Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore

Lettura sconsigliata ai minori di anni 18

 

 Massimo l’Immortale

GLI IMMORTALI

 di Lalla Usai

 

Per questo racconto, liberamente ispirato al Ciclo Arturiano, voglio ringraziare alcune persone che non conosco ma che, con il loro lavoro, mi hanno saputo trasmettere tutto il fascino di quest’epopea, la voglia di scrivere qualcosa che la rievocasse e molte informazioni sui personaggi che ne furono i protagonisti, da Morgana ad Artù, da Merlino a Mordred, che sono frutto della fantasia ma, allo stesso tempo, talmente vivi da sembrare realmente esistiti: grazie quindi agli scrittori Bernard Cornwell, Marion Zimmer Bradley, Mary Stewart, Mino Milani. E al “bardo di Bretagna” Alan Stivell. Perché la mia ispirazione si nutre anche di musica.

 

 

PROLOGO

SOGNI

 

Sognò la notte e un dolore così vivo da sembrare reale, quello di cui aveva sentito parlare senza averlo mai provato. Giaceva sull’erba umida e la luna piena era alta nel cielo buio, velata appena da una caligine leggera. Sognò le mani della vecchia Maeve su di lei e dentro di lei, prima che un dolore più lacerante ancora degli altri l’attraversasse come una lancia e il pianto di un bambino rompesse il silenzio con la stessa forza che era quella della vita.

 

Sognò suo padre morire. Le cose erano andate così, non come le aveva raccontato Taliesin il Mago. Non era morto da eroe combattendo contro i Sassoni e gli Iuti invasori, Brochavael, il duca di Powys: era stato ucciso a tradimento dal suo signore, il padre del bambino che sua moglie Ygraine portava in grembo. Uther di Cornovaglia, il Dragone Rosso, nelle cui vene scorreva il sangue dei Celti e dei Romani. Uther, il cui figlio bastardo avrebbe regnato sulla Britannia e scacciato gli invasori, come stava scritto nelle stelle.

 

Sognò suo fratello estrarre dall’incudine piantato nella roccia Caledfwlich, la spada che i Romani chiamavano Excalibur, il segno del potere. Allora era un moccioso dai capelli rossi, e non doveva avere più di quattordici, quindici anni. I signori della Britannia, che si erano a lungo contesi il trono, lo avrebbero fatto a pezzi, si diceva. Invece, adesso di anni ne aveva ventidue e il potere continuava a detenerlo ben saldamente, stringendolo in pugno come l’elsa della sua spada magica con cui, si diceva, tagliasse a pezzi i nemici. Gli avevano cercato e trovato moglie, Ginevra, la bella figlia del ricco e potente re Leodegan, e viveva circondato da una compagine di cavalieri forti e leali, che gli avevano giurato fedeltà oltre la morte e tenevano adunanza seduti ad una grande tavola rotonda. E accanto a re Artù stava sempre il suo mentore, Taliesin, bardo e veggente che sapeva la magia, colui che il popolo chiamava Merlino.

 

Sognò se stessa, l’odore greve della palude di Glaston e della nebbia che, nell’isola di Avalon, nascondevano agli occhi avidi del mondo il segreto dei segreti, il calice fatato capace di conferire il potere di operare i miracoli a colui che ne fosse entrato in possesso; sognò il falco e la spada. Urlò nel sonno e si risvegliò madida di sudore, gli occhi spalancati nel buio profondo della notte. Con mano esitante, come se fossero ancora ferite fresche, Morgana si accarezzò le cicatrici che le deturpavano il viso. Quindi appoggiò la testa sul cuscino e si addormentò nuovamente, per tornare ai suoi incubi e alle sue visioni. Come ogni notte.

 

IL FALCO

 

Il cavaliere doveva aver percorso una strada molto lunga, per arrivare fin lì. Doveva aver affrontato molti pericoli e patito tanti disagi. Un cammino né facile né breve, durante il quale doveva aver affrontato uomini, orsi e lupi, il fendente gelido del vento di tramontana e la sferza della pioggia, il freddo e la canicola, la polvere che secca la gola e la melma delle paludi, che ti imprigiona e ti trascina fino a sommergerti e ad ucciderti. Doveva aver patito la sete e la fame, anche se la corda del suo arco era ben tesa e ingrassata, anche se c’erano lunghe frecce dentro la faretra che portava appesa alla sella del cavallo, anche se in quella regione c’erano fiumi e laghi dove l’acqua era fresca e abbondante, e foreste che brulicavano di selvaggina.

 

Non mancava molto alla meta, ormai. L’odore di Camelot, la città fortezza, si respirava nell’aria tersa della primavera incipiente. La stagione in cui lui era venuto al mondo, pensava il cavaliere, in una terra che non somigliava per niente a quella, e dove le città erano città davvero, non villaggi di capanne dai tetti di paglia su cui incombeva, simile a un drago addormentato, la mole tetra del castello. Città vere, in cui si lavorava, si amava, si soffriva e si gioiva, ma che i tempi fossero cambiati era un dato di fatto incontrovertibile. Gli era stato detto che nelle vene del re cristiano di Dumnonia, scorreva anche sangue latino.

 

Artù era valoroso e saggio. Tanto valoroso da essere sempre riuscito a respingere gli assalti dei barbari Sassoni e Juti che ormai avevano occupato stabilmente vaste regioni della Britannia Orientale. Tanto saggio da riuscire a tenere a bada i suoi irrequieti vassalli, molti dei quali vantavano nobilissimi natali e avrebbero fatto ricorso a qualsiasi mezzo pur di prendere il suo posto su quel trono che, ancora quasi bambino e bastardo senza padre, aveva conquistato sfilando una vecchia spada da un incudine piantato in uno spuntone di roccia.

Si diceva che la saggezza potesse misurarsi solo con gli anni e Artù non ne aveva molti. Eppure era stata una scelta saggia, quella di non scacciare Taliesin il Mago, come il vescovo di Camelot avrebbe voluto. Era stata una scelta saggia quella di non imporre con la forza della legge il suo credo a chi ancora venerava Bel, Crom Dubhm e Cernunnos[1] nei boschi di querce, come ai tempi in cui era stato eretto il grande Cerchio di Pietre di Sarum[2]. Lui lo sapeva. Artù il saggio aveva solo ventidue anni, e non aveva visto i cristiani morire sbranati dalle belve negli anfiteatri sotto il regno di Diocleziano. Non aveva visto con quanta gioia era stato accolto l’editto di Costantino[3]. Ma non aveva neppure conosciuto i tempi in cui il bigotto Teodosio imponeva a colpi di spada il suo credo in ogni angolo dell’impero. Non aveva conosciuto i tempi delle dispute feroci tra cristiani ortodossi ed eterodossi e l’odio di cui erano, ovunque, fatti bersaglio gli ebrei. Non stava al mondo che da ventidue anni, Artù il saggio.

 

Forse potrei insegnargli qualcosa di quello che so, senza rivelargli niente di me, perché stenterebbe a credere in ciò che gli direi. E quel… Taliesin? La gente lo chiamava Merlino. Era un druido dell’Antica Religione, ma anche parecchi cristiani lo rispettavano per la sua saggezza, compreso il re. Era stato lui a trovare ad Artù un padre adottivo quando il suo era morto e la vita stessa del bambino appariva minacciata. Taliesin avrebbe capito tutto di lui guardandolo solo un istante, ma non lo avrebbe maledetto per ciò che era, come altre volte gli era capitato, nel corso della sua esistenza senza fine.

 

Smontò di sella. Si tolse il mantello, quindi il pettorale di cuoio rinforzato con lamine di bronzo e lasciò cadere sull’erba la lunga spada. La tunica corta di panno scarlatto e le brache di pelle che indossava erano impregnate di polvere e di sudore e i capelli castani dai riflessi fulvi che gli accarezzavano le spalle non erano certo in condizioni migliori.

Pensò che l’acqua del lago doveva essere fredda, ma non esitò a togliersi gli stivali, l’alta cintura borchiata, a sfilarsi brache e casacca, ritrovandosi completamente nudo prima di tuffarsi nel lago. Un buon bagno lo avrebbe ripulito di tutta la sporcizia che si portava addosso, un’energica nuotata avrebbe rinvigorito i suoi muscoli intorpiditi da giorni passati in sella al cavallo e notti trascorse raggomitolato nel suo mantello, con un occhio aperto, l’altro chiuso e la mano sull’elsa della spada: erano brutti tempi, quelli. Anche per uno come lui.

 

Le acque del lago non erano profonde, e neppure troppo fredde. Canne e salici crescevano lungo le sue rive e gli unici rumori in quella solitudine, oltre allo sciabordio dell’acqua e al soffio della brezza fra i rami, erano il gracidio delle rane e lo schiamazzare degli aironi e delle anatre selvatiche.

Sono solo, pensò ancora abbandonandosi al piacere corroborante di quelle acque fresche e limpide. Quando si fosse deciso ad uscirne fuori, si sarebbe sdraiato sull’erba e avrebbe lasciato che fosse il sole ad asciugargli la pelle, prima di rivestirsi. Una volta in città, avrebbe dovuto rassegnarsi a spendere i pochi soldi che aveva per comprare qualcosa di decente e di pulito da mettersi addosso.

 

No, non era solo, qualcosa glielo diceva. Fidarsi delle sue intuizioni gli aveva consentito di togliersi dai guai talmente tante di quelle volte che aveva rinunciato a contarle. Aguzzò la vista e la vide, non lontano dalla riva. L’acqua le arrivava alle ginocchia, ed era nuda anche lei. Era lunga e sottile, e aveva la pelle bianchissima. Quanto tempo era passato, dall’ultima volta che aveva giaciuto con una donna? Troppo, pensò, percependo la reazione vigorosa del suo corpo alla vista dei piccoli seni dai capezzoli pallidi, del triangolo di pelo rosso fra le lunghe cosce esili. Anche i capelli, che portava raccolti in due folte trecce, erano fulvi come il mantello di una volpe.

 

Non si è accorta di me, pensò. Aveva qualcosa di strano sul viso, forse una maschera.. Ma poteva essere il gioco delle ombre e delle luci, il riverbero del sole che gli batteva sugli occhi ad ingannarlo. Non si è accorta di me, e bisogna che ne approfitti per andarmene alla svelta. Peccato, non potermi sdraiare, non potermi godere i raggi del sole sulla pelle. O il suo lungo corpo sottile da adolescente, perché no. Chissà chi è. Chissà che cosa ci fa, tutta sola in un posto come questo.

 

Chiamò il cavallo, con un fischio sommesso. Si era infilato le brache, e gli davano fastidio, appiccicate com’erano alla pelle bagnata. Prima di indossare la casacca, saettò ancora un’occhiata tra il folto dei salici, ma la donna era sparita, o forse non c’era mai stata, la sua immaginazione, magari la sua fame, l’aveva ingannato. Ma non era immaginazione il falco che era calato in picchiata su di lui e gli aveva piantato gli artigli acuminati nella faccia. Con gli occhi accecati dal sangue, se lo strappò via, lo stritolò tra le grosse mani e gettò sull’erba la piccola carcassa inerte. Quindi, sopraffatto dal dolore, crollò anch’egli svenuto. La sua condizione non gli aveva mai risparmiato la sensazione spiacevole della sofferenza e, anche se non potevano ucciderlo e si chiudevano in poco tempo senza lasciare cicatrici, fossero inflitte da una spada o da una freccia o dagli artigli di un animale, le ferite appena inferte gli facevano male, come e più che a tutti gli altri uomini.

LA VOLPE

 

- Benvenuto nel mio castello.

Gli occhi dell’uomo e quelli della donna s’incrociarono e si scrutarono nella grande dalle pareti scabre, illuminata dalla luce di almeno cento torce.

 

Era lei, la stessa che, la mattina di quel medesimo giorno, aveva visto bagnarsi nelle acque del lago. Una tunica nera copriva dal collo ai piedi il suo corpo sottile da adolescente e il solo oro che le luccicasse addosso era quello di un grande anello al medio della mano destra e dei folti capelli rossi che, sciolti, le arrivavano alle anche. Aveva un piccolo naso concavo, labbra pallide e denti grandi, leggermente irregolari. Gli occhi erano di un azzurro chiarissimo, quasi trasparente. Vista da vicino, dimostrava una trentina d’anni. Era bella? Era brutta? Non si capiva molto di lei, per via della maschera formata da strisce di cuoio che le nascondeva la parte superiore della faccia. Forse era sfregiata. Pensò l’uomo. Forse, semplicemente, non intendeva rivelare la sua identità a quello sconosciuto che aveva raccattato nel bosco, svenuto e con il volto straziato dagli artigli di un falco. Doveva essersi chiesta tante cose sul suo conto: soprattutto perché quelle ferite profonde erano scomparse in meno di un’ora senza lasciare traccia. Quella dama altera, dal volto mascherato e dalla chioma fulva come il pelo di una volpe doveva aver violato il suo segreto, pensò Maximus, l’Immortale.

 

Ma io so tutto di te anche se non conosco il tuo nome. E quel che ho saputo mi basta, pensava la dama guardandolo con i suoi grandi occhi chiari come l’acqua. Era da tanto tempo che ti aspettavo. Da troppo. Avevo quasi perso la speranza.

Le piaceva, quel che vedeva. Un uomo nel fiore degli anni, dalle grosse spalle e dal bel viso franco, incorniciato da lunghi capelli castani e da un’ispida barba quasi bionda. Non c’era traccia alcuna delle ferite che gli artigli del falco gli avevano aperto sulla fronte e sulle guance. Era il segno, quello, ciò che andava cercando da una vita, perché si compisse la Profezia.

 

Poteva capitarmi un mostro, un essere orrendo e deforme, e mi sarei dovuta inchinare all’ineluttabilità del destino senza oppormi. Invece potrei essere io il mostro, ai suoi occhi. Occhi acuti, tra l’azzurro e il verde, sormontati da folte sopracciglia spettinate e incorniciati da lunghe ciglia di seta. Occhi incapaci di mentire. Lo sguardo era quello duro di chi ha visto troppo, illuminato però da pagliuzze ambrate e da sprazzi d’intensa dolcezza. Aveva labbra tenere, quasi femminee e, cosa rara per quei tempi, una bella chiostra compatta di denti bianchi e sani. Gli aveva dato, in luogo dei suoi che erano sporchi e rovinati, abiti neri, nuovi e puliti. Il nero valorizzava l’abbronzatura della pelle, gli occhi chiari, il corpo splendidamente modellato dell’uomo. Dell’unico uomo al mondo in grado di far sì che la Profezia si avverasse, pensò la castellana distogliendo da lui lo sguardo e porgendogli la mano da baciare.

 

-Posso conoscere il vostro nome, messere?

-Maximus.

-Un nome latino.

-Eh, già. Un nome latino. E il vostro, mia signora?

-Morgana, figlia di Brochavael, duchessa di Powys.

Non era proprio bella, ma il piglio aristocratico, lo sguardo deciso e i capelli rossi le conferivano fascino. Perfino quella maschera di cuoio che chissà cosa nascondeva agli occhi del piccolo scorcio di mondo che conosceva, i suoi servitori silenziosi, la sua giumenta dal mantello biondo, la coppia di giganteschi, ispidi cani d’Irlanda che la seguivano ovunque. Chissà se aveva un marito, da qualche parte. O magari l’aveva avuto, ed era morto. La stragrande maggioranza degli esseri viventi non aveva la sua fortuna e, in quei tempi di peste, guerre, fame e carestie la morte ti stava appiccicata alle costole, pronta a colpirti, senza riguardo alcuno per la tua giovinezza, i tuoi beni, il tuo ceto e la tua voglia di vivere.

 

Forse sei l’unico, se si esclude il vecchio Taliesin. L’unico maschio sopravvissuto alla sua morte, e non m’interessa sapere come e quando, se ad opera della tua stessa volontà, o di qualcuno che ti amava. O magari ti odiava. Com’è capitato a me. Sono stata fortunata, pensava Morgana guardandolo divorare la sua cena, bere idromele[4] a larghe sorsate, mentre lei si limitava a piluccare qualcosa da un vassoio d’argento, a sorseggiare acqua di fonte da una coppa ingemmata. Era stata fortunata, già. Le sarebbe toccato in sorte, quella notte, di giacere con un uomo giovane, bello e vigoroso. E la Profezia si sarebbe compiuta.

 

Sapeva che non gli avrebbe detto di no. Gli uomini sono tutti uguali, e neanche quello aveva trovato il coraggio di tirarsi indietro. Non si era domandato che cosa potesse nascondere quella maschera, mentre sentiva le dita sottili di lei insinuarsi sotto la tunica, scorrere lungo la pelle tiepida. Aveva un aroma intenso di sudore, di cuoio e di uomo. E un gusto di sale e di vita, sul bel collo e sul petto possente. Baciava bene. E gli piaceva lasciarsi baciare. Morgana si abbandonò a lui e ai suoi abbracci per tutta la notte, ricambiando furiosamente la sua intensa passione. Avevi fame anche di questo, gli sussurrò con voce arrocchita mentre lui la eccitava leccando, succhiando e mordicchiando le punte dei suoi seni minuscoli e insinuando la grande mano dalle dita lunghe e forti nella parte più segreta di lei. Non gli avrebbe detto stai con me per sempre, pensò mentre lui la penetrava, ed era la terza volta, nel corso di quella notte. Versa dentro di me tutto il tuo seme immortale, Maximus, poi va dove ti porta il destino. Il mio si sta compiendo proprio in questo momento.

Morgana giacque a lungo in silenzio tra le sue braccia. E’ terribilmente forte, pensò. Chissà chi era e da quale recesso del passato era venuto per portarle il dono d’inestimabile valore che lei da anni attendeva. La luce chiara dell’alba, penetrando attraverso le feritoie che si aprivano sui muri, illuminò il suo grande corpo disteso nell’abbandono del sonno, il volto inquieto dai lineamenti delicati. In un lontano passato, forse aveva avuto dei figli che gli somigliavano e che adesso erano polvere, ossa e marciume. I figli di una donna che magari aveva giaciuto con lui per una notte soltanto, e di quel momento d’amore lui aveva perso la memoria.

 

Non ti resterà memoria neppure di questa notte, pensava Morgana. Di una notte nel corso della quale più volte e con uguale intensità hai amato una dama mascherata che si era offerta a te dimenticando ogni pudore. E che avrebbe dovuto farlo anche se non fossi stato quello che sei.

La mano della donna gli accarezzò dolcemente il petto. Voglio toccarti ancora, per conservare in me tutto il ricordo della tua forza e della tua bellezza, pensava. Per ringraziarti di come sei e di quello che sei. E di ciò che mi darai, come sta scritto.

 

Il suo corpo era segnato da numerose cicatrici. La prima delle sue molte vite doveva essere stata dura, difficile. Forse, anche allora era stato un soldato. Un soldato che, nel corso di qualche guerra era stato preso prigioniero dai suoi nemici, pensò Morgana quando l’uomo si voltò sul fianco, dandole le spalle. E i suoi nemici lo avevano marchiato a fuoco, come si fa con gli schiavi, dedusse quindi, chinandosi a baciare il segno della sua antica sofferenza. Fu allora che lui si svegliò, e la strinse a sé, afferrandola tra le sue braccia forti. Sarebbe stato amore, ancora una volta. Se la maschera non fosse caduta, scoprendole il viso.

 

-No. Non avrei voluto che questo accadesse.

E adesso vattene, torna fuori a cercare la tua strada, Cavaliere Nero. Camelot, il Cerchio di Pietre o le nebbie della palude di Glaston, che nascondevano il segreto di Avalon. Quanti erano impazziti o addirittura morti, nel tentativo di violarlo?

 

Morgana nascose con le mani il volto sfregiato dalle lunghe cicatrici tortuose che le segnavano la fronte e le guance. Sarebbe stato tutto così perfetto, se lui non le avesse viste, se non ci fosse stata tutta quella pena, nello sguardo che la accarezzava. Vattene, Maximus. Torna nel tuo mondo, e dimenticami. Ho già preso quel che volevo da te, prima che tu potessi vedere quello che sono e che sarò fino alla fine dei tempi. Lo pensò e non glielo disse, Morgana, la Volpe Rossa. Vattene, e io tornerò alla mia solitudine. A coltivare in me il tuo dono.

 

IL MAGO

 

L’aria del primo mattino era ancora fredda, e Maximus si strinse nel mantello. Camelot non poteva essere lontana. Avrebbe chiesto udienza ad Artù, il re cristiano di Dumnonia. Gli avrebbe domandato di essere arruolato tra i suoi cavalieri, per poter mettere la sua spada al servizio di ciò che restava, lassù, di Roma e delle vestigia di un’antica grandezza. Resti diroccati di fortificazioni e acquedotti sparsi per la campagna, colonne mutile di templi nelle città che aveva visto: Aquae Sulis, Glevum, Sarum, Londinium[5]. Resti diroccati di un mondo che ben difficilmente sarebbe sopravvissuto all’impeto distruttivo dei barbari Germani e delle tribù selvagge dei Pitti, dei Caledoni e degli Scoti che premevano al di là del Vallo di Adriano. Scampoli di una civiltà scomparsa che molto probabilmente non avrebbero resistito neppure alle dispute della litigiosa nobiltà locale o agli aspri contrasti che dividevano la popolazione cristiana e romanizzata dai seguaci, ancora numerosi, dell’Antica Religione. Per non parlare delle bande di briganti che, in tempi difficili come quelli, proliferavano dappertutto.

 

Il grido lontano di un corvo ruppe il silenzio e la solitudine della valle. C’era qualcosa di strano, nel silenzio rotto da quel gracchiare stridulo. Maximus fermò il cavallo, si guardò intorno. Era un grido d’allarme, quello, non un richiamo di caccia.

Non c’erano alberi, lungo il tracciato dell’antica strada romana. Dovevano averli tagliati, allo scopo di impedire le imboscate. Il cielo si stava oscurando e non c’erano ripari di sorta, se avesse cominciato a piovere. Un raggio di sole balenò attraverso le nuvole e si riflesse su qualcosa di metallico. Armi. Grida concitate che non erano quelle dei corvi, né di altri animali.

Maximus spronò il cavallo a correre in direzione del bagliore sul metallo, delle urla di rabbia, forse di paura. Erano in tre, armati di spada, e avevano assalito un vecchio. L’uomo aveva lunghi capelli bianchi, indossava la tunica gialla dei druidi e portava con sé un bastone nodoso, al quale si appoggiava per camminare.

 

Era coraggioso, anche forte, per l’età che aveva. Le bastonate che menava, spesso, si abbattevano sui suoi assalitori, che, smontati di sella ai loro tozzi pony pelosi, lo cingevano d’assedio contando d’approfittare di una sua mossa avventata per farlo fuori. Maledetti briganti. Maximus si gettò nella mischia roteando la spada. Rimediò un fendente al petto che gli aprì la tunica e gli segnò la pelle senza tuttavia provocare gravi danni e, nella foga della lotta, un’energica bastonata che lo fece barcollare e che, nelle intenzioni dell’indomito vecchio, non era certo destinata a colpire la sua schiena. Ma uccise due degli assalitori, e mise in fuga il terzo.

 

-Forse sarebbe prudente che viaggiassimo insieme, finché sarà possibile. Adesso avete anche voi un cavallo, signore. Così non vi stancherete.

Il vecchio ansimava come un mantice, e perdeva sangue dal palmo della mano destra con cui, poco avvedutamente, aveva tentato di deviare un colpo di spada. Era piccolo, magro, rinsecchito, e sembrava impossibile avesse dato tutto quel filo da torcere a tre feroci grassatori. Ma gli occhi erano vivi, le movenze agili, l’eloquio pronto, a dispetto dell’età che doveva avere

-Perdete sangue. Lasciate che vi medichi.

-Potrei dire altrettanto di voi, mio giovane amico.

-Non datevi pena. Un po’ d’acqua sarà più che sufficiente alla bisogna.

 

Il vecchio guardò Maximus sfilarsi la tunica, tamponarsi la ferita con un brandello di stoffa inumidito con l’acqua della sua borraccia. Il taglio era netto, poco profondo, qualche ragnatela raccattata in mezzo all’erba sarebbe stata sufficiente a fermare il sangue. Chissà per quale motivo quel giovanotto bello, dalla corporatura possente, che si portava appresso oltre all’arco, alle frecce e allo spadone anche il piglio del condottiero non portava una cotta di maglia di ferro sopra la tunica e il pettorale di cuoio lo teneva appeso alla sella anziché addosso.

-Sono mesi che schiodo le natiche dalla sella solo per dormire e per pisciare. Troppa roba addosso mi dà fastidio. Peccato però che quel figlio di puttana mi abbia rovinato la casacca nuova.

-Una casacca fresca, leggera e di buona stoffa.

-Ne convengo. Ma… Mostratemi la mano, signore. La vostra ferita sanguina più della mia.

Il vecchio aveva occhi di un azzurro cupo, che scintillavano nella profondità delle orbite rugose, ombreggiati da sopracciglia folte, bianche, lunghe e spioventi come quelle dei grandi cani d’Irlanda. Con quegli occhi acuti, percorse il petto nudo di Maximus, osservò le cicatrici che lo segnavano. Risalivano ad un’altra vita, a quando era un uomo come tutti gli altri e le ferite lasciavano il segno sopra la sua pelle. Adesso, invece, si chiudevano senza bisogno di medicarle e senza lasciare tracce, nello spazio di pochi minuti. Come quella che aveva lui sul palmo della mano grinzosa.

 

Il giovane e il vecchio scoppiarono a ridere, guardandosi negli occhi. I miei segreti sono i vostri, signore. Ditemi il vostro nome, cavaliere. E voi il vostro, Mago.

-Massimo Decimo Meridio, nato l’anno Novecentesimo dalla Fondazione di Roma, regnante il Cesare Lucio Antonino Pio a Tergillium, nella Provincia Senatoria dell’Hispania Baetica. Contadino, soldato, generale, schiavo, gladiatore e regicida. Ammazzato nell’Anfiteatro Flavio all’età di trentatré anni dal Cesare Lucio Aurelio Antonino Commodo, a sua volta da me ferito a morte, e riportato in vita, grazie ai sortilegi di una maga della Tessaglia, per volere di Annia Lucilla Galeria, principessa imperiale innamorata di me senza speranza. Eccovi spiegato in quattro parole perché le ferite non solo non mi uccidono, ma si chiudono senza lasciare il segno in pochi minuti, quale che sia la loro gravità. Come a voi, signore.

-Taliesin. Per la mia gente, Merlino, il Mago. Il superstite di una razza antica, il depositario della magia e della sapienza. Colui che non doveva nascere, generato dall’unione di una donna con una creatura delle tenebre, la notte in cui si celebrava la festa di Beltane[6]. Nato dal Male per essere il Male stesso, ho scelto un’altra strada… Un giorno capirete quel che intendo dire. Per ora, vi basti sapere che anche a quelli come noi è dato di poter scegliere la propria strada. Nel bene e nel male. Ma forse lo sapevate già, tutto questo.

 

-Dove siete diretto?

-A Camelot. Intendo chiedere udienza al re: voglio ricevere l’investitura di cavaliere.

-Vi mancano uno stemma, un motto e una casata.

-Non credo che il re, se è saggio come dicono, si formalizzerà sul colore del mio sangue piuttosto che sulla mia abilità con le armi. Ma se è proprio necessario che sul mio scudo siano dipinti un motto e una figura… ”Vis et honor[7]. E la testa di un lupo.

-Anch’io vado a Camelot. Dal mio re.

-Bene. Allora andremo insieme.

 

VERSO CAMELOT

 

-Saremo in città, prima che faccia notte. Al sicuro.

Risero ancora, il vecchio mago e il giovane cavaliere.

-Voi conoscete bene il re.

-A me deve ciò che è e ciò che sa. Quasi sicuramente sarebbe morto, se non ci fossi stato io. Nel momento stesso in cui è venuto al mondo, tutti sapevano che era destinato a regnare. Ma erano in molti a sperare che morisse: i neonati sono fragili, si sa… E lui non aveva nessuno che potesse proteggerlo, dacché Uther, il Dragone Rosso, colui che lo aveva avuto da una donna sposata, era morto cadendo da cavallo. Una morte strana, per uno come lui, che cavalcava come il vento. Ma quando si scoprì che la lama di un coltello aveva tagliato la cinghia della sella allora tutto fu più chiaro. Lo portai via quella notte stessa, per affidarlo a ser Hector, il duca cristiano di Tewdric, affinché lo allevasse con suo figlio Kay e lo proteggesse dai pericoli che lo minacciavano… finché non fosse giunto il suo momento. Era una notte d’inverno, e nevicava, quando lasciai il castello di Powys con quel bambino fra le braccia.

 

-Io venivo via dal castello di Powys, quando vi ho incontrato. Un posto desolato. Una dama mascherata si consuma nella solitudine, in quel nido di corvi, con la sola compagnia di alcuni vecchi servi, un ronzino dal mantello falbo e una coppia di cani d’Irlanda alti come puledri. Un posto da dove, ne sono sicuro, qualcuno ha aizzato contro di me un falcone da caccia, con l’intento di cavarmi gli occhi. Non avrei provato meraviglia, se avessi visto biancheggiare ossa umane in mezzo all’erba. Ma la dama è stata gentile con me. Mi ha offerto cibo, alloggio, abiti nuovi in luogo degli stracci sudici che mi portavo addosso… E ha diviso con me il suo letto.

 

Maximus fremette, ricordando quei momenti. E anche Taliesin strinse forte nelle mani che sbiancarono le redini del suo piccolo pony.

-Morgana. I pericoli che minacciavano la vita del piccolo Artù era da lei che venivano. Aveva dodici anni, quando sua madre l’ha messo al mondo, ma il seme che l’aveva ingravidata non era quello di suo marito. Brochavael è morto combattendo prima ancora che il figlio di Uther nascesse e la ragazza odiava sua madre, ritenendola colpevole di quanto la sorte aveva avuto in serbo per il duca di Powys, a cui era molto legata. Non ti fossi comportata come una donnaccia, ma avessi fatto il tuo dovere di moglie, di madre e di gentildonna, invece di lasciarti trasportare dalla passione, lui sarebbe ancora vivo. Lui, l’uomo che ad Ygraine era stato imposto, che l’aveva sempre onorata e rispettata, ma si portava appresso cinquant’anni e un profilo da caprone, mentre Uther… Purtroppo è così che va il mondo, mio giovane amico: ciò che abbiamo non è mai ciò che vorremmo.

 

Non aveva voluto prender marito, Morgana, la Volpe Rossa. Morgause, la sua sorella minore, a quattordici anni era andata in sposa a Lot di Orkney, il sovrano di una lontana terra settentrionale, mentre lei era rimasta orgogliosamente sola. Nessun uomo sano di mente prenderebbe con sé una strega, ma lei non sembrava affatto dispiacersene.

 

Il grande cavallo e il piccolo pony varcarono le mura di Camelot al tramonto. Il vento del nord aveva spazzato via le nuvole. Faceva freddo. La poca gente rimasta ancora per strada si affrettava verso casa a passo svelto.

 

-Mentre… Beh, ci siamo capiti… Mentre io e lei facevamo l’amore le è caduta la maschera. La duchessa di Powys ha il viso orribilmente sfregiato.

-Quella donna è… E’ esattamente ciò che siamo io e voi, cavaliere. Un’Immortale. Sarà costretta ad attraversare i secoli con quella maschera sul viso, se non vorrà leggere orrore e ripugnanza negli occhi che la guarderanno. E’ il castigo, questo, dovuto alla sua malvagità. Chi credete che volesse la morte del piccolo Artù? E Ygraine? La gente ritiene che sia morta di febbre, ma come non mettere in dubbio che non si sia trattato, in realtà, di veleno? E chi, se non lei, potrebbe aver tagliato la cinghia prima che Uther Pendragon montasse in sella?

-Allora chi ha voluto riportarla indietro dal mondo dei morti l’ha fatto con uno scopo ben preciso…

Taliesin guardò dritto negli occhi il suo interlocutore. Aveva fatto l’amore con quella creatura infernale, gliel’aveva confidato lui stesso. Un Immortale, si disse, non può ingravidare una donna qualsiasi, ma era possibile che potesse farlo con una come lui… Morgana, la Volpe Rossa, aveva adescato il bel guerriero che veniva dal passato proprio a quello scopo: per generare un figlio che diventasse strumento del suo odio e della sua sete di vendetta. Avrebbe voluto parlare, Taliesin il Mago. Ma a che pro? Se quel che doveva essere era stato, ormai era troppo tardi per porvi rimedio.

 

-Vi domandate chi e perché ha voluto che Morgana tornasse indietro dal mondo dei trapassati. Da solo, forse vi siete risposto che ciò è stato per volere dei nemici del nostro re. Oh, sono in tanti coloro che vorrebbero vederlo morto: i nobili che ambirebbero a prendere il suo posto. Aelle ed Hengist, i capi dei Sassoni, nostri nemici. Gli Scudi Neri di Demetia[8], i Pitti, i Caledoni e gli Scoti che premono al di là del Vallo di Adriano… I seguaci della Vecchia Religione perché Artù è cristiano, il clero cristiano perché il nostro re è troppo tollerante nei confronti di chi si ostina a venerare gli Antichi Dei. Invece…

-Invece?

 

-Fui io, malgrado possa essere difficile crederci. I nostri passi nel mondo sono segnati nelle stelle, il destino di ciascuno di noi è scritto nel momento stesso in cui veniamo al mondo. Questo per dirvi che non avrei dovuto farlo. E che spero di non dovermene pentire, ma è stato più forte di me.

-Perché dite questo?

 

-Ascoltatemi, giovane amico. E’ capitato non più di un anno fa. Siete stato suo ospite, e avete visto dove e come vive la duchessa di Powys: sola, se si eccettuano un paio di famigli decrepiti, un vecchio cavallo e una coppia di grossi cani. Il suo unico passatempo è la caccia con i falconi, che alleva e addestra personalmente. E’ molto abile in questa difficile arte, mi si dice.

-Ne convengo. Adesso immagino chi possa essere stato ad aizzarmi contro quel dannato uccellaccio, quando…

-Morgana non è certo una donna ricca, ma il suo sangue nobilissimo e la sua grazia hanno nel tempo attirato numerosi pretendenti le cui profferte lei ha sempre ricusato con sdegno. Dev’essere stato un suo pretendente respinto a regalarle il falcone che le ha sfregiato la faccia, per vendicarsi di essere stato umiliato in quel modo. E’ stato in conseguenza di quelle ferite che Morgana è morta.

Non si muore a causa di qualche graffio, per quanto profondo e deturpante possa essere o forse… Forse gli artigli dell’animale erano stati avvelenati, magari semplicemente insudiciati con terriccio, ruggine ed escrementi. I Germani, a volte, lo facevano con la punta delle loro frecce, pensò Maximus. La conseguenza erano ferite da poco conto a cui non si badava, ma che di lì a pochi giorni scatenavano nel sangue un’infezione violentissima, che portava alla morte tra atroci sofferenze.

-Gli spasimi l’avevano appena uccisa, quando due donne vennero a cercarmi per chiedermi di fare quello che poi ho fatto: Maeve, la sua vecchia nutrice. E una ragazza piccola, minuta, dai capelli che avevano il colore dei raggi della luna. Nimue. Vivian…

L’ultima luce del giorno illuminò gli occhi del vecchio e Maximus abbassò la testa. Avrebbe potuto chiederti qualsiasi cosa, la fanciulla dai capelli di luna e tu l’avresti fatta, grande Mago. L’avresti fatta perché uno sguardo e un sorriso di lei è bastato a farti perdere la saggezza, forse la ragione. Con tutti gli anni e tutta la sapienza che ti porti dietro, Taliesin. Merlino.

 

Una figura minuta attraversò la strada proprio davanti ai loro cavalli. Una contadinella, infagottata dentro una rozza tunica di stoffa grigia e con la testa avvolta da uno scialle di lana da cui fuggivano ciuffi di capelli lisci, di un biondo quasi albino. E’ magra e macilenta, si ritrovò a pensare Maximus, guardandola. Non è bella, ed è sicuramente meno giovane di quel che sembra vista da una certa distanza.

-Nimue… Vivian… -mormorò piano il Mago, drizzandosi sulla sella. Sei solo un vecchio ridicolo, Taliesin. Torna in te stesso. Non ti rendi conto di quel che stai facendo?

 

Quel che avrebbe voluto dirgli, rimase imprigionato nei suoi pensieri. Nimue aveva occhi freddi, incapaci di sorridere, e labbra dure. Maximus rabbrividì.

 

GINEVRA

 

A tre anni dall’arrivo di Maximus a Camelot.

 

La moglie del re, la sua regina, aveva lunghi capelli biondi e grandi occhi inquieti. Era bella, pensava Maximus. Bella e infelice. Lui aveva imparato a riconoscere a colpo d’occhio l’infelicità di una donna, in tanti anni che stava al mondo. Pur non somigliandole, gli ricordava Lucilla. Come a lei, altri le avevano cucito addosso il destino. Come lei, non aveva mai accettato la sua sorte accanto a un uomo che avrebbe dovuto amare, e non amava.

 

Il suo dovere di regina era dargli dei figli, assicurare al trono di Dumnonia una discendenza. Era importante, in tempi come quelli. Gli altri gliene facevano una colpa. Ed era davvero colpa sua, visto che, a vent’anni, Artù aveva avuto un figlio bastardo da una serva, un figlio di cui tutti sapevano. Un altro l’avrebbe ripudiata, costringendola a restare fino alla fine dei suoi giorni prigioniera tra le mura di un convento. Artù, invece, continuava a tenerla presso di sé, chiamandola mia regina ed onorandola, come se l’amasse per davvero. Ma è possibile amare qualcuno che neppure conosci e che vedi per la prima volta inginocchiato al tuo fianco davanti al prete che celebrerà le nozze? E’ giovane, di bell’aspetto e di animo nobile, le aveva detto la sua nutrice. Lo conoscerai, imparerai ad amarlo e con lui sarai felice. L’aveva conosciuto. Era vissuta al suo fianco, aveva giaciuto con lui accettando senza lamentarsi di onorare il debito coniugale. Ma non aveva mai imparato ad amarlo. Era alto, imponente, aveva uno sguardo franco e bei capelli folti. Era tutt’altro che brutto. Eppure, le ripugnavano il tono della sua voce, l’odore della sua pelle, le sue grosse lentiggini scure. Le dava fastidio la sua vicinanza. Quando facevano l’amore, non si preoccupava neppure di fingere il piacere che non provava.

 

Ginevra scostò le cortine della finestra, si sporse appena in modo da guardare senza essere vista. Nella grande corte, i cavalieri del re si esercitavano con le armi e nella lotta a mani nude. Maximus il Lupo veniva dal sud, anche se sembrava uno di loro. Veniva da quel che restava del grande Impero d’Occidente, un lembo di terra gettato come un ponte tra le brume dell’Europa e il sole dell’Africa, dove sorgeva Roma, un tempo faro di civiltà, adesso stalla dei cavalli di Thiuda[9] l’Amalo e dei suoi guerrieri ostrogoti. Doveva essere fuggito via da una realtà che non amava e rifiutava di accettare.

L’unica possibile fuga da una realtà tanto inaccettabile quanto ineluttabile sono i sogni, pensava la regina guardandolo, mentre insegnava i trucchi della lotta ad alcuni giovani paggi. Il suo corpo possente, lucido di sudore avrebbe potuto darle il piacere che non aveva mai provato, si ritrovò a pensare. Quell’uomo era bellissimo, proprio colui dal quale sognava di essere stretta, mentre fuori, nella notte, i lupi ululavano e cadeva la neve. Non aveva moglie, le era stato detto. Non aveva una compagna, un’amante, una donna qualsiasi con cui dividere il letto. Forse andava alla ricerca di quel che non aveva, e non gliene importava un bel nulla che lei fosse la moglie del suo re, aveva pensato un giorno Ginevra, ritrovandosi faccia a faccia con lui. Aveva un bel sorriso, ricordò, tratti delicati in contrasto con la corporatura massiccia e occhi incredibili: azzurri, venati di verde e spruzzati di gocciole d’oro; visto da lontano e armato dei suoi micidiali strumenti di morte, sembrava molto più alto e più grosso di quanto in realtà non fosse. E assai meno vulnerabile.

Erano soli, e vicini, tanto da confondere i rispettivi respiri. Non le avrebbe detto di no, non esiste al mondo uomo che lo farebbe, se una donna gli si offre, fosse essa pure la donna del suo re, a cui ha giurato lealtà a costo della vita. La piccola mano delicata della regina gli sfiorò il petto in una lenta, provocante carezza. Le labbra si protesero a cercare le sue.

-No. Ho giurato fedeltà al mio sovrano, e intendo rispettare i patti.

Maximus. Che tu sia maledetto. Il pensiero le attraversò come una folgore la mente sconvolta. Lo guardò allontanarsi, prima di andarsene anche lei, per rinchiudersi nei suoi appartamenti e piangere, lontana da occhi indiscreti, tutte le sue lacrime.

 

ARTU’

 

A diciannove anni dall’arrivo di Maximus a Camelot.

 

Presto sarà guerra, tra noi e loro. Presto saranno le armi a decidere a chi toccherà il dominio su queste terre, tra noi dell’Antica Razza e loro, i Sassoni dai capelli incolti e dagli elmi cornuti. Presto. Troppo presto, si ritrovò a pensare il Re, tracannando d’un fiato l’ennesimo bicchiere di idromele. Quel tempo era nell’aria già da quando, poco più che bambino, sfilai dal ferro e dalla roccia la lama arrugginita di Caledfwylch, ma in realtà speravo che non venisse mai. Invece è arrivato, proprio quando meno me l’aspettavo: adesso che sono solo, senza consigli e senza difese, senza un amico fidato, senza una donna nel cui calore cercare conforto. Parecchi suoi cavalieri erano partiti alla ricerca della più santa di tutte le reliquie, il Graal che le nebbie della palude di Glaston occultavano all’avidità degli uomini. Solo un cuore completamente puro avrebbe potuto sperare di portare a termine quell’impresa e offrire alla venerazione del popolo il santo calice che aveva raccolto il sangue di Cristo in croce e che, in tempi molto lontani, era giunto in quelle contrade portatovi da Giuseppe d’Arimatea, che di Gesù era stato apostolo e seguace. Alcuni non tornavano. Altri impazzivano. I più tornavano sì, ma l’amarezza e lo sconforto della sconfitta avevano fatto di loro altri uomini, ben diversi dai baldi e coraggiosi guerrieri che erano stati prima di partire.

 

Da poco meno di un anno, Taliesin era scomparso. Ritornerà, si era detto il Re, anche se il Vescovo sperava che l’avesse inghiottito l’inferno, perché quello era il posto giusto per gli empi e i ciarlatani suoi pari, per coloro che continuavano a rifiutare l’unico vero Dio pur di non rinnegare gli antichi idoli falsi e bugiardi dei loro progenitori.

 

E Ginevra… Artù tracannò d’un fiato l’ennesimo bicchiere. Lui l’aveva amata, e non solo perché gli era imposto dal dovere. E lei lo aveva ricambiato con la moneta del tradimento.

Quanti anni erano passati dacché Lancillotto aveva posato il suo piede sul sacro suolo di Dumnonia? Forse dieci. Preceduto da una fama di coraggioso combattente, era giunto da Benoic, nella terra di Broceliande[10] ed era stato arruolato nella guardia personale del re. Aveva fatto carriera in fretta, diventando in breve capo di quelle stesse guardie e guadagnandosi l’onore di prender posto alla sinistra del suo sovrano. Era diverso dai rudi guerrieri che sedevano intorno alla grande Tavola Rotonda e non dovette passare molto tempo prima che Ginevra lo notasse. Non era alto e massiccio, bensì agile e ben proporzionato. Conosceva il latino, sapeva leggere, scrivere, suonare il liuto e comporre versi. Gli piacevano le vesti eleganti, i profumi, portava i capelli, che erano neri e lisci, tagliati corti e teneva sbarbate le guance pallide. Ginevra, forse, non aveva creduto possibile che sulla terra esistessero uomini simili e lui era di quelli che sembravano nati per portare consolazione alle donne che, per una ragione o per l’altra, consumavano la loro vita nella malinconia e nella noia. In poco tempo, malgrado fossero entrambi sposati, i due erano diventati amanti. E Artù aveva sempre cercato di negare l’evidenza. Perfino quando Lancillotto e Ginevra erano fuggiti insieme. Non aveva ordinato ai suoi uomini di inseguirli fino in capo al mondo e di riportarli in catene a Camelot dove lei sarebbe stata marchiata a fuoco, rasata e seppellita viva in un monastero, mentre lui avrebbe conosciuto la sorte che spettava ai traditori, la morte per squartamento: il boia avrebbe legato le sue braccia e le sue gambe a quattro grossi cavalli, che sarebbero stati poi lanciati al galoppo in direzione dei quattro punti cardinali…

 

Artù si voltò verso la porta e il suo sguardo incrociò quello di Maximus. Non lo aveva sentito entrare, perché quell’uomo gagliardo aveva il passo leggero di una lince sulla neve. Come farà, si era sempre domandato. Allo stesso modo in cui si era domandato come avesse fatto a fermare il tempo. Nonostante fossero trascorsi quasi vent’anni, lui non era cambiato: non un capello bianco, non una ruga in più, un dente guasto, un filo di grasso superfluo. Dimostrava trent’anni, e doveva averne più di cinquanta. Il re, invece, a quaranta sembrava un vecchio. Gli occhi di Maximus gli bruciavano sulle chiazze di calvizie, sul viso rosso e gonfio da bevitore, sulle cornee iniettate di sangue. E la pietà che non riuscivano a nascondere gli faceva più male di una ferita.

 

-Mi sono sempre chiesto come sia possibile… che voi non invecchiate come tutti quanti gli uomini. Siete… uno stregone, messere?

-Dimenticate che a uno stregone dovete tutto quanto. Compresa la vostra stessa vita.

-Taliesin… Chissà che ne è stato di lui.

Vi manca, Sire. Siete perso, senza di lui e senza quelle certezze che credevate inamovibili. Specialmente adesso, che i tempi si sono fatti difficili, per voi e per il Regno.

-Ho ricevuto, molto tempo fa, un dono che a pochi è dovuto. Un dono d’amore che è diventato una maledizione.

-L’immortalità…messere? Non vi invidio.

 

Maximus si era accomodato su uno sgabello, ai piedi del re. Raccontatemi di voi, gli aveva domandato Artù con voce ubriaca, e lui gli aveva detto tutto. Ho oltre trecento anni. Nella mia vita mortale, sono stato un generale al servizio dell’imperatore Marco Aurelio e uno schiavo durante il regno del suo figlio e successore, il turpe Lucio Aurelio Antonino Commodo. Mi costringevano a combattere per il sollazzo della plebaglia ed è stato nel corso di uno di questi duelli che sono morto, colpito a tradimento dallo stesso imperatore, che era un pazzo sanguinario e si dilettava a battersi nell’arena con i gladiatori. La vita eterna è un dono di Annia Lucilla Galeria, principessa imperiale, che mi amava di un amore senza speranza.

 

Lo sguardo limpido di Maximus si era velato di tristezza. Parlatemi della grandezza di Roma, parlatemi dell’impero più potente che sia mai esistito, messere. Voi avete conosciuto quei tempi… Che oggi non sono più quelli, Sire. L’Impero d’Occidente è crollato sotto i colpi dei barbari, quello d’Oriente vive nell’isolamento rivangando i ricordi di una grandezza che è stata e adesso non è più. Il passato non torna.

 

-Prima di chiedervi licenza e di andarmene, voglio dirvi una cosa soltanto, Sire. Il giovane Galahad di Benoic è tornato dall’isola di Avalon…

-A mani vuote e con il cervello sconvolto, come quelli che lo hanno preceduto.

Maximus scosse la testa.

-Recava con sé il Sacro Calice. Una semplice ciotola di legno, non molto diversa da quelle di cui si servono i contadini per consumare i loro pasti.

-Ha compiuto una grande… impresa. Immagino che dovrò riceverlo.

Sul volto del suo interlocutore, il Re vide disegnarsi un sorriso mesto.

-Non sarà necessario che riceviate con tutti gli onori il figlio del traditore Lancillotto. La fatica e la febbre delle paludi hanno consumato il suo corpo. Galahad di Benoic è morto, Sire.

-La profezia diceva che soltanto un giovane nel cui cuore non albergasse ombra di peccato sarebbe potuto riuscire nell’impresa. Povero ragazzo.

-Non aveva ancora diciotto anni.

-Ed era puro come un fanciullo. Sembra impossibile che nelle sue vene scorresse lo stesso sangue del traditore.

-Già. I lombi di un traditore possono generare un santo. Nello stesso modo in cui quelli di un galantuomo possono generare un assassino.

 

MORDRED

 

Il duca di Powys chiede di essere arruolato tra i vostri cavalieri, Maestà. Ma non era morto da quasi quarant’anni, Brochvael, il duca di Powys? A meno che quella pazza di Morgana non si fosse finalmente decisa, all’età che aveva, a prendere marito e a trasmettergli il suo titolo, com’era giusto che fosse. Già, quanti anni aveva, sua sorella? A conti fatti, pensò Artù, dovevano essere più di cinquanta. Chi se l’era presa non poteva essere un giovincello con la testa piena di sogni di gloria.

 

-Maestà…

Era ancora inginocchiato e inchinato al cospetto del re, quando Maximus entrò nella sala del trono. Il giovane cavaliere vestiva completamente di nero e aveva capelli sfumati di biondo che gli ruscellavano giù per le spalle possenti. Dritta accanto a lui, stava una piccola dama vestita di bianco che l’Immortale riconobbe subito, malgrado non l’avesse vista che una volta, di sfuggita e per pochi istanti: Nimue, colei che aveva saputo accendere il fuoco del desiderio nel vecchio sangue di Taliesin. Aveva i capelli color della paglia, gli occhi freddi e le labbra dure.

 

Quando il giovane duca di Powys, ricevuta sulla spalla la piattonata della spada che lo proclamava ufficialmente cavaliere, si drizzò in piedi sollevando orgoglioso la testa, il cuore di Maximus mancò un battito. Aveva avuto un figlio, in quell’altra vita. Un figlio colpevole solamente d’essere sangue del suo sangue, ma tanto era bastato agli scherani di Commodo per prendersi la sua piccola vita innocente. Se lo avessero lasciato vivere, forse avrebbe avuto le spalle larghe e i lineamenti delicati del duca di Powys. Era bellissimo, pensò l’uomo con orgoglio. Gli somigliava, anzi, sembrava la sua immagine speculare: stesso profilo perfetto, stesse sopracciglia folte, stesse labbra tenere. Non portava la barba, però, e gli occhi erano più chiari, di un verde trasparente, freddo. Era figlio suo e di Morgana. Ed era immortale. Come sua madre e suo padre.

 

Artù non si era domandato come mai il ragazzo si fosse fatto accompagnare da quella piccola dama bionda, invece che da sua madre. Pur non avendola mai più incontrata, sapeva dell’incidente. Morgana era stata aggredita e sfregiata da un falco; le sue ferite si erano infettate e, non fosse stato per Taliesin e i suoi impiastri a base di erbe le cui virtù erano note a lui soltanto, sicuramente sarebbe morta. Si era salvata ma, essendo rimasta sfigurata, non amava mostrarsi in giro, il che era perfettamente comprensibile. La dama bionda si era presentata con il nome di Vivian e aveva detto di essere madrina e tutrice del giovane. Si muoveva con grazia e aveva una bella voce, ma gli occhi erano freddi, e le labbra non ridevano.

 

Il giovane cavaliere somigliava a Maximus come una goccia d’acqua. Quella cagna di Morgana doveva aver giaciuto con lui, una ventina d’anni prima, e i risultati gli stavano davanti: un figlio bastardo, a sua vergogna e disonore. Un figlio bastardo, esattamente come me, pensò il sovrano. Era alto e vigoroso, il duca di Powys. Qualche anno ancora, e sarebbe diventato identico a suo padre in tutto e per tutto. Chissà se da lui aveva ricevuto in eredità anche il dono della vita senza fine.

 

Il giovane duca di Powys appariva serio, compreso nel suo nuovo ruolo di cavaliere. Maximus non dubitò nemmeno per un attimo che non potesse essere abile con le armi e coraggioso come lui. Tuttavia c’era qualcosa di strano nella sua immobilità, nei suoi occhi gelidi, nel fatto che non poteva non aver notato la loro somiglianza e riusciva, nonostante tutto, a ostentare tutta quell’indifferenza. Possibile che non avesse mai chiesto di suo padre alla donna che lo aveva generato e allevato da sola? Possibile che, una volta cresciuto, non si fosse posto delle domande a riguardo?

Sembrava più grande dell’età che aveva, ma anche lui a diciotto anni ne dimostrava di più, pensò Maximus. I suoi occhi lo percorsero da capo a piedi, osservando ogni dettaglio della sua figura, dalle ciglia lunghe al pugno di lentiggini che aveva sotto gli occhi e sul dorso del naso, dai capelli quasi biondi, che portava lunghissimi al busto muscoloso e possente, sotto la casacca di seta nera, fregiata proprio in mezzo al petto, della figura stilizzata di un falco che calava in picchiata sulla preda. Lui mi guarda con indifferenza ma io, che avevo un figlio e l’ho perduto, io che disperavo di poter conoscere un’altra volta le gioie della paternità, dovrei stringerlo a me e dirgli quanto gli voglio bene, invece… Invece è come se il mio cuore fosse imprigionato in un blocco di ghiaccio che niente e nessuno potrebbe mai sciogliere.

 

-Rivelateci il nome che vi hanno dato quando siete venuto al mondo, mio giovane amico.

Il cavaliere non rispose al suo sovrano chinando rispettosamente la testa orgogliosa. Lo guardò, anzi, dritto negli occhi .

-Mordred[11]* di Powys.

Mordred. Assassino. Un brivido gelido attraversò come una folgore tutto il corpo di Maximus, l’Immortale.

 

EXCALIBUR

 

Maximus si avvolse nelle coperte di pelliccia gettate in disordine sopra il suo letto. Tremava di freddo, ed erano anni che non provava sulla sua pelle un sensazione tanto spiacevole. Nemmeno dell’altra vita la sua memoria serbava un simile ricordo. Eppure, allora poteva ancora morire.

 

Una freccia sassone gli aveva trafitto la schiena, nell’inferno della battaglia. Una gran brutta ferita, di quelle che avrebbero portato un altro alla morte dopo giorni di agonia atroce, pensò. Ma non lui. Tuttavia doveva estrarla, se voleva continuare a combattere. Cercare di spezzarla, quindi d’estirparla via, per poi magari aspettare che quel dolore lancinante finisse di straziarlo. Si conosceva, sapeva che non sarebbe durato a lungo, pensò. Era riuscito a guidare il suo cavallo in un luogo solitario, a nascondersi in un folto di alberi. Liberatosi del pettorale di cuoio, si era appoggiato pesantemente al grosso tronco di una quercia, aveva spinto la freccia nella carne fino a quando non aveva sentito la punta uscirgli dal petto. Soffocando il dolore terribile, l’aveva strappata via. Ed era svenuto, per ritrovarsi nei suoi appartamenti chissà quanto tempo dopo, febbricitante e dolorante ancora. Lui, le cui ferite, per quanto gravi fossero, impiegavano pochi minuti a chiudersi e a guarire senza lasciare nemmeno la cicatrice.

 

La benda che gli fasciava il busto era chiazzata di sangue. C’era stata una lunga battaglia tra l’esercito di Artù e le orde di Aelle ed Hengist, nella valle del Thate. Una battaglia da cui, a causa di quella strana ferita, lui era stato costretto suo malgrado a ritirarsi. Qualcuno doveva averlo portato via, mentre era svenuto. Chissà che ne era stato del re. E di tutti quanti gli altri.

 

Sua madre sognava spesso. Ecco, di lei, morta nell’incendio della sua casa con il marito e il figlio minore quando lui aveva sette od otto anni, Maximus ricordava poco: gli occhi azzurri, i capelli castano dorati, il profumo di rose e di pane fresco che le aleggiava intorno. E il fatto che credesse nel potere divinatorio dei sogni. Sono avvertimenti che ti mandano gli dei, diceva sempre.

 

Lui aveva sognato la battaglia, mentre giaceva privo di sensi nel suo letto coperto di pellicce. Aveva visto i paladini stringersi in cerchio intorno al loro sovrano, difenderlo dagli assalti dei barbari Sassoni facendo mulinare le lunghe spade: Sagramor, che aveva la pelle nera ed era giunto lassù dalla Nubia che non conosce inverni. Galvano di Orkney, Owain, Llwellyn, Agravain, Kay, il fratellastro di Artù. Aveva visto alcuni di loro cadere, e un’ombra nera, minacciosa, torreggiare sul suo Re. L’ombra della morte. L’ombra del tradimento. Colpito alle spalle da un cavaliere che non era un barbaro Sassone, Artù era caduto. Pochi istanti soltanto, e nel sogno Maximus aveva visto balenare attraverso le fessure dell’elmo lo sguardo verde, trasparente e freddo del duca di Powys, il Cavaliere Nero. Di Mordred. Di suo figlio.

 

“Il re è morto. Lunga vita al nuovo re! ”

L’urlo della folla acclamante gli giunse ovattato all’orecchio. Salutavano Artù, il saggio sovrano che aveva sacrificato la vita al suo regno. Festeggiavano la sconfitta delle orde di Aelle ed Hengist. Festeggiavano il nuovo re, il parente più prossimo del monarca defunto, che non aveva avuto altri figli ad eccezione di un bastardo nato da una serva e morto in tenera età.. E la corona si sarebbe posata sulla bella testa bionda del duca di Powys, suo nipote, il figlio di Morgana e dell’amante che, per una notte, aveva diviso con lei il letto. Il figlio di Maximus, l’Immortale. L’ombra che, nel sogno, lui aveva visto incombere minacciosa su Artù. Mordred, che aveva il viso d’angelo e il cuore non meno nero delle sue vesti.

I sogni son solo sogni, si disse Maximus chiudendo gli occhi. Si sentiva terribilmente debole e sapeva che solo dormendo avrebbe potuto ritrovare le sue forze.

 

Passi pesanti di stivali ferrati lungo il corridoio lo svegliarono di soprassalto. Owen, il suo scudiero. Quando la luce della torcia che teneva in mano lo investì, Maximus notò una ferita sulla fronte, lo sguardo triste, i capelli imbrattati di sangue e di fango.

-La febbre è scesa, mio signore?

 

Owen si preoccupava della sua febbre invece che della paura, del dolore, della rabbia che doveva aver provato nel corso di quella che era stata la sua prima battaglia. Nessuno di quelli che sapevano l’aveva messo al corrente del segreto che rendeva invulnerabile il suo signore. Del resto, proveniva da un lontano regno del Nord e stava con lui da pochi mesi soltanto.

 

-Ser Sagramor e ser Agravain sono morti. Ser Galvano è ferito gravemente, è difficile che si salvi. E il nostro Re…

-Lo so.

-Sono io che l’ho trascinato lontano dal campo di battaglia. E sono io che l’ho visto cadere. Non è stato un Sassone a colpirlo, mio signore. E’ stato uno dei nostri. E’ stato…

Taci, so anche questo. La febbre mi ha mandato un sogno nel corso del quale ho visto tutto. Adesso è lui il re, Artù non ha lasciato eredi diretti e Mordred è figlio di sua sorella Morgana. Suo…e mio, Owen. Ed è… immortale.

 

-Artù ti manda questa, mio signore. Ha detto che sei l’unico degno di portarla: sono state le sue ultime parole.

Le dita di Maximus corsero lungo la lama ossidata, tastarono le scritte consunte e illeggibili della spada che Artù, ancora quasi bambino, aveva estratto da un incudine piantato nella roccia. Il segno del potere. Caledfwylch. Excalibur. Con delicatezza, la posò accanto a sé, sul suo giaciglio. E si addormentò di nuovo.

 

NIMUE

 

Non fu l’eco dei passi lungo il corridoio a svegliarlo. Fu la mano gentile di una donna, che gli scostava i capelli dalla fronte sudata. La luce del mattino che attraverso la finestra inondava la stanza, le illuminò la testa bionda, danzò per qualche istante sull’azzurro pallido delle sue pupille.

 

-Mi auguro che il sonno vi abbia fatto recuperare tutte le forze, messere.

Lo guardava con i suoi occhi senza espressione, Nimue, colei che aveva introdotto a Corte il traditore. Di lei, si diceva che sapesse la magia per averla appresa dallo stesso Merlino. Ma sicuramente non ne faceva l’uso che ne aveva fatto lui, e forse c’entrava qualcosa, con quella strana ferita che non voleva saperne di guarire.

 

-Conosco i segreti delle erbe e dei veleni per averli appresi dal grande Taliesin, colui che la gente chiamava Melino.

-E io conosco bene il MIO segreto, donna. Un sicario dell’imperatore Publio Elvio Pertinace mi ha piantato la sua daga nel ventre e la ferita non ha impiegato più di un’ora a guarire del tutto. Mi sono strappato dal cuore una freccia nell’anfiteatro di Emerita Augusta e…

-Siete immortale, messere.

-Questa ferita non può uccidermi. Ma non guarisce.

 

Nimue prese un piccolo pugnale che portava alla cintura e, con delicatezza, tagliò il bendaggio dal torso di Maximus.

-Si sta chiudendo. Certo, avete avuto proprio un bel coraggio a fare quel che avete fatto. A un altro sarebbe sicuramente costato caro. Estrarre una freccia che si pianta in profondità nella schiena facendola uscire attraverso il petto…

-Sapete anche voi che comunque non rischiavo di morire.

-Ma dovete aver sofferto. Il dono dell’immortalità non cancella il dolore.

Del largo squarcio, non restava più che un piccolo segno arrossato, appena sotto il capezzolo sinistro. Una piccola ferita, da cui stillava ancora qualche goccia di sangue scuro e di materia infetta.

-Lasciate che vi medichi. Impiegherete meno tempo a guarire del tutto.

 

Non le disse quel che avrebbe voluto dirle, vattene, lasciami in pace, strega, non ho bisogno di te per tornare ad essere quello che ero e sarò fino alla fine dei tempi. Ma le dita di Nimue erano abili e da quella piccola lesione ancora profonda smise presto di fuoriuscire sangue infetto. Adesso la febbre e il dolore se ne andranno, gli diceva, parlandogli come avrebbe fatto con un bambino malato. Certo, Taliesin era stato per lei un grande maestro di sapienza e di magia. Non era geloso dei suoi segreti, il Mago. Non aveva mai preteso di tenerli per sé. Nimue sorrise, e quel suo sorriso era freddo come uno strato di brina steso sopra un vetro.

 

-Il re è morto.

-Sul trono siede un nuovo sovrano, che farà grande Camelot e tutta la Britannia.

-Il re è caduto vittima di un tradimento.

Il dito sottile di Nimue gli si era posato sulle labbra, leggero e carezzevole come ali di farfalla.

-Shhh… Comunque sia andata, Artù è morto da eroe, messere. Ha salvato la Britannia e ha salvato la sua faccia. Cosa che non sarebbe stata possibile, se fosse sopravissuto. Nessuno fingeva di non vedere che il re, ormai, era ridotto all’ombra di se stesso, che beveva fino ad ubriacarsi per non sentire più niente e ottundere i suoi pensieri cupi nell’abbrutimento. I suoi cortigiani dicevano che le mani gli tremavano. E che, a volte, farneticava. Mordred non gli ha dato la morte per odio o per sete di potere, ma solo per pietà. E non lo farà rimpiangere, quando siederà sul trono.

 

Mordred. La dama sorrise, pronunciando quel nome. Sei bello proprio come lui, gli disse, mentre il dito che gli aveva posato sulle labbra era sceso a sfiorare i contorni delicati e forti della mandibola, la vena che gli pulsava sul collo. E come lui, sei immortale. Apparteniamo a una razza privilegiata, noi. Noi? Intendi dire che anche tu… Le dita di Nimue avevano preso a giocherellare con la peluria leggera che Maximus aveva sul petto. Gli si era seduta vicino, sul grande letto sfatto, coperto di pelli d’orso e d lupo, e continuava a provocarlo, con le sue carezze. Puoi avermi, se mi vuoi, aveva sussurrato con voce rauca, sfiorandogli un capezzolo, e poi chinandosi per baciarglielo. Certo. E, com’è successo a te, anche nel mio caso si è trattato d’un dono d’amore.

 

Maximus aveva trattenuto il respiro, quando la mano di Nimue si era insinuata sotto le coperte. Quella creatura che gli sorrideva invitante e dava piacere al suo corpo era malvagia. Malvagia e immortale. Era un pericolo contro il quale non esistevano difese e dal quale non gli era stato insegnato a guardarsi.

 

Nimue continuò a guardarlo e a sorridergli, mentre si apriva la veste. L’immortalità è un dono di Taliesin, gli disse. Era pazzo di me, e per me avrebbe fatto qualunque cosa, anche… Anche perdere se stesso.

 

E a te è bastato mostrargli questi per averlo ai tuoi piedi come un cane, le aveva sibilato lui toccandole ruvidamente e senza tenerezza i seni nudi. Piacciono anche a te, come sono piaciuti a lui, mio bel guerriero immortale venuto dal passato… Lascia che mi sdrai accanto a te, e che il mio corpo ti dia piacere. Io ti desidero, Maximus, e tu desideri me.

 

-Che fine ha fatto Taliesin?

Maximus era scattato in piedi, incurante della sua nudità, e aveva stretto nelle sue grandi mani i polsi sottili di Nimue. Adesso parlerai. Adesso mi dirai tutto…

 

-Taliesin era come Artù: non meritava di vivere.

-Lui è ciò che siamo noi, e non può morire.

-La nostra razza è fatta per dominare il mondo, ma lui aveva troppi scrupoli. E dire che era stato generato per quello… Per dominare il mondo. Lo sapevi che Merlino è figlio del demonio? Non te l’ha mai detto, in tutto il tempo che ha passato con te?

-Mi ha detto solo che nessuno può decidere per gli altri, e che siamo noi stessi gli arbitri del nostro destino, qualunque sia il sangue che ci scorre in corpo. Lui aveva scelto di non fare del male agli altri, anzi, di mettere i suoi poteri al servizio del bene.

Nimue rise. Merlino dorme in una grotta nascosta nel cuore profondo e inaccessibile di una grande foresta. Lo avrei ucciso, se avessi potuto. Mi sono dovuta accontentare di addormentarlo. Ed è stato proprio quel vecchio idiota a rivelarmi le parole magiche per poterlo fare mentre io, lentamente, senza cessare di guardarlo negli occhi e di sorridergli, mi toglievo i vestiti davanti a lui… Temo che, nel profondo dell’inferno, il demonio si sia vergognato di quell’idiota di suo figlio.

 

Taliesin, che avrebbe potuto scegliere di fermare alla giovinezza l’avanzare degli anni nella sua esistenza senza fine, aveva scelto di essere vecchio per sempre. Nell’età in cui la vita ripiega su se stessa e le passioni s’acquietano, niente l’avrebbe distratto dalla ricerca della verità e del bene. Invece erano bastati il sorriso freddo di Nimue, il suo piccolo corpo provocante e le sue astuzie a perderlo per sempre.

 

Il mondo sarebbe stato suo, pensò Maximus guardandola. Suo, e di Mordred. Morgana era stata una pedina del suo gioco, proprio come lui. Certamente, a quella donna dal viso devastato e dalla bellezza distrutta non interessava stringere in pugno i destini del mondo, ma quel figlio generato con un altro immortale avrebbe annientato l’oggetto del suo odio, Artù: l’ultimo anello che mancava a chiudere la catena della vendetta, dopo Uther ed Ygraine. Nimue, che aveva riportato indietro Morgana dal Regno delle Ombre, l’aveva fatto per poter strumentalizzare a suo vantaggio i rancori che non si erano mai spenti, dentro il cuore solitario della duchessa di Powys.

 

-Allora, mio bel cavaliere?

Gli occhi trasparenti di Nimue scintillavano maliziosi sotto l’arco delicato delle sopracciglia. Quel che hai fatto di me è abbastanza, maledetta strega. Non mi lascerò incantare dai tuoi inganni, né avvincere dalle catene del sonno eterno, come Taliesin. E adesso vattene, sparisci dalla mia vista.

Nimue si coprì i seni e si sistemò le vesti senza cessare un istante di guardarlo. Non potrò usare con te l’incantesimo che ha annientato Merlino, ma non me ne importa niente. Mordred è re, io sarò la sua regina. E Dumnonia sarà presto troppo stretta per noi due. Non ci basterà il mondo, quando potremo mettere le mani su quello che Galahad di Benoic ha portato dall’isola di Avalon. Perché allora saremo davvero simili agli dei.

 

Le dita di Maximus sentirono l’acciaio di Caledfwylch, duro e freddo contro le calde pellicce che coprivano il suo letto. Ma sapeva che sarebbe stato inutile alzare contro quel mostro immortale la spada di Artù. Chiuse gli occhi, ritornò indietro con la memoria. Aveva quasi quattordici anni e di lì a pochi mesi si sarebbe arruolato nelle Legioni, quando aveva incontrato per la prima volta Eliazar, al mercato di Emerita Augusta. Era un vecchio ebreo che vendeva cianfrusaglie e conosceva bellissime storie. I progenitori del genere umano si chiamavano Adamo ed Eva, gli aveva raccontato. Vivevano in un giardino incantato, dove non esistevano pena, vecchiezza e morte. Erano liberi di fare ciò che volevano, ma Colui che E’ aveva proibito loro di cibarsi del frutto dell’albero che cresceva nel mezzo del giardino. Il demonio, in forma di nera serpe velenosa, li aveva tentati. Mangiate il frutto, aveva detto loro, e sarete simili a Dio. Loro si lasciarono tentare, e non ottennero quel che desideravano, bensì pena, vecchiezza e morte, in un esilio chiamato Terra.

 

EPILOGO

 

Maximus, prima di saltare in sella al cavallo, si cinse al fianco la spada Excalibur e guardò la ciotola che di lì a poco sarebbe sparita in fondo alla bisaccia. I secoli avevano consunto il vecchio legno di mirto nel quale era stata intagliata dalla mano di un artigiano non particolarmente abile: un oggetto modesto, rozzo, di quelli che trovano posto nelle case e sulle mense della povera gente. In quanti erano morti, in quanti erano impazziti per avere quella ciotola il cui unico pregio era il profumo sottile e un po’ amaro di legno aromatico che avrebbe regalato al vino in essa versato?

 

I Cristiani di Dumnonia e di tutta la Britannia dicevano che avesse contenuto vino e sangue. Il vino che Gesù aveva consacrato, il sangue sgorgato dal Suo corpo, quando l’avevano inchiodato alla croce. Dicevano che fosse giunta nella loro terra portata dall’apostolo Giuseppe d’Arimatea e che alcuni monaci la custodissero in un recesso segreto dell’isola di Avalon. La più santa di tutte le reliquie avrebbe consentito a chi ne fosse entrato in possesso di operare prodigi, ma solo un uomo dal cuore puro avrebbe potuto trarla fuori dal suo nascondiglio per mostrarla al mondo.

 

Nimue e Mordred avevano bevuto acqua di fonte dal Santo Graal. Fallo, e sarai simile agli dei, aveva detto la donna al giovane, come la madre di tutti i viventi ad Adamo, il primo uomo, mentre gli porgeva il frutto da mordere. Una voragine si era spalancata ai loro piedi, e il Nulla li aveva inghiottiti.

 

Una bruma verdastra e gli schiamazzi delle anatre in migrazione si levavano dalla palude di Glaston. Alcuni pescatori avevano indicato a Maximus la strada segreta, nascosta sotto l’acqua melmosa, che avrebbe permesso al suo cavallo di giungere ad Avalon senza rischiare d’essere inghiottito dalle sabbie mobili. Avevano tremato, guardandolo sfilare la lunga spada dal fodero. Doveva essere un brigante, uno dei tanti che infestavano la Britannia e che si sarebbe accontentato anche delle loro povere cose, le vecchie reti, le nasse, quattro carpe dalle carni insipide e che sapevano di fango ma che, anche quella sera, avrebbero dato requie ai morsi del loro stomaco. Invece il grande cavaliere solitario aveva pronunciato poche, enigmatiche parole, sono venuto a restituire, non a prendere, prima di gettare nell’acqua la sua spada e di guidare il cavallo lungo il cammino segreto che lo avrebbe condotto all’Isola Sacra. Non sapevano che la sua missione era quella di restituire Excalibur al suo re. E di riportare in quel luogo nascosto agli occhi avidi di un mondo che non sarebbe più stato quello che era, il Santo Graal.

FINE

I nomi delle località e dei personaggi sono tratti da “Excalibur” l’opera di Bernard Cornwell dedicata alle imprese di Artù e dei suoi cavalieri.

Lalla,

4 settembre 2002

 

 

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[1] Divinità della religione druidica.

[2] Il tempio megalitico di Stonehenge, vicino a Salisbury, Inghilterra sud occidentale.

[3] L’editto con cui venne concessa ai Cristiani la libertà di culto.

[4] Bevanda leggermente alcolica, che si ricava dalla fermentazione del succo di mela.

[5] Rispettivamente le attuali Bath, Gloucester, Salisbury e Londra.

[6] La festa pagana della Primavera, nel corso della quale si celebravano riti orgiastici e sacrifici umani.

[7] Forza e onore.

[8] Pirati irlandesi.

[9] Teodorico.

[10]  L’attuale Bretagna, in Francia.

[11] Molti studiosi dei miti arturiani hanno riscontrato la probabile derivazione del nome del Cavaliere Nero da un antico termine germanico di cui è evidente la parentela con l’inglese murder e il tedesco Mörder (assassino). Anche il nome che designa il feroce mustelide sterminatore di galline, la martora, avrebbe questa derivazione.