
Eppure, quel giovane vagheggino non gli piaceva. Così come non gli piaceva
l’idea di contribuire a spedire all’altro mondo qualcuno che non gli aveva
fatto nulla. E’ un pericolo per le istituzioni, aveva detto il deputato
Puriskevic. Istituzioni che non sono giuste, aveva pensato lui, e che
cambieranno. In forza di nuove leggi che quelli come voi non vogliono… O di una
rivoluzione che farà scorrere il sangue a fiumi.
-E’
andato il dottor Lazavert, a prenderlo. Lui, sì, travestito da cocchiere; non
penso che impiegherà molto ad arrivare.
-Come
avete fatto a… A convincerlo a muoversi da casa sua? Da quando la terra gli
scotta sotto i piedi e teme per la sua vita, non uscirebbe da lì neanche se
casa sua prendesse fuoco.
Jusupov
si guardò le unghie.
-Gli
ho promesso cibo buono, fiumi di madera, il suo vino preferito, e
una decina di avvenenti e spregiudicate puttane reclutate dai bordelli
di Pietrogrado, tutte pronte a
soddisfare qualsiasi suo desiderio.
-Un’orgia?
-Mettetela
come volete… Io la chiamerei una trappola. Cibo, vino e ragazze sono solo
l’esca per farcelo cadere dentro.
-Mangiare
a crepapelle, ubriacarsi come una spugna, fottere come un dannato… Quale uomo
direbbe di no a una proposta così allettante?
-Lui
no di certo. Anche se ha sempre il nome di Dio sulla bocca non ha mai
rinunciato a spassarsela, il nostro amato starec che la Zarina crede un santo…
Puriskevic
ridacchiò. Alcuni valletti in livrea
introdussero vassoi carichi di cibo e diverse bottiglie di vini, liquori e
vodka.
-Non
toccate i dolci e il madera: sono avvelenati. Spero solo che quegli imbecilli
dei servitori non abbiano assaggiato qualcosa, secondo il loro solito. Dentro
quella roba c’è abbastanza cianuro da sterminare una mandria di cento buoi.
-
…e qualche valletto goloso… Se ne mangiasse, tanto peggio per lui. E le puttane
quando arrivano? Non è che avete spalmato con il cianuro anche la fica delle
nostre ragazze, Jusupov?
Mentre
gli altri ridevano sguaiatamente, Maksim taceva, tormentando con le mani il
pugnale che nascondeva sotto i vestiti: tagliava come un rasoio e aveva l’elsa
finemente cesellata in forma di testa di lupo. Sarebbe servito a qualcosa, si
domandava, mentre fuori la neve cadeva a larghi fiocchi. A niente, si rispose
da solo. E quasi non sentì la voce del maggiordomo annunciare l’arrivo dello starec.
Il
madera esalava un sottile aroma di mandorle amare, ma lo starec non sembrò avvedersene, mentre ne tracannava a larghe
sorsate un bicchiere via l’altro. Eppure, il dottor Lazavert, che glielo aveva
preparato sapendo benissimo a cosa gli sarebbe servito, aveva raccomandato al
principe Jusupov di maneggiarlo, o farlo maneggiare, con estrema cautela. “E
fate attenzione anche agli animali che tenete in casa, principe.”
Ma
nonostante il vino e i pasticcini contenessero abbastanza cianuro da sterminare
una mandria di buoi, lo starec continuava a masticare e a
tracannare come se il veleno non riuscisse a sortire sul suo organismo alcun
effetto. Che si trattasse davvero di magia? Che l’uomo fosse davvero in
possesso di poteri paranormali? Jusupov si sentiva scrutato fin nel profondo
delle sue ossa dai piccoli, penetranti, chiarissimi occhi del Monaco. Era solo
con lui in uno dei salotti del palazzo, gli altri gli avevano detto vi
aspetteremo in un’altra stanza, quando il veleno sortirà i suoi effetti. Invece
niente.
Jusupov
rabbrividì. Doveva trovare una scusa, pensò, per uscire senza destare sospetti,
e avvertire gli altri che Rasputin, nonostante tutto il veleno che aveva in
corpo, non si decideva a morire. Pavlovic. Puriksevic. Il dottor Lazavert. O il maggiore Mejiev. C’era, in
fondo agli occhi azzurri di quel bell’uomo grande e forte, qualcosa che lo
inquietava, anche se neppure lui aveva capito di che potesse trattarsi. Era
come se… Come se lui e il Monaco fossero della stessa natura. Ma era chiaro che
il suo cervello sconvolto stava lavorando di fantasia.
-Mi
sento poco bene. Vi domando il permesso di uscire un attimo. Non tarderò a
tornare.
Tornò,
e c’erano Puriksevic e Mejiev con lui. Il primo impugnava una piccola
rivoltella, con la quale fece fuoco, dopo averla puntata al petto del Monaco.
Rasputin non provò quasi stupore, malgrado il deputato che era, come tutti i
gentiluomini russi, un ottimo tiratore, non avesse di certo sbagliato la mira.
Gonfio di veleno, il saio intriso di sangue, riuscì a prendere la porta, a
fuggire nel grande parco che circondava il palazzo.
Non
andrà lontano, disse Puriksevic. Sono sicuro di averlo preso al cuore.
Maksim
Mejiev lo cercò. E lo trovò. Era ancora vivo, era ancora in piedi, e lo fissava
con i suoi occhi spiritati.
-Credi
che la mia fine possa servire a qualcosa…. Immortale?
Non
lo so, pensò Maksim sfilando il pugnale. E’ il destino a volere che tu muoia
così, Grigorij Efimovic.
L’arma
calò una sola volta su di lui, recidendogli la carotide, e, questa volta, il
Monaco crollò morto per davvero, sopra la terra dura di ghiaccio. Maksim si
chinò a guardarlo, cercò, per pietà di chiudergli gli occhi. Non ci riuscì. Poi
ripulì dal sangue il suo pugnale strofinandolo con una manciata di neve. Era
appartenuto al Cesare Marco Aurelio Antonino, pensò. Al suo padre putativo. A
colui che, un mare di tempo prima aveva scritto nelle sue memorie di un ragno,
di un legionario, di una mosca e di un barbaro sarmata.
Con l’aiuto dei domestici il corpo di Rasputin venne avvolto in una
coperta, legato e gettato nel canale Malaja Mojka. Per una sequenza di errori e
di eventi sfortunati il segreto del complotto durò meno di quarantotto ore. Il
19 dicembre 1916 veniva ripescato il corpo congelato e devastato di Grigorij
Rasputin. Meno di un anno dopo, sarebbe scoppiata la Rivoluzione. Come predetto
dal Monaco, lo Zar e la sua intera famiglia furono sterminati dai Bolscevichi
presso la località di Ekaterimburg, dove erano tenuti prigionieri, il 16 luglio
1918.
FINE
Lalla, 6
/10/2002
[1] Bracciante agricolo
[2] Louis Pasteur, il biologo scopritore del vaccino contro la rabbia.
[3] Centesimo
[4] Prete ortodosso
[5] Vescovo ortodosso
[6] Erede al trono
[7] Bollitore usato per la preparazione
del the
[8] Tanto il suffisso tedesco Burg
che quello russo Grad significano città.
[9] Lenin.
[10] Prima della scoperta della
penicillina, molto spesso la broncopolmonite aveva esiti fatali.
[11] Baracche di tronchi d’albero in
cui vivevano i contadini.
[12] Parlamento.
[13] Rappresentante della grande
nobiltà.
[14] Frusta.
[15] Villa in campagna.