Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore

Lettura sconsigliata ai minori di anni 18

 Massimo l’Immortale

NELLE TENEBRE

Ai nostri occhi è dato a volte di vedere ciò in cui non si vorrebbe credere.

 

Prologo

PERLE DI GIOIA

 

Palazzo Imperiale di Schoenbrunn, novembre 1779

 

“L’Imperatore Francesco Stefano I, mio marito, è morto il 18 agosto 1765, alle nove e mezzo. Egli visse 680 mesi, 2958 settimane, 20778 giorni, 496992 ore; la nostra unione felice è durata 29 anni, sei mesi e sei giorni, ossia 1540 settimane, 10781 giorni, 259744 ore…”

 

Perle di gioia, così la vecchia dama chiamava quegli istanti di felicità puntigliosamente calcolati e annotati lungo i margini del suo messale perché non dimenticasse una sola volta di ringraziare Dio dei doni che aveva avuto in serbo per lei.

 

La sua era stata una lunga vita nella quale alla felicità si era alternato il dolore. Una vita che non avrebbe immaginato mai, nei sogni o negli incubi, prima di quando, giovane sposa di ventitré anni appena, aveva ereditato, contro ogni legge, consuetudine o logica, la corona del più potente impero d’Europa. Lei, una donna. Maria Teresa d’Asburgo Lorena, Imperatrice d’Austria e di Boemia, Regina d’Ungheria e di Fiandra.

 

Sorrise, stringendo tra le dita gonfie il rosario d’oro e madreperla. Ogni giorno che passava l’avvicinava al Grande Viaggio, all’Incontro che avrebbe deciso le sorti della sua anima immortale. E, nonostante tutto, ancora non si sentiva pronta.

 

Non pensare di essere stata grande. La superbia è peccato. Quello che hai fatto non era che il tuo dovere… Il dovere, nei riguardi dei molti popoli su cui regnava, che avrebbe continuato a compiere fino all’ultimo istante della sua vita. Il dovere nei riguardi dei molti figli, vivi e morti, che aveva messo al mondo. Giuseppe, che le sarebbe succeduto su quel trono tanto prestigioso quanto scomodo, Maria Antonietta e Maria Carolina i cui sentimenti erano stati sacrificati sull’altare della Ragion di Stato. E tutti gli altri, quelli ancora vivi, quelli morti in fasce o nel fiore della giovinezza.

 

Un capogiro, un colpo di tosse, gli occhi che non riuscivano più a mettere perfettamente a fuoco le immagini. Non era più quella che era stata, si ritrovò a pensare. Erano gli acciacchi dell’età, i piccoli vuoti della memoria, i leggeri malesseri che andavano e venivano a ricordarglielo. E quella stanchezza che l’assaliva all’improvviso senza spiegazione alcuna, e dire che era stata tanto forte, solo fino a pochi mesi prima. Sintomi di un male che non perdonava e che si chiamava vecchiaia. Di un male che non le avrebbe concesso molto tempo, eppure quante cose c’erano ancora da fare.

 

IL COLONNELLO

 

- Mi avete mandato a chiamare, Maestà?

 

L’Imperatrice accennò un lento sì con la testa, e lo invitò ad accomodarsi accanto a lei “per tenere un po’ di compagnia a questa noiosa vecchia brontolona e piena d’acciacchi.” E aveva sorriso all’uomo. Come tante altre volte. Come sempre.

 

Non era un cortigiano maestro di finzione, lusinga e piaggeria, il colonnello Von Merritt, ed era tanto più giovane di lei. Giovane, sì, energico e pieno di vitalità. Forse era per quel motivo, che le piaceva. Le piaceva tutto quanto, di quell’uomo, perfino le origini modeste che non nascondeva e sembrava addirittura provasse piacere ad ostentare. Il suo piccolo feudo, tra le montagne del Tirolo, era abitato da poche centinaia di contadini, vaccai, cacciatori di lupi e di marmotte non molto più poveri di lui. Come già aveva fatto suo padre, si era arruolato giovanissimo, perché solo l’esercito avrebbe potuto offrirgli l’opportunità di vedere un po’ di mondo e diventare qualcuno. Suo padre, che aveva la stessa corporatura imponente, gli stessi modi bruschi e gli stessi occhi verde-azzurri, s’era guadagnato i gradi di generale, combattendo valorosamente contro il più cinico e spregiudicato tra i nemici dell’Impero, Federico II di Hohenzollern, re di Prussia. Era stato grazie al valore di uomini come lui, se Maria Teresa aveva potuto continuare a occupare quel trono dal quale in tanti avrebbero voluto scalzarla.

 

Allo stesso modo del padre, che portava anch’egli il suo nome, il colonnello Maximilian Von Merritt rifiutava di incipriare o peggio di coprire con una parrucca, come imponeva la moda, i lucenti capelli castani, e la sua bella faccia virile, dal mento fermo, la mascella forte e l’espressione franca, era spesso sporcata da un’ombra di barba, come quella dei suoi montanari. Non vedo perché un uomo giovane debba rendersi ridicolo conciandosi da vecchio o, peggio, da zerbinotto effeminato, soleva dire, senza mezzi termini. Non si vergognava dei suoi stivali, risuolati innumerevoli volte, del mantello liso e infeltrito che durante l’inverno lo proteggeva dal freddo alla bell’e meglio o del guardamano ossidato della sua sciabola. Esattamente come suo padre, che solo quando doveva acquistare un cavallo non lesinava il poco denaro che aveva. Anche lui ne possedeva di bellissimi, che domava personalmente, e ai quali imponeva nomi latini e greci. Ma la cultura classica era di moda, e nessuno trovava poi così stravagante una faccenda del genere, anche se il Colonnello, come tutti i militari, non doveva essere un uomo particolarmente istruito.

 

- Vi ho chiamato, sì. E non per trascorrere con voi un’ora di piacevole conversazione davanti a una tazza fumante di tè e a un vassoio di pasticcini fragranti, colonnello. Ho un incarico delicato da proporvi.

 

La voce della vecchia Imperatrice, pensava l’uomo, diventava di giorno in giorno più flebile e affannosa, come se parlare le costasse fatica. Non somigliava ormai quasi in niente alla giovane donna florida, vivace e graziosa che era stata. Quella che, a diciassette anni neanche fatti, aveva perso la testa per suo padre. E che, con ogni probabilità, ricercava la compagnia del figlio solo perché glielo ricordava tanto.

 

Maria Teresa era enormemente grassa, tanto che muoversi le costava fatica; la sua pelle bianchissima, di cui in gioventù era andata orgogliosa, era segnata dalle rughe e dalle tracce del vaiolo contratto qualche anno prima, da cui si era salvata quasi per miracolo, ma poco doveva importargliene. La vanità è ridicola, in una vecchia che ha un piede e mezzo dentro la fossa, ripeteva spesso. Alla morte del marito, aveva tagliato i capelli, come le suore. E si sarebbe seppellita in un convento di clausura, se il senso del dovere nei riguardi del suo popolo non l’avesse fatta desistere dal proposito. Quello, e la scarsa fiducia che nutriva nelle capacità politiche di suo figlio. Giuseppe era una testa calda, infatuato dalle nuove idee che provenivano dalla Francia e non aveva timor di Dio. Il Signore avesse pietà della sua anima immortale.

 

Non è solo per parlare, questa volta. E per che cosa, allora, pensò il colonnello socchiudendo gli occhi. Erano blu, e s’accendevano di riflessi verdastri quando i raggi del sole li colpivano o quando un pensiero tetro come un volo di corvi oscurava la loro trasparenza cristallina. All’Imperatrice ricordavano le acque di certi piccoli laghi incastonati tra le montagne, proprio dalle sue parti. Ce n’era uno che, in determinati periodi dell’anno, diventava rosso come il sangue. Ma non per un qualche tenebroso sortilegio, solo per il proliferare, in quelle acque, di una minuscola alga dallo strano colore. Ogni fenomeno ha la sua spiegazione logica. Nell’Età dei Lumi nessuno credeva più nella magia.

 

- Io ho fiducia in voi, questo dovreste saperlo.

 

Come ne aveva avuta in suo padre. Aveva diciassette anni, quando si erano incontrati per la prima volta in quell’angolo di mondo splendido e miserabile che era il feudo dei Von Merritt. In sella al suo piccolo, docile, tozzo pony dalla coda bionda, l’Arciduchessa[1] spiava il volo di due aquile in cielo sforzandosi di ricacciare indietro le lacrime: era la sua ultima estate di ragazza, quella, e presto avrebbe dovuto dire addio all’età della spensieratezza. L’imperatore non aveva avuto figli maschi e, abrogata in fretta e furia la legge vigente in materia di successione, l’aveva designata quale sua erede. Sul trono del grande Impero in crisi economica, dilaniato dai conflitti interni tra le diverse etnie che lo popolavano, minacciato a oriente dai Turchi infedeli e a nord dalla giovane, tracotante potenza prussiana, il destino avrebbe voluto che sedesse una donna.

 

Quasi cinquant’anni erano passati da allora e quella donna ormai vecchia e stanca continuava a stringere con decisione le redini del potere, ad amministrare lo Stato con l’efficienza di una brava massaia e la risolutezza di un grande sovrano. Una donna che aveva fatto del dovere una religione, che alla missione per cui era stata scelta dal destino aveva dedicato tutta se stessa. Il tempo era scivolato via come l’acqua sul greto di un torrente, ma non aveva cancellato i ricordi.

 

Il cielo si era oscurato, ricordò. In montagna capitava di frequente che il tempo cambiasse all’improvviso. Il suo docile cavallino, spaventato da un fulmine, si era imbizzarrito e l’aveva travolta nella sua caduta. Era svenuta e al suo risveglio, si ritrovò distesa su un letto sconosciuto, e c’era un uomo chino su di lei. Un uomo bello, possente e fiero come una divinità barbarica: il barone Maximilian Von Merritt, signore di quelle terre.

 

Non le restava molto da vivere, ormai: se lo sentiva dentro. Ma se il Signore le avesse concesso di campare mille anni non avrebbe mai dimenticato quell’uomo, i suoi capelli sciolti spettinati dalla corrente, i solchi sottili di una vecchia cicatrice che gli percorrevano la base del collo, gli occhi color acquamarina, la pelle di lupo gettata negligentemente sopra il suo mantello nero. Il vostro cavallo si è fratturato una zampa e ho dovuto abbatterlo, le aveva detto, e c’era una tristezza infinita nella profondità cristallina del suo sguardo chiaro. Oltre che fiero e bello come un dio, quell’uomo doveva sicuramente essere anche dolce e sensibile, si era ritrovata a pensare, mentre un brivido le correva lungo il solco della spina dorsale.

 

Sapeva che suo padre le stava cercando un marito, e il suo cuore, contro ogni logica, aveva sperato che scegliesse lui. Contro ogni logica. Perché era troppo povero. Perché la fierezza che traspariva da ogni suo gesto faceva supporre che non si sarebbe rassegnato al semplice ruolo di principe consorte. E per un mucchio di altre ragioni, che non si erano preoccupati di spiegarle.

 

Tra i molti gentiluomini accreditati delle qualità necessarie, era stato infine prescelto Francesco Stefano, principe di Lorena: di nobilissimo sangue, cospicuo patrimonio, giovane età, bell’aspetto e salute di ferro indispensabile ad assicurare alla Corona una numerosa discendenza che scongiurasse futuri problemi dinastici. Accomodante, un po’ fatuo e del tutto privo di quell’ambizione che avrebbe potuto indurlo a dar ombra alla sua illustre consorte. Una scelta perfetta. La giovane e graziosa Arciduchessa, educata nella religione del dovere, l’aveva accettata senza recriminare arrivando addirittura ad innamorarsi di quel marito imposto dalla ragion di stato. E a dimenticare il tenebroso barone Von Merritt, il suo cadente castello in mezzo alle montagne, il dente di lupo che portava al collo e l’anello annerito, cesellato in forma d’aquila dalle ali spiegate che non si sfilava mai dall’anulare sinistro.

 

Avevano avuto ancora modo di incontrarsi, ma lei non era più quella di qualche anno prima. Era madre e sovrana. E lui uno dei generali che avevano messo la loro spada e il loro coraggio al servizio di quella giovane donna che qualcuno credeva sarebbe stato un gioco da ragazzi scalzare dal trono. Non è quello il posto che le compete, aveva proclamato il più cinico e spregiudicato dei suoi nemici, Federico II di Prussia, un omiciattolo dall’aspetto meschino ma astuto e privo di scrupoli abbastanza da far tremare le viscere a parecchi sovrani europei. Abbiamo fatto il possibile, ma la Slesia è perduta, le aveva detto un giorno il generale Von Merritt mentre, ancora imbrattato di polvere e sangue, dopo la battaglia si era inginocchiato al suo cospetto. La Slesia era una regione ricca e importante dal punto di vista strategico. Maria Teresa sentiva che non sarebbe mai più tornata a far parte dei domini degli Asburgo. Eppure, in quel momento, l’unica cosa alla quale riusciva a pensare era che, malgrado il tempo trascorso e malgrado avesse parecchi anni in più di lei, il barone non era cambiato dal giorno in cui l’aveva soccorsa quando era caduta da cavallo. Come se, per lui, il tempo si fosse fermato.

 

Al termine di quella lunga guerra[2], non l’aveva mai più incontrato. Si era congedato, le era stato detto, e ritirato nel suo feudo tra le montagne. Quindi , a cinquant’anni passati, s’era sposato, aveva avuto un figlio e, forse, si godeva una parvenza di serenità. Finalmente.

 

Era morto di lì a qualche anno, e la sua fine stupida ed eroica gli somigliava: per soccorrere un pastorello che, inseguendo nella nebbia alcune capre sperdute era finito dentro un crepaccio, s’era sfracellato in fondo ad un dirupo. Era morto, ed era rinato in quel figlio identico a lui, che portava il suo stesso nome.

 

Il suo corpo non era mai stato recuperato. Eppure il colonnello ostentava al dito la vera cesellata in forma di aquila dalle ali spiegate. Un vecchio anello d’argento, troppo consunto e annerito perché potesse essere quello che il figlio aveva ordinato a un orafo di forgiargli in ricordo del padre che giaceva insepolto in un orrido tra le montagne.

 

-Colonnello…

Era stato lui stesso a chiederle di non chiamarlo barone. Non aveva fatto niente, le aveva detto, per meritare d’essere chiamato tale, mentre i gradi se li era guadagnati sul campo. Come suo padre. La vecchia Imperatrice rabbrividì, e ordinò a un valletto di accostare la finestra socchiusa.

 

- Come dicevo poc’anzi, ho una missione delicata per voi. Dovreste partire subito.

 

La prima cosa che gli venne in mente fu una rivolta. Per quale missione deve aspettarsi d’essere incaricato un ufficiale? Siebenbürgen[3]. Aveva deciso di mandarlo in quel maledetto posto balordo, la sua signora e sovrana, pensò il colonnello, faticando a non lasciar trapelare i suoi pensieri. In quel posto, e in quella stagione. Con l’inverno, le strade si sarebbero trasformate in lastroni di ghiaccio, sui quali il suo cavallo avrebbe faticato a mantenere l’equilibrio. Come se non bastasse, gli abitanti di quella terra aspra, ostile e miserabile, magiari, rumeni e zingari, avevano in odio i tedeschi. Sono terribilmente superstiziosi, e hanno paura di tutto quel che non comprendono, gli aveva detto l’Imperatrice, allacciandogli al collo la sua catenella d’oro, a cui era appesa una minuscola croce di diamanti.

 

- Ecco, questa vi proteggerà.

Evidentemente, anche lei era superstiziosa. Strano che non se ne fosse mai accorto, in tutti quegli anni.

 

Lui nascose sotto la camicia quel lezioso monile che avrebbe dovuto proteggerlo chissà da che cosa. Non portava mai la cravatta, nemmeno in uniforme, nemmeno nelle occasioni più formali, nemmeno in presenza della sua sovrana e signora. Le dame di corte bisbigliavano maliziose che dormisse nudo anche nel pieno dell’inverno, e sicuramente alcune di esse avevano avuto modo di appurare che quella stuzzicante abitudine non era soltanto una loro fantasia segreta.

 

- Non oso pensare allo stato delle strade in questa stagione… Ma neppure oserei disubbidire a un vostro ordine, Maestà.

- Esattamente come io non oserei dubitare della vostra lealtà.

 

Era una vecchia a cui poco restava da vivere, eppure la sua mano aveva indugiato un attimo sul collo scoperto del barone Von Merritt, sui solchi sottili che ne segnavano la base, come se desiderasse conciliare il suo abbandono. Ma non era così. L’età e le vicissitudini della vita avevano ormai spento da tanti anni il fuoco nel suo sangue, e poi… L’Imperatrice sapeva cosa fosse in realtà quell’uomo. Da tanto tempo. Da sempre. Senza che nessuno, lui men che meno, glielo avesse mai rivelato.

 

- Contro quale nemico mi chiedete di battermi questa volta, Maestà?

- Contro la paura che sta divorando la vita di quella gente, colonnello.

 

DANUVIUS[4]

 

Il colonnello guardò l’acqua nera del fiume, mentre con le dita si tastava il ciondolo che portava al collo, un dente di lupo ingiallito dal tempo, appeso ad un lacciolo di cuoio ingommato e logoro. Uno dei pochi ricordi tangibili della sua prima vita, con le cicatrici che gli segnavano la pelle e l’anello d’argento, annerito e consunto, che non si toglieva mai, pensò, e i pensieri gli fluivano nella mente indipendenti dalla volontà, come il gioco delle dita sulla sua pelle e sui suoi amuleti. Il ciondolo. E la croce.

 

Chiuse gli occhi. Lo aveva al collo, il dente ingiallito di un vecchio lupo che forse era stato tanto sciocco da finire prigioniero di una tagliola, quando a quattordici anni, per dimostrare il suo coraggio, si era tuffato calzato e vestito nelle acque gelide di quello stesso fiume che guardava dal parapetto del battello[5]. Ma quelle acque che riflettevano la luna non dovevano essere le stesse di allora. Tanto tempo era passato. Un abisso, una voragine aveva inghiottito giorni, notti, stagioni, anni, secoli… Le sue gioie e i suoi dolori, i suoi sogni e le sue disillusioni. La sua vita senza fine.

 

All’alba raggiungeremo le Porte di Ferro, aveva bofonchiato tra i pochi denti che gli erano rimasti in bocca il comandante del battello. Gli si era rivolto in un tedesco zoppicante e sgrammaticato, come se avesse capito chi fosse, nonostante vestisse in borghese: un maledetto soldato tedesco. Ce l’aveva scritto in faccia.

 

Il suo viaggio non sarebbe terminato alle Porte di Ferro. Sarebbe proseguito come Dio avrebbe voluto, fino a Hunedoara, ai piedi dei Carpazi,dove avrebbe incontrato il comandante della locale guarnigione. Come imponeva la volontà della sua sovrana. Di colei che allo stesso modo del vecchio, scorbutico battelliere, sapeva da sempre chi fosse quel bell’uomo dal corpo possente e dai nostalgici occhi azzurri che veniva dal passato e non poteva invecchiare, né morire.

 

SIEBENBURGEN

 

Come Dio avrebbe voluto. E già. Su piccole chiatte mezze sfondate spinte a forza di braccia da barcaioli barbuti e villosi che rassomigliavano a Caronte, il sinistro nocchiero dell’Ade, avvolti com’erano in sudice pelli di capra che si confondevano con i loro lunghi e altrettanto sudici capelli; lungo i sentieri d’acqua di fiumi che si facevano via via più turbinosi, man mano che il terreno pianeggiante del bacino del Danubio lasciava il posto a quello accidentato ai piedi delle montagne. Sarebbe stato impossibile raggiungere la sua meta per via fluviale, e da alcuni zingari il colonnello aveva acquistato un robusto cavallo che gli sarebbe stato insieme mezzo di trasporto e compagno di viaggio.

 

Dovreste viaggiare in carrozza, gli avevano detto. Forse avevano ragione, ma non sarebbe stato facile trovarne una, in un posto come quello. E poi non c’era ragione alcuna perché un uomo come lui temesse la pioggia, il vento gelido di tramontana o gli ululati che si levavano sinistri dalla foresta che, quasi senza soluzione di continuità, si spingeva fino ai margini della strada.

 

Era novembre, e l’aria ai piedi delle montagne si era fatta ormai gelida, specialmente dopo il calar del sole. La città non era molto vicina e, per tre notti di seguito, lui si era dovuto fermare a pernottare in certe minuscole, sudice locande nei villaggi che incontrava strada facendo. Piccoli villaggi fatti di casupole dai tetti di paglia, dentro le quali i contadini vivevano a stretto contatto con le loro bestie, galline, porci, pecore lanute e piccole vacche macilente. Erano Valacchi bruni, dai lunghi baffi, che indossavano calzoni a sbuffo e ampie casacche trattenute in vita da larghe cinture di cuoio: i discendenti di quei Daci che tanto filo da torcere avevano dato al valoroso imperatore Traiano… un mare di secoli prima. Parlavano una lingua che il Colonnello, pur non conoscendola, non faticava a comprendere. Una lingua non troppo diversa dal romancio e dall’italiano. Una lingua abbastanza simile al latino. I locandieri, comunque, masticavano un po’ di cattivo tedesco, e non era difficile intendersi. Le stanze erano piene di spifferi e annerite dal fumo dei bracieri. Il cibo, invece, era decente: zuppe sostanziose, pietanze a base di carne e verdure dal ricco profumo speziato, vino mediash che sfrigolava piacevolmente sulla lingua e sliwovitza[6] per scaldarsi le budella e addormentarsi come sassi ignorando le cimici grandi come monete che passeggiavano imperterrite tra le lenzuola.

 

L’ultima locanda presso la quale aveva soggiornato prima di intraprendere il viaggio che lo avrebbe portato a Hunedoara era quella più decente. Una pioggia gelida e insistente lo aveva obbligato a trattenercisi più del dovuto e la donna che la gestiva con un’autorevolezza che non gli fece considerare sacrilego il paragone con la sua sovrana e signora, sicuramente non se n’era avuta a male. Anche a Frau Aslan i tedeschi non dovevano piacere più di tanto, ma quello era l’eccezione che confermava la regola. E il Colonnello si era sorriso da solo, pensando all’effetto magico che da tempo immemorabile esercitavano sulle femmine i suoi occhi azzurri scintillanti e la corporatura imponente. Quale che fosse la loro età, perché quella donna tarchiata, dai capelli bianchi tirati in una crocchia severa e dal viso largo e piatto come un pane, non doveva essere molto più giovane dell’Imperatrice.

 

- Non togliere quella croce che tieni al collo, mein Herr. Mai. - Gli aveva borbottato in un tedesco incerto e cantilenante quando lui si era chinato a raccattare qualcosa da terra e quel ciondolo lezioso gli era spuntato fuori dalla camicia. Non aveva cessato un istante di fissarlo, mentre glielo diceva. La voce le tremava, e le guance colorite, segnate da un reticolo di venuzze violacee, s’erano fatte gialle come la cera. Aveva poi farfugliato qualcosa nella sua lingua, segnandosi alla maniera degli ortodossi, e il colonnello afferrò parole misteriose come ordog, pokol e vrolok[7]. Dovevano riferirsi alle superstizioni nelle quali quella gente credeva, ma non era il momento di domandare spiegazioni.

 

E la croce che portava al collo se la tolse quella stessa mattina. Sulla piccola piazza del villaggio, davanti alla porta della chiesa, uno zingarello tendeva la mano ai rari passanti. Mal coperto da quattro stracci luridi, tremava per il freddo, e non doveva aver raggranellato quasi niente: era probabile che i genitori, o chiunque altro lo mandasse in giro a caritare, forse anche a rubare, lo avrebbero caricato di busse, non appena avesse fatto ritorno a mani vuote. Tienila, gli aveva detto mettendo il ciondolo d’oro e brillanti nella mano sudicia del bambino. Quindi era saltato in groppa al cavallo e lo aveva ripreso il suo viaggio alla volta della città.

 

LA RELIGIONE DEL DOVERE

 

La pioggia dei giorni precedenti aveva lasciato il posto ad una nebbiolina fredda, che immergeva il paesaggio in una caligine lattiginosa dalla quale spuntavano le cime degli alberi spogli e, in lontananza, le merlature diroccate di qualche vecchio castello. L’aria odorava di freddo e di terra bagnata, come dalle sue parti in quella stagione, pensava l’uomo. Come nelle sue vallate e nelle sue montagne. Ma senza quei silenzi, quella serenità solenne. Le montagne cupe e dirupate, le cui sagome emergevano dalla foschia sullo sfondo del cielo grigio, le foreste nere e fitte che si spingevano fino alla strada, lo inquietavano e intimorivano, anche se era ciò che era, come fossero state il regno segreto di presenze oscure. Per tenersi compagnia, cominciò a canticchiare tra i denti una canzonaccia, a ridere tra sé e sé di quelle oscenità da osteria e da caserma. Non ho niente da temere, si diceva da solo. Quanto tempo era passato dal momento in cui aveva compreso che, fino alla fine dei tempi, non avrebbe avuto ragione di temere alcunché?

 

OrdogPokol… Ricordò le parole farfugliate tra i denti dall’ostessa del Gallo d’oro. Non aveva compreso il loro significato, solo il senso di oscura minaccia che lasciavano trapelare. La donna lo aveva implorato, nel suo pessimo tedesco, di non togliersi mai dal collo la croce che portava. Forse la riteneva un talismano potente contro la malasorte. Ma lui non ci credeva, in quelle stupide superstizioni. Non ci aveva mai creduto. E lo zingarello che, sul sagrato della chiesa, tremava per il freddo tendendo inutilmente la mano ai rari passanti, moriva dalla fame. Quella croce d’oro e di brillanti lo avrebbe salvato dalla morte. Sì, forse era un talismano potente per davvero, pensò, rivivendo quell’incontro, il grazie che aveva letto in fondo agli occhi tristi e rassegnati del piccolo zingaro. Erano gialli come monete nuove. E l’iride sinistro era punteggiato da tre piccole macchie scure, come il cuore di un giglio selvatico.

 

Se la sua Signora gliene avesse chiesto conto, si sarebbe inventato che l’aveva persa. Del resto, non era la prima volta che le mentiva. Si sorrise, pensando a quel che era stato tra lui e la Principessa, una decina di anni prima. E Maria Carolina valeva molto più d’una piccola croce d’oro.

 

Un’altra sorella, che gli era stata promessa in precedenza, se l’era portata via il vaiolo, ma nella nidiata dell’Imperatrice c’erano abbastanza figlie femmine da rimpiazzarla nel ruolo di futura consorte del giovane Re di Napoli. Risoluta e testarda, aveva tentato di opporsi con pianti e strepiti alla decisione di sua madre, ma infine aveva dovuto cedere. Il matrimonio era stato celebrato per procura e la sposina, piegata ma non vinta, era partita, alla volta di Napoli. Il barone Von Merritt comandava la sua scorta armata: si diceva che il sud dell’Italia pullulasse di briganti, ed era meglio premunirsi. Lui era un giovane capitano, allora, figlio di un grande eroe di guerra, un uomo valoroso, cresciuto nella religione del dovere e nel culto dell’onore… In caso di pericolo, avrebbe messo in gioco la sua vita, per difendere la Principessa. Ma forse la sua Signora, che pure era convinta di riuscire a leggere i segreti più reconditi dell’animo umano, non era in realtà molto più perspicace di quel contadino che aveva messo la volpe a guardia del suo pollaio.

 

La falce della luna balenava tra le nuvole, velata da una tenue caligine rossastra. Dalla foresta, gli giungeva all’orecchio il grido stridulo degli uccelli da preda e l’ululato dei lupi. Stava scendendo la notte e quel silenzio sepolcrale rotto dal richiamo dei predatori e dal lamento delle prede assalite gli fece correre un brivido freddo lungo la schiena, malgrado sapesse bene di non aver nulla da temere, almeno per sé, visto che al cavallo non era toccata la sua fortuna. Grazie al Cielo, Hunedoara non era lontana e, prima che la notte calasse del tutto, avrebbe veduto, dietro la curva della strada, le prime case di quella periferia squallida che non era campagna e non era città materializzarsi davanti ai suoi occhi.

 

MEIN PRINZESSIN

 

La locanda presso la quale aveva deciso di trascorrere la notte non era diversa dalle altre. Piccola e sporca, ma a buon mercato. Pagò la cena e il letto a una vecchia verrucosa come un cinghiale, quindi si ritirò nella sua stanza, ignorando gli sguardi ingordi d’un paio di donne ancora giovani, abbastanza fresche e graziose. Puttane, pensò, sicuro di aver indovinato cosa fossero. Ma aveva sonno e, disposti ordinatamente su una sedia zoppa i suoi vestiti, si infilò sotto le coperte.

 

Cadde subito addormentato e, contrariamente al suo solito, sognò.

 

O, almeno, credette di sognare, perché quel che vedeva e sentiva era vivo, come dieci anni prima. Le mani dovevano essere le sue. Morbide, delicate. Le mani di una vergine che non aveva mai toccato un uomo, e che pure si erano rivelate così esperte nel dargli piacere. Mani abituate a sfiorare i tasti di un clavicembalo, il mantello sericeo di un piccolo cane, un ventaglio d’avorio e di seta. Mani che s’erano strette a pugno, quando sua madre, l’Imperatrice, le aveva detto che il momento era arrivato. Lo sapeva, fin da quando era bambina. Il Dovere. Era quello che adesso le si prospettava, quello per cui era stata allevata e educata: essere una merce di scambio, il pegno di un’alleanza appena ratificata, la fattrice destinata a partorire un futuro re. Quando le donne, principesse o straccione che fossero, sarebbero state libere di costruirsi da sé il proprio destino? Sua sorella era morta all’improvviso, e lei l’avrebbe rimpiazzata, nel letto di Ferdinando di Borbone, un uomo che non aveva mai visto, se non in un piccolo ritratto in cui il sovrano doveva essere stato sicuramente abbellito dalla piaggeria cortigianesca del pittore oltre che, stando alle chiacchiere che aveva origliato, dalla necessità di renderlo presentabile. Sapeva che contestare la decisione che sua madre aveva preso sarebbe stato inutile. E si era rassegnata alle nozze per procura con uno sconosciuto che avrebbe incontrato per la prima volta di lì a qualche giorno.

 

Eppure, il barone Von Merritt non aveva mai visto l’ansia trapelare dai suoi occhi trasparenti, prima di quella notte. Maria Carolina apparteneva a un altro mondo: non gli aveva mai rivolto la parola ed era come se lo guardasse senza vederlo. Perché lei era una dea, lui solo un comune mortale. Almeno all’apparenza.

 

- Barone?

Lo aveva trovato seduto al tavolino, intento a scrivere qualcosa. Un rapporto indirizzato a sua madre, l’Imperatrice, da bravo, diligente soldato ligio al dovere qual era. Quella notte, l’ultima che avrebbero trascorso prima di raggiungere Napoli, erano stati ospitati da un gentiluomo irpino in un vecchio, cadente castello abbarbicato in mezzo ai calanchi dell’Appennino Campano. Le leggende dicevano che quella era una terra di streghe e solo il lontano ululato dei lupi rompeva il silenzio della notte.

 

- Barone?

La porta della sua piccola camera era aperta, il lume sulla scrivania acceso. Perché la principessa che lo aveva sempre guardato senza vederlo adesso lo cercava? Forse le sue dame dormivano, e lei non riuscendo a prendere sonno, desiderava scambiare due parole con qualcuno che sapesse ascoltarla. Aveva i capelli biondi sciolti sulla vestaglia di broccato ed era bella come una visione.

 

- Mein Prinzessin?

Le sorrise, e notò che una lacrima le tremava tra le ciglia. Non era più soltanto una principessa superba, la più bella tra le figlie dell’Imperatrice, era anche una creatura spaventata che cercava nella persona più sbagliata che potesse trovare chi desse requie alla sua ansia, conforto alla sua paura, sfogo alla sua smania di sentirsi viva… Ancora per quanto?

 

Lei gli sorrise di rimando, e doveva essere, quella, la prima volta che, guardandolo, lo vedeva. Alto, imponente, sulla trentina, i capelli sciolti che gli arrivavano alle spalle e brillavano di riflessi ramati, gli occhi verdeazzurri, il profilo aristocratico. Quell’uomo era bellissimo. E non era nessuno.

 

- Voi… voi l’avete conosciuto, il Re di Napoli… Ditemi qualcosa… dell’uomo… che ho sposato.

 

Doveva essere terribilmente difficile, per lei, inghiottire i singhiozzi, nascondere le sue debolezze, ma si sforzò di farlo. E per lui fu difficile risponderle. E’ molto alto, le disse. Più di me. Non aggiunse altro. Purtroppo, continuò, l’ho visto solo da lontano. E non sono fisionomista.

 

- Il padre di una delle mie damigelle è stato a Napoli in missione diplomatica, poco tempo fa, e l’ha visto… A lei è stato proibito di parlarmene, ma io ho origliato certi suoi discorsi, e…

 

Lui le sorrise ancora. Che altro poteva fare? E la Principessa gli notò i denti piccoli, squadrati, di un biancore perlaceo, gli occhi acuti che scintillavano come cristalli di quarzo. Non avrebbe disubbidito agli ordini della Sovrana, questo era certo. Non le avrebbe detto quel che lei del resto sapeva già, che il suo sposo era un ragazzone lungo, dinoccolato, con un grosso naso storto, che si muoveva con la grazia di una cicogna zoppa e, come se non bastasse, non sapeva mettere insieme due parole in un italiano decente e aveva modi talmente rozzi e volgari che i suoi stessi sudditi l’avevano soprannominato “O’Lazzarone.”

 

- Tenetemi con voi.

 

Era una supplica, quella, l’invocazione di una giovane donna disperata, eppure lei era riuscita a farla suonare come un ordine. Maria Carolina avrebbe trovato il coraggio di andare avanti, di sopravvivere a quel matrimonio imposto dalla ragion di stato con un individuo che neppure la corona che aveva in testa sarebbe riuscita a rendere meno impresentabile. Ne aveva il talento. E non le era stato imposto nulla che non si aspettasse. Anche a sua madre, prima di lei, lo sposo era stato scelto dagli altri, e poco importava se il caso aveva voluto che l’Arciduca fosse un uomo amabile, gentile, di bell’aspetto, di cui non sarebbe stato difficile innamorarsi. Com’era puntualmente accaduto.

 

- Avete paura dei lupi, mein Prinzessin?

 

- Non di quelli, Barone. Di chi mi troverò davanti domani.

 

Gli si era gettata tra le braccia, e lui non aveva osato respingerla. Era bella, profumata e calda. Ho chiuso la porta, gli aveva detto, posando le labbra sulla striscia di pelle che la camicia di batista sbottonata fino alla cintola lasciava intravedere, facendo scorrere le mani sul suo ampio petto muscoloso. Non avete da temere per il vostro onore… e per la vostra vita. Gli occhi grigi le si erano accesi, mentre il pensiero dell’uomo era tornato ad un passato lontano secoli, a un’altra donna giovane e bella che aveva osato stringere tra le braccia malgrado non fosse per lui. A colei alla quale doveva il dono grande e terribile dell’eterna giovinezza, dell’esistenza senza fine. Ad Annia Lucilla Galeria, rispettivamente figlia, sorella e moglie di Marco Aurelio Antonino, Lucio Aurelio Antonino Commodo e Lucio Vero, Cesari di Roma.

 

Non c’era nulla di innocente, nei baci e nelle carezze di quella ragazzina illibata, che mai era stata sfiorata dalle mani, dalle labbra e dal membro di un uomo. Doveva aver imparato quel che sapeva spiando l’intimità d’una coppia di servi e essersi convinta che non c’era giustizia nella vita: a lei, alla figlia dell’Imperatrice era negato quel che una volgare cameriera poteva ottenere senza problemi. Ma che era ben decisa a prendersi: costasse quel che costasse.

 

Questo non è amore, aveva tentato di ammonirla lui, ansimando e gemendo. Non farti delle domande inutili… Maximilian. L’aveva presa, ed era vergine. Che cosa darai, domani, al tuo re? La fanciulla aveva riso. Nulla di più di quel che sono disposta a dargli, gli aveva risposto con voce dura: il mio grembo, per assicurare una discendenza alla sua dinastia. Nient’altro. Ma in fondo è questo che vuole da me, no? Sembrava non gliene importasse nulla, di quella purezza che avrebbe dovuto portare in dono al suo sposo sconosciuto e che s’era dissolta in qualche chiazza di sangue sul lenzuolo bianco. Le donne conoscevano un mucchio di trucchi per ricostruirsi un’integrità fittizia e ingannare colui che credeva di essere il primo. Mordendosi le labbra, Maximilian Von Merritt afferrò la brocca di cristallo sul comodino, la fracassò e si ferì di proposito con i suoi cocci taglienti. Le serve del Marchese di Sant’Angelo avrebbero lavato quelle lenzuola, le disse continuando a guardarsi il palmo della mano che sanguinava e, immancabilmente, avrebbero spettegolato. A meno che lui non avesse fatto credere a tutti di essersi ferito mentre raccattava da terra i cocci della brocca che, sbadatamente, aveva mandato a fracassarsi sul pavimento. Sicuramente, Maria Carolina doveva aver trovato cavalleresco il suo gesto. E per non darle modo di accorgersi che di lì a pochi minuti la sua ferita avrebbe smesso si sanguinare, il Barone aveva lasciato che lei gliela fasciasse con il suo fazzoletto, prima di andarsene.

 

* * *

 

No, non erano che sogni, quelli. Straordinariamente vivi, ma sogni soltanto. Sentì una mano calda sfiorarlo, la mano morbida e sottile della Principessa che aveva accompagnato incontro al suo destino. Sei bellissimo, aveva sussurrato la sua voce. E io ti voglio. Anche quella voce non era che un’illusione. O era solo il vento di quel freddo novembre che ululava fuori dalla finestra chiusa. E le mani calde e impudiche della donna, beh… Se non si ha di meglio e il bisogno di darsi piacere si fa impellente, ci si arrangia da soli, succede a tutti… Con tutta probabilità, era proprio quel che gli stava capitando e la figura sottile che vedeva fluttuare con gli occhi della mente non era quella bionda, altera, elegante di Maria Carolina. Una figuretta esile in veste da notte. Aveva i capelli corvini raccolti in una spessa treccia che le arrivava alle ginocchia e lo fissava con gialli occhi da gatta. Curiosamente, l’iride di quello sinistro era punteggiato da tre macchioline nere, come il cuore di un giglio selvatico.

 

LA TOMBA DEL SUICIDA

 

Il sole era appena sorto, quando si svegliò, si vestì e, dopo aver consumato una frettolosa colazione a base di pane al sesamo abbrustolito e crema di latte acida, il Colonnello si affrettò a lasciare la locanda.

 

La città di Hunedoara era esattamente come se l’aspettava: un grosso paese, in cui gli unici edifici degni di nota erano la basilica, fastosa e colorata come tutte le chiese ortodosse, e il tetro palazzo del borgomastro. Le strade erano strette e tortuose, fatto che doveva complicare l’esistenza ai pochi vetturini che vide passare, e sporche di escrementi d’animali. Domandò a un venditore ambulante di cianfrusaglie dove si trovasse la caserma e questi, con una smorfia sul volto seminascosto da una barbaccia degna di un orco, gliela indicò senza proferire parola.

 

Il comandante della caserma di Hunedoara gli fece gli onori di casa senza troppe cerimonie, come se quella stanza squallida, arredata con una branda, un tavolaccio e quattro sedie zoppe fosse davvero casa sua; e forse lo era. Aveva tutta l’aria di non aver conosciuto, in vita sua, altri alloggi che le caserme e si portava appresso l’aspetto sciatto e trascurato dell’uomo che, per una ragione o per l’altra, è arrivato ad un’età più che matura senza essersi mai sposato. Dalla giacca scolorita, facevano capolino i polsini e lo sparato d’una camicia ingiallita per i troppi bucati, e la faccia baffuta avrebbe avuto bisogno di una bella rasatura. Si presentò come maggiore Tibor Czonakos: un ungherese dagli occhi stretti e la pelle incartapecorita come i suoi lontani antenati che, alla vigilia della caduta dell’Impero d’Occidente, erano dilagati dalle steppe dell’Asia per portare il terrore in Europa.

 

Doveva trattarsi di un buon diavolo, pensò il Colonnello, guardandolo. Gli aveva chiesto se avesse fame e se quella stanza non fosse per caso troppo fredda. Ospitale, come tutti i magiari. Meritava di più di quanto il destino gli aveva riservato, una carriera destinata a consumarsi nella noia di quella città sonnolenta dove si diceva che terminasse l’Occidente e avesse inizio l’Oriente, ancora soltanto maggiore, nonostante si avvicinasse ormai alla cinquantina.

 

- Come devo chiamarvi, signore?

- Barone Maximilian Von Merritt, colonnello della Guardia Imperiale. Dovrei essere atteso, o forse…

- Beh, la verità è che mi aspettavo un uomo in uniforme.

- Ho preferito viaggiare in incognito; in ogni caso sono armato. E se mi sono fatto attendere qualche giorno di troppo, è stato solo per evitare al cavallo di azzopparsi, in queste strade piene di fango.

 

Già. Era ben coperto, con roba forse non di primissima qualità ma calda e resistente. Un bell’uomo dai magnetici occhi chiari e dal fisico gagliardo. Colonnello, e aveva al massimo trentacinque anni. Evidentemente, nella Guardia Imperiale si faceva carriera molto più in fretta che in un avamposto abbarbicato tra i Carpazi, ma il maggiore Czonakos non era un uomo invidioso.

 

Rotto il sigillo e squadrata da cima a fondo la missiva imperiale, l’ufficiale prese il suo vecchio mantello e se lo gettò sulle spalle. Non vi hanno incaricato di una missione facile, giovanotto, disse, in tono quasi irriverente, visto che chi gli stava davanti gli era superiore per grado anche se, giovane com’era, non doveva aver alcuna esperienza in merito a certe incombenze. Giovane, già. E tedesco. Sicuramente, come tutti quanti i tedeschi, doveva essere scettico in merito a faccende come quella.

 

- Seguitemi fuori. Ho qualcosa da mostrarvi.

- La paura… che sta divorando le vite di questa gente?

 

Czonakos rise, mettendo in mostra i denti gialli di tabacco. No, non quello. Non potrei, nemmeno se lo volessi. Ma non temete, vi cercherà. Vi troverà. E allora…

 

E allora sarò lì ad aspettarlo. Ma non gli disse che tanti secoli erano passati dal giorno in cui la volontà di una donna innamorata e il sortilegio di una strega l’avevano riportato indietro dal mondo dei morti. Per sempre. Da quelle parti, si credeva che a qualcuno fossero concessi il privilegio e la maledizione della vita senza fine. Privilegio che si pagava con il tributo del sangue altrui e un’esistenza trascorsa a fuggire come la peste la luce del sole. Maledizione che gravava per l’eternità sul tuo nome e il tuo ricordo. Ma quelle erano soltanto superstizioni, buone per i bambini e per gli sciocchi.

 

Da quelle parti, spesso i piccoli cimiteri dei villaggi sorgevano ai bordi delle strade[8]. Lo sapeva, e non se ne meravigliò. Così come sapeva che le rare tombe solitarie, collocate abitualmente alla confluenza tra due stradicciole poco frequentate erano quelle in cui erano state sepolte, in terra sconsacrata e senza la benedizione del prete, le salme dei suicidi. Come quella di fronte alla quale il maggiore Czonakos si era appena fermato.

 

Niente croce, perché non c’è pietà cristiana per chi si toglie la vita di sua volontà, dannandosi inevitabilmente l’anima. Niente fiori, per chi ha gettato, con il suo gesto, la vergogna e il disonore sulla sua famiglia. Solo una piccola lapide bianca, con incisi un nome e due date. Si chiamava Wolfgang Moeller e aveva venticinque anni, quando aveva deciso di farla finita, sei mesi prima.

 

- Era il figlio del borgomastro. Un giovanotto a posto, almeno, tutti erano convinti che così fosse. Sfortunato, questo sì. La fidanzata è morta un paio d’anni fa, pochi giorni prima delle nozze.

 

- Quindi non è stato il dolore per la morte della sua donna che lo ha spinto a compiere l’irreparabile.

 

Czonakos scosse la testa.

- No. Aveva superato senza troppi problemi quel lutto. Si era perfino sposato, e sua moglie era incinta del loro primo figlio. E’ stata lei a trovarlo morto: si era trafitto con la sua spada, come i condottieri vinti, ai tempi dell’antica Roma.

 

- Perché mi avete portato qui, maggiore? Credete… Credete che la morte di quel povero ragazzo possa in qualche modo essere in relazione con quello che…

 

L’ufficiale aveva accennato gravemente di sì con la testa, prima di continuare.

 

- Nelle belle giornate, se salite sul campanile o vi arrampicate su qualche albero alto, potrete vedere quel che resta del castello dei Conti Vadrozsak nei pressi del villaggio di Pecks. E’ un posto maledetto. Il conte morì alcuni anni or sono, nel tentativo di salvare i suoi cavalli, dopo che le scuderie avevano preso fuoco. Sua moglie e le due figlie maggiori, beh… Erano morte da un pezzo, uccise da una tara che la famiglia si portava nel sangue e che aveva risparmiato solo la contessina. Non ricordo il suo nome. Comunque, era la fidanzata del povero Herr Moeller. Dopo essere rimasta sola al mondo, si era trasferita qui in città, presso un’anziana parente. E aveva conosciuto il figlio del borgomastro. Un borghese. Tedesco, come se non bastasse il resto. Ma la ragazza non aveva più famiglia e, dal lato finanziario, si può dire che navigasse in pessime acque. Lui era ricco, invece. E innamorato. Molto più di quanto non lo fosse lei, mi capite?

 

- Capisco perfettamente.

 

- La contessina morì all’improvviso, pochi giorni prima delle nozze. No, niente di losco, di sospetto, per l’amor del Cielo… Una di quelle febbri fulminanti capaci di portarsi via dall’oggi al domani una persona giovane e assolutamente sana.

 

- Il Dardo di Apollo. Anticamente, era così che si definiva la morte inaspettata di un individuo giovane… Ma ditemi, Maggiore: che cosa ne è stato del castello… e dei beni della famiglia?

 

- Ereditò tutto un lontano cugino. Da queste parti, nessuno ha mai visto la sua faccia. Sta a Budapest, mi si dice. E che non abbia nessuna intenzione di trasferirsi in quel dannato castello credo sia perfettamente comprensibile… con tutto quel che è capitato lì dentro.

 

- Vorreste farmi credere… che la gente ha paura di un boiaro morto nel tentativo di portare in salvo i suoi cavalli dopo che la paglia nelle scuderie aveva preso fuoco? O di una giovane madre e delle sue figliolette, strappate alla vita da un destino avverso?

 

- Qualcuno asserisce di aver visto i fantasmi. Cavalli che scalpitano spaventati dal fuoco, mentre il conte, aiutato dal mozzo di stalla e dal cocchiere cerca di portarli via… Anche loro due morirono, nel tentativo di domare l’incendio. Tutti quanti morirono, uomini e bestie. Ma i vivi non hanno niente da temere, da quelle povere anime in pena.

 

Il maggiore Czonakos alzò gli occhi da terra e guardò in faccia il suo interlocutore. Non credeva a tutte quelle assurdità, si poteva tranquillamente leggerglielo in faccia. Così come non avrebbe creduto a quel che aveva ancora da dirgli: i Tedeschi, spiriti pratici e razionali, credevano solo in quel che vedevano. E avevano sempre considerato i Magiari, i Valacchi e gli orientali in genere come gente sprovveduta e superstiziosa. Ma lui aveva il dovere di spiegargli esattamente come stavano le cose, e continuò a parlare. Tutto era iniziato pochi giorni prima che Herr Moeller si ammazzasse. Al villaggio di Pecks, gli disse, gli animali avevano cominciato a morire, e non certo perché il diavolo, il beccaio o qualche malanno se li pigliava: galline, porci, pecore, vitelli… Quindi un feroce cane da guardia. Poi un cavallo da tiro. Dopo ancora un gigantesco toro, un animale forte e pericoloso. Saranno stati i lupi, gli aveva risposto Von Merritt. Lui era un altro di quelli che credevano solo in ciò che vedevano, e se avesse visto… Quelle bestie, compreso il cane feroce, compreso il grande cavallo, compreso il toro selvaggio, non avevano tentato di difendersi lottando contro i loro assalitori. Non erano state sventrate e divorate. A chi le aveva uccise, non interessava la loro carne: solo il sangue. In corpo, non gliene era rimasta una goccia.

 

- Un notevole danno economico, suppongo, per quella povera gente.

 

No, non poteva credere in quel che il Maggiore Czonakos andava farneticando. E cambiò discorso.

 

- Era molto bella, la contessina?

- Sì. Il suo nome le somigliava. Vadrozsak: Rose Selvatiche.

- Io detesto l’odore delle rose. Non riesco a sopportarlo.

 

Forse, immaginò Czonakos, il suo interlocutore associava il profumo delle rose ad una donna che aveva amato ed era stata crudele con lui. Non poteva essere altrimenti. E il Colonnello lo lasciò alle sue illusioni: non era il caso di perder tempo a spiegargli che, mille e seicento anni prima, foglie di menta e petali di rose venivano sparsi a profusione nella grande arena di Roma, dove i gladiatori si ammazzavano per il sollazzo della plebaglia, affinché le narici degli spettatori non fossero disturbate dal lezzo del sudore, del sangue e della morte.

 

LA LUPA

 

Era inutile parlargli, tanto non avrebbe seguito i suoi consigli. Dopo averlo pensato, Czonakos ne aveva escogitata un’altra delle sue, per impedirgli di andare dove avrebbe dovuto. Non appena Von Merritt lo montò, il vecchio brocco, che uno zingaro gli aveva venduto facendoglielo pagare più di quanto valesse si impennò e solo per miracolo non lo disarcionò. Dopo aver faticato non poco a calmare l’animale, gli tolse la sella e la gualdrappa, scoprendo la ragione di quel comportamento inconsueto: un ramo secco, le cui lunghe spine, sotto il suo peso, gli erano entrate nella carne, provocandogli un dolore tanto acuto da spingerlo ad imbizzarrirsi. Un ramo secco di rose selvatiche. Vadrozsak, come la sfortunata promessa sposa del figlio del borgomastro. Ecco, che il maggiore non ricordasse il suo primo nome era un altro fatto inspiegabile: quella era una piccola città, dove ognuno sapeva tutto di tutti. E la ragazza, figlia di un boiaro e fidanzata ad uno dei maggiorenti del luogo, doveva essere conosciuta da chiunque, a Hunedoara… A meno che non avesse voluto tacerglielo di proposito. E perché mai? Che cosa poteva entrarci una nobile fanciulla con tutta probabilità delicata e malaticcia, con la morte di un cagnaccio, di un toro, di un ronzino che tirava la carretta, di quattro pecore e un paio di galline e con la paura che si mangiava le vite dei bifolchi di Pecks?

 

 Non appena ebbe calmato il cavallo, saltò in sella e si diresse verso nord, intenzionato a smontare un pezzo alla volta quelle che era più che sicuro fossero soltanto favole buone per spaventare qualche bambino capriccioso. Era sua intenzione consigliare agli abitanti del villaggio di custodire meglio i loro animali, se ci tenevano ad evitare che i lupi continuassero a farne strage. E magari, giacché si trovava nei paraggi, di fare una capatina al castello maledetto dei Vadrozsak, e forse era proprio quello ciò che il maggiore temeva e voleva impedirgli a tutti i costi.

 

La giornata era gelida, ma lui era abituato a sopportare i rigori di qualsiasi clima, e il freddo non gli arrecava disagio. Al mercato di Hunedoara aveva acquistato un pastrano foderato con pelo di capra, che puzzava parecchio ma gli teneva caldo. Pecks distava poche miglia e, sicuramente, il capo del villaggio gli avrebbe detto di accomodarsi davanti a un bel fuoco scoppiettante, e offertogli un bicchiere di sliwovitza per riscaldargli le budella, l’avrebbe invitato a trascorrere la notte nella sua modesta dimora. E magari, per conciliargli il sonno, gli avrebbe raccontato la sua versione di tutte le frottole con cui il buon maggiore Czonakos gli aveva riempito la testa.

 

Il cielo si era incupito e larghi fiocchi di una neve gelida e molliccia cominciarono a turbinargli intorno. Come mai, dietro la curva della strada, non si vedevano ancora le prime casupole del paese? Eppure, Pecks non doveva essere lontano. Forse si era smarrito, si disse da sé solo, imponendosi di non perdere la calma.

 

Chi invece la perse, fu il cavallo. Era nervoso, quel giorno. Prima c’era stato il fattaccio del rametto spinoso nascosto sotto la gualdrappa. E adesso il freddo, il turbinare della neve nell’aria gelida, forse l’odore ostile di qualche predatore che solo lui riusciva a sentire… S’impennò, e il suo cavaliere durò parecchia fatica a controllarlo.

 

 

 

Non era né giorno né notte, e le nuvole impedivano al Colonnello di orientarsi guardando il cielo. Ma aveva una bussola, in fondo alla tasca del pastrano. All’occorrenza, l’avrebbe adoperata. E sarebbe stato facile imbroccare la via giusta per raggiungere quel maledetto villaggio.

 

Fu quando la strada si restrinse, trasformandosi in un viottolo fangoso, che l’inquietudine del cavallo si materializzò in cinque leggere ombre dagli occhi obliqui. Lupi. Nascosti tra gli alberi ai margini della strada, chissà da quanto tempo stavano pedinando il cavaliere solitario.

 

- Buono…

Ma il cavallo, impazzito dal terrore, non recepiva più i suoi comandi. Lo sbalzò di sella, e lo trascinò per qualche metro, prima che Von Merritt riuscisse a liberare il piede dalla staffa. Parecchi cavalieri erano morti in conseguenza d’incidenti del genere, si ritrovò a pensare sforzandosi di non perdere i sensi. Sapeva di non poter morire, ma le membra contuse e il braccio rotto gli facevano terribilmente male. Il braccio, già. Non riusciva a muoverlo, ed era contorto in una maniera grottescamente innaturale, riuscì a pensare, prima che il dolore lo togliesse di coscienza. E a vedere, in un lampo lungo un istante ma che a lui era sembrato un’eternità, il capobranco avvicinarsi e annusargli il viso. Sembrava, strano a dirsi, una femmina: una bella bestia dal mantello nero e dagli occhi gialli. Quando glieli piantò nei suoi, notò tre minuscoli puntini scuri nell’iride sinistro. Dopodiché fu il buio.

 

EVA

 

Nel torpore del dormiveglia, vedeva ancora quegli acuti occhi gialli, e un odore pesante di fango e di cane bagnato gli indugiava nelle narici e in gola. Ma erano sogni soltanto, i suoi. Il braccio rotto non gli provocava più l’acuto dolore di poco prima, ma si conosceva abbastanza da non meravigliarsene.

 

- Benvenuto nel mio castello, barone. Anche se avrei preferito incontrarvi in circostanze più favorevoli.

 

Quello era un castello, allora. E lui giaceva su un comodo materasso, non su un letto di aghi di pino. Qualcuno che sapeva chi era lo aveva chiamato barone. Una donna.

 

Teneva in mano un candelabro a cinque bracci, che la illuminava di una luce tenue. Era piccola e bruna. Giovane, non doveva avere più di ventidue, ventitré anni. Anche bella, seppure in modo decisamente poco convenzionale: non aveva il corpo statuario della principessa Maria Carolina, né, men che meno, il suo volto da bambola. Il viso, di un pallore alabastrino ma non malsano, aveva la forma di un triangolo rovesciato, su cui facevano spicco il naso lungo e sottile, dalle narici sensibili, e la bocca, forse un tantino troppo larga. La fronte era ampia e convessa, sormontata dall’attaccatura dei capelli a punta. Ma il tratto più singolare e affascinante di quello strano volto erano gli occhi che scintillavano sotto l’arco delicato delle sopracciglia: tagliati a mandorla, esageratamente grandi. E gialli, come monete nuove. Tre piccole macchie nere galleggiavano in fondo all’iride del sinistro, ma quella poteva anche essere un’illusione, creata dal gioco delle ombre che le piccole fiamme delle candele le proiettavano sul volto.

 

- Come sapete… chi sono?

 

- E’ molto difficile, nel delirio, mantenere un segreto, barone. Sul vostro conto so tutto quanto.

 

Gli aveva sorriso, mostrando denti regolari e bianchissimi, forse un tantino troppo grandi e aggressivi per quel suo visetto da silfide[9]. Lui aveva parlato, nell’incoscienza del delirio, e doveva essere durato abbastanza perché quella donna lo prendesse per pazzo. O gli credesse.

 

Contadino. Soldato. Generale. Futuro sovrano del più potente impero mai esistito. Schiavo. Gladiatore. Tirannicida. Immortale. Ed era tutto vero.

 

- Dovrei chiamarvi barone Von Merritt… O Massimo Decimo Meridio?

 

Non aveva paura di lui. E da come riusciva a sostenere il suo sguardo, era evidente che poco doveva importargliene di chi fosse e molto di quel che vedeva: occhi di smeraldo. Lunghi capelli morbidi come seta. Muscoli scolpiti. Pelle vellutata. Quando il suo servitore l’aveva trovato svenuto nel bosco e caricato sopra la sua carretta, aveva un braccio rotto ed era pieno di lividi. Adesso, malgrado non fossero trascorse che poche ore, la sua pelle era nuovamente intatta. La donna rammentò d’averla sentita calda sotto le dita, mentre lui era fuori di coscienza. E di aver percepito un lungo brivido attraversarle tutto il corpo. Qualcosa di mai provato, o di cui aveva perso il ricordo.

 

Lui non doveva essersene accorto, o che quello fosse ancora il calore della giovane lupa che gli si era accoccolata accanto per scaldarlo e preservarlo dalla morte per assideramento.

 

- Mi auguro che il vostro servitore non l’abbia uccisa.

 

Lei scosse la testa. No, lo rassicurò. Nessuno le ha fatto del male. Ma sicuramente non ha dormito con il muso sul vostro petto per timore che il freddo della notte potesse nuocervi: quella bestia sapeva chi siete, perché l’istinto è in grado di rivelare agli animali quel che la ragione non può rivelare agli uomini.

 

- E che ne è… del mio cavallo?

- E’ salvo e al sicuro.

 

Il barone chiuse gli occhi, e percepì la voce melodiosa della giovane donna accarezzarlo, come il lenzuolo di lino gli accarezzava il corpo nudo. Mi chiamo Eva. Eva. Come colei che ebrei e cristiani consideravano la madre di tutti i viventi.

 

- Bene. Visto che la mia particolare natura mi permette di guarire in tempi molto rapidi da ferite, lesioni e fratture e ne avete avuto la prova tangibile… perché non fate in modo che qualcuno mi liberi il braccio? Le stecche e queste bende così strette sono un supplizio perfettamente inutile, alla luce di quanto avete appena scoperto.

 

- Sarete accontentato.

 

Pronunciò a bassa voce quelle parole che si persero nel fruscio della sua veste di seta e caddero nel silenzio della stanza in penombra. Maximilian Von Merritt si addormentò: avrebbe dormito, ne era sicuro, il suo consueto sonno senza sogni.

 

ESILIO

 

Non si domandava più in quale luogo si trovasse. Un castello, abbarbicato tra quelle montagne aspre, circondato da foreste fitte e nere come le presenze che dovevano popolarle. Il servitore della Signora, colui che lo aveva raccattato nel bosco più morto che vivo, gli aveva liberato il braccio dalla fasciatura senza pronunciare una parola che tradisse la sua meraviglia per quel che i suoi occhi vedevano. Era un uomo gigantesco e la sua forza fisica doveva essere eccezionale. Portava un cappuccio che gli nascondeva la faccia e, osservandogli le mani deturpate dalle cicatrici delle ustioni, Maximilian comprese perché quell’uomo tenesse il viso nascosto.

 

Gli erano stati forniti abiti nuovi e puliti: brache a sbuffo, ampia casacca trattenuta sui fianchi da un’alta cintura di cuoio, giacca foderata in caldo pelo d’agnello: il costume dei contadini valacchi. Il cibo era ottimo e abbondante e l’unico suo rammarico quello di doverlo consumare da solo. La Signora non lo aveva mai invitato alla sua tavola.

 

Eppure, s’intratteneva volentieri con lui, quando il sole calava dietro le montagne o il cielo uggioso del tardo autunno era solcato dall’argento delle folgori. Gli piaceva la sua compagnia, e chissà se doveva sentirsi attratta più dal suo bell’aspetto o dalla sua conversazione. Del resto, non era la prima. Inoltre, in quelle condizioni, la solitudine doveva pesarle. Chissà chi era.

 

Eva. Gli aveva detto, la prima volta in cui i loro sguardi si erano incrociati. Eva Vadrozsak, gli aveva rivelato in seguito. E quello dove l’avevano soccorso, rifocillato e alloggiato era il castello maledetto. Ma non era morta oltre due anni prima, l’ultima di quella stirpe, la fidanzata dell’infelice Wolfgang Moeller, il suicida?

 

Non sono quella. Gli aveva detto con la sua voce bassa, roca, carica di promesse. E lui aveva chiuso gli occhi, immaginandola gemere sotto di sé. Chiunque fosse, quella donna non riusciva a nascondere il desiderio che provava. Ma non era la prima, e non sarebbe stata l’ultima.

 

- Mio fratello è un lontano cugino del conte Janos Vadrozsak. Dopo la morte di sua figlia, eravamo rimasti io e lui soltanto, a portare quel nome.

 

- E dov’è… vostro fratello?

 

- A Budapest. Non lascerebbe mai la sua città e i suoi affari.

 

Gli occhi di Eva lampeggiarono sarcastici sotto l’arco delicato delle sopracciglia. Non doveva amare molto quel fratello, che il suo interlocutore immaginò arcigno, severo e molto più anziano di lei. E le parole che la donna pronunciò poco dopo glielo confermarono.

 

- Io e lui siamo figli dello stesso padre e di diversa madre. Ha vent’anni in più di me, e quando i miei genitori sono venuti a mancare, mi ha preso sotto la sua tutela, cercando di impormi la sua volontà. Voleva che sposassi un anziano vedovo carico di denaro e di acciacchi. E, quando rifiutai, mi condannò all’esilio.

 

- Nulla terra exilium est, sed plerumque altera patria[10].

 

Lo disse, per pentirsene subito. L’esilio, inflittole dal suo stesso fratello, sicuramente doveva essere amaro, per quella donna giovane e bella; una situazione triste, e senza via d’uscita: il perfido Vadrozsak era stato spietato, con la povera Eva. Con l’uomo a cui l’aveva promessa e che lei aveva rifiutato, avrebbe avuto non l’amore, forse, ma almeno ricchezze e prestigio sociale. Che si godesse, allora, il confino in quel castello semidiroccato ai limiti del mondo civile e la compagnia di un servitore valacco, di cui riusciva a malapena a intendere le parole e i cui tratti erano stati sfigurati in maniera ripugnante dal fuoco. In fin dei conti, se l’era voluta.

 

- Non era mia intenzione offendervi. Vi domando umilmente scusa, Madame.

 

- Non è colpa vostra se le mie giornate sono tutte uguali… e terribilmente lunghe. Ma neppure per voi dev’essere stato facile, anche se tutti vi invidierebbero… se sapessero.

 

No. Non era stato facile. E non lo sarebbe diventato mai. Cambiare identità, cambiare paese… Doveva farlo, prima di dare il tempo a chi lo conosceva, di domandarsi come mai gli anni, per lui, sembrava trascorressero invano e né malattie né ferite potessero ucciderlo. Nulla terra exilium est.

 

- Siete invulnerabile. Come Achille.

 

Lo guardò scuotere la testa. Il lume delle candele gli accendeva di riflessi ramati i lunghi capelli castani, gli balenava nelle iridi, che avevano la trasparenza di due acquemarine. E gli abiti pesanti che indossava non dissimulavano la forza incredibile, quasi brutale, del suo corpo. Se fosse esistito, sicuramente l’antico guerriero acheo gli sarebbe somigliato. Possente e forte. Immortale. Invulnerabile. In ogni osso, in ogni tendine, in ogni lembo della sua pelle. Invece, era bastata una banale ferita al piede a spedire Achille nel Regno delle Ombre. C’era, in quell’uomo che avrebbe avuto vita fino alla fine dei secoli, un varco attraverso il quale, se non la morte, almeno il dolore sarebbe riuscito a farsi strada? Eva Vadrozsak chiuse gli occhi. La sua umanità, si rispose da sola.

 

- Sapete, Madame… Trovo strano che abbiate accettato quel che vi ho detto di me senza prendermi per pazzo. In tanti secoli che sto al mondo, ho dovuto imparare a tacere, o a mentire e a fingere per non spaventare gli altri.

 

- E mentire e ingannare vi costa ancora fatica. Nella vostra prima vita, non eravate abituato a farlo.

 

Già, era disonore. Per non infangare la sua reputazione, aveva rifiutato la figlia del suo signore, quando gli si era offerta, e, qualche anno dopo, la mano tesa del figlio, successore e assassino di Marco Aurelio, che gli domandava lealtà. Non si era mai ribellato a quel che la religione del dovere gli imponeva, anche quando ne era andata di mezzo la serenità alla quale avrebbe avuto diritto, come qualsiasi essere umano. Ed era rimasto testardamente fedele al ricordo della moglie morta, nonostante tutte quelle donne, gran dame e puttane, perfino Lucilla, l’Augusta, che avrebbero dilapidato un tesoro per una notte tra le sue braccia, per sentire palpitare la sua carne che, il giorno dopo, poteva essere nient’altro che un mucchio d’ossa rosicchiate dai leoni. Ma quando era nato a nuova vita, non era più quello di prima: aveva imparato a mentire, a ingannare, a prendersi ciò che non era suo. Come un animale che lotta per difendere la sua esistenza. Chi muore per rinascere, non rinasce uguale a se stesso.

 

- Nelle nostre vene corre il sangue dei predoni di Attila; Erdély[11],la nostra terra è stata concimata dal sangue e dalle ossa di Daci, Romani, Unni, Goti, Turchi, Magiari, Valacchi, Tedeschi… Nei boschi ai piedi delle nostre montagne, dai tempi dei tempi, l’amore e l’odio, la vita e la morte sono facce della stessa medaglia. E’ anche per questo che non crediamo solo in quello che vediamo… Maximilian.

 

- A Hunedoara, il comandante della guarnigione mi ha raccontato strane storie.

 

- A cui non avete creduto.

 

- Voi… Ci credete?

 

- I Vampiri non muoiono per rinascere. La loro vita che non è vita è nelle tenebre, perché la luce del sole potrebbe annientarli… esattamente come un paletto di frassino conficcato nel cuore.

 

Il frassino. L’albero dal quale, secondo le leggende cristiane, sarebbero stati ricavati i travi della Croce. Ed era stato per difenderlo da quelle presenze malefiche, che l’Imperatrice gli aveva messo al collo la crocetta di brillanti che lui, un paio di giorni prima, aveva dato in elemosina a uno zingarello morto di fame.

 

- Quando la vittima del morso di un vampiro muore e viene sotterrata, implorerà in sogno coloro che, in vita, gli sono stati cari, di liberarla dalla prigione della tomba. E allora… E allora vagherà nella notte in cerca di altre vittime, alle quali succhiare la vita con il sangue, da cui il vampiro trae nutrimento e forza. Il sangue degli animali. E quello degli umani, quando un bel momento si accorgerà che il primo non basta più a placare la sua sete.

 

Maximilian aveva già ascoltato dalla bocca del maggiore Czonakos quelle farneticazioni assurde. A Pecks, gli aveva detto, la gente era convinta che la contessina Vadrozsak avesse evocato il Vampiro. “Prima o poi lo incontrerete, se questa è la vostra volontà. Quella povera ragazza era ossessionata dalla paura della morte, da quando una tara ereditaria si era portata via sua madre e le sue sorelle maggiori e, pochi anni dopo, il fuoco aveva ucciso suo padre.” Si era accontentata, a suo dire, di quel che il morso del Vampiro avrebbe potuto offrirle, una vita che non era vita, senza sole e senza gioia, nelle tenebre per sempre, come i topi e i pipistrelli. E, dopo essere stata calata nella tomba, aveva ossessionato i sogni del suo amante, perché la liberasse da quella prigione di terra. Lui era riuscito a resistere a quelle richieste un paio d’anni, quindi aveva ceduto. E i rimorsi lo avevano spinto a togliersi la vita.

 

- E voi… Credete in queste cose, Massimo Decimo Meridio?

 

- No.

 

SANGUE E VITA

 

Sogni. Ancora una volta. Inganni, come la voce esile e lontana che lo chiamava per nome. Massimo. La sua identità più remota. La più segreta. La più vera.

 

Si svegliò, i sensi all’erta come quando ancora gli era lecito temere per la sua vita. Come quando, con indosso una corazza che portava sbalzata sul pettorale una testa di lupo, si batteva, alla guida dei suoi uomini, per la gloria e la grandezza dell’Impero. E come quando, benché ormai schiavo, era troppo amato dal popolo per suscitare nei pensieri del tiranno semplicemente indifferenza.

 

Non c’era niente di diverso dal gelo della notte, nella sua piccola stanza. Quello. E il profumo sottile e penetrante del caprifoglio. Il profumo dei lunghi capelli neri di Eva Vadrozsak.

 

Si sollevò a sedere, e i suoi occhi incontrarono il lume di una grande lanterna da carrozze, prima della figura minuta le lei. Aveva i capelli sciolti, e un’impalpabile veste da camera disegnava in maniera implacabile e provocante i contorni del suo esile corpo. Eppure, la promessa di seduzione era soprattutto nel suo sorriso, nello sguardo diretto, quasi sfacciato, dei grandi occhi gialli, da animale notturno. E fu allora che Maximilian comprese come mai suo fratello l’avesse bandita. Ma non la giudicò, non se ne sentì in diritto.

 

- Sono tanto sola.

 

Non era la prima volta che sentiva quel discorso. Dieci anni prima, era stata la figlia della sua sovrana, a farglielo. Mille e seicento anni prima, Annia Lucilla Galeria, l’Augusta. Era un discorso che aveva sentito tante volte, quello. Una richiesta che aveva letto in tanti occhi di donne infelici, che avevano implorato da lui un po’ d’amore come antidoto al veleno della loro malinconia. E l’ultima era lì, davanti a lui, con il suo corpo da adolescente e lo sguardo duro di chi non implora, ma esige. Lo stesso sguardo dello zingarello, sulla piazza principale di Hunedoara. Lo stesso della giovane lupa che, al limitare del bosco, lo aveva preservato dal freddo della notte con il suo calore.

 

- Vieni qui.

 

Quell’uomo era bello. Giovane e forte, la pelle chiara tesa sopra i muscoli scolpiti, braccia possenti e grandi mani che ostentavano una promessa che sicuramente il vecchio sposo impostole dal fratello e da lei rifiutato non sarebbe stato in grado di mantenere.

 

Sono tanto sola. Finita, una morta che vive, un’esule che non ha più niente. Come Maria Carolina, la principessa che la Ragion di Stato aveva costretto a nozze odiose. Come Lucilla, l’Augusta, un mare di secoli prima. Come tante altre che aveva e avrebbe incontrato, nel passato e nei secoli a venire.

 

Posata sul comodino, la lanterna da carrozze illuminava ancora i loro sguardi accesi. Lei gli rotolò sopra, e, incurante del freddo che invadeva la stanza, si sedette a cavalcioni dei suoi fianchi, per reclamarlo ancora, quando lui fosse stato di nuovo pronto. Ecco, il fratello doveva averla bandita non perché aveva rifiutato le nozze con un vecchio, ma perché di uomini e di piacere non era mai sazia, come la peggiore puttana dell’ultima, pulciosa bettola ai confini del mondo civile… O magari era vero, si sentiva sola, e lui aveva gli stessi occhi come gemme, lo stesso corpo possente e splendido sul quale, mille e seicento anni prima, si erano appuntati gli sguardi avidi delle matrone di Roma e perfino di qualche patrizio libertino. Quel corpo che Massimo aveva rifiutato, in nome dell’onore e della fedeltà a colei che aveva amato e non era più, di prostituire, prima di morire e rinascere a nuova vita. E solo lui sapeva quel che gli era costato, pensava, sentendo le labbra della sua compagna posarsi calde sui solchi delle frustate, sopra la pelle morbida della sua schiena.

 

Gli occhi di Eva penetrarono la penombra, acuti come frecce. Immagini? Da questo momento, potrei essere incinta di un figlio tuo, gli disse. La cosa non avrebbe reso felice il suo timorato e benpensante fratello, ma non correva quel pericolo. Il seme di un Immortale può fecondare solo il grembo di una creatura simile a lui.

 

- Perché agli Immortali venga pietosamente risparmiata la sofferenza di sopravvivere a coloro che hanno generato? E dire che non ho mai creduto nella misericordia degli Dei. Di nessuno.

 

Finiva col diventare quasi brutta, quando il ricordo di un dolore mai trascorso e mai dimenticato le induriva i tratti del viso. Era come se il naso le si appiattisse e le labbra si stirassero sui denti come ad una cagna ringhiosa. Ma gli si strinse contro, seppellendogli la testa nell’incavo del collo. Era vita vera, pensava, quella che pulsava nel sangue di quell’uomo morto per rinascere. Con l’unghia appuntita dell’indice, percorse il solco della cicatrice che gli segnava la pelle, proprio lì. Una bella pelle chiara, compatta nonostante tutte quelle cicatrici, dall’odore muschiato e caldo, capace di accendere e ubriacare i sensi.

 

- Com’eri?

 

- Con i capelli corti e la barba, come li portavano i soldati. Un po’ più abbronzato di come mi vedi adesso.

 

- E testardamente fedele a quella moglie che ti avevano ammazzato.

 

- Chi muore per rinascere, non rinasce uguale a se stesso.

 

- Questa… Chi te l’aveva fatta?

 

- Una tigre. Il sicario più insolito che il tiranno avesse assoldato, per tentare di farmi fuori.

 

- Lucio Aurelio Antonino Commodo. Ti odiava.

 

- Mi odiava perché ero amato.

 

- Mentre lui…

 

- Poco doveva importargliene, di suscitare amore piuttosto che odio. Era convinto che il primo si potesse guadagnare semplicemente comprando il favore del popolo.

 

- Questo è tipico dei tiranni.

 

- E in quanto al resto… Non c’è nulla che non sia permesso agli dei: perfino strappare via la vita ad un uomo per mero divertimento.

 

- Ho letto sui miei libri che gli piaceva scendere nell’arena e misurarsi con i gladiatori.

 

E che amava il vino non diluito e le puttane dagli occhi bistrati. Ma a quale uomo non piace ubriacarsi e fottere? Massimo chiuse gli occhi, sentendo il tepore umido della lingua di Eva scorrergli lungo la gola. Giocando con la sua pelle, lo aveva graffiato, e adesso cercava di leccare via la traccia sottile di poche, minuscole gocce di sangue che si stavano coagulando proprio dove la zampata della tigre lo aveva colpito lasciandogli il segno, un mare di secoli prima.

 

- Voglio che tu mi prometta una cosa, Massimo.

 

- Tutto quello che vuoi.

 

- Giusto un’inezia, un piccolo regalo che non ti costerebbe niente… Ecco, vorrei… Vorrei che il sole ci trovasse abbracciati, quando la notte finirà, e ci sveglieremo…

 

Esausto e mezzo addormentato, lui assentì. Come la lupa ai margini del bosco, Eva posò la testa sul suo petto e chiuse gli occhi.

 

MEMENTO MORI[12]

 

Doveva essere una bella giornata, pensò Massimo sentendo il debole tepore del sole danzargli sulle palpebre. Fredda, come sempre accadeva da quelle parti e in quella stagione, ma serena. Si sarebbe ripulito, sbarbato e, prima di lasciare il castello, avrebbe chiesto ad Eva di seguirlo a Vienna.

 

Lei continuava a sonnecchiare, ma il sole illuminava, sul suo volto, ombre malsane che prima non le aveva notato, forse perché, ricordò, non l’aveva mai vista illuminata da altra luce che non fosse quella fioca emanata da doppieri, torce o lanterne. E il sole, che alle altre donne da lui conosciute aveva aggiunto bellezza, sembrava toglierne ad Eva. Dalla bocca, che appariva enorme nel viso minuto, fuoriusciva un rantolo asmatico e le palpebre bluastre non si aprivano a scoprire gli sfolgoranti occhi gialli. Ho avuto da te il dono che volevo e adesso sono felice… Massimo. Non domandarmi altro. Gli disse prima di abbandonarsi nuovamente al suo torpore malato.

 

Massimo scattò giù dal letto, infilò le brache e, incurante del freddo che gli accapponava la pelle, uscì dalla stanza. Era intenzionato a cercare il servo, il gigante valacco col volto devastato dal fuoco, per dirgli che la padrona stava male e ingiungergli di prepararle qualcosa, del brodo, del latte caldo… Ma il servo non si trovava. Da nessuna parte.

 

Le stanze del castello formavano una lunga, cupa, decadente teoria fatta di tappezzerie ingiallite, mobili tarlati, tendaggi muffiti e polverosi, fitte ragnatele. Tutto parlava di abbandono e di desolazione, lì dentro: un abbandono e una desolazione in mezzo ai quali una donna bella, colta e piena di vita come Eva Vadrozsak non meritava di consumare i suoi giorni. L’avrebbe portata via, pensò. Le avrebbe chiesto di sposarlo e chi se ne importava, se lui era un Immortale e lei…

 

Non vide uno specchio, appeso alle pareti. Né una croce, un’icona, una delle tante immagini sacre che tappezzavano i muri delle case, modeste o ricche, in cui vivevano i devotissimi abitanti di quelle contrade, fossero essi ortodossi o cattolici. E allora comprese. Comprese tutto quanto.

 

- Eva…

 

Forse, pensò brandendo il suo pugnale e premendo la punta contro la pelle delicata del polso, sarebbe bastato un sorso del suo sangue a salvarla. Ma lei non voleva, glielo dicevano gli occhi sbarrati, orlati di rosso, grandi come lanterne nel viso che, con il trascorrere dei minuti, andava assumendo i connotati più veri, quelli di un teschio coperto di pelle verdognola, rinsecchita. Lo capisci che quella che mi offri non sarebbe la salvezza, ma solo un’apparenza di vita, un inganno che, per continuare, avrebbe bisogno di nutrirsi del sangue e del dolore degli altri? Quello degli animali non mi basta più… Massimo… Non permettere che altri innocenti paghino per i miei errori.

 

- Eva, io…

 

- Ho visto morire mia madre e le mie sorelle, uccise da una malattia che non dà scampo. Poi è toccato a mio padre. Avevo paura che toccasse anche a me, presto, perché quando la sfortuna inizia ad accanirtisi contro niente può fermarla. L’ho voluta io, questa vita che non è vita. Credevo che sarei stata in grado di controllarla, che mi sarei potuta accontentare del sangue di qualche animale, invece… Wolfgang Moeller aveva una sposa che stava per renderlo padre, ed è morto per colpa mia… E presto toccherà ad altri, se non…

 

- Chi è il Vampiro?

 

Quella creatura che lei aveva evocato, per essere come lui, forte, onnipotente, eterna, invece… Quella creatura che solo il legno di frassino e la luce del sole potevano annientare. Chi è il Vampiro? Dimmelo, Eva…

 

- Massimo…Grazie.

 

Con le ultime forze che le restavano, la donna allungò verso di lui la mano. Nera, incartapecorita, le unghie spesse e dure, sembrava quella di una mummia. Vincendo la ripugnanza che provava, l’uomo gliel’afferrò e la sentì fredda, mentre la catenella con appesa la piccola croce di brillanti le scivolava tra le dita. Adesso non aveva più bisogno di mentire né di nuocere agli altri, in cambio di una vita che non era vita. Adesso, finalmente, Eva Vadrozsak riposava in pace. Per sempre.

 

L’EREMITA

 

Le merlature del castello si stagliavano desolate contro l’orizzonte che il tramonto tingeva d’oro e di rosso. Massimo aveva saputo da qualcuno che, da quelle parti, lo chiamavano l’Eremita. Un nome che si addiceva al maniero in rovina, come al frassino che svettava nella radura con i suoi rami neri e spogli, o al vecchio lupo solitario cacciato dal branco che, ogni notte, alzava il muso alla luna e piangeva. Era una terra cupa e dura, quella, permeata di silenzi inquieti, superstizioni barbare e impregnata di sangue. Erdely. Una terra dove Romani, Goti, Unni, Valacchi, Turchi e Tedeschi si erano ammazzati, concimando con le loro ossa quei boschi, avvelenando con il loro sangue quelle zolle e quelle sorgenti.

 

- Presto farà notte, e potrebbe non essere prudente trascorrerla all’addiaccio… Con il freddo. E in compagnia dei lupi.

 

Massimo guardò l’uomo che stava per offrirgli la sua ospitalità all’interno di una piccola capanna di tronchi. Di sfuggita, perché i suoi pensieri non trapelassero. Scommetto che chiamano anche lui l’Eremita, si disse da sé solo. Era altissimo, di una magrezza spettrale dalla quale traspariva tuttavia forza e non debolezza. I capelli brizzolati e unti, che gli arrivavano alla vita, e la gran barba si mescolavano alle pelli di capra con cui si era ricoperto per difendersi dal freddo. Forse aveva scelto di scontare nella solitudine una vita scellerata, un antico delitto il cui rimorso ancora gli pesava sulla coscienza. Pregando. E pentendosi dei suoi peccati, per salvarsi l’anima dall’inferno. Forse.

 

Smontato da cavallo, lo seguì. Aveva il passo silenzioso del lupo, lunghe mani ossute abituate a stringere l’elsa di una spada, non certo un turibolo o un rosario.

 

Non lasciar trapelare i tuoi pensieri, pensò Massimo, trattenendo il respiro. Accomodatevi dentro e sedetevi davanti al fuoco, mein Herr. Erano tutti così ospitali, da quelle parti… Anche il Signore delle Bugie e degli Inganni. Non lasciar trapelare i tuoi pensieri… Non lasciare che il Vampiro intuisca la tua prossima mossa e la preveda… E’ un avversario molto forte… Più di quanti ne abbia mai incontrati. Non lasciare che ti guardi negli occhi, perché potresti ritrovarti impastoiato e immobilizzato. Come quando, un mare di secoli fa, ti costringevano ad affrontare un avversario armato di rete e tridente. Un avversario che il tiranno sperava sempre fosse l’ultimo.

 

Con un movimento repentino, Massimo trasse il ramo appuntito da sotto il mantello. L’aveva lavorato a lungo per dargli quella forma, il legno di frassino era talmente duro... L’altro lo guardò senza parlare, e lui seppe che sarebbe stato in grado di sostenere lo sguardo di zolfo e di fuoco del Nemico, allo stesso modo in cui aveva sostenuto quello dei suoi avversari. Anche di Commodo, il folle.

 

Il Vampiro urlò, quando si sentì penetrare dal palo appuntito. E prima che si fosse completamente dissolto in cenere, Massimo era nuovamente saltato in sella al cavallo. Sarebbe tornato a Hunedoara. Sicuramente li avrebbe tenuti per sé, i suoi segreti, quando il maggiore Czonakos gliene avesse chiesto conto. E, una volta a Vienna, alla vecchia Imperatrice avrebbe detto che adesso a Siebenburgen, la gente era libera dalla paura.

 

FINE

 

Lalla, 28 dicembre 2003

            visita il sito di Lalla

 

Torna all’inizio

Massimo l’Immortale
Altre storie

Storie de Il Gladiatore

Storia di Massimo

Storia di Glauco

Diario di Giulia

 



[1] Questo era il titolo che spettava agli eredi al trono asburgico.

 

[2] Si allude Guerra di Successione austriaca (1740-48) motivata dal mancato riconoscimento da parte di alcuni sovrani europei della successione in linea femminile all’Imperatore Carlo VI d’Asburgo da parte della figlia Maria Teresa, sancita dallo stesso con la Prammatica Sanzione.

 

[3] La Transilvania.

[4] Il Danubio.

[5] Si fa riferimento ad un episodio narrato in “Gladiator Prequel”, scritto da Susan Spicer e tradotto in italiano da Anna Maria Tagliavia. In esso il giovanissimo Massimo è spinto dal suo comandante, che vuole provare le doti di coraggio del ragazzo, a tuffarsi nelle acque gelide del Danubio e a prodursi in un’estenuante nuotata (cfr. Storia di Massimo Capitolo 8 - La prova ).

 

[6] Acquavite di prugne.

[7] Diavolo, inferno e lupo mannaro.

[8] Come chi è stato in Ungheria o in Romania  può testimoniare, quest’usanza non è un’invenzione di fantasia, mia o di qualcun altro: le strade di campagna sono spesso davvero fiancheggiate da piccoli cimiteri.

[9] Spiritello dei boschi.

[10] Nessun paese è l’esilio: semplicemente, un’altra patria.

[11] Transilvania, in magiaro.

[12] Ricordati che devi morire.