Storie de Il
Gladiatore
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Storie
ispirate dal film Il Gladiatore |
Lettura sconsigliata ai minori di anni 18 |
LA STREGA
di Lalla Usai
Il titolo e le prime frasi
probabilmente non lo lasciano presagire, ma quello che ho voluto scrivere è una
mia idea di seguito del Gladiatore. Un fantasy, naturalmente, perché non vedo
un altro sistema per resuscitare senza sfiorare il ridicolo Massimo Decimo
Meridio. Non me ne vogliano Ridley Scott, gli sceneggiatori e il protagonista
(bellissimo…) qualora per qualche caso strano della vita questo mio lavoro
potesse finirgli nelle mani. Mi sono, semplicemente, voluta divertire, come
sempre mi diverto quando scrivo storie avventurose ambientate nel passato. Del
film ho amato tante cose: l’inconsapevole, provocante carnalità e gli occhi
dolci del protagonista, naturalmente. Ma anche (aldilà degli errori storici,
che ci sono ma vanno considerati alla stregua di peccati veniali) l’odore di
Roma antica e le atmosfere cupe, gotiche. Per questo motivo ho voluto
ambientare il mio sequel nel ‘600, il secolo del ferro, del
fanatismo e dei roghi. Buona lettura.
FIAMME
Il crepitio del legno che bruciava era quello familiare del camino, l’odore
quello appetitoso del capretto che rosolava nello spiedo. Era la prima volta
che vedeva un uomo bruciare vivo. Anche se da lontano, la ragazzina poté notare
il grosso anello di ferro che gli serrava il collo, e la mordacchia,[1]
per impedirgli di offendere le anime pie con le sue imprecazioni e le sue
bestemmie. Giordano Bruno, reo di eresia, apostasia, superstizione, stregoneria
e ateismo, moriva sul rogo. Non c’è che il fuoco, per mondare la terra dal male
e dal demonio. Non c’è nulla di più terrificante delle fiamme, neppure la
guerra, neppure la peste, perché il fuoco è l’immagine stessa del più profondo
inferno dove chi ha rinnegato Dio è condannato a soffrire per tutta l’eternità.
L’odore quasi piacevole della carne umana che arrostiva, in pochi minuti
era diventato un orribile lezzo nauseabondo di capelli strinati, stoffa sudicia
che inceneriva, lardo carbonizzato, orina e feci bruciate; Isabella non ce la
faceva a staccare gli occhi dal corpo rinsecchito dell’eretico, che il fuoco
aveva contorto e rattrappito su se stesso. A dodici anni non ancora compiuti,
non riusciva a rendersi conto di quanti potesse averne quell’individuo che la
giustizia di Dio per mano degli uomini aveva condannato a quella fine lenta e
atroce. Le sembrò molto vecchio, ma solo perché lei era tanto giovane. Senza
vederli, immaginava gli occhi forse già ciechi. Senza sentirli, immaginava i
suoi gemiti che avrebbero voluto scuotere il cielo, ricacciati in gola dalla
mordacchia. Un paio di mesi prima, ricordò, aiutando Caterina in cucina, si era
scottata il dorso di una mano con un goccio d’olio bollente: quanto aveva
pianto!
Il fuoco consumava il corpo dell’uomo, incenerendo la pelle, sciogliendo la
carne e il grasso come se fossero stati la cera di una candela. Forse era già
morto. Forse no, non ancora.
Il freddo di febbraio le aveva arrossato il viso e le mani. Buscherai un
malanno, sventata vagabonda. Un malanno forse no, ma un paio di sonori
schiaffoni da sua madre era fuori da ogni ragionevole dubbio.
Sua madre aveva anelli d’oro con grosse pietre trasparenti a tutte le dita
delle mani, e quando la schiaffeggiava, le lasciavano il segno sulle guance.
Fortuna, accadeva di rado, anche se non altrettanto di rado accadeva che lei
uscisse di nascosto dalla loro bella casa in via dei Coronari per andarsene in
giro tutta sola. Sua madre aveva sempre avuto molta pazienza con lei. O, più
probabilmente, troppo poco tempo. Era una splendida bruna dai luminosi occhi
verdi e, dacché aveva memoria, Isabella ricordava il viavai continuo di uomini
ben vestiti e profumati che ridevano con lei e l’abbracciavano, incuranti della
sua presenza. I monelli del rione la dileggiavano dicendole che sua madre era
una mignotta. Una che si fa pagare dagli uomini che vanno con lei, tanti, e
sempre diversi.
A dodici anni non ancora compiuti, Isabella aveva avuto altre volte modo di
guardare negli occhi la morte. Quella rapida e indolore del fratellino appena
nato, soffocato nel sonno da un rigurgito di latte. Quella serena della vecchia
casigliana che, a ottant’anni suonati, s’era spenta senza soffrire, come la
fiamma di una candela consumata. Aveva baciato le fronti fredde della vecchia e
del neonato senza provare repulsione, aveva vegliato recitando il rosario tutta
la notte accanto ai loro corpi immobili. La morte fa parte della vita, le
diceva sempre Caterina. Anche la morte violenta, che gli uomini danno agli
altri o a se stessi, quella del bullo che era uscito barcollando dalla bettola
con un coltello conficcato nella schiena fino al manico; o quella della ragazza
che si era gettata nel Tevere per un amore non corrisposto e il cui cadavere
gonfio d’acqua e sfigurato dai pesci era stato pescato dai barcaioli quattro giorni
dopo; perfino quella dell’eretico che bruciava costretto al silenzio dalla
mordacchia, mentre i preti neri salmodiavano il Dies Irae, con la convinzione
di avere Dio dalla loro parte.
Per quanto tempo, nei suoi incubi, lo avrebbe visto e sentito ancora
bruciare? I suoni erano quelli familiari del crepitio del legno in combustione
e del fruscio delle fiamme. E ce n’erano altri, meno consueti, ben più
raccapriccianti: lo scoppiettio delle vesciche sulla pelle, lo sfrigolio della
carne e del grasso, il sibilo del sangue che evaporava, gli schiocchi delle
ossa che si frantumavano sotto la contrazione spasmodica dei muscoli, il rumore
sinistro e orrendo del cranio che esplodeva…
Cominciava a nevicare, quando i soldati dispersero la folla. L’eretico era
ormai ridotto a un mucchietto d’ossa carbonizzate, restare non aveva più senso.
Isabella chiuse gli occhi, sospirò. La morte, soprattutto quella morte
orribile, avevano esercitato su di lei una curiosa malia fascinatoria che
l’aveva costretta a non abbassare lo sguardo; più che paura o ribrezzo,
un’attrazione morbosa per cui aveva provato eccitazione e vergogna a restare lì
e a non andarsene. Forse era lo stesso istinto che spinge il gatto a non
ammazzare subito il topo che divorerà, il bambino a divertirsi mentre infilza
le farfalle vive con gli spilli, gli ubriaconi delle bettole a gridare e a
bestemmiare, mentre due galli si strappano di dosso la carne a brani. No,
l’esecuzione dell’eretico era giustizia divina delegata agli uomini, necessità
imprescindibile e non crudeltà gratuita. Forse.
-Vattene a casa, bambina.
Lo guardò con i suoi occhi istupiditi, non riuscendo a vedere molto. Stava
calando il crepuscolo, e il cappuccio del mantello gli ombreggiava completamente
il volto. Attenta agli uomini che non conosci, Isabella. Può venirti molto
male, da uno sconosciuto. Eppure, avrebbe voluto chiedergli d’accompagnarla a
casa. Da qualche parte doveva avere un cavallo e a lei i cavalli piacevano
tanto.
L’uomo era alto e dritto come un soldato. Doveva essersi domandato che
razza di genitori potesse avere quella bambina: le permettevano di andarsene in
giro con quel freddo e di guardare i roghi che incenerivano gli eretici.
Sembrava uno spettro, con il suo mantello nero che gli arrivava ai piedi e il
cappuccio che gli ombreggiava la faccia, rivelando appena una corta barba scura
e due occhi di un blu intenso che rammentò ad Isabella la pietra incastonata in
un ciondolo che sua madre portava appeso al collo. Un dono di Jacopo degli
Albrizzi, Cardinale di Santa Romana Chiesa. Di suo padre.
BABILONIA
Se la rabbia di sua madre fosse sbollita nella paura che potesse esserle
capitata qualcosa di brutto, Isabella non sarebbe stata punita. Era già
accaduto un’altra volta, quando, a nove anni, si era allontanata da casa per
seguire le sue fantasie e l’avevano ritrovata due giorni dopo, mentre dormiva
placidamente accozzata al muro di un vecchio rudere. Una tomba pagana, dalle
parti dell’Esquilino le aveva spiegato Arnaldo Zenobi, il suo precettore. Un
vecchio noioso, che sapeva tante cose e veniva pagato per insegnargliele. Un
maestro male in arnese che non costava troppo e non aveva gli scrupoli che si
sarebbe fatto venire un altro a insegnare lo scibile alla figlia bastarda di una puttana e di un cardinale.
I tempi non erano più quelli goderecci
di prima del Concilio ma, nonostante la cappa di piombo della Controriforma e i
roghi dell’Inquisizione, gli uomini di Dio che non avevano saputo o voluto
rinunciare ai piaceri della carne erano ancora parecchi. Nell’Anno di Grazia
Milleseicento, Roma contava circa centomila abitanti. E diecimila prostitute
mai a corto di clienti, tollerate dalle autorità e dai preti come un male
necessario. Cesira Quintarelli era una di loro. A quattordici anni appena
fatti, aveva lasciato il paese natio, Anticoli, per andare a servizio presso un
notaio vecchio e spilorcio che la faceva sgobbare sodo e patire la fame. Era
una bella mora prosperosa, dagli splendidi occhi verdi, e dimostrava più dei
suoi anni; non sarebbe durata a lungo, come serva. Infatti non aspettò che il
vecchio sporcaccione le mettesse le mani addosso, per andarsene. Il mestiere di
modella rendeva di più, almeno era convinta di quello, quando aveva iniziato a
frequentare gli artisti che tenevano bottega dalle parti di via Margutta e a
togliersi i vestiti davanti a loro; sì, i pittori erano gente
divertente:peccato che non avessero il becco di un quattrino. Era stato uno di
loro a insegnarle a leggere, a scrivere a far l’amore e a buttare a mare la
decenza. E quando era diventata abbastanza brava, Cesira l’aveva lasciato.
S’era
ripromessa di non innamorarsi mai di nessuno, perché mischiare l’amore e gli
affari poteva essere rischioso. Adesso si faceva chiamare Artemisia e poteva permettersi
l’affitto di un bell’appartamento, la carrozza con i cavalli, la serva e la
governante. Pochi clienti, era il suo motto, ma buoni e soprattutto ricchi e di
manica larga. Come il cardinale Albrizzi, il padre di Isabella: un uomo alle
soglie della vecchiaia, tormentato, malgrado l’età, i voti e il rimorso, dalla
debolezza della sua carne e dai peccati infami che questa lo costringeva a
commettere,quasi suo malgrado; un omiciattolo calvo, panciuto, rosso e
sudaticcio ma ricco sfondato e molto generoso. E, soprattutto, ricattabile. Si
diceva che sarebbe potuto uscire con il triregno in testa dal prossimo
Conclave, ed era molto meglio non si sapesse in giro che frequentava
abitualmente una puttana e che da questa aveva avuto una figlia: già, perché Isabella
era davvero figlia sua, anche se grazie a Dio non gli somigliava per niente, se
non negli occhi screziati di giallo come due agate. E nei tormenti che fatica a
nascondere, sosteneva Caterina, la governante. Perché credete che scappi e se
ne vada in giro tutta sola? E’ come se avesse un demonio dentro, un demonio che
la rode… I tormenti ce li hai tu che sei vecchia, brutta e invidiosa, le
rispondeva Artemisia sorridendo. E se ce li ha anche lei, le guariranno col
primo sangue, perché è come me, carne della mia carne, è destinata a diventare
quello che sono io, o forse no… La sua bambina sarebbe diventata una grande
cortigiana, roba da far impallidire perfino il ricordo di Veronica Franco e
Isabella de Luna. La sua bambina avrebbe avuto il potere che viene dalla
bellezza, dalla cortesia, dal lusso e dall’amore, e il mondo si sarebbe stato
costretto a inginocchiarsi ai suoi piedi. No, signora mia. Il potere non viene
da un paio di begli occhi e da quelle porcherie che tu chiami amore. E nemmeno
sta nella ricchezza, o nel sapere più cose di quelle che sanno tutti gli altri,
come dice il maestro Zenobi. Il potere vero sta nelle cose nascoste, e questo
lo sa bene anche la vostra Isabella, pure se non ha nemmeno dodici anni.
IL POTERE DELLE COSE NASCOSTE
Non
sarebbe stato facile resistere a quel freddo, anche se era ben coperta con il
suo farsetto di lana, la mantella, le calze grosse e le scarpe pesanti, ma era
meglio non tornarci, a casa, per un giorno o due.Lì ci sarebbe stata bene,
buchi dove infilarsi come un topolino nella tana e starsene al riparo ce
n’erano tanti.
Dicevano
tutti quanti che c’erano i pipistrelli, dentro quel rudere così spaventosamente
grande, ma era inverno, grazie a Dio, e se ne stavano rintanati. I pipistrelli,
ma non i fantasmi. Gli antichi ci ammazzavano i Cristiani, le raccontava
Caterina, e a lei bastava chiudere gli occhi per vedere i martiri, adesso erano
statue che si veneravano in Chiesa e si pregavano prima di addormentarsi,
affrontare, cantando, i supplizi più atroci, inventati a bella posta da qualche
mente malata per il divertimento di menti altrettanto malate. Alcuni venivano
bruciati come torce, alla stregua dell’eretico; altri decapitati; altri
crocifissi, come Nostro Signore; altri ancora dati in pasto alle bestie feroci.
La fantasia dei carnefici non conosceva limiti e lei era come se fosse lì in
mezzo e vedesse tutto quanto senza distogliere gli occhi, come poco prima. Era
quello, il potere delle cose nascoste di cui le diceva Caterina. Guarire i
mali. Mandarti morte, amore o fortuna. Vivere, nel presente, il passato e il
futuro, tuo e degli altri. Un potere che
lei ben conosceva, ma meglio non dire niente, perché la tortura con la
corda e con i ferri roventi, e poi il fuoco erano anche per le streghe, non
solo per gli eretici. Chi è diverso mette, metteva e metterà sempre paura a
quelli che stanno in alto.Era così ai tempi di Nerone e di tutti gli anticristi
venuti dopo di lui. E’ così adesso e così sarà sempre. Non parlare con nessuno,
di quello che sogni e che vedi, Isabella. No, non dirò niente. Neanche Caterina
aveva mai detto niente. Ma tutti quanti, in via Dei Coronari e non lì soltanto,
sapevano che conosceva le erbe per guarire e i filtri per far ammalare di mal
d’amore. Forse, poteva anche mandare il malocchio con la forza del suo sguardo,
far seccare il grano e morire il bestiame con il fiato della sua bocca: chissà
se l’aveva fatto mai, quando stava in campagna. Aveva ormai più di
quarant’anni, quando aveva lasciato il paese natio per andare a servizio a Roma.
Era una zitella che nessuno aveva voluto perché aveva la pelle deturpata dai
segni del vaiolo, lunghi denti gialli e occhi di brace. Una famiglia perbene
non se la sarebbe mai messa in casa, Caterina Moretti, la strega di Soriano, ma
a lei importava poco o niente di cosa fosse chi doveva servire. La padrona era
bella, allegra e generosa, portava abiti scollati e riceveva uomini sempre
diversi in casa sua. Aveva grandissima cura dei capelli, delle mani e
dell’incarnato e quando un brutto eczema le aveva riempito la faccia di
pustole, lei l’aveva guarita con i suoi impiastri. Quello era il potere delle
cose nascoste. Come le sue visioni, pensava Isabella, che Caterina aveva visto
crescere. Non parlarne mai, e starai al sicuro, come un topolino nella tana. Forse.
LUDUS MAGNUS GLADIATORUM
Il
cubicolo aveva una volta bassa da opprimere, ma non ci faceva freddo, lì
dentro, anche se la puzza di muffa e di umido si sentiva quasi da dar fastidio.
Due cumuli di paglia fradicia dovevano aver offerto, in tempi non troppo
recenti, rifugio a qualche vagabondo, e adesso sicuramente lo offrivano ai
topi. I fruscii e gli squittii nel buio erano gli unici rumori che si univano a
quello lieve del suo respiro, ma lei non aveva paura: tanto non ci sarebbe
rimasta molto, lì dentro, una sola notte, giusto il tempo per far ricordare a
sua madre che aveva una figlia, giusto il tempo per farla pentire di non averle
mai voluto abbastanza bene, lasciandola quasi morire dallo spavento.
Non
sognò l’eretico che bruciava, forse perché non era abbastanza vicina al
patibolo da poter vedere ogni dettaglio della sua agonia atroce e imprimerselo
nella mente e negli incubi. Un refolo di vento le aveva portato comunque alle
narici le puzze rivoltanti che si accompagnavano al supplizio: zolfo, feci,
carne che bruciava e grasso che si squagliava. Odori familiari, in fondo. I
poveri bruciavano escrementi di cavallo, per riscaldarsi e, lavandosi poco,
emanavano fetori forse perfino più acuti e nauseabondi di quelli emanati da un
essere umano che si consumava al fuoco di un rogo, e i poveri a Roma erano
dappertutto.
C’era
freddo a starsene fermi e sdraiati, lì dentro, quasi come per strada, in quella
notte senza luna, ed era inverno pieno. Febbraio. Avrebbe potuto buscarsi un
malanno, non fosse stata ben coperta. No, non era il caso d’infilarsi sotto
quella paglia fradicia e puzzolente, che doveva brulicare di cimici e di
pidocchi, ma semplicemente aspettare il sonno, che non sarebbe tardato. Un arco
basso divideva il suo cubicolo dal resto di un locale molto più ampio e dalla
volta più alta. Sopra quell’arco, incisa nella pietra, una scritta che, a causa
del buio, non aveva notato:
PORTA
LIBITINARIA
VISIONI
Aveva
visto un uomo morire bruciato solo poche ore prima. Aveva scelto, per
risparmiarsi un paio di ceffoni, di passare la notte lontano da casa sua, in un
posto infestato dai topi, dalle cimici e chissà da quali altre bestiacce. In un
posto, dove centinaia e centinaia di anni prima, i pagani andavano a divertirsi
guardando lo spettacolo dei Cristiani che morivano ammazzati. Un posto che
doveva brulicare di fantasmi. Ma, come tutti i ragazzi della sua età, quando
era stanca, Isabella aveva il sonno di piombo.
Sognò
da spettatrice e non da protagonista, una folla plaudente e urlante dentro
quello che non era il rudere che lei ben conosceva. Vide l’uomo in piedi
accanto alla carcassa del mostro striato il cui ultimo sangue finiva di
sgocciolare sulla sabbia dell’arena. Il petto, nudo e robusto come quello di un
facchino, ansimava ancora per la fatica e le grosse spalle muscolose erano
segnate da graffi paralleli, profondi e sanguinanti. Oltre ai baltei di cuoio
rafforzati con grosse placche di metallo, portava addosso solo un gonnellino
che gli arrivava a metà delle cosce, sandali allacciati intorno alle caviglie e
polsiere borchiate. Aveva alzato al cielo la sua corta spada, e non si capiva
se il sangue che gli colava lungo un braccio che sembrava scolpito fosse il suo
o quello della tigre che aveva appena ucciso. La gente aveva accolto con un
lungo applauso il suo gesto di vittoria e a Isabella sembrò di percepire un
sorriso sulla faccia corrucciata. Lo acclamavano urlandogli qualcosa come
Maximus e Hispanicus in quella lingua difficile con cui i preti dicevano messa
e che il maestro Zenobi tentava, non senza fatica, di insegnarle. Una visione,
l’ennesima. Un altro viaggio a ritroso nel tempo, quando quello in cui aveva
trovato rifugio per la notte non era il rudere che conosceva, ma il luogo in
cui i Romani si divertivano a guardar morire gli altri, schiavi addestrati a
combattere o Cristiani che fossero. Vide anche alcuni negri seminudi trascinare
quello che sembrava un cadavere mediante lunghi raffi di metallo arrugginito.
Era un corpo enorme, rivestito di una lorica a scaglie, con il capo coperto da
un elmo modellato come la testa di un grosso gatto e una maschera d’oro che gli
nascondeva la faccia. Tigre, urlava la folla. Tigre, tigre, tigre… Il sangue
continuava a colargli a fiotti da una ferita alla gola, seminascosta dalla
gorgiera dell’elmo, mentre i negri lo trascinavano verso la Porta Libitinaria.
La Porta della Morte.
Era
lì anche lei, adesso, in mezzo agli spettatori in delirio l’urlo della folla
dentro gli orecchi, l’odore dolciastro e penetrante del sangue, dei corpi
sudati, delle foglie di menta e dei petali delle rose nelle narici. L’uomo con
la spada in mano era a pochi passi e la guardava. Aveva i capelli scuri,
tagliati corti, la barba curata, un graffio sulla tempia sinistra, le
sopracciglia aggrottate come se la luce del sole gli desse fastidio. E due
occhi dello stesso identico azzurro del ciondolo che sua madre portava al
collo.
IL VAGABONDO
Un
rumore di passi l’aveva fatta sussultare nel sonno. C’erano i fantasmi, lì dentro,
lo dicevano tutti quanti, e Caterina asseriva di averne visto uno, qualcosa di
piccolo, bianco e guizzante, sicuramente uno scherzo della sua immaginazione. E
anche se così fosse stato… Che male poteva venirle da un’anima in pena? Avrebbe
pregato per lei, ottenendone la riconoscenza, con la remissione dei suoi
peccati e il riposo che desiderava. I fantasmi non possono niente contro il
potere della preghiera, le aveva insegnato il maestro Zenobi, che da ragazzo
aveva studiato in seminario. Ma i fantasmi sono qualcosa d’incorporeo e non
hanno il passo pesante, si diceva da sé sola, lottando contro il sonno, i sensi
all’erta. I pericoli non ci vengono dai morti, bensì dai vivi. Ci sono uomini
cattivi che non desiderano altro che togliere l’innocenza alle fanciulle.
L’innocenza… Quella che sua madre aveva data via come una merce per potersi
permettere una bella casa, vestiti eleganti, gioielli preziosi, lei che era
nata in un tugurio e aveva conosciuto la fame. Quella che avrebbe venduto anche
Isabella all’offerente più generoso, quando fosse diventata donna, perché ad
una vita diversa non avrebbe potuto aspirare mai.
Ci
sono uomini che non si accontentano dell’innocenza e allora si pigliano pure la
vita, pensò quando la luce della lanterna illuminò con un bagliore la figura
dell’uomo dritto accanto al suo giaciglio. Le sembrò molto alto, perfino più di
quanto in realtà non fosse, avvolto in un mantello nero che lo copriva dal
collo alla punta degli stivali, lasciando intravedere solo la mano guantata che
reggeva la lanterna e la testa, dalla quale il cappuccio del mantello doveva
essere scivolato via poco prima. Aveva lunghi capelli castani che fluttuavano
come per una brezza, il viso dai lineamenti morbidi e dalla carnagione chiara
incorniciato da una corta barbetta. Sotto le sopracciglia folte e dritte, due
grandi occhi dalle palpebre pesanti e dall’espressione imperscrutabile
scintillavano, azzurri e baluginanti come… come il ciondolo che sua madre
portava sempre appeso al collo.
CATERINA
-Te
l’avevo detto che lì ci stanno i fantasmi, ragazzina.
-Non
ho avuto paura. Nemmeno quando… quando l’ho visto, ed era identico al sogno che
ho fatto, solo i vestiti erano diversi…
Sta’
zitta, per amor di Dio; non lo sappia nessuno che vedi quel che vedi. E attenta
a non incrociare il medio sull’indice, a non guardare fisso chi incontri per
strada, a non passarti la lingua sui denti: tutti saprebbero che sei strega, e
il potere sulle cose nascoste potresti pagarlo a caro prezzo.
-Era
un uomo molto bello, con gli occhi tristi e un sorriso gentile. Mi ha offerto
del pane e l’ho preso, con la fame che avevo. Mi piacerebbe un marito così,
quando sarò grande.
Caterina
alzò le spalle ossute. Avrebbe voluto dirglielo, e chi ti si piglia, ragazzina?
Tra un paio d’anni, sarai quello che è tua madre adesso, e il marito, bello o
brutto, scordatelo, se non vorrai soffrire l’inferno in terra. Rassegnati già
da adesso a quello che sarai, non sei così piccola da non vedere quello che ti
succede intorno, non sei nemmeno stupida, e la vita ti sarà più facile, forse
non sarai nemmeno più tormentata dalle visioni e non ti verranno pericoli, dal
potere segreto sulle cose nascoste. Sarai desiderata, ammirata, non ti mancherà
niente, Isabella, esattamente come tua madre. O ti mancherà tutto quanto, anche
la terra su cui dovresti poggiare i piedi: proprio come è successo a me, che
nessuno ha voluto.
ZENOBI
-Esistono
i fantasmi, Magister?
-Qualcuno
asserisce di averli veduti, Isabella. Ma a guardar bene, nella maggior parte
dei casi, si è trattato di donnette isteriche, di poveri idioti o di beoni
usciti fuori a tarda notte dalla bettola sbronzi come spugne. Pura suggestione,
alimentata dal vino, dal buio, dalla paura… Perché me lo domandate, figliola?
Aveva
curiosi occhi che sembravano guardare aldilà delle cose, la piccola Isabella
Quintarelli. Occhi d’ambra, screziati di giallo come quelli dei gatti, gli
stessi di suo padre, il Cardinale Albrizzi. Tanto sarebbe bastato a cacciarla
nei guai, oltre alla sua immaginazione accesa, che le faceva dire cose che
avrebbe fatto bene a tenere per sé, anzi, a togliersi dalla testa. Era molto
graziosa, qualche anno ancora e si sarebbe fatta splendida. Perché non si
accontentava di quello che aveva e lasciava perdere il resto?
-L’altra
notte, al Colosseo. Ne ho visto uno.
-Non
avreste dovuto allontanarvi da casa e passare la notte in un posto come quello.
Avete gettato vostra madre nella disperazione.
Sapevo
che le sarebbe passata, tanto, le passa sempre, e che non mi avrebbe presa a
schiaffi con quelle dita piene di anelli. Ma io l’ho visto lo stesso, un
fantasma, anche se nessuno ci crede.
-Alludete…
al vagabondo con il mantello nero, quello che vi ha offerto del pane?
-L’ho
sognato, Magister. Era lui. Ma vestito e armato come un guerriero antico. L’ho
visto uccidere una tigre, e poi un uomo.
Scherzi
della suggestione: Isabella attraversava un’età difficile, dalla descrizione
che ne aveva fatto il vagabondo doveva essere giovane e piuttosto attraente,
inoltre era stato gentile con lei e ciò poteva aver alimentato la sua
immaginazione. Tutto perfettamente spiegabile facendo ricorso alla ragione e
senza scomodare i fantasmi dei martiri e dei gladiatori che infestavano
l’antico rudere.
-Era
solo un vagabondo, figliola. Forse un soldato sbandato. I fantasmi non hanno il
passo pesante e le mani calde.
Già,
calde e concrete, gli aveva sfiorato la punta delle dita quando lui le aveva
passato una fetta di pane scuro e raffermo, che lei aveva divorato, era tutto
il giorno che non mangiava e non ci vedeva dalla fame abbastanza da non potersi
permettere di fare la schizzinosa e da scordare qualsiasi prudenza nei riguardi
di uno sconosciuto, per giovane, bello e gentile che fosse.
-Non
parlo del vagabondo, Magister, ma del guerriero che ho visto in sogno. Era
identico a lui, a parte i vestiti.
-E’
solo una coincidenza, figliola.
Isabella
scosse la testa, scompigliandosi i lunghi riccioli neri e guardò fisso fisso il
vecchio maestro, le labbra contratte, gli occhi seri, gialli come topazi.
-Quello
che vedo non è mai una coincidenza, Magister. Io posso vedere il passato degli
uomini che guardo negli occhi… e anche il futuro.
Quella
Caterina ti ha messo in testa idiozie di cui faresti meglio a non vantarti,
bambina.E’ pericoloso, in tempi come questi. Qualcuno che non sono io potrebbe
perfino crederci.
-Potete
leggere… anche nel mio passato?
Nessuno
sapeva niente di quella che era stata la sua vita, se non che era nato a
Venezia e che aveva studiato in seminario, senza tuttavia conseguire
l’ordinazione sacerdotale. E nessuno, forse nemmeno il Cardinale Albrizzi, di
cui era stato segretario, conosceva i motivi per cui aveva gettato al vento la
possibilità di far carriera in seno alla Chiesa.
-Avevate
vent’anni, e stavate per ricevere gli ordini minori. Ma vi siete innamorato di
una donna… E per lei avete rinunciato a tutto.
Non
andare avanti, bambina, non gettarmi in faccia le mie colpe e il mio disonore.
Quella donna era una prostituta, come tua madre… e io l’ho amata di un amore
impossibile.
Un
lungo brivido freddo attraversò come un fulmine il corpo magro di Arnaldo
Zenobi. Quella bambina aveva davvero il potere sulle cose nascoste, la capacità
di scrutare in fondo agli occhi di un uomo e leggervi il suo passato e il suo
futuro. Il suo futuro, già. E’ peccato grave, pretendere di saperlo e non le
avrebbe domandato più niente.
Lo
sguardo dorato di Isabella era piatto e imperscrutabile come quello di un falco
nell’atto della caccia. Aveva visto il passato del giovane Zenobi, ora vedeva
il futuro del suo vecchio maestro.Un mese di vita, un mese soltanto, poi il suo
cuore lo avrebbe tradito. Vide il corpo di lui disteso sul pavimento, in preda
all’ultima convulsione, al sussulto estremo della vita che lo lasciava. I
grandi occhi d’oro le si velarono di tristezza. E scappò via, perché lui non la
vedesse turbata.
ARTEMISIA
Il
vecchio maestro le aveva lasciato in eredità i suoi libri e un po’ del suo
sapere: abbastanza da ben figurare in società, perché la sua Isabella non
sarebbe stata una qualsiasi delle diecimila e più puttane che esercitavano il
mestiere a Roma, ma una grande cortigiana, come Veronica Franco e Isabella de
Luna. A diciassette anni, non era più la bambina selvatica che amava
vagabondare per la città e non aveva paura di niente, ma una splendida giovane
donna dai modi compiti, i lunghi riccioli neri e gli occhi lucenti come monete
nuove d’oro zecchino. Presto sarebbe giunto il suo momento, visto che non le
mancavano gli ammiratori, nell’empireo della buona società. E lei, Artemisia,
si sarebbe potuta ritirare a vita privata, magari in una graziosa casetta fuori
porta acquistata con i risparmi messi da parte in tanti anni di onorata
carriera. Era inevitabile che così fosse. Non siamo nessuno, e l’alternativa a
vendere noi stesse è la fame, Isabella. Tu non sai nemmeno cosa significa,
avere fame e freddo, nascere e vivere la tua infanzia in un lercio tugurio,
com’è successo a me. Questo ti è stato risparmiato.
Ma
vedo un grande amore, nel mio futuro, non tanti uomini che pagano in cambio
d’un po’ di gentilezza. Isabella, Isabella… Se conoscessi soltanto il morso
della fame e del freddo, se sapessi che cosa significa nascere e crescere in
una stalla con gli animali non parleresti come parli. Proprio ieri, un
gentiluomo mi ha chiesto di te… Tra qualche giorno vorrebbe incontrarti.
A
quarant’anni, Artemisia non era più quella di una volta, aveva messo su
parecchio grasso superfluo e spesse
pennellate grigiastre le percorrevano
i lunghi capelli scuri. Non conosce altra vita migliore di questa, pensava
Isabella, mentre sua madre le sussurrava all’orecchio il nome del gentiluomo
che avrebbe voluto intrattenersi con lei, barattare la sua verginità con denaro
sonante. Era il nome di un uomo ricco e potente. Sposato. Vecchio.
L’alito
di Artemisia aveva un odore rancido di denti guasti. Non era più lei,
l’Artemisia dagli occhi luminosi e dalla pelle fresca, era una vecchia che più
nessuno avrebbe voluto e che presto avrebbe cominciato a frequentare
assiduamente la chiesa e a preoccuparsi per la salute della sua anima, visto
che dal corpo aveva preteso e ottenuto tutto. Ma lavorando bene e risparmiando
oculatamente aveva potuto mettere da parte abbastanza denaro da non temere per
il suo futuro e se non sei povero, agli occhi dei più non sarai neanche disonorato,
perché coi soldi puoi comprare anche la rispettabilità, perfino se hai
trascorsi di ladro, assassino o puttana. Se una come lei, una contadina
ciociara semianalfabeta il cui unico capitale era la bellezza, era riuscita a
raggiungere quella piccola agiatezza che le avrebbe consentito una vecchiaia
serena, a Isabella, che era istruita, raffinata, dai modi gentili e dal
portamento altero poteva andare decisamente meglio. Molto meglio. Se solo
avesse trovato il coraggio di mettere da parte i suoi scrupoli.
-Siamo
quello che siamo, figlia… Ti conviene rassegnarti, se non vuoi che il dolore ti
mangi la vita.
Gli
occhi verdi di Artemisia erano gonfi, cerchiati. Con le dita della mano
grassoccia, si tormentava nervosamente il ciondolo che le pendeva tra i seni. Papa
Clemente stava molto male, non sarebbe durato a lungo. Capace che il suo amante
dei giorni migliori, Albrizzi, il cardinale veneziano, il padre di Isabella,
potesse uscire pontefice dal Conclave, e chissà se sarebbe stata fortuna o
disgrazia, per loro due.
-Esco,
vado in chiesa.
In
chiesa. C’era da crederle? Non ci andava quasi mai, preferiva, secondo il
solito, vagabondare in giro e rientrarsene a ora tarda. Le pie bigotte, almeno
non l’avrebbero guardata come si guarda un cane, perché era quello che era,
nonostante l’ottima educazione, gli abiti eleganti e l’aria compita: la figlia
di Artemisia, la puttana di Via Dei Coronari, e se ancora non era quello che
era stata sua madre, lo sarebbe diventata presto.
I LUPI
Invece
c’era andata per davvero, in chiesa, aveva pregato a testa china facendo finta
di non vederle, le anime pie che biascicavano i loro rosari e borbottavano su
quel che sarebbe diventata presto, se già non lo era. Quanti anni poteva avere?
Diciassette, diciotto? A quattordici anni appena fatti, non c’era niente che
sua madre non sapesse… E il bello è che non c’è marcio che possiate riuscire a
nascondermi, se appena vi guardo dentro gli occhi. Soffocò una risata e uscì
dalla chiesa, dopo essersi segnata frettolosamente.
La
mole cupa del Colosseo si stagliava gigantesca contro il rosso del crepuscolo.
Era già tardi, ma non aveva voglia di rientrare. Non avrebbe dormito e non
avrebbe avuto neppure la forza di fare dell’altro, pensando a quel che
l’attendeva di lì a qualche giorno.
-Ciumachella[2]… Viè qua, nun te magno.
L’uomo
che le si era parato davanti doveva essere più sbronzo di una spugna. Gli
ubriachi possono fare impressione, ma non sono quasi mai pericolosi, si disse
da sé sola, e quello era tale da non reggersi neppure in piedi. Isabella
continuò a camminare affrettando i suoi passi, indifferente alla voce malferma
che continuava a chiamarla, strascicata e quasi implorante.
-Ciumachè… Dimme quanto voi…
-Lasciatemi
stare.
O
chiamo le guardie. Quali guardie? Le lanterne in cima ai pali illuminavano una
strada deserta. Solo le puttane da quattro soldi,gli ubriachi e le canaglie se
ne vanno in giro con il buio, sua madre aveva ragione a rimproverarle quella
pessima abitudine che aveva sempre avuto sin da bambina. Avesse avuto le ali ai
piedi, come il dio dei mercanti e dei ladri di cui le diceva il maestro Zenobi.
Ma le ali non spuntavano, le gambe pesavano come piombo e una mano di ferro
aveva preso a serrarle forte il braccio.
-A zoccola…Li hai da trattà bene, l’amichi mia…
Questo
non è ubriaco, no di certo, pensava Isabella guardandolo. Giovane, vigoroso.
Magari armato. Un bullo con i capelli arruffati raccolti dentro una reticella e
brache aderenti d’ordinario tessuto lucido che gli fasciavano le gambe storte.
Pochi passi più indietro, altri due, nella stessa attitudine e con la medesima
espressione, lupi che vagavano nella notte in cerca di qualcosa a cui fare del
male, si fosse trattato di un gatto randagio o di una zoccola in attesa di
clienti non faceva differenza. Riuscissi a raggiungere il Colosseo… Che razza
di pensiero assurdo,in un frangente del genere; si sentì perduta, ma non riuscì
a scappare, né a urlare.
-Vi
prego…
Li
sentì ridere, percepì il sibilo della stoffa che si lacerava, quando uno di
loro le afferrò la gonna. L’avrebbero gettata in terra. L’avrebbero posseduta a
turno, uno alla volta, mentre gli altri le tenevano larghe le gambe e
soffocavano le sue grida e il suo sangue con un brandello dei suoi stessi vestiti.
Erano in quattro. Alla fine di tutto, non fosse morta da sola di dolore e di
vergogna, forse l’avrebbero ammazzata e gettata nel Tevere. “Sant’Agnese
benedetta… aiutatemi voi”.
Svenne.
E non sentì lo scalpiccio degli zoccoli, il sibilo della spada che fendeva
l’aria, gli urli di sorpresa e di rabbia prima, di terrore poi, il gorgogliare
delle gole tagliate, del sangue che saturava i polmoni nell’ultimo spasimo
della vita che lottava invano contro il sopraggiungere del buio.
MASSIMO
Benedetto
quell’uomo e qual momento. Benedetto l’oltraggio risparmiato, la lunga spada
che grondava sangue, il cavallo bianco gravato anche del suo peso. Benedetto lo
svenimento, che le aveva impedito di sentire e di vedere. Adesso era al sicuro,
tra quelle braccia, come un bimbo nella sua culla, dentro una stanza scaldata
dal fuoco del camino, mentre fuori i lupi gridano e la tempesta imperversa.
Isabella
dormiva, cullata dal passo cadenzato del cavallo e dal respiro dell’uomo. La
sua pelle era tiepida e odorava leggermente di muschio. Doveva avere mani
forti, dalle dita lunghe, capaci di accarezzare teneramente il corpo di una
donna ma anche di uccidere senza darti il tempo di accorgertene, com’era
capitato ai lupi della notte quando avevano tentato di stuprarla. E gli occhi
blu come quelli che, nei suoi sogni guardavano crudeli e disperati, attraverso
i fori d’una spaventosa maschera di metallo, la faccia di un nemico che lei non
riusciva a vedere, mentre sugli spalti dell’Anfiteatro la folla frenetica
urlava “Maximus” e “Hispanicus” nella lingua dei preti quando dicevano messa.
-Siamo
arrivati… signora. Passeremo qui la notte. Vi riporterei a casa, ma è molto
tardi.
Dio,
che voce la svegliava dal suo sonno. Cupa e profonda, vibrante come il suono di
uno strumento a corda. Isabella chiuse gli occhi, gli strofinò la guancia
contro il collo ispido di barba, gli sentì il battito lento e regolare del
cuore pulsare nella gola.
L’aiutò
a scendere da cavallo, afferrandola per la vita e sollevandola senza sforzo. E
lei lo seguì quasi in trance, accarezzando il muso di velluto del cavallo che
teneva per le briglie. Le erano sempre piaciuti i cavalli. Anche quella vecchia
brenna rognosa, indegna cavalcatura di un uomo tanto splendido quanto
ingiustamente povero.
-Come
si chiama?
-Argento.
Avevo un bel cavallo che si chiamava così, tanti anni fa.
Un
nome assurdamente pretenzioso, ma lui doveva essere uno di quegli uomini cinici
e duri, capaci di spedire al Creatore qualcuno senza battere ciglio ma che si
scioglievano di tenerezza quando si trattava di animali; uno di quelli che
piangono se gli muore il cane o il cavallo e hanno l’abitudine di dare lo
stesso nome al cucciolo, al puledro che verrà dopo di lui, onde perpetuarne
l’esistenza in altri occhi dolci che ti guarderanno adoranti, in un’altra
pelliccia che fremerà quando l’accarezzerai.
-Seguitemi…
princesa.
E
lo seguì fino all’interno del rudere, rischiarato soltanto da spicchi di cielo
spruzzati di stelle tra i pertugi di quella gigantesca rovina. E quando
l’acciarino incendiò la stoppa della lanterna da carrozze, che diffuse nel
cubicolo la sua luce pallida, lo vide, in tutto il suo splendore. Alto senza
essere gigantesco, un volto dai tratti morbidi e regolari, occhi azzurri
sornioni e sonnolenti, un filo di barba e una capigliatura abbondante, dai
caldi riflessi ramati, che gli accarezzava le spalle. Indossava una camicia di
lino ingiallita per i troppi bucati e vecchie brache aderenti di pelle,
infilate dentro stivali alti da soldato. Un abbigliamento che tradiva
un’estrazione sociale men che modesta ma, nello stesso tempo, esaltava tutti i
muscoli d’un corpo da mozzare il respiro.
-Riposatevi,
adesso. Qui starete al sicuro.
Le
sorrise, arricciando un po’ il naso e strizzando gli occhi. Lì sarebbe stata al
sicuro, come no. Al sicuro anche da quegli occhi trasparenti e maliziosi che le
scrutavano le gambe, lasciate scoperte dallo strappo sulla gonna? Si ricompose:
grazie al cielo, quei quattro maiali non avevano fatto in tempo a danneggiarle
troppo i vestiti, mettendo a repentaglio oltre il lecito il suo pudore.
-Posso
sapere chi debbo ringraziare d’avermi tolta dai guai?
Le
sorrise ancora: aveva denti bianchissimi, fossette profonde sul mento e sulle
guance e un ventaglio di rughe sottili come graffi agli angoli di quegli occhi
fantastici, frangiati da ciglia così lunghe da dare l’impressione che potessero
perfino dargli fastidio.
-Massimo…
princesa.
IL PIPISTRELLO
Massimo.
Prestante, coraggioso e straniero. Il suo non era l’accento rozzo dei popolani,
né quello melenso del maestro Zenobi. Le diceva “princesa”, con quella voce di velluto scuro e le sillabe che
scivolavano sensuali tra i denti e la lingua.
-Non
siete… Di qui?
-Del
Colosseo? Come i pipistrelli, i gatti e i fantasmi che spaventano le vecchiette
e gli ubriaconi?
Le
risata bassa gli morì in gola, quando lei lo fulminò con un’occhiataccia. Le si
sedette accanto, la schiena appoggiata al muro, le braccia incrociate dietro la
testa, le iridi blu divorate quasi per intero dalle pupille nere e larghe come
quelle di un gatto randagio intrappolato in una macchia di luce.
-Scusatemi,
non volevo spaventarvi… princesa.
-Io
non ho paura di niente.
Non
ho paura della tua lunga spada ancora sporca di sangue. Né quando ti vedo nei
miei sogni, e sei diverso da come sei… Perché quello sei tu, lo stesso che è
piombato come un’aquila in picchiata sui lupi della notte, lo stesso che mi
aveva offerto del pane, la sera che bruciarono Giordano Bruno a Campo De’ Fiori
e io preferii passare la notte qui, tutta sola, perché temevo che mia madre mi
avrebbe presa a schiaffi, se fossi tornata. Lo stesso che, nei miei sogni, ho
visto combattere duelli all’ultimo sangue dinanzi a una folla che urlava, anche
se i suoi abiti e i suoi capelli erano diversi, succinti i primi, ispidi e
corti gli altri.
-Non
l’ho mai messo in dubbio… Isabella.
La
conosceva. Ma a Roma, chi non conosceva almeno di nome Artemisia, la puttana
più cara della città? Perfino chi, come lui, non si sarebbe mai potuto
permettere i suoi costosi servigi. Doveva averla incontrata, da qualche parte,
elegante e ingioiellata come un’aristocratica, lei che aveva visto la luce in
un tugurio, con quella figlioletta selvatica come un gatto randagio che le
trotterellava appresso. Artemisia. Isabella. Preferisco quando mi chiami princesa, è dolce come lo dici.
-Siete…
straniero, immagino.
-Spagnolo.
Chissà
quanti anni aveva, doveva essere più grande di lei di parecchio. Magari era
sposato, anche se non aveva anelli di nessun genere alle dita. Isabella si
disse da sé sola che le sarebbe piaciuto sedurlo. Era ancora intatta, ma non le
mancavano, benché soltanto teoriche, le conoscenze in materia. O forse ce
l’aveva nel sangue, l’arte della seduzione, la pensavano così tutti quanti.
Sarebbe diventata una puttana che si dà per denaro, ma a quell’uomo si sarebbe
data per niente. In segno di riconoscenza. O magari solo per quanto era bello.
Lasciò che il polpaccio snello facesse capolino attraverso la gonna strappata,
fece in modo che lo scollo della camicetta le scivolasse appena sopra la spalla.
Era
ancora assorta nei suoi pensieri quando vide la minuscola creatura alata volare
verso di lei sbandando ed emettendo gli squittii acuti d’un topo preso in
trappola. I pipistrelli, quei disgustosi topi con le ali, possono attaccarsi ai
capelli delle persone, appestarle con il loro alito e la loro saliva velenosa.
Urlò, e si ritrovò, a dispetto della sua volontà, con la faccia schiacciata
contro il petto muscoloso di Massimo.
LA TIGRE
-Sta
calma, è una creatura inoffensiva, non ti farà nulla… Non eri tu quella che non
ha paura di niente? Ti fa più ribrezzo la vista di un pipistrello che quella di
un poveraccio mentre muore bruciato… Lo sai che sei strana, princesa?
Il
soffio caldo del suo alito e della sua voce le carezzavano un orecchio. L’altro
ascoltava il pulsare lento e regolare del suo cuore.
Allora
ero lontana dal patibolo abbastanza da non vedere più di quel che il mio
stomaco avrebbe potuto reggere. O forse ero così stupida da non rendermi conto
di niente… Come adesso, più o meno.
La
grande mano di lui le s’insinuava tra i capelli, le dita giocavano col lobo
trafitto da un sontuoso pendente d’oro e di corallo. Tra poco l’avrebbe
baciata, e sarebbe stata la prima volta. Quello che devi fare, sono cose che te
le insegna l’istinto. Come strofinare la guancia contro la modesta camicia di
lino che lui portava e sentire sotto la stoffa un po’ lisa il muscolo pettorale
teso e contratto, il leggero rilievo del capezzolo.
-Non
sarai sposato, Massimo…
-Lo
sono stato.Tanto tempo fa.
Gli
allentò i laccetti che tenevano chiusa la camicia, lasciò che la mano
scivolasse sulla sua pelle calda, e la sentì fremere. Era una bella sensazione
e sicuramente il vecchio gentiluomo che aveva chiesto di lei non sarebbe stato
capace di fargliela provare per niente al mondo.
-Princesa, ti prego… Potresti mettermi in condizioni di fare
cose che non dovrei…
La
voce di lui era un rantolo rauco, come se cercasse l’aria che gli stava
mancando. Aveva la camicia completamente aperta e quella piccola tentatrice
giocherellava col dente di lupo che lui portava appeso al collo con un laccio
di cuoio, gli arricciava tra le dita i peli del petto.
-E
se questo fosse esattamente ciò che io voglio?
-Sei
una bambina, princesa.
-Lo
ero cinque anni fa, quando ci siamo incontrati per la prima volta.
Adesso
non lo sono più ed è esattamente questo che voglio. Quello che mi
avrebbero fatto a forza, se tu non fossi intervenuto. Quello che qualcuno mi
farà, a giorni, barattando la mia verginità con denaro sonante. Ma non l’avrà,
perché sarai tu che l’avrai, e in cambio di niente.
Dopo
le mani, la bocca. La pelle di Massimo era calda, viva. E straordinariamente
morbida,seta color dell’avorio vecchio tesa su muscoli sodi e guizzanti. Fai quel
che ti suggerisce l’istinto. Tutto quanto. E gli stampava piccoli baci dietro
l’orecchio, sulla gola, sul vello leggero del petto.
-Massimo…
Sei
pieno di cicatrici. Come te le sei fatte? Quattro graffi paralleli, sottili e
profondi, spiccavano rossi contro la sua pelle chiara,dalla scapola alla
clavicola sinistra. I segni lasciati dagli artigli di una belva. Isabella
chiuse gli occhi, trattenne il respiro: nell’arena dell’Anfiteatro, vide il
gladiatore lottare avvinghiato ad una tigre gigantesca, le spalle nude segnate
da graffi paralleli sanguinanti. Il viso contratto in una smorfia di sofferenza
era lo stesso dell’uomo che le stava davanti, sorridendole di piacere e di
gratitudine per quel che le sue dita e la sua bocca riuscivano a fargli
provare.
-Basta,
Isabella…
Non
era arrabbiato con lei e le sorrideva, sollevandole il mento tra l’indice e il
pollice. Come dire, tocca a me, adesso. L’avrebbe baciata, e poi…
-Hai
due bellissimi occhi, princesa, lo sai? In vita mia, ho
incontrato solo un’altra creatura che aveva gli occhi come i tuoi, e non era un
essere umano. Era una tigre.
LA PRIMA VOLTA
Non
sarebbe stato sempre così, Isabella lo sapeva.Con gli altri, quelli che
pagavano, sarebbe stato diverso. Ma con Massimo… I baci veri, le carezze sempre
più intime ed insinuanti, da farla arrossire, da farla fremere di un piacere
così intenso da temere che il cuore le si fermasse. Piccoli, teneri morsi che
non lasciavano segni sulla pelle, solo caldi brividi, la paura che tutto
finisse e la voglia che non finisse mai. Quando lui la prese, Isabella urlò di
dolore e gli artigliò la schiena a sangue.
-Perdonami,
princesa… Non sapevo che… Avresti dovuto
dirmelo.
-Perché
tu mi mandassi via?
Gli
rotolò sopra, gli piantò nei suoi gli occhi gialli e corrucciati.
-Non
ti avessi incontrato, il primo a prendermi sarebbe stato uno di quei maiali là
fuori: con la forza; e non avessi incontrato neanche loro, ci avrebbe pensato
un aristocratico di cinquant’anni, tra qualche giorno, e per avermi avrebbe
pagato. Sono la figlia di una prostituta, mi capisci? Anche se mi chiami princesa. Vuol dire principessa, no?
La
bocca le scivolò lungo il collo, sulla grossa spalla dai muscoli pieni,
torniti. Mhh, che belle spalle che hai, Massimo… Sembri una di quelle statue
che scolpiva Michelangelo, ma tu sei caldo e vivo. Lo morse con delicatezza e
lui le sorrise.
-Brujita… piccola strega.
Mi
hai sedotto, e io forse non dovevo lanciarti fare; piccola strega dagli occhi
gialli, piccolo demonio… Sarai stata anche vergine, ma sai benissimo come
toccare un uomo per farlo impazzire.
-Mia
madre mi ha detto che fa male solo la prima volta.
E
gli sorrise, sicura che ce ne sarebbe stata un’altra, e un’altra ancora. Quella
notte stessa.
RE DI SPADE
Ti
dà fastidio, se lascio accesa la lanterna? Se non mi assopirò, voglio guardarti
mentre dormi, finché l’olio non finirà di consumarsi dentro la lampada.
Isabella
lo guardava dormire sdraiato sul fianco, il corpo superbo completamente nudo, i
lunghi capelli sparsi intorno alla testa riversa all’indietro, la gola
pulsante, le ciglia che gli proiettavano l’ombra di due mezzelune sugli zigomi.
Aveva il sonno profondo, non si sarebbe svegliato al tocco leggero delle sue
dita.
Vorrei
stare con te per sempre, Massimo. La sua pelle era calda e morbida, deturpata ma
non più di tanto da qualche cicatrice. Una, particolarmente brutta, gli segnava
la parte alta del braccio sinistro, un’altra, appena sotto quella, sembrava
un’abrasione, come se Massimo avesse voluto cancellare alla meglio un marchio o
un tatuaggio. Un marchio d’infamia impresso col fuoco, come quello che aveva
sulla spalla, poco sopra la sporgenza della scapola. Glielo accarezzò e vide
l’uomo che ossessionava i suoi sogni con i polsi legati trattenere un grido
mentre il ferro rovente gli baciava la pelle. Tutt’intorno erano rocce aride e
rosse, polvere e piccole case bianche calcinate dal sole. Sul braccio, aveva
un’orrenda ferita suppurata ricucita alla meno peggio e gli occhi erano lucidi
di febbre e di odio, mentre si appuntavano su colui che gli stava davanti, un
levantino dagli occhi di serpente, in turbante e kaftano. Il suo padrone.
Proximo. C’era scritto proprio così, sul marchio a fuoco impresso sopra la
spalla di Massimo.
-Massimo…Quanti
anni hai?
La
folla, assiepata sui gradini dell’Anfiteatro, continuava a urlare come non mai.
I duellanti si fissavano negli occhi, le corte daghe ben salde nel pugno, la
determinazione che la sfida era all’ultimo sangue che uno dei due non ne
sarebbe uscito vivo. Quello che sembrava il più giovane, riccamente vestito…
Aveva gli occhi folli. O l’altro? L’altro, che aveva gli stessi occhi azzurri,
il naso dritto, le belle labbra di Massimo barcollava e si reggeva a fatica,
anche se non gli si vedevano ferite che sanguinavano, addosso. Solo un filo di
sangue che gli colava dalla bocca.
-Massimo…
Quanti anni hai?
Il
tiranno è morto, e anche l’eroe. Ma gli eroi non muoiono mai, è la gloria a
renderli immortali. La bella dama riccamente vestita e doviziosamente ingioiellata
gli baciò le labbra insanguinate, gli chiuse gli occhi, senza trattenere il
pianto, e ordinò al capo delle guardie di non farlo passare attraverso la porta
Libitinaria. Di lì escono i cadaveri dei vigliacchi. Lui deve passare per la
porta Triumphalis, attraverso due ali di pretoriani armati che gli rendano lo
stesso omaggio che renderebbero alla sacra persona dell’ Imperatore.
-Massimo,
ti prego… Quanti anni hai?
Aveva
un’altra cicatrice, poco sotto la scapola, qualcosa di piccolo come il morso di
una pulce, il segno lasciato dal foro di uno stiletto, o di uno spillone,
inflitto a tradimento e abbastanza profondo da portargli via la vita, ma
lentamente, senza fretta. Sarebbe crollato ai suoi piedi senza avere il tempo
di fargli del male, e il folle tiranno si sarebbe finalmente liberato di lui.
Della sua cattiva coscienza.
-Massimo,
quanti anni…
Si
svegliò e le sorrise. Poi l’olio si consumò e la lampada si spense.
-Trentatré,
piccola strega curiosa.
Trentatré
anni. L’età che doveva avere quando era stato ammazzato a tradimento.
IL FANTASMA
La
luce dell’alba cominciava a far breccia tra le aperture del rudere. Massimo la
guardava senza parlare. Massimo, che l’aveva salvata dalla violenza, forse
dalla morte. Massimo, che le aveva consentito di provare ciò che diversamente
le sarebbe stato negato per sempre, il piacere per il piacere. Portava solo i
pantaloni di pelle, ed era scalzo, mentre accarezzava con tenerezza il muso
spelacchiato di quel suo brutto cavallo dal nome pretenzioso. Argento. Come lo
stallone di gran razza che doveva aver cavalcato in un’altra vita. Massimo,
l’uomo più bello e più dolce del mondo. Massimo, una mostruosità del diavolo.
Le
si avvicinò, le posò sulla spalla la sua grande mano squadrata, una mano fatta
per reggere le briglie e stringere forte l’elsa della spada, la mano di un
guerriero. La mano di un amante incredibilmente tenero. E sentì il terrore
scorrere, con il flusso del sangue, sotto la pelle di lei.
-Isabella…
Lo
sguardo degli occhi tristi sfumava dall’azzurro al verde delle foglie appena
nate.
-Isabella,
io…
Isabella,
princesa, brujita… Già, piccola strega. Piccola strega capace di vedere il
tuo passato e il tuo futuro e di sapere quello che sei davvero. Il fantasma di
un guerriero. Di un gladiatore. Avevi trentatré anni, quando ti hanno ammazzato
a tradimento, e ce li avrai per sempre: il destino degli eroi è quello di non
morire.
-Non
toccarmi, demonio! Vade… Vade retro… Satana…
Le
sorrise come sapeva sorridere, scotendo la testa e sollevando appena l’angolo della
bocca. Le tue invocazioni sono inutili, Isabella. Non sono quello che credi,
l’hai visto anche tu. I fantasmi sono qualcosa di evanescente, d’incorporeo.
Non c’era niente d’incorporeo nell’odore tiepido della sua pelle, nella splendida carne che lei aveva
amato toccare, nella piccola goccia di sangue che gli luccicava là dove s’era
morso il labbro perché la trafittura dei denti nella carne tenera gli impedisse
di pensare. Il dolore fulmineo, il piacere intenso e protratto non erano stati
un’illusione. Caterina asseriva d’averlo visto, un fantasma, molti anni prima:
una piccola cosa bianca, e guizzante come la fiamma di una candela nel vento.
-Avvicinati.
Non mordo.
Isabella
esitò prima di afferrare la sua mano tesa, quindi lo seguì nella galleria buia che
collegava il cubicolo a un altro edificio.
-Il
Ludus. Vivevamo qui.
Le
catene fissate alla parete. Le ciotole di legno per i pasti. Mangiavamo bene,
roba sostanziosa. Il lanista[3] aveva investito un bel capitale, sui
migliori di noi. Gli altri erano vittime designate, carne per i leoni.
Lo
guardò infilare il casco di bronzo chiazzato di ossido, calare sul viso la
maschera che ricordava le fattezze di un teschio. Molti di noi nascondevano gli
sfregi che gli sfiguravano la faccia, sotto la maschera: cicatrici, nasi
monchi, denti rotti… Eppure erano parecchie, le dame dell’aristocrazia che
perdevano la testa e la decenza appresso ai gladiatori.
Chi
ti ha regalato la maledizione della vita eterna, Massimo? E perché? Per denaro,
per amore, per vendetta?
-Avevo
diciotto anni e militavo come optio nella VII Legione, la
Felix. Non avevo grandi prospettive di carriera, la mia famiglia di origine era
modesta e veniva dalla provincia… Emerita Augusta. Adesso si chiama Merida. In
Spagna. A Roma, non c’ero stato mai. Ma ero coraggioso, e non mi mancava
l’ambizione. L’imperatore Marco Aurelio mi notò, prese a benvolermi. Era salito
al Nord per seguire da vicino le campagne militari e, siccome in Italia era
scoppiata la peste, s’era portato appresso la moglie e i figli: un bambino
prepotente e viziato e una bellissima ragazza, un po’ più giovane di quanto
fossi io, che non ci mise molto a perdere la testa per me: sai, non ero tanto
male, a diciotto anni[4]…
Rise
piano, poi continuò a raccontare di sé, con la sua bella voce, alata e
abissale. Isabella gli posò la mano sulla spalla e lo ascoltò parlare. Annia
Lucilla, la principessa reale, era destinata al letto del Cesare Lucio Vero. Il
piccolo Commodo, che Marco Aurelio si ostinava a credere figlio suo, malgrado
tutti sapessero che sua madre l’aveva concepito con un gladiatore barbaro, lo
odiava dal primo momento in cui gli aveva posato gli occhi addosso: era geloso
dell’attrazione che sua sorella, a cui era legato da un affetto morboso,
provava per lui. E anche della predilezione che suo padre, Marco Aurelio,
l’imperatore filosofo la cui statua equestre campeggiava solenne di fronte al
Campidoglio, dimostrava per quel bel ragazzo dallo sguardo franco, dal coraggio
temerario e dai modi spicci e diretti. Commodo ambiva al trono, ufficialmente
era sangue del sangue dell’Imperatore… Ma benché obnubilato dall’amore paterno,
quell’uomo saggio e istruito non era cieco ai difetti del figlio: la
prepotenza, la crudeltà, l’instabilità mentale, i gusti rozzi e volgari.
Inoltre, dal Cesare Nerva in poi, la consuetudine di scegliersi il successore
adottando un uomo degno e capace aveva dato ottimi frutti, e non sarebbe stato
l’accorto Marco Aurelio ad abbandonare quella saggia tradizione. Massimo Decimo
Meridio, l’Ispanico, il figlio di un contadino, il provinciale che non aveva
mai visto Roma ma che a ventisei anni era tribuno e a ventotto generale
comandante in capo di tutte le legioni del Nord poteva essere quell’uomo.
Risoluto, coraggioso. Ma anche saggio, ponderato, onesto. Il figlio che Marco
Aurelio avrebbe voluto avere…
-Lucilla
sposò il Cesare Lucio Vero e il suo fu un matrimonio breve e infelice. Io… Io
conobbi l’amore vero, che è passione, ma anche amicizia, e che può diventare
consuetudine, ma non lo diventò mai. Stavo poco con lei e con mio figlio, meno
di quanto avrei desiderato, ma i tempi erano difficili e avevo giurato fedeltà
al mio imperatore. Marco Aurelio era vecchio, malato. Non poteva contare
soltanto su una figlia che aveva reso egli stesso infelice e su un figlio, che
forse non era nemmeno tale, imbelle, crudele e vigliacco. Aveva bisogno di me.
Finché
morì, nel corso dell’ennesima campagna militare, stroncato dalle febbri e senza
lasciare disposizioni sulla successione. E Massimo, baciandogli per l’ultima
volta la fronte fredda prima che lo seppellissero, ebbe la disgrazia di
notargli, sul collo, i segni lividi delle dita di chi lo aveva strozzato.
Gli
era costato caro, rifiutare di stringere la mano tesa del nuovo Cesare. Commodo
si sarebbe voluto prendere la sua vita, come aveva fatto con quelle di sua
moglie e del suo bambino. Commodo aveva gioito, sapendolo schiavo e gladiatore.
Aveva gioito trovandoselo dinanzi, all’indomani di quel tentativo abortito di
congiura, mezzo nudo, incatenato al muro, tutto coperto di lividi e
d’escoriazioni e cacciandogli a tradimento la lama dello stiletto della
schiena. Sarebbe vissuto abbastanza da riuscire a trascinarsi nell’arena come
un animale morente e la ferita non gliel’avrebbe vista nessuno. Sarebbe stato
lui, quello che gliel’avrebbe presa, la vita, davanti alla folla urlante del
Colosseo… Ma Commodo, il tiranno, era caduto prima che Massimo, l’eroe,
cadesse.
IL SORTILEGIO
-Abbracciami,
Isabella. Abbracciami, e poi chiudi gli occhi…
L’odore
tiepido della pelle. Il respiro squassato dai singhiozzi e il battito
accelerato del cuore contro la sua guancia. Sollevò il viso, gli guardò gli
occhi credendo di vederlo piangere. Ma ai soldati si insegna a non piangere,
nemmeno se il male ti schianta e il panico ti torce le budella. E le creature
della notte non hanno lacrime per dar sfogo a un dolore che resta dentro e
incendia gli occhi e l’anima fino a portarti sull’orlo della pazzia. Proprio
come succede alle streghe.
-Massimo…
Gli
carezzò le guance ispide, come stava facendo con lui la donna della visione.
Annia Lucilla.
-Non
è giusto morire così. Non è giusto che l’uomo a cui avrei dato tutto il mio
amore domani sia polvere e vermi.
Il
denaro. Ne aveva tanto.La paura: era potente abbastanza da riuscire ad
incuterne ancora. Avrebbe pagato, perché l’anima di Massimo tornasse indietro
dall’aldilà.
Marzia,
la favorita di suo fratello. Una plebea ambiziosa, dal passato torbido di cui
poco si sapeva. Lucilla l’aveva sempre detestata, ma adesso doveva umiliarsi
dinanzi a lei, per chiederle ciò che forse avrebbe potuto darle: Marzia era
cristiana, e dicevano che il profeta di quella setta avesse concesso ai suoi
seguaci il potere di operare miracoli nel suo nome. Egli stesso, nel corso
della sua vita, aveva strappato alla morte una fanciulla e il giovane figlio
d’una povera vedova. Aveva resuscitato, si diceva, un amico morto da giorni, il
cui cadavere era già stato rinchiuso nel sepolcro, putrefatto e brulicante di
vermi. Ed egli stesso aveva vinto la morte, tre giorni dopo essere stato
giustiziato sulla croce. Aveva trentatré anni: la stessa età di Massimo.
Mi
fa piacere vederti strisciare ai miei piedi, principessa…Per amore, avrebbe
sopportato lo sguardo bistrato e sarcastico della concubina, il suo profumo
dolciastro e sensuale, non l’aroma dei fiori, ma quello greve che fa ululare
gli zibetti alla luna, sotto il cielo stellato di paesi caldi e lontani. Ti
capisco, le aveva detto. E le aveva confidato d’aver fiaccato le forze a
Commodo propinandogli una pozione, il giorno del duello nell’Anfiteatro. Quel
pazzo stava diventando un pericolo per tutti. Ti capisco, Augusta Lucilla,
sposa infelice e vedova d’un vecchio: ancora una volta la felicità ti è
sfuggita dalle mani mentre eri a un passo dall’ afferrarla.
-Lasciatelo
riposare in pace. Non ha sofferto abbastanza, povero ragazzo?
Dal
Pontefice dei Cristiani non le sarebbe venuto alcun aiuto, non sarebbe servito
blandirlo con promesse di ricchezze o spaventarlo con minacce di morte.
-Noi
uomini non possiamo cambiare i disegni di Dio per soddisfare il nostro egoismo.
Ma
io non sono un’egoista. Io lo amo, e voglio per lui quello che un destino
avverso gli ha negato: le ricchezze, l’amore, la felicità… Che cosa c’è di
sbagliato in tutto questo?
Era
stata una strega tessala, a compiere il sortilegio, nel nome di Ecate e degli
dei degl’Inferi. Massimo avrebbe avuto per sempre i trentatré anni che aveva
quando era stato ammazzato a tradimento e avrebbe attraversato il mondo fino
alla fine dei tempi, non visione incorporea ma anima prigioniera per sempre in
un corpo di carne e sangue.
CAMPANE A MORTO
Voglio
stare con te per sempre. O no, forse, per non farti soffrire più di quanto hai
sofferto, in quest’eternità senza domani che è la tua vita. La mia passerà,
come l’acqua della pioggia, in anni che per te sono solo momenti. Ma adesso
abbracciami e non pensare a niente, Massimo. Ti piace nuotare nel fiume,
sentire i fianchi del tuo cavallo fremere tra le gambe, ti piace il buon cibo,
il vino, ti piace affondare nel calore di una donna e sentire le carezze e i
baci delle sue mani e della sua bocca su ogni brandello della tua pelle. Anche
se lei è destinata a diventare vecchia, bianca e rugosa, a perdere i denti. E a
morire. Piangeresti, se potessi, come avrei pianto io,se avessi potuto farlo,
quando è morto il mio vecchio cane: i cani vivono troppo meno di noi. Siamo
costretti a vederli morire. La tua maledizione era è e sarà la solitudine, la
mia non poterla dividere con te per non darti dolore. La mia esistenza è l’acqua
della pioggia, sono anni che per te equivalgono a momenti. Ammesso che riesca a
diventare vecchia e non mi brucino al fuoco di un rogo, quando sapranno che ho
potere sulle cose nascoste. Potrebbe essere domani. Le senti suonare le campane
di tutte le chiese? Papa Clemente è morto. Tra poco, le porte del Laterano si
chiuderanno alle spalle dei Cardinali e verranno aperte solo dopo che Spirito
si poserà sulla testa di colui che diventerà il nuovo Pontefice. Mio padre è
uno di loro. Io sono la figlia della sua vergogna. Potrebbero cercarmi per far
sparire la prova vivente delle sue debolezze. Ma dopo averti conosciuto, non
m’importerebbe niente di morire.
Massimo…
Non credere a niente di quello che ti ho detto. Ho paura, ma non ti chiedo di
tenermi con te. Roma non era la luce,
come lui sosteneva. Non lo era mai stata. Era la tenebra dell’inferno nel
passato, nel presente, lo sarebbe stato in quel futuro che lui avrebbe
conosciuto, lei no. Potere. E corruzione. E fuoco, fuoco che brucia uomini
vivi, per non spargere, che ipocrisia, sangue nel nome di Dio. Fuoco, non
misericordia e parole di comprensione, per chi è diverso dagli altri e vuole
essere libero di non negarlo. Non sarebbe mai venuto il tempo di dividere il
falso dal vero e la verità avrebbe continuato a nutrirsi di pianto, fino alla
fine dei tempi, finché i piedi di Massimo, calzati da sandali, da stivali o da
chissà che diavolo d’altro, avessero continuato a calpestare la polvere della
strada.
-Addio,
Massimo…
Mentre
si allontanava senza voltarsi indietro, sentì il rivolo tiepido di una lacrima
attraversarle la guancia, fermarlesi tremolando all’angolo della bocca. La
leccò via. Sapeva di lui. Pensò. E pensò anche che non era vero quanto si
diceva, che le streghe non sapessero piangere.
Lalla, 13 luglio 2001
[1] Arnese di tortura, simile al morso dei
cavalli, usato per impedire ai condannati al rogo per stregoneria ed eresia, di
gridare e di bestemmiare (N.d.A.).
[2] Ragazzina (N.d.A.)
[3] l’impresario dei gladiatori (nel film,
Proximo, l’ultima magistrale interpretazione del grande Oliver Reed) (N.d.A.).
[4] thanks to Susan and Anna Maria for Gladiator Prequel (N.d.A.)