Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore

Lettura sconsigliata ai minori di anni 18

 

 Massimo l’Immortale

L’UOMO DI TOBOL’SK

di Lalla Usai

Una musica che mi ha ispirata? Da Borodin a Tchaijcowskij, un po’ tutti i compositori russi che adoro (e di cui dispero di aver scritto correttamente il nome…). E, per rimanere in casa, la bellissima “Prospettiva Nevskij” del grande Franco Battiato.

 

Prologo

LO STAREC

(Il Veggente)

 

 

 

San Pietroburgo, anno 1913, tarda primavera

 

Qualcuno diceva che fosse un uomo terribile. Qualcun altro che difficilmente avrebbe perso tempo con una come lei. Ma Irina era abituata da una vita a scontrarsi con l’ostilità degli altri. E da oltre un anno non sapeva se l’uomo che amava fosse ancora vivo o fosse morto, ammazzato dalla sua generosità  e da una malattia che non lasciava scampo.

 

Dicevano che fosse un individuo terribile, e doveva essere vero. Dicevano che difficilmente avrebbe perso il suo tempo che valeva oro con una come lei. Avrebbe insistito, si disse da sé sola, lo avrebbe tormentato finché, esasperato, lui non le avesse dato ascolto. C’era chi lo odiava, chi lo temeva e chi lo venerava come un santo. Si diceva che possedesse poteri taumaturgici e vedesse ciò che la gente comune non vede.

 

 Grigorij Efimovic. Rasputin.

 

IRINA VASILIEVNA KIROVA

 

Che quell’uomo fosse un santo o il diavolo, in verità poco le importava. Sul suo conto correvano strane voci, ma a lei importava solo che fosse in grado, con le sue parole, di alimentare la speranza che si portava dentro, o di affossarla definitivamente. Non poteva più vivere in quel purgatorio fatto di incubi e di attesa. Era un anno esatto che Sasha non dava più notizie di sé. Un anno che era scomparso senza lasciare traccia. Per la verità, qualcuno asseriva di averlo visto sul ponte Bulsoj guardare accigliato le acque della Neva, a pochi giorni dall’incidente, come se avesse avuto in animo di fare un tuffo in quelle acque profonde e non tornare più a galla. Come se avesse deciso di darsi da sé una morte pietosa, che fosse rapida e gli risparmiasse le sofferenze che lo aspettavano. Sapeva a cosa sarebbe andato incontro. E neanche Irina lo ignorava. A Gracyna, quando lei aveva dodici anni, un mugik[1] era morto fra inenarrabili sofferenze, dopo essere stato morso da un lupo idrofobo. Aveva anche sentito dire che, qualche anno prima, uno scienziato francese[2] aveva sperimentato con successo un antidoto contro la rabbia e forse… Ma era difficile. Non era mai stata fortunata, si disse da sé sola, incamminandosi verso il luogo che le era stato indicato.

 

 

Avrei bisogno di un pizzico di fortuna in più di quella che ho avuto finora, si disse, mentre attraversava a passi veloci la Prospettiva Nevskij senza lasciarsi distrarre dalle vetrine dei negozi e dalle occhiate languide dei militari. Non aveva tempo da perdere, la principessa l’aspettava, alla solita ora. Era generosa, la vecchia principessa Jusupova, ed era soltanto grazie a quella generosità, se lei poteva mangiare e continuare a pagare la pigione della soffitta all’angolo della Starorusskaja che, per un anno, aveva diviso con Sasha. Non sta lontano, le avevano detto. Non sta lontano. Ed è il solo che ti possa aiutare a conoscere la verità, a sapere se è il caso di continuare a sperare. O se è meglio per te entrare in una chiesa e pregare per la salvezza della sua anima immortale.

 

C’erano parecchi soldati armati, in giro per la strada. Tempi brutti, quelli, si diceva. La gente era scontenta dell’andazzo, c’erano stati rivolte e moti di piazza, e i tempi che sarebbero venuti sarebbero stati ancora più brutti di quelli, a Gracyna lo dicevano tutti quanti. Fai male ad andartene. Ma dacché suo padre era morto, per lei non c’era più posto in quella casa.

 

La sua matrigna le aveva proposto, anzi, ingiunto, di sposare un vedovo cinquantenne carico d’acciacchi e di figli. L’alternativa, lo aveva capito subito, era andarsene, e lei aveva preso il coraggio a quattro mani, caricato le sue poche cose sulla carretta del vecchio Dima, e raggiunto San Pietroburgo. Anche se erano tempi difficili e lo zar si era trovato costretto tante volte a imporre l’ordine con la punta delle baionette, o peggio. Pochi anni prima, il Paese era uscito con le ossa rotte dalla guerra contro il Giappone e il popolo affamato reclamava pane, gli intellettuali giustizia. Mentre nel resto del mondo il progresso avanzava inesorabile, nella Grande Madre Russia si viveva ancora come nel medioevo. O la situazione cambia, o tutto scoppia, dicevano gli uomini a Gracyna, tenendo bassa la voce. E le vecchie si segnavano, dopo aver rigirato tra le dita i grani dei loro rosari. Anche in quell’angolo sperduto di mondo, tutti sapevano che c’erano i lavori forzati in Siberia nel futuro dei sovversivi e dei ribelli.

 

Non ho niente da perdere, si era detta Irina Vasilievna mentre, per l’ultima volta, si girava a guardare i tetti di paglia del suo villaggio. Lei era vissuta in una casa di mattoni, mantenuta decorosamente da suo padre, che era stato l’amministratore del conte Golycyn, il feudatario locale. Dai sette ai quattordici anni era andata a scuola dalle monache, che le avevano insegnato, oltre che a pregare, a leggere, scrivere, far di conto, parlare il francese, ricamare e suonare il pianoforte. Non dubitava che la sua istruzione le avrebbe permesso di trovare facilmente impiego come governante presso qualche ricca famiglia o, alla peggio, come commessa in un negozio elegante della prospettiva Nevskij.

 

Sua madre era morta già da diversi anni e la donna con cui suo padre si era risposato l’aveva sempre trattata con indifferenza. Forse era invidiosa della giovinezza che lei non aveva più, Natasha Ivanovna. Magari pure della bellezza che non aveva mai avuto, con quei capelli quasi albini, gli occhietti slavati, la faccia larga e piatta, il corpaccione grande e sfatto che si ritrovava. Come la matrigna cattiva delle favole.

 

Irina sentiva su di sé gli sguardi ammirati dei militari che presidiavano la strada e, quando si specchiava nelle vetrine, vedeva una bella ragazza bruna e scura come una zingara. O come un’ebrea, diceva Natasha Ivanovna sputando tra le labbra quella parola, quasi fosse stata un insulto. Suo nonno, il padre di sua madre, ingegnere addetto alla costruzione della ferrovia, era vissuto a lungo nelle province dell’Asia Centrale e aveva sposato una ragazza khazaka. Anche sua madre era stata bruna e scura, come lei.

 

Quanti soldati, pensò allungando il passo. E quanti mendicanti cenciosi, quanti cani randagi dal pelo rognoso e dallo sguardo sfuggente. Rabbrividì, prima d’infilarsi nel piccolo portone che si apriva su di un andito buio come la bocca di un forno. Era arrivata a destinazione.

 

Il PASSATO NON TORNA

 

Vorrà sapere chi sono e perché ho voluto incontrarlo. La gente dice che sia un uomo terribile… Le due rampe di scalini sconnessi dovettero sembrarle più invalicabili di una montagna. Stare davanti a lui, parlargli, avrebbe richiesto tutte quante le sue forze e chissà se ne sarebbe valsa la pena o se anche Grigorij Efimovic, il Piccolo Padre, le avrebbe detto rassegnati, ragazza, il passato non torna, magari dopo averle svuotato le tasche fino all’ultimo copeco[3]. Si era arricchito, si diceva, vendendo false speranze a poveri infelici come lei.

 

Nei pochi istanti che impiegò a salire quella scala sconnessa e tarlata, Irina Vasilievna rivide gli ultimi mesi della sua vita. Non era stato facile come credeva, trovare un lavoro con il quale mantenersi, una volta giunta in città. I tempi si erano fatti difficili per gli uomini, figurarsi per una donna sola. Ma Zina, la vecchia che le aveva affittato un buco di stanza in un casermone cadente sulla Starorusskaija, pretendeva di essere pagata con puntualità, e i risparmi erano finiti in fretta. Ancora un paio di giorni, Babushka, mi hanno promesso lavoro, una modista che sta sulla Suvorovskij cerca una commessa e mi ha promesso che… Oggi è come ieri e come oggi sarà domani, le diceva la vecchia fissandola con gli occhietti scoloriti da gallina. E domani sarà tardi. E domani sarà inverno. E d’inverno, a venti gradi sotto zero, si muore, di freddo e di fame, senza un rifugio che ti protegga dal gelo, senza un piatto di stufato e una fetta di pane da mettere sotto i denti.

 

Sapeva che a Gracyna non sarebbe tornata, si era detta tante volte da sola, dopo aver contato i rubli che, di giorno in giorno, diminuivano a vista d’occhio. Lavoro, niente. Anche se si sarebbe accontentata di qualsiasi cosa, perfino di sfacchinare in fabbrica come una schiava. Di qualsiasi cosa, già. Ma non di quello che facevano le inquiline del piano di sotto, che le era capitato di incontrare tante volte nell’androne, e avevano le facce dipinte, i capelli gialli e tanfavano di sudore e di violetta di Parma. Erano puttane, quelle. E magari, prima di diventarlo, erano state brave ragazze giunte dalla campagna in cerca di un lavoro onesto che non avevano trovato.

 

Il giorno in cui l’aveva incontrato per la prima volta, si era consumata le suole delle scarpe in cerca, tanto per cambiare, di quello che non trovava, un lavoro onesto che le permettesse di mangiare e di pagare la pigione della stanza. Aveva i crampi allo stomaco perché da un paio di giorni non buttava giù che zuppe di latte e pane raffermo, e le vesciche ai piedi. Il tempo stringeva, la vecchia Zina reclamava i soldi dell’affitto, tra poco non avrebbe accettato più scuse. E l’inverno non avrebbe impiegato troppo ad arrivare.

 

Aveva girato in lungo e in largo, eppure c’era qualcuno, a due isolati da dove viveva, disposto a  pagarla, in cambio di un facile lavoretto. Sasha. Il suo angelo, colui che le aveva salvato la vita per poi sparire, inghiottito dal nulla.

 

Irina Vasilievna bussò. Le venne aperto quasi subito e quando varcò la soglia si ritrovò in una grande stanza buia, con le finestre schermate da pesanti cortine nere e illuminata dal bagliore di cento candele. Appese alle pareti, rare e preziose icone antiche, riproducenti volti ieratici di santi e di Madonne. Era stato il Piccolo Padre in persona ad aprirle la porta. Un omiciattolo brutto e sporco, che indossava una sorta di saio bisunto su cui ruscellavano una lunga chioma forforosa e una gran barbaccia. La penombra della stanza non era sufficiente a nascondergli i denti guasti e le unghie lunghe come artigli, né il profumo dell’incenso così forte da mascherare il puzzo intenso e nauseabondo che emanava. Tuttavia la voce dell’uomo era dolce e ipnotica. E lo sguardo degli occhi chiarissimi, profondamente infossati nelle orbite, sembrava davvero in grado di vedere ciò che gli altri non vedevano.

 

SASHA

 

Irina chiuse gli occhi, ingoiò il groppo che le serrava la gola. Rivide sé stessa e Sasha, in quel minuscolo frammento di istante, e tutto quello che di bello e di buono c’era stato fra loro, prima che lui scomparisse ingoiato dal niente, annegato nel fiume, fulminato da un colpo della sua stessa rivoltella o torturato e ucciso da un male che non lasciava scampo.

 

Aveva saputo, e non ricordava chi gliel’avesse detto, che il pittore che stava nel palazzo di fronte cercava una modella. Neppure sapeva che nel grosso, squallido casamento dall’altra parte della strada ci fosse un pittore. Forse si era trasferito lì da poco. Sapeva però che le modelle, di solito, si mettono nude davanti agli artisti che le ritraggono.Lei non aveva mai neppure baciato un ragazzo e aveva vergogna del suo corpo. Ma sapeva che l’alternativa a quell’umiliazione erano la fame, la strada, o la fine che avevano fatto quelle del piano di sotto. In fondo, si era detta per darsi coraggio, i pittori vedono talmente tante di quelle donne nude che i loro occhi, il loro cuore e il loro istinti non provano più niente di fronte a quello spettacolo. Gli artisti erano una razza a parte, diversi dai comuni mortali. Sicuramente, quello doveva essere un vecchio. Meglio.

 

-Un grande dolore ti rode l’anima, figlia…

Irina sentì sulla testa la carezza della mano adunca di Rasputin. Sì, Piccolo Padre, il tormento di non sapere mi sta uccidendo.

-Sei innamorata. E’ per lui che piangi.

La luce delle candele gettava ombre cupe sulla faccia pallida e barbuta dell’uomo. Era talmente vicina alla sua che la ragazza poteva sentire le zaffate rancide del suo alito.

-Mi… mi aiuterete?

Le dita di Rasputin le si infilarono in mezzo ai folti capelli neri che portava raccolti in due morbide trecce. A Sasha piacevano, e si era rabbuiato quando lei gli aveva detto che avrebbe potuto tagliarle e venderle a un fabbricante di parrucche per rimediare qualche soldo. Guai a te se lo fai, le aveva detto: il tono della sua voce era scherzoso, eppure gli occhi non ridevano.

Ma Sasha era il passato, non certo il presente e men che meno il futuro.

 

La fetida bocca di Rasputin era vicinissima alla sua. Sta per baciarmi, pensò Irina. Sta per farlo, ed io non posso fuggire. Non voglio. Lui solo può squarciare il velo spesso che mi nasconde ciò che è stato di Sasha. Del solo uomo che amerò. Per sempre.

 

Sul portone della soffitta dove alloggiava, c’era un monogramma, inciso nel legno con un temperino. MDM, in caratteri latini. Irina non si era domandata quale significato potessero avere, forse anche quello faceva parte del suo bagaglio di eccentricità d’artista. Come i lunghi capelli bianchi e le mani sottili che doveva avere. Neppure sapeva come si chiamava, ma non gliene importava. L’unica cosa di cui le importasse in quel momento erano i morsi feroci della sua fame.

 

L’uomo doveva avere poco più di trent’anni e, nella luce del primo pomeriggio estivo che entrava dalle grandi finestre, le sembrò incredibilmente bello: alto di statura, muscoloso e forte, aveva le mani grandi e un po’ tozze di un boscaiolo, l’aria sana di chi mangia bene e trascorre parecchio del suo tempo all’aria aperta. Vestiva modestamente e i suoi colori erano comuni a moltissimi russi, carnagione chiara, occhi blu, capelli e barba castano miele, ma non aveva il naso concavo, le labbra strette, gli zigomi piatti e i tratti slavati e indecisi e men che meno i denti gialli e guasti tanto consueti da quelle parti. Doveva essere un lituano, si ritrovò a pensare, o magari un polacco. O un tedesco, perché no. Questo avrebbe spiegato anche il monogramma inciso sulla porta in caratteri latini invece che cirillici.

 

-Mi chiamo Sasha. - Le aveva detto. Aveva una voce morbida e calda, e la sua espressione accigliata si era sciolta in un sorriso cordiale che gli aveva disegnato due profonde fossette sulle guance ispide di barba.

 

-Come si chiamava?

Le dita adunche del Monaco Nero continuavano a giocare con i riccioli che sfuggivano dalle trecce e le incorniciavano il viso.

-Sasha.

-E poi?

-Sasha  e basta. E’ tutto quello che so di lui.

 

Era davvero così, anche se sembrava assurdo. Sasha. Alexander, forse. Ma non glien’era importato nulla, quando, debilitata dalla cattiva nutrizione, dalla febbre e dalla fatica, gli era crollata ai piedi svenuta senza riuscire nemmeno a dirgli il suo nome. Per quanto tempo aveva dormito il sonno senza sogni dell’ottundimento e dell’incoscienza? In quell’ovattato dormiveglia, aveva perfino creduto di essere morta. L’aldilà? E’ un’invenzione dei potenti per tenere buona la povera gente. Lo diceva sempre, il vecchio maestro ateo ed anarchico del villaggio e se quel che aveva sentito lei in quei momenti era la vita oltre la morte, doveva essere lui, non il pope[4] ad aver ragione.

 

-Corrispondeva il tuo amore?

-Vivevamo insieme. Come marito e moglie.

Irina arrossì, sentendosi scrutata dagli occhi chiari e acuti di Rasputin. L’archimandrita[5] Feofan, il confessore della  zarina, l’aveva introdotto a Corte e non era passato molto tempo prima che la poveretta cadesse sotto la sua nefasta influenza. Le aveva fatto credere d’essere dotato di facoltà taumaturgiche e di poter rendere la salute al granduca Alessio. Dopo quattro deliziose ragazze belle e sane, la zarina aveva messo al mondo il tanto atteso erede maschio. Ma il bambino aveva ricevuto in eredità dalla madre la maledizione dell’emofilia, una malattia inguaribile che lo avrebbe ben presto condotto alla tomba. E anche se le condizioni di salute dello zarevic[6] erano tenute segrete, tra la nobiltà come tra il popolo, notizie e dicerie cominciavano a filtrare.

 “S’illude che quel ciarlatano lo guarirà.  Comprendo il suo attaccarsi disperatamente a qualsiasi appiglio, anch’io sono madre, forse nei suoi panni avrei fatto gli stessi sbagli. Ma quell’individuo sta approfittando della sua posizione per influire negli affari di stato e gettare discredito sulla Corona. I tempi sono difficili, il nostro Zar è troppo debole per prendere in pugno la situazione e troppo influenzabile per distinguere chi gli è amico da chi approfitta di lui.”

In casa Jusupov tutti quanti detestavano il Monaco, anche la vecchia principessa che aveva gli occhi annebbiati dalla cataratta, la pagava perché le leggesse Hugo e Dostoijevskij e amava chiacchierare con lei di tante cose, davanti al samovar[7] d’argento che gorgogliava. Nessuno doveva sapere che era andata da lui per conoscere se Sasha era vivo, se era ancora lecito sperare o conveniva rassegnarsi.

 

L’aldilà se lo sono inventato i potenti per mettere paura ai poveracci e impedire che si ribellassero all’ordine costituito. I potenti sono pieni di astuzia e di risorse, quando si tratta di difendere il loro tornaconto. Del resto, è da secoli che lo fanno: da quando gli uomini sono usciti fuori dalle caverne e si sono dati delle leggi e un assetto sociale… Da quando hanno delegato a qualcuno il potere, e sono cominciati i soprusi e le ingiustizie… Che strano, nel dormiveglia le parole del maestro  Metanov le echeggiavano nei pensieri ed era proprio il  sibilo della voce che veniva fuori dalla sua bocca sdentata quello che le sembrava di sentire. Ma il tepore piacevole che sentiva contro di sé era quello della pelle calda e sudata di Sasha, che le giaceva accanto. Era il suo cuore che batteva i colpi lenti e regolari che cullavano il suo sonno. Non ho approfittato di te, le aveva detto, quando si era risvegliata. Avevi la febbre, Irina. Avevi freddo, nonostante l’estate non sia ancora finita.

 

-Guardami negli occhi, ragazza…

Non era facile, reggere il suo sguardo gelido da rettile. E poi forse aveva ragione la principessa Jusupova, quell’individuo era soltanto un imbroglione della peggiore specie e aveva fatto male ad andare da lui.

-Temi… che lui sia andato via con un’altra?

Rasputin aveva visto i delicati tratti asiatici della sua interlocutrice indurirsi. Era bella, pensò. Più della contessa Vyrubova che gli aveva aperto le gambe oltre alle porte dei salotti di chi contava. E doveva amarlo davvero, quell’ingrato che l’aveva lasciata per un’altra. Sentì di desiderarla. Seguimi nella mia stanza e te lo farò dimenticare, ragazza. Forse non sono giovane e bello come lui, ma conosco mille magie per rendere felice una donna. Nobili e principesse non si sono vergognate a scaldare il letto di Grigorij Efimovic Rasputin, il Santo. O l’Imbroglione.

-Temo che lui sia morto, Piccolo Padre.

Che cosa te lo fa credere? Il fatto che tu stessa preferiresti saperlo morto piuttosto che disteso sul letto di un’altra? Gli uomini sono brutte bestie, ragazzina. Tutti quanti.

 

Irina Vasilievna aveva labbra carnose rosse come ciliegie e piccoli denti bianchi e regolari. La sua pelle aveva le tonalità dorate tipiche delle genti dell’Armenia e dell’Iran e i capelli erano neri come le ali di un corvo. Dio, quanto sei bella, aveva pensato Sasha ogni volta che la guardava.

 

 Si era spogliata completamente senza provare vergogna per quel che sarebbe stato, era molto più facile di quanto avesse immaginato, e si era adagiata sopra un vecchio divano dalla fodera tarlata e bisunta. Non era così che si faceva? E lui? L’avrebbe trovata bella? Era sparito, e l’aveva lasciata sola nello studio a togliersi tutti i vestiti, mentre lui cercava i carboncini e il blocco degli schizzi in qualche altro angolo della casa? Non doveva trattarsi di un artista famoso. Diversamente, non sarebbe vissuto in quella soffitta squallida e spoglia ma in una bella casa. Perché non è vero che chi vive della sua creatività è destinato ad una vita grama. Qualche giorno prima, mentre vagabondava in giro per la città alla ricerca d’uno straccio di lavoro, le era capitato di incontrare il danzatore Nijiskij sulla Prospettiva Newskij: sembrava un principe. Lui era stato fortunato. Ma Sasha era uno dei tanti che si erano illusi. Forse aveva rinunciato ad una vita agiata e serena, per rincorrere i suoi sogni. Probabilmente non andava in cerca di facili guadagni, voleva soltanto seguire la sua vocazione e di vivere in quella squallida soffitta non gliene importava nulla, perché dipingere per lui era una necessità primordiale, come l’aria e il cibo. Come l’amore.

 

-Perché ti sei spogliata?

C’era durezza nella sua voce bassa e profonda. E gli occhi azzurri che non riusciva a distogliere dal suo corpo non nascondevano l’imbarazzo che provava.

-Non avrei dovuto? Le modelle non si spogliano per farsi ritrarre?

-Io volevo ritrarre il tuo viso, Irina. Non ti avrei mai chiesto di spogliarti.

A meno che non volessi farlo per me. Perché sei bella e ti desidero, anche se non so quasi niente di te, chi sei, cosa fai, cosa sogni…

Irina si era coperta i seni con un cuscino e gli aveva raccontato che veniva da un villaggio dell’interno. Un brutto posto dove l’aria stessa che si respirava sapeva di miseria e di fame.

-Tu la fame non l’hai mai provata. Sei cresciuta in una bella casa… E sei andata a scuola.

Come avete fatto a indovinare? Avete forse osservato che parlo correttamente e che le mie mani non sono sciupate dai bucati e dalle rigovernature? O forse gli uomini come voi hanno esperienza delle cose di mondo, e una donna gli basta guardarla per capire che… che vi desidera, anche se è vergine, anche se non capisce niente della vita e quasi non sa neppure chi siete. Ma sa bene che sicuramente sbaglia a legare il suo destino a quello di un uomo come voi, che non può darle niente.

 

Niente? Chissà se il modo in cui baciava era tutto suo, o anche gli altri uomini facevano così. Il suo labbro inferiore era soffice, carnoso. La barba pungeva, ma non era una brutta sensazione, tutt’altro. Sei vergine, vero? Io sono il primo. Allora dimmelo adesso se devo fermarmi perché tra poco sarà tardi e potresti essere tu stessa a implorarmi di continuare.

 

“Mi aveva pregato di stare con lui. Da tanto tempo sono solo, e la solitudine mi pesa, Irina. Io sono rimasta. E sono stata felice, nonostante sapessi così poco di lui.”

 

“Alternava scoppi di allegria contagiosa a momenti di tristezza infinita, durante i quali sembrava che volesse reggere tutto il peso del mondo sulle sue spalle. Avevo accettato di dividere con lui la sua casa perché non sapevo dove andare. E poi mi piaceva perché era giovane e bello, ma anche dolce, gentile, generoso. Secondo il mio modesto parere era bravo, ma lui era convinto di non avere le qualità dell’artista destinato a diventare grande. Sono solo un mediocre imbrattatele, diceva, e non diventerò qualcuno neppure dopo morto. Forse era quello che lo rattristava tanto, perché l’arte era tutta quanta la sua vita. Non mi parlava mai della sua famiglia e per questo mi ero fatta l’idea che avesse deciso di tagliare i ponti con il suo passato, di andarsene, abbandonando forse una vita agiata, per campare stentatamente dipingendo quadri che vendeva per pochi rubli e collaborando come illustratore con alcuni giornali. Era un uomo intelligente, colto. Ricordo un libro, sul suo comodino. Un libro scritto in latino, con a fronte la traduzione in francese. Le “Meditationes” di Marco Aurelio. E’ stato un grande statista e un grand’uomo, mi disse una volta. Ebbe una vita infelice, perché, uomo di pensiero, si sarebbe voluto dedicare soltanto ai suoi studi e si ritrovò schiacciato dal peso del potere. Perché, uomo di pace, fu costretto a trascorrere metà della sua vita sui campi di battaglia. Perché, uomo di specchiata moralità, si ritrovò marito di una sgualdrina e padre d’una figlia che, senza volerlo fare di proposito, aveva reso egli stesso infelice e di un figlio debosciato, crudele e vigliacco.”

 

“Un giorno, lui era già scomparso dalla mia vita, presi in mano quel libro, lo sfogliai, lessi qualcosa: conosco bene il francese. Trovai una frase sottolineata “Un ragno, quando ha catturato una mosca, è convinto di aver compiuto chissà quale impresa. E così crede chi ha catturato un Sarmata. Ma né l’uno né l’altro si rendono conto di essere soltanto due piccoli ladri.”

 

-E’ ancora di questo mondo, Piccolo Padre? O farei meglio a rassegnarmi e pregare per la salvezza della sua anima?

Gli occhi acuti di Rasputin non avevano lasciato un attimo i suoi. Sta per parlare. Sta per dirmi se debbo continuare ad aver fiducia o smetterla di illudermi, una volta per tutte. Ma forse ha ragione la principessa Jusupova, costui non è che un piccolo ladro di speranze e nel futuro non vede un bel niente. E’ solo uno squallido arrampicatore sociale che ha trovato un filone d’oro con cui arricchirsi e che sta trascinando l’Imperatore e la Santa Madre Russia verso la rovina. Un ciarlatano che è stato reso onnipotente da quelle che lui sa benissimo essere false promesse. E che adesso, dall’alto della sua posizione privilegiata, può permettersi perfino di manovrare la politica interna ed estera del Paese. Il popolo lo odia, lo Zar ne è succube. Se non troverà il coraggio di liberarsene sarà la rovina. Per tutti.

 

-Ditemi…

Ti dirò, ragazza. Ti dirò ciò che i poteri che mi vengono da Dio mi consentono di vedere. Ma non sperare che tornerà da te, anche se è vivo. Conosco la genia di mascalzoni a cui appartiene.

Non ti ha mai rivelato il suo nome, non ti ha mai detto del suo passato. Hai indovinato qualcosa nelle notti in cui accarezzavi il suo corpo nudo e sentivi il rilievo delle cicatrici sotto le dita. Era perfino marchiato sulla schiena. E quando gli hai chiesto perché, come al solito, si è mostrato evasivo. Poi ti ha detto di essere stato arrestato a causa delle idee in cui credeva. Idee di giustizia. Idee proibite. Ti ha parlato di un guardiano sadico che lo avrebbe marchiato con un ferro di quelli che si usano con il bestiame. E tu gli hai creduto, perché sai poco di come va il mondo, ragazza…

 

Rasputin abbassò sugli occhi infossati le palpebre cascanti, trasse un sospiro rauco e profondo, inghiottendo l’aria di quella stanza, che sapeva di muffa, d’incenso e di candele. Li riaprì subito dopo, e Irina vide il suo volto farsi paonazzo, le vene del collo tendersi come funi. L’afferrò per le spalle con le sue mani adunche e le gridò, soffiandole in faccia una zaffata del suo alito marcio, vattene, esci da questa casa. E lei riuscì a divincolarsi e a fuggire prima che, con uno spintone, Rasputin potesse mandarla a ruzzolare giù dalle scale.

 

IL CANE PAZZO

 

Tutti, dallo zar all’ultimo dei mendicanti sapevano che la granduchessa Anastasia era una sventata. Una che avrebbe cambiato volentieri la sua vita fatata con quella di una ragazza qualsiasi, né troppo povera né troppo ricca, perché solo così avrebbe potuto godere delle piccole gioie che danno senso all’esistenza. Queste bizzarrie di solito gliela rendevano simpatica, ma quella mattina Irina l’aveva maledetta perché s’era cambiata d’abito ed era uscita da sola, per intrufolarsi in mezzo alla gente qualsiasi, per assaggiare il gusto del pane nero o delle frittelle inzuccherate comprate in una bancarella da una vecchia a cui tremavano le mani e che, vedendola vestita come una qualunque, non l’avrebbe riconosciuta.

 

L’ho maledetta, pensava Irina allontanandosi a grandi passi dal luogo dove aveva incontrato Rasputin. Se non si fosse decisa a mescolarsi con la folla proprio quel giorno, la sua strada e quella di Sasha non si sarebbero incrociate di fronte agli occhi vitrei e al muso bavoso di un grosso cane malato di rabbia. Era sfuggito a coloro che stavano per catturarlo, e doveva essersi parato dinanzi alla granduchessa, pronto ad assalirla. A Sasha non importava chi fosse, probabilmente non l’aveva neppure riconosciuta, ma generoso com’era lo avrebbe fatto per chiunque. E Anastasia si era salvata dall’attacco del cane. Ma lui era stato morso.

 

Perché, si domandò, Rasputin mi ha respinta senza tendermi la mano e chiedere quanto gli è dovuto? Era come se la mia vista gli facesse orrore, come se riuscisse a leggere la data precisa della sua morte in fondo ai miei occhi. Non mi ha mandata via per non dirmi il tuo Sasha è morto, si è gettato nel fiume, si è sparato in bocca per non soffrire, oppure se n’è andato perché tu non fossi testimone della sua agonia atroce. Eppure, esisteva una cura contro la rabbia. Era stata scoperta e sperimentata di recente. Forse non era facile da reperire né alla portata di tutte le tasche, ma la ragazza che Sasha aveva salvato dai morsi del cane idrofobo era la figlia dello Zar… E Nicola II gli doveva riconoscenza, per quello, se era davvero il gentiluomo che si vantava di essere.

 

Il tuo Sasha è vivo, Irina Vasilievna. E sarà per me causa di grande sventura. Per me, e per la Santa Madre Russia, che crollerà dalle fondamenta se io morirò.

 

Irina aveva serrato forte le palpebre sugli occhi, immaginando quel che avrebbe voluto il Veggente le dicesse. Non le aveva detto nulla, l’aveva solo guardata come avrebbe guardato un rettile, e scacciata via. Ma illudersi che quel pensiero assillante fossero le parole dell’uomo che era andata a cercare per sentirsi dire spera ancora o dimenticalo era balsamo per le ferite aperte e sanguinanti del suo cuore.

 

MAKSIM DIMITROVIC MEJIEV

 

Pietrogrado, marzo 1916.

 

Erano passati ormai quasi tre anni, dal giorno in cui Irina si era recata dal Veggente per chiedergli se c’era ancora una ragione per sperare. Tante cose erano cambiate. La Russia era entrata in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa, contro gli Imperi Centrali. E alla grande città sul Baltico, porta sull’Occidente voluta dallo Zar Pietro il Grande perché il suo Paese si aprisse al resto del mondo, era stato cambiato nome. Non potendo cambiare la sostanza delle cose, si cambia loro il nome, come se questo potesse servire a influire in qualche modo sugli eventi. Forse, lo Zar l’aveva fatto per convincere il popolo dei suoi sentimenti antitedeschi.[8] Forse, solo per distrarre la gente dai suoi problemi e tentare di smontare la collera popolare, che saliva come una marea. La guerra durava ormai da due anni, senza prospettive di una conclusione nell’immediato futuro. L’economia ristagnava. La miseria cresceva, il malcontento spesso esplodeva in violente, sanguinose rivolte che repressioni altrettanto violente non riuscivano più a tenere sotto controllo. Anzi, dall’esilio, i sovversivi rientravano in patria, per fomentare la rabbia della gente. E si sospettava che dietro il ritorno del più temuto, Vladimir Ulijanov,[9] si nascondesse la lunga mano della Germania. Lo zar faticava a mantenere il controllo della situazione: debole e irresoluto, non era che un ostaggio nelle mani delle grandi famiglie nobili che, temendo di perdere i loro privilegi, ostacolavano qualsiasi riforma volta alla modernizzazione della Russia. E l’ombra sinistra di Rasputin continuava ad esercitare la sua nefasta influenza a Corte e sulla vita politica di un Paese allo sfascio.

 

Tante cose sono cambiate, ma non la mia vita, pensava Irina. Per raggranellare qualche soldo, continuava a recarsi quasi ogni giorno al palazzo Jusupov per allietare, con la lettura dei suoi libri preferiti, le giornate alla vecchia principessa, ormai ridotta alla cecità dalla cataratta. Era difficile mettere assieme il pranzo con la cena, e c’era anche l’affitto da pagare. Per arrotondare i guadagni, quando le capitava, faceva piccoli lavori di rammendo e traduzioni dal francese. Quello che racimolava era appena sufficiente a non morire di fame e di freddo.

 

Dal Palazzo Jusupov a casa sua la strada era abbastanza lunga perché le mani e i piedi le si gelassero, malgrado fossero protetti dai guanti di lana e da robusti stivali foderati di pelo d’agnello. Una volta giunta a destinazione, si sarebbe scaldata vicino alla stufa, poi avrebbe preso in mano quel lavoro di traduzione, prima di cenare a pane e latte e andare a coricarsi. L’ennesima d’una serie di giornate tutte uguali l’una all’altra.

 

Infilando la chiave nella toppa, si accorse di non aver chiuso la porta, prima di uscire. Era la prima volta che capitava e non avrebbe dovuto farlo mai più, non era prudente. Ma era strano che fosse capitato proprio a lei, di solito così metodica. C’erano dei risparmi, in fondo a un cassetto del comodino, gli orecchini e la catena d’oro di sua madre, il suo rosario di filigrana… Qualche malintenzionato avrebbe potuto approfittarne. O anche farle del male. Avrebbe dovuto accettare la proposta della principessa Jusupova, trasferirsi a palazzo. Ma di lasciare quella casa non se la sentiva. Nonostante tutto, non aveva perso ancora la speranza che Sasha tornasse.

 

Quando la fiamma balenò nella boccia del lume, lo vide seduto al tavolo della cucina, i gomiti sulle ginocchia, la testa tra le mani. Il cuore prese a batterle forte, quando si accorse di essere in trappola. Forse lei aveva chiuso la porta e lo sconosciuto l’aveva forzata. Non poteva fuggire, se ne sarebbe accorto e chissà… Non le restava che mormorare una preghiera, invocare i santi e rimettersi alla volontà di Dio.

 

L’uomo si voltò e le sorrise, guardandola. Non dovete aver paura di me, le disse. E le sorrise ancora. Indossava un lungo pastrano militare, sotto il quale si intravedevano gli stivali di pesante cuoio nero. Si era tolto i guanti e il colbacco, e li aveva posati sul tavolo. Non voglio farvi del male… Irina. Lei non sapeva se crederci o no. Sulle maniche del pastrano, l’uomo portava cuciti gradi da ufficiale. Le era sembrato enormemente alto e grosso, ma sicuramente quell’impressione era uno scherzo crudele della sua mente agitata, anche perché il tono pacato della sua voce lenta e grave sarebbe dovuto essere rassicurante. Nonostante fosse evidente che si trattava di un soldato, non portava armi con sé. A meno che non ne nascondesse qualcuna sotto il pastrano.

Le si avvicinò. La luce della lanterna illuminò grandi occhi chiari, frangiati da lunghe ciglia e un volto dai tratti delicati. Aveva capelli castani, tagliati corti, e le guance sporcate appena da un’ombra di barba.

 

-Perdonate la mia intrusione, signorina, e lasciate che mi presenti. Il mio nome è Maksim Dimitrovic Mejiev. Sono… Sono il fratello di Sasha.

 

DAL PASSATO

 

-Vorrei che vi fermaste a cena, se questo vi fosse possibile. Sono tante le cose che avrei da chiedervi.

-A proposito di Sasha?

Irina non rispose, ma si dice che chi tace acconsente. Si sarebbe fermato, certo. Avrebbe consumato la cena con quella bella figliola dagli occhi di cerbiatta che per oltre un anno aveva diviso con suo fratello casa e letto. Sasha, quella testa matta.

Patate. Della salsiccia. Pane nero. Una bistecca tigliosa di bue vecchio da dividere in due: grazie al cielo, sia lei che il suo ospite avevano buoni denti. I tempi erano quelli che erano, e le autorità avevano razionato i generi alimentari.

-E’ superfluo che vi chieda di accontentarvi. Non sono mai stata un granché come cuoca e in giro non si trova molto.

-Sono sempre stato abituato a mangiare qualsiasi cosa. Eppoi, beh… Il profumino è delizioso: sarete sicuramente più brava di quell’incapace che cucina il rancio a me e ai miei soldati.

Aveva la stessa bella voce profonda del suo Sasha, il suo sguardo a tratti dolce, a tratti crudele.

-E così eravate fratelli, voi e lui…

-Gemelli. Perfino nostra madre faceva fatica a distinguerci.

Irina si sorprese a sorridere. Tante volte aveva cercato di immaginare come fosse Sasha sotto tutto quel pelo, e adesso la risposta alla sue curiosità le stava davanti. La barba ombreggiava, senza nasconderli del tutto, due nei che Sasha aveva sotto lo zigomo sinistro e profonde fossette sulle guance e sul mento. E in qualche modo, gli induriva i tratti delicati.  Il viso rasato di Maksim avrebbe avuto qualcosa d’infantile, non fosse stato per i grandi occhi sornioni e sonnolenti, che brillavano di bagliori verdi, azzurri e dorati sotto le palpebre pesanti. Quelli erano gli occhi di una tigre: anche a proposito di Sasha l’aveva sempre pensato.

 

Che ne è di lui? E’ vivo? E’ morto? La domanda le bruciava sulle labbra, ma non osava formularla, poiché temeva la risposta che avrebbe ricevuto. E’ bello come lo era Sasha, continuava a pensare, guardandolo. Ha la sua stessa voce profonda, le sue stesse labbra tenere, i suoi stessi occhi acuti e ardenti. Se avesse la barba e i capelli lunghi, sarebbe identico a lui. Identico in tutto, perfino in quei piccoli nei sulla guancia. Possibile che due gemelli siano l’immagine speculare l’uno dell’altro, senza nemmeno un neo che li distingua? Da bambina, si era spesso domandata come le pecore del vecchio Dima potessero riconoscere i loro piccoli, visto che gli agnelli sono tutti uguali. E il pastore le aveva risposto che li riconoscevano dall’odore. Ciascuno di noi, uomini e animali, si porta addosso un particolare odore ed è diverso per tutti. Non esistono al mondo due creature viventi la cui pelle emani lo stesso odore.

 

La luce bassa sull’orizzonte che filtrava attraverso le imposte e quella più calda e viva del lume a petrolio gli accendeva riflessi caldi sui capelli, che erano corti e ricciuti. Come quelli di Sasha, avevano una base castana alla quale se ne mischiavano pochissimi grigi e parecchi biondi o ramati anche se, essendo molto più corti, i suoi sembravano più scuri.

 

Che dirgli? Sasha non mi parlava mai di voi, non sapevo neppure che avesse dei fratelli. Lui le avrebbe risposto che se n’era andato, che aveva tagliato i ponti con la sua solida famiglia borghese, con il padre funzionario presso qualche ministero, la madre timorata e benpensante, il fratello ufficiale, per farne quel che voleva della sua vita. Sasha era come il vento, come un cavallo selvaggio e indomabile al quale era impossibile imporre le briglie, la sella e il peso fastidioso di un cavaliere. Sasha era l’uomo più generoso e gentile di questo mondo, ma era anche terribilmente impulsivo: si ubriacava come un carrettiere, usava con disinvoltura il peggiore turpiloquio che mai orecchie umane pensassero di poter sentire, se c’era da menare le mani lo faceva senza remore… Sasha era come una candela che brucia da entrambi i lati. Era destino che Sasha morisse giovane.

 

Le avrebbe risposto così, se gli avesse chiesto di parlargli di lui. E lei avrebbe continuato a chiedersi, senza peraltro osare dirglielo in faccia, come mai se Sasha aveva davvero rotto i ponti con la sua famiglia, lui aveva le chiavi di casa sua. Perché era evidente che non aveva forzato la porta, per entrare lì dentro. E che non l’aveva trovata aperta, come Irina aveva temuto in un primo momento. Era sempre stata troppo prudente per fare qualcosa di così avventato.

 

-Siete qui in licenza?

-In convalescenza. Ho riportato una brutta ferita a un fianco e poi, come se non bastasse, mi sono ammalato. Broncopolmonite. E’ un miracolo che io sia ancora vivo.

L’aveva detto tutto d’un fiato, come quando si stanno raccontando a qualcuno delle bugie e non si vuol dare al proprio interlocutore il tempo di accorgersene. E, come sempre succede in casi del genere, era stato  veloce a cambiare discorso. Le aveva detto di essere al comando di un battaglione di cavalleggeri cosacchi e di aver preso parte a numerose battaglie. Aveva le mani forti. Come Sasha. E il colorito sano che non era certo quello di chi è sopravissuto per miracolo a una grave ferita e a una malattia che di solito uccide.[10]

 

-Potrei offrirvi… del the? Non ho altro.

-Non vi preoccupate, Irina, sto bene così.

Conosceva il suo nome. Le si era rivolta chiamandola così prima ancora che lei si presentasse. Era evidente che qualcuno doveva avergliene parlato: non c’era il suo nome sul portone di casa. E chi poteva essere stato, se non quel fratello che con la famiglia aveva rotto i ponti per mettersi a campare d’arte, di sogni e di fame?

-Toglietevi il cappotto… Maggiore Mejiev.

-Maksim. Non siamo forse cognati?

 

Si era sganciato le bandoliere di cuoio che portava incrociate sul petto, tolto il pesante pastrano di panno grigioverde, con i polsi e il colletto in pelo di agnello d’astrakan. Qui non c’è freddo, gli aveva detto lei posandolo sopra la sua vecchia poltrona e aveva aggiunto, se non avete un posto migliore dove andare… questa è casa vostra. In fondo al corridoio c’è una stanzetta con un letto. Lui l’aveva ringraziata, senza dire né sì né no. Le si era avvicinato, e le aveva preso il viso tra le sue grandi mani calde. Calde, già, nonostante il freddo che faceva. Ma non era certo per quello che Irina rabbrividiva mentre Maxim la baciava. Dolcemente, un labbro alla volta. Come faceva Sasha. E lei, invece di schiaffeggiarlo, aveva lasciato che quel bacio diventasse più selvaggio e bruciante, che la passione la travolgesse.

 

E’ da tanto che non tocchi una donna, Maksim Dimitrovic. Già, la guerra è la guerra. Le sue dita lunghe e forti le sbottonarono i vestiti e la biancheria, le stuzzicarono, attraverso la camiciola di batista, i capezzoli tesi per il freddo e il desiderio. Starai con me questa notte, Maksim Dimitrovic? Le strofinò le labbra sui seni, prima di scoprirglieli e di continuare ad eccitarla, con le labbra, i denti e la lingua, scendendo poi sul ventre, tra le cosce. Lei lo guardò spogliarsi e aspettò con il cuore in tumulto e il respiro ansante implorandolo che la prendesse, che le entrasse dentro… E che non le lasciasse il tempo di impazzire.

 

Maksim Dimitrovic Mejiev giaceva appagato, dopo aver versato il suo seme dentro di lei. Forse l’avrebbe presa ancora, quella notte. Irina se lo augurò, mentre lasciava scorrere la mano sul corpo gagliardo del suo amante. Era forte, come lo era stato Sasha. Chiaro di carnagione, sotto la leggera abbronzatura. I muscoli che gli si gonfiavano sulle braccia e gli si allargavano sulle spalle e sul petto erano sodi e definiti. Gli accarezzò delicatamente un capezzolo e si ritrovò a pensare a quanto fosse sensibile, lì. Tanto quanto lo era lei. Tanto quanto lo era stato Sasha.

 

Come Sasha, anche Maksim era grande, potente. Dappertutto. Irina ripensò alla prima volta e sorrise, rivivendo le sue paure. Ma Sasha era un amante tenero e dolce, e il dolore della prima volta era stato assai meno devastante del piacere che aveva provato. Irina chiuse gli occhi, abbandonò la testa sul largo petto di Maksim, lasciò che la sua mano gli percorresse lentamente la pelle calda, che le narici ne percepissero il sentore pulito, mascolino. E rivide sé stessa, bambina, seduta su una catasta di tronchi fuori dall’isba[11] del vecchio Dima. Quando gli aveva domandato come facessero le pecore a riconoscere i loro figli, visto che gli agnelli sono tutti uguali, lui le aveva risposto che li riconoscevano dall’odore. Dio ha dato a ognuno il suo, le aveva detto. Non esistono due creature viventi che abbiano lo stesso odore. E questo vale per tutti, uomini e bestie.

 

-Sasha…

-No, non Sasha. Maksim.

Irina scosse la testa, gli sorrise. Non puoi continuare a mentire. Credi che avrei fatto l’amore con te, se non fossi stata sicura di chi eri? Quando sei sparito dalla mia vita e non sapevo se eri vivo o morto, avevo giurato di appartenere soltanto a te. Per sempre.

I giuramenti e le promesse sono fatti apposta per essere infranti, Irina. Parole, quelle, che suonavano strane, sulla bocca di un soldato.

Puoi mentire quanto vuoi, Sasha. Ma l’odore della tua pelle non può mentire. E nemmeno le cicatrici. Dimmi: chi sei veramente?

 

Un uomo che viene dal passato. Un uomo che ha vissuto mille altre vite. Non le avrebbe risposto, ne era sicura, se gli avesse chiesto come aveva fatto a sopravvivere al morso di un cane idrofobo, a qualcosa di molto peggio di una ferita o di una malattia, per quanto gravi potessero essere. Dimmi, è lo Zar che ti ha fatto curare? E’ lui che ha fatto venire chissà da dove il siero che ti ha salvato? In fin dei conti, se non avessi rischiato la vita per lei, quel cane avrebbe morso la granduchessa Anastasia… E il nostro sovrano è un uomo di parola, lo sanno tutti.

 

Avrebbe dovuto dirle che la vita di un sovversivo non vale la parola di un re. Che lo Zar non s’era neppure degnato di ringraziarlo, anche se aveva salvato sua figlia e che non aveva alzato un dito per aiutarlo. Sarebbe stato difficile convincerla che sbagliava a pensare che forse quel cane non era idrofobo ma solamente inferocito… Eccome se lo era! Prima di essere abbattuto, aveva morso e contagiato altri cinque cani. Ma come dirle senza essere preso per pazzo, che lui non poteva morire?

 

La strinse a sé, la baciò, e lei si abbandonò nuovamente alla passione, come se avesse dimenticato tutto quello che le aveva detto e quello che non le avrebbe detto mai. Che Sasha e Maksim non erano due gemelli, ma la stessa persona. Che il suo vero nome non era né l’uno né l’altro, che non era un pittore, né un sovversivo, né il comandante di un battaglione di cavalleggeri cosacchi. Che non era neppure russo. Che da ben oltre mille e settecento anni aveva pagato alla morte il suo tributo e vagava ramingo per il mondo, e avrebbe continuato a vagare fino alla fine dei secoli, perché qualcuna che lo amava gli aveva regalato la maledizione della vita immortale.

 

INTRECCIO DI DESTINI

 

E’ tornato. E non me ne importa niente se di lui non so nulla, se da quel che ha detto ho capito solamente che non è chi credevo. Ma è vivo, ed è con me, e conta questo, e questo soltanto.

 

Irina si accomodò sulla poltrona, a fianco della vecchia principessa cieca. Doveva essere stata bella, Olga Pavlovna Jusupova, nei suoi giorni migliori. Lo pensava ogni volta che la guardava perché il tempo non era riuscito a demolire completamente le vestigia della sua bellezza. Le mani piene di macchie e deformate dall’artrite dovevano essere state lunghe e sottili, il profilo delicato, le labbra tenere. I capelli bianchi come fiocchi d’ovatta dovevano aver avuto i bagliori dell’oro fuso, gli occhi spenti le sfumature del cielo nelle calde giornate d’estate… Chissà come mai non c’era, nei suoi appartamenti, un ritratto che avesse fissato per sempre sulla tela lo splendore della sua giovinezza.

 

-Che cosa desiderate ascoltare oggi, principessa?

Le piaceva quella giovane riservata, che parlava il francese con buona pronuncia e aveva modi gentili ed educati ma non servili. Sapeva che la vita l’aveva duramente provata, malgrado non avesse che venticinque anni. Ma le avversità le aveva affrontate con un’encomiabile forza d’animo, e adesso era felice: il suo uomo, che credeva morto, era ricomparso nella sua esistenza. La sua perseveranza era stata premiata. Anche se la vita avrebbe avuto in serbo per lei altre prove, altri dolori, questo era certo.

 

-“Anna Karenina”.

Irina non le domandò come mai, proprio quel giorno, la principessa Jusupova desiderasse che le venissero letti alcuni capitoli di quella storia così terribilmente triste.

 

-L’ho conosciuto, Lev Tolstoij. Era un uomo strano. Come tutti gli artisti.

Strano come lo era stato il pittore Alexander Dimitrovic Mejiev, il suo Sasha, prima di rinascere con il nome di Maksim e i gradi di maggiore di cavalleria? Chissà se era tornato per restare, per decidere di costruire con lei qualcosa di solido e concreto, una famiglia, dei figli. Lo avrebbe desiderato tanto, Irina, anche se si sarebbe accontentata, pur di restargli accanto, di vivere il suo amore giorno per giorno, senza pensare al domani.

 

“Mio caro, mio adorato, piccolo Cutik… - disse Anna chiamandola con il nomignolo che soleva dargli quando egli era piccino - E tu non mi dimenticherai… Tu…”

 

La principessa Jusupova alzò la mano, le disse basta così, ne ho a iosa di lacrime e di tristezza. Allungami una tazza di the, Irina. Per favore. E abbi la pazienza di sopportare questa vecchia noiosa che oggi ha voglia di scambiare quattro chiacchiere con te.

 

Le parlò di suo nipote Feliks. Quel ragazzo debole ed effeminato era il suo cruccio, più del tempo che passava inesorabile, più dei suoi occhi spenti. Odiava il Monaco, anche lui, ma non avrebbe osato far niente contro di lui. Non avrebbe fatto niente, no, anche se, frequentando la Corte, poteva vedere ogni giorno come quell’individuo stesse trascinando la Russia verso una catastrofe che avrebbe travolto, inevitabilmente, anche tutti loro. Avevano offerto allo starec del denaro per ritirarsi in buon ordine dalla Corte e dalla vita pubblica, e quel denaro l’aveva rifiutato. Ormai, solo uccidendolo avrebbero potuto liberare il Paese dall’influenza nefasta di quel parassita. Qualcuno di coloro che frequentavano il Palazzo Jusupov ne aveva parlato. Il granduca Dimitri Pavlov. Vladimir Puriksevic, il deputato alla Duma.[12]  Ma Feliks cambiava discorso.Era molto delusa da suo nipote, la principessa Jusupova.

 

-Ha paura. Tempo fa, lo starec profetizzò allo Zar che i destini della Russia erano legati a doppio filo alla sua vita. Se morirò nel corso di una rivolta popolare, ci saranno lunghe lotte, ma alla fine trionferete. Se sarà un boiaro[13] ad uccidermi, scoppierà una rivoluzione nel corso della quale perderete la corona ma avrete salva la vita. Ma se a uccidermi sarà qualcuno legato a Voi da vincoli di sangue, allora perderete anche la vita, Maestà. E per il nostro mondo sarà la fine.

 

Irina rabbrividì. Quell’uomo era in grado di leggere nella mente e negli occhi degli altri il passato, il presente e il futuro. Le era bastato poco a capirlo, quando era andata a cercarlo nella sua casa sulla Gorohavaja, per conoscere se Sasha era vivo o era morto. Anche se la principessa continuava a sostenere che si trattava soltanto di superstizioni e che lo starec era semplicemente un individuo malvagio e astuto, capace di servirsi senza alcuno scrupolo dell’influenza che riusciva ad esercitare sugli altri per i suoi sporchi tornaconti: dai mugik, che lo veneravano come un santo, all’abulica e annoiata nobiltà pietroburghese, alla zarina, che lo considerava l’unica medicina in grado di rendere la salute all’infelice zarevic, e non gliene importava nulla delle chiacchiere della gente.

 

-Vorrei che Feliks fosse diverso da com’è. Che mi somigliasse, almeno un po’. E’ vergognoso che l’unico uomo di questa famiglia sia una vecchia cieca.

L’aveva vista trarre un profondo sospiro dal petto scarno, prima di chiederle vuoi che ti racconti un paio di storie, Irina Vasilievna? Mi pagate per questo, avrebbe voluto rispondere lei: per leggervi a voce alta i libri che preferite, e per ascoltarvi rivangare i ricordi del passato. Ma non parlò, e accennò a un sì con la testa.

 

-Allora ti racconterò di me, e potrai scoprire curiose analogie tra le mie vicende e quelle di Anna Karenina. Anch’io sposai per convenienza, a vent’anni neppure compiuti, un uomo che non amavo, e che sarebbe potuto essere mio padre. Anch’io conobbi l’amore vero e lo vissi di nascosto, per non compromettere il mio buon nome e la posizione di mio marito, che non ho mai amato, ma stimavo e rispettavo. Non credo che avrei avuto il coraggio di andare fino in fondo, come quella poveretta, di abbandonare la mia famiglia per trasferirmi a vivere con lui: non lo avrei fatto neppure se non avessi saputo… se non avessi saputo che…

Un breve, secco colpo di tosse e un rauco sospiro interruppero le sue parole. Poi la vecchia principessa riprese fiato e ricominciò a raccontare.

-Era un uomo di bassa condizione sociale, un ex soldato che mio marito aveva ingaggiato perché insegnasse a nostro figlio a cavalcare e a tirare di scherma. Aveva modi riservati e cortesi ed era bellissimo.

 

Ricordare quegli attimi le faceva chiudere gli occhi spenti per riassaporare la felicità perduta e sembrava avesse il potere di spianare le rughe sulla sua fronte, ringiovanendola di parecchi anni. Si chiamava Maksim, le disse. E, chissà come mai, lei rabbrividì fino alle ossa. Eppure, anche se non comunissimo, quel nome non era nemmeno poi così raro.

 

Neppure lei sapeva perché le avesse chiesto “Com’era? Descrivetelo.” Un uomo che potrebbe entrare nei sogni di qualsiasi donna… anche nei tuoi, Irina. Aveva capelli castani non troppo scuri, occhi azzurri, tratti regolari e un bellissimo corpo. Un corpo capace di risvegliare in me sensazioni mai provate… Eravamo coetanei. Avevamo entrambi trentatré anni.

 

Gli occhi della principessa Jusupova la fissavano senza vederla, e il suo viso era tornato ad essere quello di una vecchia d’ottant’anni che le vicissitudini dell’esistenza avevano indurito e piegato senza tuttavia riuscire a spezzarla.

 

-E’ come se la sentissi ancora sotto le dita, la sua pelle di seta. Aveva molte vecchie cicatrici, sulle braccia, sul collo, sulla schiena, e io sulle prime pensai a colpi di kurbash.[14] Una, invece, sembrava un marchio impresso con un ferro rovente. Non gli chiesi nulla, ma scoprii il perché, e chi era, quando un giorno…

 

Volevano appartarsi in una piccola dacia[15] in mezzo ai boschi, il luogo consueto dei loro incontri segreti. Ma mentre cavalcavano alla volta del posto, un bandito solitario li aveva assaliti per rapinarli e, forse spaventato dalla vigorosa reazione dell’uomo, aveva sparato un colpo di pistola che lo aveva centrato in pieno petto.

 

-Mi vidi perduta, Irina. Come te, quando hai saputo che, per salvare la granduchessa Anastasia, il tuo uomo aveva affrontato un cane idrofobo ed era stato morso. Per lui sarebbe stata la morte, per me l’infelicità e il disonore, pensai. Era evidente per chiunque, la gravità di quella ferita. Com’era altrettanto evidente che non avrei potuto far altro che tenergli la mano e guardarlo morire. Invece…

 

-Invece impiegò pochi minuti a rimettersi in piedi, e del ricordo di quella grave ferita restava solo il sangue che gli impregnava lo sparato della camicia. Sulla pelle, nessun segno. Non ci avrei creduto, se non l’avessi visto con i miei occhi. Non mi lasciò il tempo di domandarmi perché, men che meno di spaventarmi; e quando mi strinse la mano e mi chiese di seguirlo dentro la dacia lo feci senza esitare. Mi raccontò tutto di lui. Fu l’ultima volta che ci vedemmo, dopodiché scomparve dalla mia vita. Per sempre. Almeno, così credevo.

 

Perché dite questo, principessa? Se è tornato dal vostro passato, adesso sarà un vecchio cadente. O forse… Irina si morse il labbro. Come Sasha era sopravvissuto al morso di un cane rabbioso, il lontano amore della principessa Jusupova non era stato ucciso da una rivoltellata in pieno petto. Aveva tratti somatici che potevano essere i suoi, le stesse cicatrici, lo stesso nome con cui si era presentato quando era tornato, millantando l’identità di un ufficiale della cavalleria cosacca.

 

-Mi disse di un uomo che, per non tradire i principi in cui gli era stato insegnato a credere, era stato crudelmente privato dei suoi affetti, spinto a faccia in giù nella polvere… Era stato un valoroso generale, al servizio dell’imperatore di Roma Marco Aurelio, che lo avrebbe adottato come figlio e designato quale erede al  trono, se non fosse morto all’improvviso, senza lasciare disposizioni sulla successione. Lui non inchinò la testa di fronte al nuovo Cesare, il turpe Lucio Aurelio Antonino Commodo e pagò il suo atto d’insubordinazione con lo sterminio dei suoi cari e con la riduzione in schiavitù. Divenuto gladiatore, fu costretto a battersi a morte per il sollazzo della plebaglia… E’ alla sua prima vita che risalgono le cicatrici che gli segnano il corpo. La prima di tante vite, perché da quando una donna perdutamente innamorata di lui, la principessa Annia Lucilla Galeria, con l’aiuto della magia lo riportò indietro dal mondo dei morti, non deve temere il tempo, la vecchiaia, le ferite, le malattie… Capisci adesso perché, nonostante non sia stato curato, non è morto di rabbia? E perché quel colpo di pistola non l’ha ucciso?

 

Irina strinse forte le palpebre sugli occhi. Colui che nella grande arena di Roma era crollato morto dopo aver ammazzato il tiranno… Colui al quale una donna innamorata aveva regalato la maledizione della vita eterna… E’ tornato, Irina. Massimo Decimo Meridio è tornato per te. Ma anche per infondere il coraggio nel cuore di coniglio di Feliks Feliksovic Jusupov… E’ tornato perché possa essere compiuto un atto di giustizia e i pericoli che la minacciano siano stornati dalla Santa Madre Russia.

 

FERRO, FUOCO E VELENO

 

Nella sua prima vita aveva ucciso. Molte volte. Perché la guerra è guerra; perché l’uomo è un lupo nei confronti dei suoi simili. Un lupo. Proprio così, pensò accarezzando l’elsa del suo pugnale, un ricordo dell’altra vita, qualcosa che veniva, come lui, da un lontano passato. Un passato nel quale gli era stato ingiunto di uccidere, da schiavo, altri schiavi: ammazza, o muori, gli aveva sibilato il suo padrone, minacciando di levargli via la pelle a frustate, se non si fosse deciso a combattere. Ma se il suo corpo viveva, la sua anima era morta, e di quel che ne sarebbe stato di lui non gliene importava nulla. Si sarebbe lasciato morire, non fosse stato per quel demone che gli rodeva l’anima come un cancro. Non ci sarebbe stata giustizia, finché Commodo avesse continuato a camminare sopra la terra, a gozzovigliare, a divertirsi rubando la vita agli altri. E Massimo, il Generale, la vittima, il gladiatore aveva vissuto gli anni della sua abiezione unicamente in ragione di quell’odio di cui il suo cuore si nutriva solo per non morire prima che giustizia fosse fatta.

 

-Maksim Dimitrovic Mejiev…

Jusupov, Puriskevic e il granduca Dmitrj Pavlovic gli avevano esposto i loro piani. Gli avevano detto che altri tentativi di eliminare lo Stregone non erano andati a buon fine. E che c’era bisogno dell’aiuto di un uomo come lui per sperare che, finalmente, il piano funzionasse a dovere. Era possibile che qualcuno avesse rivelato loro il suo segreto, o quelle erano semplici frasi di circostanza? Optò per la seconda ipotesi: era la più logica. Jusupov, infatti, non lo guardava certo come si dovrebbe guardare qualcuno tornato dall’aldilà per sempre: era un bel ragazzo biondo, dalla corporatura minuta e dai tratti delicati e, non fosse stato per i capelli corti e i sottili baffetti che gli ombreggiavano il labbro superiore, lo si sarebbe potuto tranquillamente prendere per una donna. Delle sue stranezze parlava tutta Pietrogrado, ciò nonostante Maksim era vissuto abbastanza da imparare che non sono le preferenze sessuali di un uomo a determinare ciò che egli è nel profondo del cuore. Eppure, quel giovane vagheggino non gli piaceva. Così come non gli piaceva l’idea di contribuire a spedire all’altro mondo qualcuno che non gli aveva fatto nulla. E’ un pericolo per le istituzioni, aveva detto il deputato Puriskevic. Istituzioni che non sono giuste, aveva pensato lui, e che cambieranno. In forza di nuove leggi che quelli come voi non vogliono… O di una rivoluzione che farà scorrere il sangue a fiumi.

 

-E’ andato il dottor Lazavert, a prenderlo. Lui, sì, travestito da cocchiere; non penso che impiegherà molto ad arrivare.

-Come avete fatto a… A convincerlo a muoversi da casa sua? Da quando la terra gli scotta sotto i piedi e teme per la sua vita, non uscirebbe da lì neanche se casa sua prendesse fuoco.

Jusupov si guardò le unghie.

-Gli ho promesso cibo buono, fiumi di madera, il suo vino preferito,  e  una decina di avvenenti e spregiudicate puttane reclutate dai bordelli di Pietrogrado, tutte  pronte a soddisfare qualsiasi suo desiderio.

-Un’orgia?

-Mettetela come volete… Io la chiamerei una trappola. Cibo, vino e ragazze sono solo l’esca per farcelo cadere dentro.

-Mangiare a crepapelle, ubriacarsi come una spugna, fottere come un dannato… Quale uomo direbbe di no a una proposta così allettante?

-Lui no di certo. Anche se ha sempre il nome di Dio sulla bocca non ha mai rinunciato a spassarsela, il nostro amato starec che la Zarina crede un santo…

Puriskevic ridacchiò.  Alcuni valletti in livrea introdussero vassoi carichi di cibo e diverse bottiglie di vini, liquori e vodka.

-Non toccate i dolci e il madera: sono avvelenati. Spero solo che quegli imbecilli dei servitori non abbiano assaggiato qualcosa, secondo il loro solito. Dentro quella roba c’è abbastanza cianuro da sterminare una mandria di cento buoi.

- …e qualche valletto goloso… Se ne mangiasse, tanto peggio per lui. E le puttane quando arrivano? Non è che avete spalmato con il cianuro anche la fica delle nostre ragazze, Jusupov?

Mentre gli altri ridevano sguaiatamente, Maksim taceva, tormentando con le mani il pugnale che nascondeva sotto i vestiti: tagliava come un rasoio e aveva l’elsa finemente cesellata in forma di testa di lupo. Sarebbe servito a qualcosa, si domandava, mentre fuori la neve cadeva a larghi fiocchi. A niente, si rispose da solo. E quasi non sentì la voce del maggiordomo annunciare l’arrivo dello starec.

 

Il madera esalava un sottile aroma di mandorle amare, ma lo starec non sembrò avvedersene, mentre ne tracannava a larghe sorsate un bicchiere via l’altro. Eppure, il dottor Lazavert, che glielo aveva preparato sapendo benissimo a cosa gli sarebbe servito, aveva raccomandato al principe Jusupov di maneggiarlo, o farlo maneggiare, con estrema cautela. “E fate attenzione anche agli animali che tenete in casa, principe.”

 

Ma nonostante il vino e i pasticcini contenessero abbastanza cianuro da sterminare una mandria di buoi, lo starec continuava a masticare e a tracannare come se il veleno non riuscisse a sortire sul suo organismo alcun effetto. Che si trattasse davvero di magia? Che l’uomo fosse davvero in possesso di poteri paranormali? Jusupov si sentiva scrutato fin nel profondo delle sue ossa dai piccoli, penetranti, chiarissimi occhi del Monaco. Era solo con lui in uno dei salotti del palazzo, gli altri gli avevano detto vi aspetteremo in un’altra stanza, quando il veleno sortirà i suoi effetti. Invece niente.

Jusupov rabbrividì. Doveva trovare una scusa, pensò, per uscire senza destare sospetti, e avvertire gli altri che Rasputin, nonostante tutto il veleno che aveva in corpo, non si decideva a morire. Pavlovic. Puriksevic. Il dottor  Lazavert. O il maggiore Mejiev. C’era, in fondo agli occhi azzurri di quel bell’uomo grande e forte, qualcosa che lo inquietava, anche se neppure lui aveva capito di che potesse trattarsi. Era come se… Come se lui e il Monaco fossero della stessa natura. Ma era chiaro che il suo cervello sconvolto stava lavorando di fantasia.

 

-Mi sento poco bene. Vi domando il permesso di uscire un attimo. Non tarderò a tornare.

Tornò, e c’erano Puriksevic e Mejiev con lui. Il primo impugnava una piccola rivoltella, con la quale fece fuoco, dopo averla puntata al petto del Monaco. Rasputin non provò quasi stupore, malgrado il deputato che era, come tutti i gentiluomini russi, un ottimo tiratore, non avesse di certo sbagliato la mira. Gonfio di veleno, il saio intriso di sangue, riuscì a prendere la porta, a fuggire nel grande parco che circondava il palazzo.

Non andrà lontano, disse Puriksevic. Sono sicuro di averlo preso al cuore.

 

Maksim Mejiev lo cercò. E lo trovò. Era ancora vivo, era ancora in piedi, e lo fissava con i suoi occhi spiritati.

-Credi che la mia fine possa servire a qualcosa…. Immortale?

Non lo so, pensò Maksim sfilando il pugnale. E’ il destino a volere che tu muoia così, Grigorij Efimovic.

L’arma calò una sola volta su di lui, recidendogli la carotide, e, questa volta, il Monaco crollò morto per davvero, sopra la terra dura di ghiaccio. Maksim si chinò a guardarlo, cercò, per pietà di chiudergli gli occhi. Non ci riuscì. Poi ripulì dal sangue il suo pugnale strofinandolo con una manciata di neve. Era appartenuto al Cesare Marco Aurelio Antonino, pensò. Al suo padre putativo. A colui che, un mare di tempo prima aveva scritto nelle sue memorie di un ragno, di un legionario, di una mosca e di un barbaro sarmata.

 

Con l’aiuto dei domestici il corpo di Rasputin venne avvolto in una coperta, legato e gettato nel canale Malaja Mojka. Per una sequenza di errori e di eventi sfortunati il segreto del complotto durò meno di quarantotto ore. Il 19 dicembre 1916 veniva ripescato il corpo congelato e devastato di Grigorij Rasputin. Meno di un anno dopo, sarebbe scoppiata la Rivoluzione. Come predetto dal Monaco, lo Zar e la sua intera famiglia furono sterminati dai Bolscevichi presso la località di Ekaterimburg, dove erano tenuti prigionieri, il 16 luglio 1918.

FINE

Lalla, 6 /10/2002

 

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[1] Bracciante agricolo

[2] Louis Pasteur, il biologo scopritore del vaccino contro la rabbia.

 

[3] Centesimo

[4] Prete ortodosso

[5] Vescovo ortodosso

[6] Erede al trono

[7] Bollitore usato per la preparazione del the

[8] Tanto il suffisso tedesco Burg che quello russo Grad significano città.

[9] Lenin.

[10] Prima della scoperta della penicillina, molto spesso la broncopolmonite aveva esiti fatali.

[11] Baracche di tronchi d’albero in cui vivevano i contadini.

[12] Parlamento.

[13] Rappresentante della grande nobiltà.

[14] Frusta.

[15] Villa in campagna.