Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore

Lettura sconsigliata ai minori di anni 18

 

 Massimo l’Immortale

L’ETA’ DEI MARTIRI

 di Lalla Usai

 

Tergillium, provincia Senatoria dell’Hispania Baetica, Anno 1037 dalla fondazione di Roma

 

L’ORTOLANO

 

Come tutti i giorni, Prisco si era svegliato al canto del gallo; Dies Jovis, giorno di mercato e di affari. Magri affari che gli consentivano di tirare avanti alla men peggio, ma i tempi erano quelli che erano e non c’era, per la gente come lui, altro da fare che star zitti, in attesa di giorni migliori che, c’era da scommetterci, non sarebbero venuti. L’Impero non era più quello dei bei tempi di cui lui sapeva qualcosa solo per sentito dire, il suo nome non faceva di sicuro tremare dallo spavento i barbari che non si accontentavano di premere lungo i confini ma andavano rosicchiando porzioni di territorio sempre più vaste. Loro ingrassano, noi rimpiccioliamo. E’ così che va il mondo, oggi a me, domani a te. Ma c’era di peggio: anni di anarchia e disordine avevano portato all’inflazione, alla svalutazione della moneta, alla miseria. La plebe, piuttosto che lavorare, preferiva trasferirsi nelle città e campare di elemosine. Scarseggiava chi fosse disposto a spaccarsi la schiena sulle zolle, e i generi di prima necessità erano diventati in conseguenza di ciò introvabili e carissimi.

Brutti tempi. Già. Anche in quell’angolino tranquillo di mondo, anche per uno come lui, che era abituato da sempre ad accontentarsi di poco.

 

Prisco si era sbarbato, aveva indossato una tunica lavata di fresco e tanto logora da supplicare d’essere gettata nell’immondizia, ma non c’era abbastanza denaro da comprare la stoffa per confezionarne un’altra. Aveva caricato le canestre della verdura e i bidoni del latte sul carretto, aggiogato la mula… Povera bestia, era talmente vecchia, magra e sbilenca che a stento si reggeva in piedi, ma se non c’era denaro sufficiente a comprare una tunica nuova, beh…un somaro o una mula in condizioni appena più decenti di quella costavano molto di più.

Prima di mettersi in cammino, sbocconcellò la sua colazione, un tozzo di pane appena sfornato, due morsi di salsiccia e un sorso di vino. Poi salutò Priscilla, come sempre. La sua unica figlia. Aveva già vent’anni, e ancora non si era sposata. Già, altra dote non aveva se non le sue mani, ma un bravo giovane avrebbe potuto trovarselo lo stesso, gliene fosse importato qualcosa. Era un’ottima padrona di casa e una gran bella ragazza, almeno, a dar retta al suo poco obiettivo giudizio di padre. Bella come la sua povera mamma, che era morta di febbre maligna quando lei aveva un paio d’anni soltanto. E Prisco non aveva avuto il coraggio di mettersi in casa un’altra moglie, sicché la bambina era stata cresciuta da Calpurnia, la serva addetta alla casa e alla cucina. Una brava donna, anche se aveva la testa piena di idee strampalate. Che fosse cristiana, Prisco l’aveva sempre sospettato, ma non glien’era importato mai più di tanto. Gli seccava, semmai, che avesse potuto ficcare nella testa di Priscilla le sue idee strampalate: il peccato, l’aldilà, la purezza… Molte donne cristiane sceglievano di non prendere marito per consacrarsi totalmente al loro dio, come se questi avesse potuto proteggerle e mantenerle, quando fossero rimaste sole al mondo. Non aveva mai sentito, per la verità, Priscilla fare discorsi del genere, ma d’altra parte non sembrava neanche tanto ansiosa di prendere marito, come le altre ragazze della sua età.

Calpurnia, ragionò Prisco, in trent’anni che stava a casa sua, non aveva mai avuto uno straccio di uomo: voti o non voti, non doveva esserle costato chissà cosa, brutta com’era. Tanto brutta che neppure l’altro schiavo che stava a casa loro, Maccio, il quale aveva quasi sessant’anni e si reggeva in piedi a stento come la mula aggiogata alla carretta, non l’aveva mai voluta e aveva sempre provveduto a soddisfare le sue voglie con le baldracche, quando il padrone se lo portava appresso in città. Una come Calpurnia poteva anche aver scelto di consumare nella solitudine la sua vita, ma Priscilla? Prisco pensò che al podere ci sarebbe stato bisogno di un uomo giovane e forte. E che gli sarebbe piaciuto vedersi ronzare attorno tre o quattro nipotini.

 

Il mercato di Emerita Augusta aveva visto tempi decisamente migliori di quelli, pensava Prisco. Pochi venditori, pochi clienti. E la novità dei prezzi calmierati. Per frenare l’inflazione galoppante, l’imperatore Diocleziano aveva imposto prezzi politici ai generi di prima necessità: c’erano sanzioni durissime per chi sgarrava, il remo, le miniere, le bestie. Certo, era difficile, per chi cavava da pochi iugeri di terreno quattro cavoli e due misure di ceci mandare avanti la baracca… L’imperatore era convinto che per salvare il salvabile fosse diventato necessario il pugno di ferro, oltre alla divisione dell’impero e del potere tra due Cesari e due Augusti.[1] Il calmiere sui prezzi. I figli dei contadini legati alla terra, il controllo dell’emigrazione dai campi alle città… Palliativi, pensava Prisco, che avrebbero ritardato lo sfascio, ma non lo avrebbero evitato. Meglio non parlare, pensò, caricando sul carretto le canestre pressoché vuote. Aveva venduto quasi tutto, e poteva ritenersi soddisfatto. Era giunto il momento di mettersi in cammino per tornare a casa.

 

Era possibile, anzi più che probabile che tutti i muri della città fossero tappezzati con quei manifesti eppure, strano a dirsi, Prisco ne aveva notato uno solo quando stava per oltrepassare la Porta Decumana.

 

Il rappresentante dell’Autorità Imperiale

informa i cittadini che l’appartenenza all’abominevole setta cristiana,

nonché la conversione ad essa e il proselitismo in suo favore

saranno considerati dall’Autorità stessa delitti capitali e perseguiti di conseguenza.

 

 

L’INCIDENTE

 

Quel che aveva appena letto turbò Gaio Prisco Vibio. Non era la prima volta che le autorità si scatenavano contro i cristiani e i motivi non gli erano mai stati del tutto chiari. Insolenza e disubbidienza nei riguardi del potere imperiale, si diceva. Dei molti imperatori che si erano succeduti sul trono fino a quel momento, qualcuno aveva chiuso tutti e due gli occhi, riguardo a quello, altri li avevano spalancati entrambi. A Diocleziano, figlio di un liberto illirico, forse non importava più di tanto che i sudditi si inginocchiassero ad adorarlo: importava che gli ubbidissero ciecamente. E i cristiani non sembravano disposti a farlo, con le idee strampalate che si portavano appresso. Un dio, tanti dei…Che significava? Ma se non erano disposti ad adorarlo, non avrebbero avuto difficoltà a disubbidirgli, forse temeva quello. Anche se i Cristiani erano miti come conigli. Anche se il loro profeta, un certo Gesù, un capopolo giustiziato sulla croce durante il regno di Tiberio in base a motivazioni, si diceva, pretestuose, aveva predicato l’amore e la fratellanza tra gli uomini.

 

La mula proseguiva ad andare col suo passo sghembo lungo la strada che conosceva a memoria, e Prisco poteva liberamente abbandonarsi ai suoi pensieri tetri. Piuttosto che rinnegare il loro Dio, i cristiani preferivano morire, aveva sentito dire. E il più delle volte non si trattava di una morte rapida e pietosa: il crepitio delle fiamme, la trafittura dei chiodi, gli artigli delle belve ponevano lentamente fine alle loro esistenze, di solito dopo atroci torture e i carnefici non avevano riguardi per vecchi, bambini, donne…

 

Priscilla. Sono suo padre, si disse da sé solo, eppure non la conosco abbastanza. Era come se quella benedetta ragazza avesse sempre provato soggezione nei suoi riguardi, e lui non aveva perso tempo a chiedersi se fosse normale o meno. E’ normale. E’ cresciuta senza la guida di una madre, ma Calpurnia ha fatto il suo dovere. Io avevo troppi pensieri per la testa, troppo poco tempo per occuparmi anche di lei. Calpurnia le ha insegnato tutto quello che una brava donna deve sapere per essere la felicità dell’uomo che la prenderà con sé e la benedizione della casa dove andrà a vivere. Le ha insegnato quello che sa: cucinare, tener dietro alla casa, tessere la lana e confezionare gli abiti. Ne ha fatto una brava ragazza, modesta e rispettosa, la sposa che ogni padre desidererebbe vedere a fianco di suo figlio. Ne ha fatto… Potrei sbagliarmi, visto che con me non scambia mai più di qualche parola di circostanza, le mani strette l’una nell’altra, lo sguardo basso. Ne ha fatto…Forse ne ha fatto una cristiana, e le Parche non fileranno per lei uno spesso gomitolo, ma un esile filo che saranno il crepitio delle fiamme, gli artigli delle belve o la scure del boia a spezzare.

 

Non mancava molto al tramonto, quando accadde l’incidente. Turbato e confuso dai suoi pensieri, Prisco non si era preoccupato di far sentire, attraverso le redini, la guida della sua mano alla vecchia mula che peraltro conosceva la strada ed era sempre stata un animale mite e docile. Ma quel che lui non si aspettava certo di vedere, a quell’ora e su quella strada, non doveva aspettarselo neppure la vecchia bestia.

Un lupo. Un lupo gigantesco, dal folto pelame brizzolato, fermo in mezzo a quella strada che tagliava campi coltivati, in una serata tranquilla e calda di fine maggio. Sarà un cane, pensò, uno dei molti che aiutano i pastori nella conduzione delle greggi. Qui, a quest’ora e in questa stagione non può essere quello che penso…

 

La mula esitava a muoversi perché il suo olfatto, più fine di quello dell’uomo, aveva fiutato l’odore ostile del nemico. Muoviti, accidenti a te, aveva imprecato Prisco strattonando le redini. Gli passeremo vicino e potrò vedere che i suoi occhi sono scuri e al collo porta un collare irto di borchie. E’ solo un cane, maledetta te…Ci abbaierà contro, ci correrà dietro. Poi si fermerà. I cani lo fanno sempre. Lo farà anche questo qui. Ma… Si può sapere che…

 

Non l’aveva mai fatto. Forse perché l’animale che le aveva tagliato la strada aveva gli occhi verdi, un odore ostile e nessun collare borchiato intorno al collo. Perché invece di mettersi ad abbaiare, aveva alzato il muso al cielo e ululato. Come fanno i lupi nelle notti d’inverno.

 

Prisco cercò invano di frenare la corsa pazza della vecchia mula imbizzarrita. Chiuse gli occhi aspettando il peggio, quando seppe che il carretto stava per rovesciarsi. E prima che il dolore alla gamba imprigionata tra i rottami lo togliesse di coscienza, il suo ultimo pensiero fu per Priscilla che lo stava aspettando e per quel manifesto incollato sulle mura di Emerita Augusta, vicino alla Porta Decumana.

 

IL VICINO

 

Il dolore alla gamba fu la prima sensazione che percepì, tornando alla coscienza. Forte, tuttavia abbastanza sopportabile. Era vivo. Era salvo. Ed era al sicuro, disteso su un piccolo letto pulito, con la gamba steccata e fasciata dalla mano esperta di un medico o, quantomeno, di qualcuno che sapeva come ci si comporta, in quel genere di frangenti. A parte quello e qualche livido se l’era cavata abbastanza a buon mercato, pensò. Poteva andarmi molto peggio, se avessi battuto la testa, o se quel dannato lupo… Invece era andata bene, ringraziando i numi.

- Dove sono?

La luce di una grande lanterna illuminava una stanzetta sobriamente arredata con un letto, una sedia e un tavolino, e la figura alta di un uomo, in piedi accanto a lui.

- A casa mia. Salvo e al sicuro.

- Chi debbo ringraziare per l’aiuto che mi è stato dato?

- Il tuo vicino, Prisco Vibio. Mi dispiace solamente non averti incontrato prima e in circostanze più fortunate.

- Che cosa mi è successo?

- Hai una gamba rotta. Ho cercato di steccarla e di fasciarla alla meno peggio, è un po’ tardi per andare in città a cercare un medico. Ma domani manderò qualcuno a chiamarlo. E’ una brutta frattura, l’osso sporgeva fuori, ho dovuto cacciarti in gola succo di nepente per non farti sentire il dolore; credo di averla sistemata, ma tu cerca di non muoverti.

 

Resterò zoppo? Avrebbe voluto chiedergli. Resterò storpio fino alla fine dei miei giorni? Ma quello non era un medico, e non avrebbe saputo come rispondergli. Confida nella tua fortuna, Prisco Vibio. In quella stessa fortuna che ha fatto sì che non picchiassi la testa contro qualche grosso sasso, mentre cadevi. O che quel maledetto animale non ti saltasse alla gola e ti sgozzasse come fossi stato una capra.

 

Il suo vicino. Stava lì da poco più di un mese, e non si erano mai incontrati. Maccio e Calpurnia dicevano che era tornato al podere di famiglia dalla città, forse da Roma addirittura, per mettersi ad allevare cavalli. Era una grossa tenuta, la sua, in parte coltivata a grano e a frutteti, in parte adibita a pascolo dove i cavalli venivano tenuti allo stato brado. Cavalli lusitani, spagnoli, berberi e arabi, belle bestie da sella per gente che poteva permettersi di spendere. Anche lui doveva avere un sacco di soldi. Vista da lontano e da fuori, la sua bella casa in pietra rosa costruita in cima a una collinetta, era solida e vasta. C’erano tanti servi nei suoi campi e appresso ai molti cavalli che aveva comprato. Non era di certo quel che era lui, un poveraccio che tirava a campare facendo i salti mortali per mettere assieme il pranzo con la cena. E che adesso rischiava di restare storpio per tutta la vita, con le conseguenze che non era difficile immaginare.

 

- Priscilla…

- La chiamavi anche nel delirio. E’…

- Mia figlia.

- Dovevo immaginarlo. Prisco, Priscilla.[2]

- Sarà terribilmente in pena per me.

- Posso mandare qualcuno ad avvertirla, magari a portarla qui, se lo vorrà.

- Saresti gentile…Se lo facessi…

La penombra della stanza fresca e quieta non nascose del tutto la smorfia di dolore che, per un attimo, aveva alterato i lineamenti duri di Prisco Vibio. L’effetto del papavero stava svanendo, il dolore tornava a farsi sentire. E’ una ragazza testarda, avrebbe voluto dirgli. Testarda e temeraria come una capra di montagna. Sarebbe capace di venirmi a cercare, anche se è quasi buio e… E fuori ci sono i lupi, domine.

 

L’ANSIA DELL’ATTESA

 

Sarò qui alla solita ora. Affamato come un lupo. La solita ora era passata da un pezzo, e di Prisco Vibio neppure l’ombra. Un ritardo di quella portata non poteva essere dovuto a un semplice contrattempo e, più le ore passavano, più cresceva la preoccupazione di Priscilla.

Gli sarà senz’altro capitato qualcosa di brutto, pensava mentre la zuppa, e non solo quella di suo padre, si sfreddava nelle ciotole. E se prima Calpurnia l’aveva rincuorata ripetendole non è niente, sarà sulla via del ritorno, tra poco busserà alla porta, bimba mia non darti pena… beh, adesso non ci credeva più nemmeno lei, e s’era messa nelle mani del Dio in cui aveva fede, che era anche il suo, pensava Priscilla, e che era misericordioso e buono con chi gli domandava umilmente e a testa china una grazia. Se non torna andrò a cercarlo. A quest’ora? S’è fatto buio, piccola mia, è…

 

E’ l’ora dei lupi e dei briganti. Forse giace ferito in fondo a un burrone, forse ha bisogno di aiuto, forse…Priscilla si torse le mani, ricacciò indietro il pianto. Non crede in Te, Dio di misericordia, ma è un brav’uomo. E’ mio padre. E’ tutto ciò che mi rimane, al mondo. Come farò, se mi lascerà sola?

Qualcuno bussò alla porta, finalmente. Lui, e chi se no? Non avevano parenti, non frequentavano amici, era improbabile che, a quell’ora, potesse trattarsi di un acquirente interessato alle verdure che Prisco coltivava o alle tuniche che sua figlia cuciva e ricamava con abili mani per arrotondare le loro magre entrate. Lui, suo padre, pensava la ragazza, mentre si precipitava ad aprire. Lui, con il suo carretto, la sua vecchia mula e la preoccupazione di non aver portato a casa abbastanza denaro. Aspettami, avrebbe detto. Sistemo la mula e sono da te. Che hai preparato, per cena? Pane nero, zuppa di farro e bietole bollite. La cena modesta e frugale di chi non può permettersi molto, ma che l’affetto, la consuetudine e, perché no, l’appetito, rendevano altrettanto saporita delle pietanze sontuose servite nel corso di un ricco banchetto.

 

Suo padre. Fosse stato qualcun altro, Rufo, il grosso cane che, di notte, veniva lasciato libero di scorrazzare nel cortile, l’avrebbe fatto comprendere con i suoi latrati. Invece, se n’era rimasto a sonnecchiare nel suo angolino, come se niente fosse.

 

- Priscilla, mia signora…Vengo a nome di Gaio Prisco Vibio.

Non era lui, malgrado il cane non avesse abbaiato, malgrado non aspettassero di certo visite, a quell’ora. Aveva legato alla staccionata uno splendido cavallo bianco e la sua figura alta e forte non era quella di suo padre, che il duro lavoro e una vita quantomeno modesta se non addirittura grama, aveva piegato, incurvato e invecchiato anzitempo. Era molto più giovane di lui. Ed era un signore. Ma come faceva a conoscere il suo nome, se non l’aveva mai visto?

- Permetti che mi presenti: sono Massimo Decimo Meridio. Il tuo vicino.

 

Indossava una tunica bianca straordinariamente leggera e morbida che gli si modellava sui muscoli del torace e delle braccia, e aveva le gambe coperte da un robusto paio di brache, all’uso dei barbari e dei soldati. Roba buona e costosa, pensò Priscilla, che lavorava da sarta e sapeva riconoscere la qualità di una stoffa, ma che il nuovo vicino fosse un individuo pieno di soldi quello non era un mistero per nessuno. Anche se non l’avevano mai visto, né avevano mai immaginato come potesse essere.

 

- Entra…Domine.

E scusaci, stavamo per metterci a cenare. Ma adesso dimmi…Dimmi di mio padre.

La domanda le bruciava sulle labbra. Era venuto per dirgli di lui, il vicino ricco e misterioso. Di suo padre, che forse aveva trovato stremato e ferito, forse… No, Dio di misericordia, fa che non sia vero.

- Tuo padre sta bene. Ha avuto un incidente e ora è a casa mia, salvo e al sicuro.

Priscilla tremò, stentando a trattenere il pianto. E se quell’uomo non le avesse detto la verità, ma solo qualche bugia pietosa?

- La mula si è spaventata. E’ stato uno dei miei cani a farla imbizzarrire e adesso… adesso mi sento in colpa, Priscilla, mia signora.

Mia signora. Mai nessuno l’aveva chiamata così, e Priscilla se ne sentì lusingata, anche se Calpurnia le aveva insegnato che la vanità e l’alterigia dispiacciono all’Altissimo. E poi, non era il momento di pensare a certe faccende, quello, rifletté mordendosi il labbro perché quella leggera sensazione di dolore la riportasse con i piedi sulla terra.

- Mio padre…

- Ha una gamba rotta e qualche livido. Non corre pericolo di vita e, tempo un mese, sarà quello di prima. Ma non può e non deve muoversi, almeno per il momento.

- Mi stai dicendo la verità, Massimo Decimo Meridio?

- Lo giuro su quanto ho di più caro.

 

Quanto hai di più caro. Una moglie, dei figli? Il cuore mancò un battito, e non le era mai capitato niente di simile, prima. Massimo Decimo Meridio, il misterioso vicino che allevava cavalli nel grande latifondo confinante con la loro piccola proprietà, era un uomo di eccezionale bellezza, tanto per cominciare. Trent’anni o pochi di più. Capelli castani tagliati corti, occhi di un azzurro intenso e puro, dall’espressione franca, le mascelle forti e il mento volitivo incorniciati da una barba curata. Alto. Straordinariamente prestante, sembrava fatto per vestire l’armatura. Aveva una voce bassa e profonda, che l’ira avrebbe potuto trasformare in un ringhio e l’amore in una carezza.

Priscilla arrossì, come se lui o, peggio, Calpurnia, avessero potuto leggerle nel pensiero. E’ peccato, le avrebbe detto. Desiderare un uomo che per te non è niente e che potrebbe essere legato a un’altra donna è peccato della peggiore specie, come uccidere e rubare.

 

LA CENA

 

- Ti chiederei di fermarti a cenare con noi, domine, ma l’ora è tarda e a casa tua sicuramente ti aspettano.

- Mi fermerò volentieri, visto che è da mezzogiorno che non metto niente nello stomaco, per cui sto morendo dalla fame e a casa mia non ho nessuno a cui dover rendere conto dei miei ritardi.

Lo disse con un sorriso, e Priscilla sperò non avesse notato l’occhiataccia di riprovazione che quella noiosa Calpurnia le aveva saettato. Ah, così a casa ti aspettano solo i tuoi servi, Massimo Decimo Meridio. Come mai un uomo con tutte le tue belle qualità non ha una moglie, dei figli? La buona creanza le impediva di dirglielo ma non di pensarlo. E non le impediva di pensare che saperlo libero e solo le dava un’incredibile sensazione di sollievo, nonostante fosse la prima volta che lo vedeva e per lei quell’uomo affascinante e gentile altro non fosse se non un perfetto sconosciuto.

Minestra riscaldata, pane nero, bietole bollite. Il vicino doveva essere abituato a ben altro, pensava la vecchia Calpurnia scodellando la zuppa nelle ciotole. Bello, gentile, educato, un signore che non masticava sbattendo la bocca né sorbiva rumorosamente la minestra. Un signore abbigliato con semplice eleganza, che aveva legato alla palizzata un cavallo di gran razza, bardato con finimenti di cuoio adorni di borchie d’argento. Un signore capace di far girare la testa anche alle ragazze virtuose e di buon senso come la sua Priscilla, Dio le desse coscienza e discernimento, in un frangente come quello, e non la inducesse nel pericolo della tentazione.

 

Massimo trovò squisita la cena e si domandò da solo il perché. Non gli avevano certo servito nulla d’eccezionale: la zuppa era riscaldata, il pane sapeva di crusca e le bietole erano state condite con un filo d’olio, un pizzico di sale e nient’altro. A casa di Gaio Prisco Vibio si mangiava quello che mangiavano i poveri, seduti tutti intorno allo stesso tavolo, padroni e servi. Forse era l’atmosfera calda e familiare che si respirava in quella modesta casa di contadini a rendere, non meno dell’appetito, straordinariamente gustose quelle semplici pietanze servite dentro ciotole di terracotta.

- Un signore come te sarà abituato a ben altro, domine

- Ai cibi semplici e saporiti come questi e a mangiare stando seduto invece che stravaccato su un divano.

Calpurnia lo guardava con aria scettica, quasi avesse voluto dirgli non ti credo; Maccio, secondo il suo solito, s’era gettato sul cibo neanche fosse digiuno da tre giorni. E Priscilla? Gli sorrideva e lo guardava con cordialità e senza vergogna ma anche senza l’ostentata sfacciataggine con cui Massimo si era sentito osservare, molte volte nel corso della sua vita, dalle donne. Sembravano, più che la padrona e i suoi schiavi, una famiglia come tante. Genitori e figlia. O nonni e nipote, l’età l’avevano. Malgrado, questo lo sapeva per certo, il capofamiglia giacesse in un letto, a casa sua, con la gamba fratturata e il morale sotto i piedi.

 

Calpurnia e Maccio appartenevano alla categoria dei vecchi servi che non se ne sarebbero andati via neppure se il padrone li avesse affrancati e scacciati, un po’ per l’età e molto perché non conoscevano altra vita se non quella. La donna era alta e corpulenta, con un faccione verrucoso cotto dal sole e una gran massa di capelli brizzolati che le crescevano a due dita dalle sopracciglia. Lui era invece basso di statura ma nodoso e forte come un bastone, completamente calvo e con i denti gialli come quelli di un vecchio somaro. In quanto alla ragazza, naturalmente non somigliava ai vecchi, ai quali non la legava nessuna parentela, ma neppure al tozzo e corpulento Gaio Prisco Vibio. Era un’autentica bellezza, ma sembrava non rendersene conto, probabilmente perché nessuno, né suo padre, né quella vecchia serva dall’aria arcigna, né tanto meno un estraneo doveva averglielo mai fatto notare. Bruna e abbronzata come un’orientale, aveva occhi scurissimi, sopracciglia folte e denti candidi; portava i capelli, che erano di un nero corvino, raccolti in una treccia più spessa del suo polso, che le arrivava alla vita. Era alta, ben fatta, aggraziata e forte. Una brava figlia, amorevole, affettuosa e ubbidiente. E sarebbe diventata, a suo tempo, una brava padrona di casa, una moglie devota, una madre tenerissima e un’amante appassionata.

 

Che vado a pensare, guarda un po’… Si rimproverò Massimo da solo. In fin dei conti, non conosco questa gente. E non conosco questa donna anche se vedo che ha i capelli bruni, gli occhi sinceri e il sorriso caldo di qualcuna che ho amato e perduto, un mare di tempo fa.

 

CHE DIO TI BENEDICA

 

Quando Massimo si alzò da tavola, fu Priscilla ad accompagnarlo alla porta reggendo in mano la lucerna. Il sole era già calato da un pezzo, e il buio, rischiarato dalle stelle e dalla luna piena, aveva avvolto i campi, rendendo a malapena distinguibile il selciato grigio della strada e le sagome slanciate degli alberi piantati lungo i confini della piccola proprietà.

 

- C’è qualcosa che debbo dire a tuo padre, Priscilla, mia signora?

Cerca di guarire in fretta, perché qui c’è bisogno di te. Avrebbe voluto dirglielo, invece si limitò a guardarlo, con i suoi grandi occhi scuri, malinconici e sinceri. C’è bisogno di te, altrimenti chi potrà badare ai campi, farli fruttare il tanto che avrebbe permesso loro di tirare avanti? E chi avrebbe portato al mercato di Emerita Augusta le verdure e il latte delle mucche per venderli? Chi l’avrebbe accompagnata in città a consegnare i suoi lavori di sartoria alle clienti? Il Dio in cui aveva fede avrebbe dato risposta alle sue domande, non certo quello sconosciuto dal bell’aspetto e dallo sguardo gentile.

 

- Non dirgli niente. Anzi, digli che stiamo bene e…che gli auguro di guarire in fretta.

Gli occhi di lei cercavano di evitare i suoi che la guardavano, seri e interrogativi.

- Quel che è capitato a tuo padre è anche un po’ colpa mia, Priscilla, mia signora. Vorrei…Vorrei che mi chiedessi perdono per quel che è successo.

Chiederti perdono di quello che non so? Priscilla sorrise, scotendo la testa. L’uomo aveva un ventaglio di rughe sottili agli angoli degli splendidi occhi, una bella bocca delicata e denti candidi, squadrati e regolari. Non era facile reggere quello sguardo malinconico, dolce e seduttivo, e Priscilla abbassò il suo.

- Scusarmi con te? Di che cosa? E perché?

Gli disse tutto d’un fiato. Era sicura che non gli avrebbe risposto, che quelle appena pronunciate fossero solo parole di circostanza. E’ tardi. E’ ora che io rientri. Calpurnia, la mia governante, è molto severa con me. E girò sui talloni, per rientrare a casa, ma lui glielo impedì, trattenendola gentilmente per un braccio. Aveva grandi mani calde, e muscoli forti che gli si allargavano sulle spalle e sul petto. Priscilla si morse il labbro, cercò di distrarsi concentrandosi sugli abiti di buon taglio e ben rifiniti che l’uomo indossava, piuttosto che sul suo magnifico corpo. La tunica bianca era di un tessuto fresco e leggero che arrivava dalle Indie e i mercanti chiamavano lana d’albero.[3]  Costava un occhio della testa.

 

- E’ stato uno dei miei cani a spaventare la mula e a farla imbizzarrire. Povera bestia, aveva uno stinco spezzato e ho dovuto abbatterla. I cavalli e i muli non guariscono, se si rompono le ossa, al contrario di noialtri…umani.

Aveva esitato, nel pronunciare l’ultima parola o, più semplicemente, a Priscilla era sembrato così.

- Farò riparare il carretto, e gli regalerò un’altra mula. Mi sembra giusto risarcirlo di ciò che ha perso solo perché sono stato malaccorto e ho lasciato che quel… cagnaccio se ne andasse in giro da solo. E domani manderò qualcuno a prenderti, così potrai assistere tuo padre. Al raccolto, alle vacche, alla vendita del latte e delle verdure ci penseranno i miei servi e, quando Prisco Vibio sarà guarito, tutto tornerà come prima. Come se niente fosse successo.

 

Gli occhi scuri di Priscilla erano umidi di lacrime. “Che Dio ti benedica” sussurrò a fior di labbra quando l’uomo, con un balzo, fu in sella al suo grande cavallo bianco e cominciò ad allontanarsi. Chiunque tu sia, qualsiasi cosa si nasconda nel tuo passato e nel tuo presente, quale che sia il futuro che ti attende, sei stato buono e caritatevole, e meriti che il Padre Celeste stenda su di te la sua mano, come aveva fatto con il Samaritano della parabola.

 

La brezza fresca della sera gli portò all’orecchio le parole che la giovane, bella donna bruna aveva sussurrato a mezza voce. Che Dio ti benedica. E un lungo brivido percorse, gelido come le spire di un serpente, la schiena di Massimo Decimo Meridio, l’Immortale.

 

L’OSPITE D’ONORE

 

Verrai a stare da me. Domani stesso, così potrai tenere compagnia a tuo padre ed assisterlo. Ai campi e alle vacche ci penseranno i miei servi. Anche ad andare al mercato, ad accompagnarti in città, all’occorrenza. E quando Prisco Vibio guarirà, sarà come se non fosse successo niente. Nel frattempo, resterai a casa mia in qualità di ospite. Sarei onorato se accettassi.

Si era rigirata nel letto tutta la notte, pensando a tante cose: a suo padre, che chissà quanto stava soffrendo. Alla povera Calpurnia, che una proposta del genere avrebbe mandato sicuramente in confusione. Perfino alla mula, che, dopo anni di onorato servizio, aveva terminato in maniera tanto ingloriosa i suoi giorni. E a lui, al vicino, che era stato un mistero fino al momento in cui aveva messo piede nella sua casa e le aveva detto sarei onorato se accettassi la mia ospitalità senza scollarle dal viso i suoi grandi occhi azzurri, come se invece che una proposta che lei sarebbe stata libera di accettare o meno stesse formulando un ordine. Un ordine a cui avrebbe ubbidito, checché ne pensasse o facesse Calpurnia per tentare di distoglierla.

 

A cassetta del carro che era venuto a prenderla, c’era lui, non uno qualsiasi dei suoi servi. L’aveva salutata rispettosamente con un leggero cenno della testa e un sorriso. L’ombra della sera non nascondeva e sfumava nel buio la sua bellezza, ma quando Calpurnia fece per parlare, una sola occhiata di Priscilla le lasciò capire chi fosse la padrona e chi la serva, lì dentro. Il tempo che mio padre possa muoversi, e saremo di nuovo qui. Come se niente sia accaduto.

 

L’abitazione di Massimo Decimo Meridio era abbastanza lontana da casa sua: quasi un’ora di carro. Parlerà, e dovrò rispondergli, pensava Priscilla guardandolo. Questa volta era vestito come uno qualsiasi dei suoi contadini, tunica corta di ruvida lana, calzari robusti, braccia e gambe scoperte: ma né l’abbigliamento, né l’intensa abbronzatura della pelle avrebbero potuto trarre in inganno circa la sua condizione: quell’uomo aveva la bellezza di un angelo e il portamento di un principe.

 

- Come sta mio padre?

- Il servitore addetto alla sua assistenza mi ha riferito che questa notte si è lamentato parecchio. Il medico l’ha visto un paio d’ore fa, ha sistemato per bene la fasciatura e mi ha raccomandato di non propinargli più succo di nepente, anche se per qualche giorno potrebbe soffrire ancora parecchio. Quella porcheria non impiega molto a dare dipendenza: io ho sempre rifiutato di prenderla, anche quando ne avrei avuto bisogno, meglio un bel bicchiere d’acquavite.

Alla luce del sole, i suoi occhi le erano sembrati ancora più azzurri, i denti quadrati e forti ancora più bianchi. Aveva una brutta cicatrice sul braccio, il segno lasciato da una grave ferita. E quattro solchi paralleli, sottili e profondi, facevano capolino dallo scollo della tunica. Quelle cicatrici, il portamento dritto e fiero e, non ultime, le sue parole, indussero Priscilla a pensare che quell’uomo era o doveva essere stato un militare di alto grado. A pensarlo, già. E a chiedergliene conferma, senza temere di urtare la sua suscettibilità, ponendogli domande a cui probabilmente avrebbe preferito non rispondere.

- Sì, lo sono stato. Generale, al comando delle legioni del Nord. Quando si sta in alto, è facile cadere, Priscilla, mia signora. E anche farsi molto male.

Gli occhi erano diventati tristi, mentre rispondeva a quella sua domanda indiscreta, e Priscilla non gli domandò altro di personale. Non sembrava essersi offeso, ma il sorriso mesto che gli si era disegnato sulle labbra aveva finito con lo scoraggiare la curiosità della giovane.

 

- Non è da molto che ti sei trasferito qui.

- Poco più di un mese: la proprietà appartiene da generazioni alla mia famiglia, per cui intendo fare ammenda di averla a lungo trascurata. E poi sto bene, qui. Meglio che in qualche lurido accampamento a prendermi il caldo, il freddo, a mangiare male, bere peggio e rischiare la pelle.

Eh, già. La proprietà era, in fin dei conti il luogo di un esilio imposto dalle circostanze e forse mai del tutto accettato. La gente diceva che, oltre cento anni prima, la moglie e il bambino del padrone di quella tenuta erano stati massacrati dagli scherani dell’imperatore Commodo e, nelle notti senza luna, era possibile sentire i loro flebili lamenti. Anche a lei era sembrato di sentire qualcosa, certe volte. Ma doveva essere il vento, perché i fantasmi non esistono e i comandamenti di Dio condannano la superstizione come peccato grave, alla stessa stregua dell’assassinio, della menzogna e della lussuria.

 

IL LUPO

 

Non doveva mancare molto alla meta e, finalmente, Priscilla avrebbe potuto vedere suo padre, accertarsi delle sue condizioni e assisterlo nelle sue necessità. Guarirà più in fretta, con te accanto, le aveva detto l’uomo, sorridendole. Molto gentile, da parte sua. O forse lo faceva soltanto per sciacquarsi la coscienza, in fin dei conti, l’aveva detto lui stesso, era stato uno dei suoi cani a causare l’incidente che aveva provocato a Prisco una brutta frattura, la distruzione del suo carretto e la perdita della mula. In quel marasma di disgrazie, incontrarlo era stata una grande fortuna. Un galantuomo, come ormai se ne vedevano pochi. In tempi difficili spesso i sentimenti positivi sono soffocati dal mero istinto di sopravvivenza, si ritrovò a pensare Priscilla. Aveva sentito che, se erano numerosi i cristiani che preferivano affrontare la morte tra i supplizi pur di non rinnegare i princìpi in cui credevano, non erano tuttavia pochi quelli che, alla vista degli arnesi di tortura, offrivano incenso agli dei e si tramutavano addirittura in delatori, capaci di denunciare alle autorità i loro stessi correligionari. Lei, tutte le sere, pregava Dio affinché le risparmiasse quella prova. Anche Cristo, si diceva, aveva tremato dinanzi alla morte.

 

L’animale era sbucato da uno dei cespugli che fiancheggiavano la strada, e aveva una lunga coda pelosa, orecchie dritte, muso appuntito su cui rilucevano due acuti occhi chiari. Prima ancora che levasse al cielo il suono rauco e profondo di un ululato, Priscilla aveva capito di cosa si trattasse. Un lupo. Una creatura di Satana, affamata di carne e assetata di sangue umano. Il terrore le soffocò in gola un grido e la costrinse a fare quello che mai avrebbe fatto, afferrarsi ad un uomo che per lei era un estraneo, stringerglisi contro, nascondergli la faccia nel petto per non vedere gli occhi feroci e freddi del mostro che avrebbe richiesto il tributo della sua vita.

- Non hai niente da temere, Priscilla mia signora.

 

La voce bassa e profonda gli echeggiava nel petto mescolandosi al battito lento e calmo del cuore, al soffio del respiro. La sua pelle aveva un buon odore naturale e la grande mano aveva lasciato andare le redini per accarezzarle, lenta, i capelli e la schiena, come si fa quando bisogna calmare il pianto di un bimbo malato.

- Suscita una certa impressione in chi non lo conosce, ma non farebbe male a una mosca. Quando l’ho trovato, aveva pochi giorni e piagnucolava vicino a sua madre che stava morendo dissanguata, con la zampa imprigionata in una tagliola, segata fino all’osso e a tre fratellini morti già da un pezzo. Sarebbe morto anche lui, se non l’avessi preso con me, allevato a latte di capra e tenuto nel mio letto, la notte. Ha dormito rannicchiato sul mio stomaco finchè non è diventato talmente grosso da impedirmi di respirare. E’ solo la fame che rende feroci queste creature: lui mangia a sazietà quel che gli do io, mi lecca le mani, gioca con me e non mette paura ai cavalli della tenuta, che lo conoscono. Purtroppo la mula di tuo padre non lo conosceva, e Luperculus ha il brutto vizio di scappare e di andarsene in giro. Quel che è successo non riesco a perdonarmelo, ed è solo colpa mia.

 

I lupi sono creature del diavolo, così mi è stato insegnato. Glielo avrebbe detto, ma Calpurnia le aveva raccomandato tante volte di non parlare con gli sconosciuti di certe faccende: era pericoloso. E lui era uno sconosciuto, anche se la stringeva al petto per scacciare la sua paura e gli occhi gli brillavano come a un bambino, mentre le diceva dei suoi animali. Doveva amarli. Doveva comprendere il loro linguaggio misterioso come l’antico re Salomone, visto che era riuscito ad ammansire un lupo selvaggio e, il giorno avanti, s’era avvicinato a casa loro senza scatenare i latrati di Rufo, quel brontolone del vecchio cane da guardia. Restava uno sconosciuto, anche se si era abbandonata al suo abbraccio e il battito del suo cuore, il suono del suo respiro, l’aroma mascolino della sua pelle le davano lo stesso conforto che avevano dato al cucciolo senza madre e una sensazione di languore e struggimento che mai aveva provato, nel corso della sua vita.

 

Mi sto innamorando di te? Non ne sono sicura, ma forse è così. Già, anche se non so neppure chi sei e il brivido che ho sentito quando mi hai stretta al tuo corpo non può chiamarsi che peccato.

 

L’ESULE

 

Muri scabri di pietra rosa. Edera e caprifoglio. Profumo di gelsomini e fiori di campo in mezzo al grano. Frinire di cicale. Bellissimi cavalli liberi dentro vasti recinti. Era quel che il sole scaldava di giorno e la luna inargentava di notte, quando Luperculus piangeva con il muso rivolto verso le stelle. Adesso non le incuteva più paura, anzi, le piaceva giocare con lui, accarezzare la sua morbida pelliccia, rifilargli bocconcini succulenti di nascosto dal padrone, che non voleva. Così me lo vizi, le diceva sempre. E le sorrideva. Da quanto tempo non sorridevi più così, Massimo Decimo Meridio?

 

Era una bella casa, la sua, solida e sicura come un accampamento fortificato. I tempi sono quelli che sono, bisogna premunirsi, diceva sempre. Ma i barbari sono lontani da qui. Sono forti, Priscilla. E noi siamo deboli, anche se l’Imperatore sta cercando, a modo suo, di rimettere a posto le cose. Credi che possa servire a qualcosa quello che… che sta cercando di fare, Massimo?

 

Lui aveva scosso la testa: “A poco. Gli ubbidiscono solo perché lo temono. Ma quando abdicherà, o morirà perché gli dei hanno stabilito così o perché qualcuno deciderà di farlo fuori, la situazione precipiterà. Ho vissuto e visto abbastanza da capire che… che così vanno le cose, Priscilla. Da che il mondo è mondo”.

 

C’era, nella sua voce e nel suo sguardo, l’amarezza di chi ha vissuto mille vite e visto mille turpitudini. Forse era per sfuggire ai suoi demoni che aveva scelto l’esilio in quella grande villa isolata dove, all’infuori dei suoi servi, dei suoi acquirenti, dei suoi cavalli e del suo lupo addomesticato, era difficile incontrare altra anima viva. Tuttavia non si dimostrava né scontroso né solitario. Aveva deciso, consapevolmente, di vivere da esule per necessità, non per scelta. E da solo, chissà per quale misterioso motivo: senza una donna. Perfino i servi della casa erano tutti quanti uomini. Non hai moglie, Massimo Decimo Meridio? O forse l’hai avuta e… E’ morta? Ti ha lasciato? O sei tu che l’hai lasciata? Avrebbe voluto chiedergli tante cose, ma non lo fece. Sii prudente e discreta, le aveva raccomandato Calpurnia prima di salutarla.

 

- Ho sentito dire che in questo posto ci sono i fantasmi.

Una donna e un bambino. La moglie e il figlio di un generale che portava il tuo stesso nome e che si rese inviso al malvagio imperatore Commodo. Il despota li fece massacrare dai suoi scherani e quando lui, dopo una cavalcata estenuante, raggiunse il suo podere, non poté fare altro che seppellire a fior di terra due cadaveri bruciati e brutalizzati. Quando nel cielo brilla la luna piena, si sentono ancora i loro deboli lamenti. La donna implora pietà dai suoi carnefici, il bambino piange di paura, anche se non vorrebbe perché suo padre gli ha insegnato ad essere coraggioso. Suo padre. Quel padre che non era lì a salvarlo, mentre gli assassini lo inchiodavano, ancora vivo, alla croce, come…

 

Massimo la guardò, imprigionandole gli occhi nei suoi. Aveva un’espressione triste, una piega amara agli angoli delle labbra. Forse faceva male a pensarlo, ma Priscilla lo trovava straordinariamente affascinante. Capelli bruni. Occhi azzurri. Lineamenti quasi delicati. I modi gentili di un gran signore. Era l’istinto, non la ragione, che la spingeva a sfiorargli le dita delle grandi mani, che teneva appoggiate sulle ginocchia, mentre sedeva di fronte a lei. Avrebbe voluto domandargli tante cose, ottenere tante risposte. Avrebbe voluto tenerlo tra le braccia, come aveva fatto lui per calmarla quando il suo lupo addomesticato le aveva messo paura, e carezzargli lentamente la schiena e i capelli, sentendo il calore della pelle attraverso la tunica corta di stoffa costosa che indossava. Avrebbe voluto insinuare le mani sotto i suoi vestiti… E’ peccato, ha ragione Calpurnia. E’ peccato anche solo pensarlo. Priscilla scostò le dita come se avessero toccato il fuoco e vagò con lo sguardo lungo la grande sala spoglia. Pochi mobili, di una semplicità spartana. Alcune panoplie appese alle pareti. Daghe affilate, giavellotti, lance, le lunghe spade pesanti dei guerrieri del Nord. Scudi con sbalzati sopra teste di lupo, aquile, ghigni spaventosi di Meduse coronate di serpenti. Armi che appartenevano al suo passato di guerriero condannato all’esilio dal destino e dalle circostanze. Tutte, eccettuata la spada di legno che campeggiava su una parete completamente spoglia. Quello era il segno della riguadagnata libertà di chi ha vinto cento duelli nell’arena. Il rudis. Quasi sicuramente, una curiosità, un semplice oggetto da collezione.

 

- I fantasmi? Qui? Non devi crederci, Priscilla. I fantasmi non esistono.

 

L’APE

 

Priscilla si svegliò all’alba per preparare il pane, com’era solita fare quando stava a casa sua. Era un’ospite, non avrebbe dovuto farlo, per certe incombenze c’erano i servi… Servi maschi e maldestri, che cucinavano sempre le stesse pietanze e non mancavano di preparare puntualmente un pane ora azzimo, ora bruciacchiato, ora insipido che il padrone mangiava senza lamentarsi, come se ci fosse abituato e non conoscesse altro. E’ giusto che ricambi la sua ospitalità, in qualche modo. Un altro non sarebbe stato tanto gentile con suo padre e con lei. Lui era ricco, loro poveri. Loro non erano nessuno. Lui era stato grande e potente. In un’altra vita.

 

Doveva essere uscito a cavallo, per controllare il lavoro nei campi o per dare un’occhiata alle bestie. Non sarebbe stato semplice trovarlo, quella vasta tenuta non era il loro campicello. Ma lo avrebbe cercato e trovato, a costo di dover chiedere a qualcuno, pensò, stipando nella canestra il pane, una zucca piena di vino, qualche fetta di carne arrostita. A quell’ora, Massimo doveva aver fame e avrebbe gradito il vino fresco, la carne tenera, il pane soffice e bianco che Priscilla aveva impastato pensando a lui.

 

Aveva appena conficcato il tridente in un cumulo di fieno e si stava asciugando con il braccio la fronte sudata, quando la vide andargli incontro. Fa caldo. Non dovevi venire qui. E non dovevi disturbarti a prepararmi la colazione, quando nelle cucine ci sono i servi preposti a farlo. Tu qui sei un’ospite, non una serva.

 

Era a torso nudo, come un qualsiasi schiavo dei campi. Era bello e possente come la statua di un dio, e Priscilla non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo magnifico corpo, anche se avrebbe dovuto. Vattene, e fingi di non averlo neppure visto, le avrebbe suggerito Calpurnia. La paglia brucia, vicino al fuoco.

 

No, non sarebbe scappata via come un coniglio. Non dopo che lui le aveva sorriso e l’aveva salutata con un cenno della mano, invitata ad avvicinarsi. Le aveva detto non dovevi, proprio come immaginava, quando gli aveva porto il cestino con la colazione. Tuttavia le era stato grato di quel pane soffice, di quel vino che avrebbe rinfrancato la sua gola riarsa. E’ buono, le aveva detto. Ma non devi sciuparti le mani impastando pane, Priscilla mia signora. Si è mai visto un ospite fare niente del genere? Tu sei la mia ospite, non la mia cuoca.

 

Aveva gli occhi seri, le sopracciglia aggrottate, mentre le parlava, ma forse era solamente perché il sole gli dava fastidio. Il sudore gli scorreva in rivoletti sulla fronte e sulle braccia, si divideva in minuscole gocce che si fermavano luccicando tra i peli corti e leggeri che aveva sul petto.

- Non sono capace di stare a guardare senza far niente gli altri che lavorano e il risultato è che adesso puzzo come un cavallo, Priscilla mia signora.

- Dovrei…andarmene?

- Mi sto riposando, e mi fa piacere la tua compagnia. Se a te non dà fastidio aver vicino un uomo sporco e sudato.

Il lavoro non sporca, diceva sempre suo padre. C’è altro sudiciume che non si vede e non si sente, ma insozza e non si riesce a lavarlo via nemmeno con tutta l’acqua che sta nel mare.

 

Gli si sedette accanto, sul tronco di un albero abbattuto, e divise con lui la colazione, tenendo gli occhi bassi per non guardarlo, malgrado solo lei sapesse quanto desiderava farlo. Suo padre, pensava, non era ancora in condizioni di lasciare il letto, e quella situazione imbarazzante si sarebbe protratta chissà ancora per quanto: una bella giovane, ospite di un ricco, affascinante signore, unica donna in quella casa, onorata e rispettata come una principessa. Eppure… La paglia brucia, vicino al fuoco, ed era fuoco, quello che brillava in fondo agli occhi azzurri del padrone di quella casa e di quella tenuta e che le accendeva il cuore. Quel che succede a me sta succedendo anche a lui… Forse. Ci sperava, Priscilla, e alzò gli occhi da terra puntandoli verso di lui. Diverse cicatrici segnavano la pelle del suo corpo e, sulla schiena, era marchiato a fuoco, come se fosse stato schiavo. Ripensò al fatto che molti liberti avevano percorso brillanti carriere e che lo stesso Imperatore era figlio di uno di loro. Non era poi molto strano che lo fosse stato. Da schiavo a Generale. O, forse… Le cicatrici. Il marchio. Il rudis, la verga di legno dei gladiatori che si comprano la libertà versando il sangue degli altri: misteri che non aiutavano certo a far luce su un mistero più grande.

 

Chi sei? Guardami negli occhi e rispondimi, Massimo Decimo Meridio. Che cosa nascondi, dietro la tua bellezza, i tuoi modi gentili, la tua cortesia e la tua generosità? Non avrebbe potuto chiederglielo, e lo sapeva, pensava, mentre cercava di allontanare da sé con la mano una piccola ape che aveva cominciato a ronzarle intorno, richiamata dall’odore del cibo. Aveva notato degli alveari in quei paraggi.

- Sta ferma. Così la ecciti, invece di mandarla via.

Lui non aveva finito di parlare quando Priscilla sentì la dolorosa trafittura del pungiglione sul dorso della mano e vide l’insetto cadere ai suoi piedi con un ronzio sordo che si spense prima ancora che lei lo schiacciasse con la punta del suo sandalo.

- Dammi la mano, Priscilla.Bisogna estrarre il pungiglione. Non sei mai stata punta da un’ape?

La ragazza negò, scotendo la testa: aveva gli occhi lucidi e lasciò che lui le prendesse la sua tra le grandi mani calde.

- Quando pungono, muoiono. Non so se lo sanno o meno, eppure non esitano, se c’è da difendere lo sciame e l’alveare.

- Sono coraggiose. Più di me.

Massimo schiacciò tra pollice e indice la puntura, facendo uscir fuori con una goccia di sangue il pungiglione avvelenato, mentre una lacrima le attraversava, lenta, la guancia.

- Scusami.

Quante volte gli aveva mostrato che il coraggio non era il suo forte? Tante, troppe. In fin dei conti, non lo conosceva che da qualche giorno, e chissà quale opinione doveva essersi fatto sul suo conto. Una donna di vent’anni dovrebbe già avere un marito e dei figli, invece quella era capace solo di piagnucolare e lamentarsi.

- Una donna non è tenuta ad essere coraggiosa.

E le lacrime ti fanno gli occhi ancora più belli. Parole di circostanza, vuote parole senza senso. Le lacrime non fanno gli occhi belli e la vigliaccheria merita sempre e soltanto disprezzo e riprovazione.

- Adesso togliamo via il veleno, così non brucia più.

Le parlò come a una bambina, prima di posare la bocca sulla piccola ferita e succhiarla. Va meglio, adesso? Questo non lo so, avrebbe voluto dirgli. La grande mano di lui non lasciava la sua, mentre la lingua umida e calda gliela leccava, come faceva Luperculus quando, di nascosto dal suo padrone, gli porgeva bocconi di cibo sotto la tavola.

 

IL FUOCO E LA PAGLIA

 

- Promettimi che non impasterai più il pane per me. Non devi rovinarti le mani, Priscilla.

Chissà che gusto provava, a giocare con le sue dita sciupate dai lavori di casa e bucherellate dalla cruna dell’ago. A baciargliele, quasi a voler cancellare quei segni, quando lei gli aveva detto che, per guadagnare qualche soldo, cuciva e ricamava lavori che le venivano commissionati da alcune ricche matrone di Emerita Augusta. Non è giusto, le aveva risposto lui, senza lasciar andare la sua mano, guardandola fissa nei suoi con gli occhi chiari, acuti e dolci. Dovresti avere un uomo che ti mantenga, non è giusto che una donna come te consumi così la sua esistenza… ’aveva certamente pensato, anche se s’era guardato dal dirglielo, proprio come faceva lei. Anche lui temeva di ferirla, cercando di soddisfare certe sue curiosità indiscrete.

 

Sei bella. Lo pensò, Massimo, mentre lasciava andare la sua piccola mano sciupata, ma solo per stringersela contro e farle sentire il calore del suo corpo e l’urgenza del suo desiderio. Sei bella.

 

Le carezzò la guancia pallida piano, quasi avesse temuto di farle male. La vita non è stata giusta con te, Priscilla. Dovevi nascere principessa, non contadina. Le dita di Massimo le sciolsero le trecce, le si insinuarono tra i capelli che erano neri, folti, e le arrivavano alle natiche. Come quelli di Olivia.

 

Priscilla chiuse gli occhi, quando lui la strinse di più e le baciò la bocca delicatamente, un labbro alla volta. Si arrese, quando il suo bacio diventò più ardente e profondo, e gli rispose, anche se per lei era la prima volta. Calpurnia le avrebbe detto fermati, offendi Dio. Calpurnia le avrebbe detto c’è l’inferno, il fuoco che brucia per sempre, per chi pecca, e tu stai peccando, con un uomo che non è il tuo sposo, con un uomo che potrebbe essere legato a un’altra o che, anche se non lo è, farà presto a scordarti. Torna sui tuoi passi, Priscilla, prima che sia tardi.

 

Le labbra umide di Massimo le scesero lievi come piume lungo la gola e Priscilla sentiva il cuore impazzire e le gambe farsi acqua, man mano che le effusioni dell’uomo diventavano più audaci. Una sensazione tenera e violenta, da togliere il respiro, dolce e malvagia come miele mischiato con il veleno. Ricambia il piacere che ti sta dando così come hai ricambiato la sua ospitalità impastando il pane per lui, si diceva da sé sola, accarezzandogli il petto. Ma anche è una trappola, Priscilla. Un inganno del demonio. Fuggi, finchè sei in tempo.

 

- Massimo, no…

Chissà quanto le era costato, fermarlo, mentre sentiva la carezza dell’aria e delle sue dita sul seno che mai nessuno aveva osato scoprire e sfiorare, incendiandole il sangue. No, e perché? Io e te non ci apparteniamo, e quello che stiamo facendo non è giusto. Lo sarebbe se tu fossi… mia moglie?

 

Priscilla si ricompose e volò via rapida come un’allodola spaventata da un rumore improvviso tra le stoppie. Fermati, ragazza, non ti farò niente. Fermati e stammi a sentire… E’ da tanto tempo che sono solo… Vorresti…

I lunghi capelli neri battevano nel vento come un vessillo. Il tempo sarebbe passato lasciando i suoi segni anche su di loro. Priscilla, fermati, devo parlarti… Avrebbe segnato il suo viso, rovinato i suoi denti bianchi, appesantito il suo corpo agile, afflosciato i suoi bei seni rotondi, mentre lui…

- Priscilla…

Chissà se era ancora alla portata della sua voce. Quello che voleva dirle non era il caso di gridarglielo, facendosi sentire da tutti, era una questione che riguardava loro due soltanto. La rincorse, la raggiunse, la prese per un braccio, stringendoglielo piano.

- Priscilla… Mi faresti l’onore grande di… di diventare mia moglie?

 

IL SEGRETO

 

Era andato a parlarne con Gaio Prisco Vibio e all’uomo non doveva essere sembrato vero. Aveva sempre temuto che quella ragazza non se ne sarebbe mai più andata da casa sua: era bella, modesta, brava massaia, ma chi l’avrebbe presa, a vent’anni già fatti e con le stupidaggini che quella Calpurnia doveva averle messo in testa? Invece ecco spuntare dal nulla un gentiluomo giovane, bello e ricco, una persona perbene a cui qualsiasi padre sarebbe stato lieto di concedere la mano di sua figlia e con il quale qualsiasi ragazza avrebbe accettato ad occhi chiusi di accasarsi. Anche la sua Priscilla: l’uomo aveva sospirato di sollievo, sentendole dire che accettava quell’onore e aveva chiesto loro soltanto di aver pazienza, di aspettare qualche giorno, in modo che potesse tornarsene a casa sua e lasciarli soli, com’era giusto che fosse. Non sarebbe passato molto tempo, Prisco s’era alzato dal letto e arrancava, appoggiandosi alle stampelle: l’assistenza di cui avrebbe avuto ancora bisogno poteva averla da Maccio e da Calpurnia, nella tranquillità della sua modesta casetta.

 

Dal giorno in cui Massimo l’aveva baciata, Priscilla evitava di ritrovarsi sola con lui, quasi che lo temesse. In presenza del padre, aveva accettato dalle sue mani i regali che le aveva fatto per suggellare la sua promessa: alcuni gioielli antichi, preziosi e di squisita fattura. Appartenevano a una mia antenata, le aveva detto sorridendole. Adesso sei tu che devi portarli. Come se, prima, li avesse portati qualcun’altra che gli era vissuta accanto e gli era stata cara, pensò la ragazza, con una stretta al cuore. Non so niente di te, si disse da sé sola guardandolo negli occhi venati di verde e d’oro. Il tuo sguardo è limpido, onesto e sincero, ma non so niente di te. Ho promesso di dividere con te la mia vita, eppure…

 

- Massimo…

- Calmati, Priscilla. Ti sembra giusto aver paura dell’uomo che tra due giorni sposerai? Ci sono un paio di questioni da definire, a proposito della cerimonia e vorrei che io e te ne parlassimo. Da soli.

Della cerimonia… e non di noi? Preferisci nozze semplici o solenni? Il velo, le formule, il pane mangiato insieme, o la semplice stipula di un contratto in presenza di due testimoni?[4]

Priscilla gli sgranò sul viso i grandi occhi scuri. Qualsiasi cosa tu decida per me andrà bene, ma voglio solo che tu sappia… che per me sarà per sempre, e solo… la morte di uno di noi potrà sciogliere il legame che ci unisce.

 

Massimo le strinse la mano nelle sue. Era fredda e sudata, malgrado il tepore della giornata primaverile, come se alla donna dire ciò che gli diceva costasse fatica, o stesse per rivelargli un segreto.

 

- Sei stato sposato altre volte, Massimo?

- Avevo una moglie e un figlio, tanti anni fa. Sono morti, Priscilla.

Lo sguardo triste dell’uomo scoraggiò ulteriori domande. Perché me lo chiedi? Per lo stesso motivo per cui mi hai appena detto che, quando saremo sposati, solo la morte potrà sciogliere il nostro legame?

 

- Tu sei cristiana, Priscilla.

Una semplice constatazione, la sua. Non c’era ira, stupore o sdegno, nelle parole che aveva pronunciato con la stessa voce piatta con cui a tavola le avrebbe chiesto di passargli il sale. Mi sposerai lo stesso, adesso che lo sai? Essere quella che sono fa di me una fuorilegge, una nemica dell’impero a cui tu hai giurato lealtà quando sei entrato nelle Legioni. O… andrai ad Emerita, mi denuncerai alle autorità e magari ti recherai all’anfiteatro per vedere con i tuoi occhi come muoiono i traditori? Priscilla… L’avevo capito subito, quella che eri. Quando mi hai mormorato piano “Che Dio ti benedica”, la prima volta che ci siamo visti, e credevi che non ti avessi sentito. Quando… quando sei scappata via prima che la passione ci travolgesse perché temevi di dispiacere al tuo Dio. Adesso che mi hai detto se sarà, sarà per sempre e solo la morte potrebbe dividerci.

- Mi ami ancora?

- Non sarà la tua fede a farmi recedere dal desiderio di amarti, onorarti e proteggerti per sempre, Priscilla… mia signora.

 

- Ci sposeremo, e condivideremo i nostri segreti. I miei e i tuoi. Sarai una signora ricca e onorata, e non dovrai più sciuparti le dita con l’ago per ricamare l’orlo delle tuniche alle matrone di Emerita Augusta.

- Lascerai almeno che porti a termine i ricami sulla palla[5]  della nobile Antonia? Lei ci tiene molto.

- Se sarà l’ultima. Non mi piace che mia moglie lavori per gli altri.

- Antonia è un’ottima persona, ma l’idea di non vedere più suo nipote Porziano non mi dispiace affatto.

- Ti ha… importunata?

Priscilla non gli rispose e Massimo interpretò come un assenso il suo silenzio. Il giovane, facoltoso, dissoluto Lucio Antonio Porziano a ventisette anni aveva già ripudiato tre mogli ed era convinto di avere il mondo ai piedi in grazia del suo bell’aspetto, dei suoi nobili natali e delle sue ricchezze.

- Lo conosco. E come lui ne conosco e ne ho conosciuti altri. Se le istituzioni sono in pericolo e lo Stato traballa, la colpa non è certamente dei cristiani, come sostiene il nostro Sovrano. Avesse fatto più buon uso della sua intelligenza, non avrebbe impiegato molto a capire che non sono loro la rovina dell’Impero, bensì proprio i parassiti viziosi della razza di Lucio Antonio Porziano, che allignano in ogni dove e corrompono tutto quanto con il veleno della loro dissolutezza. I cristiani dovrebbero essere lasciati liberi di professare il loro credo. Sono gente laboriosa e onesta, potrebbero diventare i pilastri dell’Impero, se solo…

- Lo pensi davvero?

Lui le strinse le mani, la guardò negli occhi senza parlare. Mi piace vederti sorridere, Priscilla. Vorrei dirti che tanto, tanto tempo fa, l’uomo che teneva nelle sue mani i destini del mondo, il Cesare Marco Aurelio Antonino, aveva in animo di adottarmi e di lasciarmi in eredità il potere. Le cose non sono andate come lui avrebbe voluto, ma se fossi diventato imperatore, avrei concesso ai cristiani la libertà di culto. Ho sempre pensato che la religione sia un fatto di coscienza e non debba essere lo Stato ad imporne una piuttosto che un’altra. Vorrei dirtelo, ma non oso farlo perché so che non capiresti. Non mi crederesti, mi prenderesti senz’altro per pazzo e sarebbe la volta che ti perderei, Priscilla.

- Lo penso davvero.

E la baciò, perché la desiderava. E per dimenticare che sarebbe stato doveroso, per loro, condividere tutti quanti i segreti. Anche quello.

 

LO SPECCHIO

 

Avrà paura dell’impeto del mio desiderio, pensava Massimo guardando la sposa che gli si avvicinava e si lasciava abbracciare. O, ancora di più, temerà la riprovazione del suo Dio anche se adesso ci apparteniamo e ci apparterremo finché lo vorrà il destino.

La luce di alcune grandi torce illuminava la camera nuziale, facendo baluginare mille riflessi sulla lastra tersa del grande specchio di bronzo che campeggiava sulla parete di fronte al letto. Priscilla conosceva ciò che l’aspettava e attendeva quel momento con trepidazione e con ansia.

 

- Priscilla…amore mio.

L’aveva chiamata così, mentre se la stringeva contro il corpo quasi nudo accarezzandole le guance, sciogliendole i capelli. Erano neri come le ali dei corvi e lo scorrere inesorabile del tempo avrebbe conferito loro il grigio del piombo e il candore della neve, pensava Massimo mordendosi le labbra, mentre glieli scostava dal viso. Non devi avere paura di me, Priscilla, perché io ti amerò e ti onorerò per sempre. Sempre. La parola gli echeggiò nella mente con il clangore metallico di due spade che cozzano l’una contro l’altra, mentre con la sua imprigionava la bocca di lei e le dita indugiavano sulla pelle morbida della braccia, prima di fermarsi a sganciare le fibule d’oro che le trattenevano la veste sulle spalle.

 

Amore mio, no… L’aveva pensato, prima di sussurrarglielo a mezza voce, quando lei s’era coperta i seni con le mani dandogli appena il tempo d’intravedere per un attimo il turgore dei suoi magnifici capezzoli scuri ed eretti, quando la veste era scivolata via dal suo corpo, scoprendola fino alla vita. Lascia che ti guardi, amore mio, e guarda tu stessa nello specchio quanto sei bella. Le scostò le mani dal seno, dolcemente ma con decisione, districò il nodo della sua cintura e lasciò che la tunica le scivolasse ai piedi. Guardati, e capirai perché ti desidero tanto. Noi due ci apparteniamo, non c’è alcun male in quello che è adesso… e che sarà tra poco… Io sono parte di te, tu di me, finché…

 

Finché in te ci sarà un soffio di vita, Priscilla mia amata. Anche quando non sarai più quella che sei.

La guardò, gli occhi bassi, le guance soffuse di rossore, nuda nella luce delle torce, tremante nel suo candore violato di vergine che mani di uomo non hanno sfiorato mai. Le accarezzò con tocco leggero e delicato la pelle d’oro e di seta, continuando a dirle sei bella. Adesso lo sentirai, il desiderio che non hai mai provato, in maniera tanto forte da farsi intollerabile, e l’abbandono ucciderà il dolore della prima volta.

Priscilla tremò, quando le dita di lui indugiarono sulle areole scure e il piacere le attraversò il corpo come una folgore quando le sentì stringersi intorno ai capezzoli, aumentando d’intensità quando alle dita subentrò la bocca e lui cominciò a mordicchiare, a lambire e a succhiare le punte sensibili dei suoi seni per poi scendere e indugiare sul ventre e tra le cosce, prima di toccarla e baciarla dove mai avrebbe immaginato fosse possibile. E fosse così intensamente bello.

 

Il corpo dell’uomo è spaventosamente orribile e ripugnante. Calpurnia non le aveva detto altro, e non rispondeva a verità, aveva pensato Priscilla mentre guardava Massimo liberarsi del solo indumento che portava, una fascia che gli cingeva i fianchi e gli copriva i genitali. Dicono che essere penetrata dal membro di un uomo sia come ricevere un colpo di spada e se tutto ciò non fosse necessario a generare figli… Neanche quello era vero, a parte qualche goccia di sangue e un po’ di dolore, il tributo che si paga la prima volta e che il piacere e il desiderio avevano subito lenito.

 

Se Dio imponesse ai suoi figli l’orrore di cui Calpurnia le aveva detto, non sarebbe il padre buono in cui le era stato insegnato ad avere fiducia. Per fortuna, non era così, pensava, guardando Massimo che le giaceva al fianco nudo, addormentato e appagato. Si chinò su di lui, per posargli baci lievi sul collo e sul petto, per lambirgli i capezzoli e accarezzargli il ventre e il sesso con le dita e con le labbra. Era così bello, pensò. E così dolce. Il destino era stato buono con lei.

 

LA VERITA’

 

Avremo un figlio, tanti figli, anzi, e saranno belli e gentili come te, pensava quando raggiungevano il culmine dell’estasi e sentiva il cuore di lui batterle dentro, il suo seme fluirle nel grembo, mentre le sue grandi mani calde le stringevano i seni. Li nutrirò con il latte che sgorgherà dalle mie mammelle e non li affiderò a una balia. Non sentirò ragioni, anche se me lo imporrai, Massimo, così come mi hai imposto di non lavorare più di cucito per le signore di Emerita Augusta. Avremo dei figli, e tu tornerai a sorridere anche con gli occhi, come prima che il tuo bambino morisse, amore mio.

 

Fu un banale incidente domestico ad impedire a Massimo di nasconderle ancora la verità sul suo conto. E a farle sapere che i figli che lei avrebbe tanto desiderato non sarebbero arrivati mai.

 

Seduto in un angolo della cucina, l’uomo stava affilando alcuni coltelli. Quando uno dei micidiali strumenti gli sfuggì chissà come e chissà perché dalle mani, si ritrovò con il pollice sinistro segato fino all’osso e il sangue che sprizzava a fiotti come l’acqua di una fontana. Priscilla, che attendeva alle faccende domestiche poco lontano, urlò alla vista di tutto quel sangue e dell’osso che biancheggiava attraverso una profonda ferita. Sconvolta, temendo che suo marito potesse rimanere storpio fino alla fine dei suoi giorni, afferrò uno strofinaccio e si avvicinò a Massimo per medicarlo. Il piccolo dramma si era consumato da pochi istanti soltanto e, quando Priscilla prese tra le sue la mano dell’uomo, non vide più l’osso biancheggiare attraverso la ferita né il sangue, ma la pelle pulita, intatta e senza segni come se nulla fosse accaduto.

 

- Credo di doverti delle spiegazioni.

Nello stato in cui si trovava, Priscilla forse si sarebbe messa a urlare e gli avrebbe ingiunto di allontanarsi e non cercarlo mai più, perché non era un uomo come tutti gli altri, ma una creatura del male e del demonio. Dirle non è colpa mia sarebbe stato sicuramente inutile, pensava Massimo tentando d’inghiottire il nodo di tensione che gli serrava la gola. Sua moglie non avrebbe accettato mai quella verità, com’era stato difficile accettarla per tutti quelli che l’avevano conosciuto dopo che era morto nella grande arena di Roma e tornato dall’aldilà grazie alla magia e per volontà dell’Augusta Annia Lucilla Galeria, che lo aveva amato disperatamente. Cento e passa anni prima di allora. Per sempre.

 

- Ero io quel generale a cui gli scherani dell’imperatore Commodo sterminarono la famiglia. Sono marchiato sulla schiena perché da generale divenni schiavo. Morii colpito a tradimento dallo stesso imperatore Commodo, che si dilettava a misurarsi nell’arena con i gladiatori ma che sapeva che con me non avrebbe avuto alcuna possibilità, a meno di fiaccare la mia resistenza infliggendomi, mentre ero incatenato nelle segrete del Colosseo, quella stilettata che avrebbe indebolito le mie forze e portato via la mia vita a poco a poco.

Sapevo che sarei morto, ma strinsi i denti e crollai solo dopo averlo ucciso con le mie stesse mani, non per desiderio di vendetta, credimi, ma per sete di giustizia. Avevo trentatré anni.

 

Come il Figlio dell’Uomo, pensava Priscilla, che fu inchiodato alla croce e dopo tre giorni tornò dal mondo dei morti. Massimo avrebbe avuto per sempre quell’età, dopo che Annia Lucilla Galeria, con l’aiuto di un sortilegio, era riuscita a riportarlo indietro dall’aldilà.

 

- Da ragazzi c’eravamo amati, poi il destino ci ha divisi. Era una donna sensibile, intelligente, molto bella e molto infelice. Non si era rassegnata alla mia morte e, grazie ai sortilegi di una megera della Tessaglia mi aveva riportato tra i vivi. Forse non immaginava a cosa andava incontro, forse lo ignorava di proposito perché era stanca di chinare la testa alla volontà degli altri. Io avrei avuto sempre i trentatré anni che avevo quando mi uccisero, lei sarebbe invecchiata… E poi morta. Le malattie e le ferite non avrebbero potuto uccidermi e avrei continuato a camminare nel mondo per l’eternità, nascondendo la verità agli altri per non essere scacciato come un lebbroso, negandomi le gioie dell’amicizia, della famiglia, dell’amore… Per non soffrire, Priscilla. Perché il dolore non mi bruciasse dentro come un fuoco lento e inestinguibile, senza lacrime che potessero placarlo. Non posso piangere, Priscilla. E non posso generare i figli che vorresti, perché agli Immortali è misericordiosamente negato il dolore di sopravvivere a coloro che hanno generato.

 

Forse hai maledetto la tua vita senza fine, ogni volta che hai pensato a tua moglie e a tuo figlio, che amavi e non rivedrai. O a me, destinata a invecchiare e a restarti accanto anche quando non sarò più quello che sono ma un penoso fardello di canizie, di demenza, di malattie e di deformità. Lo sapevi, eppure hai accettato di legarti a me… Perché mi ami come io ti amo, Massimo, e non me ne importa niente di quello che sei. Non è colpa tua. Sta scritto che il mondo finirà, anche se non è dato di sapere quando. E quando tutto sarà finito, ci saranno la pace e il premio finale anche per te, perché sei giusto e buono. Dio non dimentica nessuno dei suoi figli. Allora potrai ricongiungerti a tutti coloro che hai conosciuto e amato, e sarà davvero per sempre.

 

- Com’era tua moglie?

- Era bella, forte, dignitosa, una gran donna. Bruna come te. Ti somigliava.

- Mi ami…perché te la ricordo?

- Ti amo per come sei, Priscilla.

E i gioielli che mi hai regalato erano i suoi, pensava la giovane mentre le dita di Massimo indugiavano sui grani d’oro e d’ambra della collana che le dondolava sul seno.

- Si è fatto tardi. Andiamo a letto.

 

Si era abbandonata al suo abbraccio senza negarsi alle sue voglie e, dopo l’amore, si era rannicchiata contro il suo petto, come sempre. Certo, le sarebbe piaciuto un figlio che avesse gli occhi azzurri di Massimo, la sua onestà e la sua dolcezza, ma è inutile pretendere ciò che non si può avere e quel che il destino aveva avuto in serbo per lei era abbastanza.

 

- Ci sono tanti orfani, tanti piccoli infelici bisognosi d’affetto e di calore. Potremo adottarne qualcuno e li ameremo… anche se non saranno figli del mio grembo e del tuo seme. Li ameremo come se lo fossero.

 

PORZIANO

 

Sarebbe stata l’ultima volta, pensava Priscilla mentre il carro guidato da Decio, il grosso servitore sordomuto, la conduceva verso Emerita Augusta e la sontuosa domus dove la nobile Antonia attendeva le venisse recapitato l’ultimo dei suoi lavori: un’elegante palla che l’anziana gentildonna aveva in animo d’indossare di lì a qualche giorno, in occasione delle nozze di una nipote.

 

Vorrei essere io ad accompagnarti, le aveva detto Massimo. Vorrei, ma lo sai che non posso: alcune pregiate giumente arabe stanno per figliare e non me la sento di lasciarle nelle mani dei servi e degli artieri.

Certo, il viaggio sarebbe stato molto più piacevole, in compagnia di Massimo che non di quel grosso ercole dal cranio rasato che si esprimeva a sbuffi e grugniti, ma suo marito si fidava di lui. Inoltre, consegnato il lavoro, sarebbe tornata subito indietro, incurante delle insistenze con cui la cordiale ed affabile Antonia l’avrebbe invitata ad intrattenersi ancora un po’. Meno si fosse fermata, meno rischi avrebbe corso di incrociare con il suo lo sguardo bieco e sfuggente di Lucio Antonio Porziano.

 

Sono contenta per te, le aveva detto Antonia, baciandola sulle guance prima di congedarla. Adesso va da lui, che ti aspetta: non sarò io a trattenerti.

 

- Dovrei augurarti ogni felicità, Vibia Priscilla. Ma non sono così generoso… Né così ipocrita.

Eh già, pensava la donna accelerando il passo ed evitando di rispondere alle sue domande. Ma dovette fermarsi, quando lui la raggiunse e l’afferrò per un braccio. Lucio Antonio Porziano vestiva con un’eleganza ricercata che ne metteva in risalto la bellezza: non molto alto ma proporzionato, un volto affilato incorniciato da corti riccioli neri, sempre perfettamente sbarbato ed olezzante di mirra e di nardo, non aveva mai avuto problemi a prendersi tutte le donne che voleva. Anche se colei che avrebbe voluto più di ogni altra gli aveva detto sempre di no.

- Conosco Massimo Decimo Meridio, il cavallaro. Bell’uomo. Ma da lui non avrai mai quel che meriti e che io potrei darti, Vibia Priscilla.

Una smorfia di disprezzo gli aveva teso le labbra sottili, arricciato il naso aquilino. Uno come Massimo, un contadino con la pelle scurita dal sole e le mani sporche di terra era un niente, in confronto a lui, nelle cui vene scorreva il sangue della più nobile famiglia della città, quando non dell’intera provincia.

- Lasciami in pace.

- Potresti avere prestigio e ricchezze… O, se non è questo ciò che ti interessa, anche solo amarmi, di nascosto da lui. Ti renderei felice e non rischieresti niente. Sei una donna sposata, godi di una certa libertà e il matrimonio stesso ti fornirebbe ampie coperture…

- Non manco di parola, Lucio Antonio Porziano. Gli ho giurato fedeltà e intendo mantenere la mia parola. Fino alla morte.

 

Porziano strinse le labbra fra i denti, mentre la guardava negli occhi e un lampo crudele glieli accendeva di scintille rosse. Cristiana. Pensò. Adesso so quello che sei. Me la pagherai, Vibia Priscilla.

 

LA MOSCA E LA QUERCIA

 

Era tornato prima del previsto, Decio, ma solo, e coperto di lividi neri dalla testa ai piedi. A sbuffi e grugniti, strabuzzando gli occhi e facendo mulinare le grosse mani, era riuscito a spiegare al padrone quanto fosse accaduto: all’uscita dalla città, una decina di guardie armate li avevano assaliti: messo lui in condizioni di non nuocere con un colpo violento alla testa, avevano portato via Priscilla.

 

Il cavallo è più veloce del carro e mi porterà in città prima che faccia notte. È anche abbastanza robusto da riportarci indietro entrambi, quando la ritroverò e la porterò in salvo… In salvo da chi vuole la sua vita perché è cristiana, pensò Massimo mordendosi a sangue le labbra per impedirsi di pensare.

 

Porziano. E chi se non lui? Priscilla doveva aver respinto le sue profferte, ed era stata denunciata.

Massimo sapeva che c’era la morte per chi si professava cristiano e rifiutava di offrire incenso agli dei. E non credere che non ci sarà anche per te, maledetto, se le capiterà qualcosa. Nel caso, giuro che maledirai il momento in cui tua madre ti ha messo al mondo.

 

Strinse forte la destra sull’elsa del pugnale, chiuse gli occhi e inghiottì il groppo di tensione che gli serrava la gola. Non era mai stata coraggiosa, Priscilla. E non era quel che era lui.

Una mosca prese a svolazzargli e a ronzargli vicino alla faccia, e lui la scacciò con la mano. Quanto può vivere, una mosca? Un giorno, due? E le grandi querce che crescevano ai lati della strada? Mille anni? Il giorno della mosca, i mille anni della quercia, i venti che aveva Priscilla, i trentatré che lui avrebbe avuto finché ci fosse stato il mondo, l’eternità in cui sua moglie confidava di risvegliarsi dopo la sua morte terrena, perché quello era uno dei fondamenti del suo credo…

 

Il sole incendiava la linea dell’orizzonte, quando a Massimo apparvero le porte della città. Spronò il cavallo, chiuse gli occhi un istante e implorò il Dio in cui Priscilla credeva che non fosse troppo tardi.

 

NELL’ARENA

 

Dies Iovis. Sarebbe stato giorno di mercato, l’indomani, giorno in cui parecchi forestieri dalla campagna si sarebbero riversati in città per vendere i loro prodotti. Non Gaio Prisco Vibio, che era ancora zoppo, e nemmeno quei suoi servi ai quali Massimo aveva ingiunto di sbrigare le incombenze che, a causa dell’infortunio subito, suo suocero aveva dovuto per forza di cose trascurare. C’erano faccende più importanti a cui tener dietro. Pover’uomo, se solo avesse saputo.

 

Il tramonto stava spopolando le strade, presto sarebbe calato il buio e Priscilla… Era stata arrestata, gli avevano detto. Una bella, giovane cristiana che si era rifiutata di offrire incenso agli dei e l’indomani sarebbe stata giustiziata nell’arena. Ormai, gli spettacoli che le autorità potevano offrire al popolo erano quelli soltanto, aveva brontolato il facchino che si era fermato a fornirgli qualche informazione e gli aveva pagato un bicchiere di vino cattivo in una bettola che si affacciava sulla strada principale. I tempi dei combattimenti all’ultimo sangue, i tempi in cui i gladiatori si affrontavano in duelli alla morte stavano finendo. L’Impero e il suo esercito non erano più quelli di una volta, ragion per cui non c’erano abbastanza guerre vittoriose e i prigionieri da addestrare ad ammazzarsi per il divertimento della plebe scarseggiavano, mentre i criminali si preferiva mandarli a morire nelle miniere piuttosto che nell’arena. In quanto ai cristiani, beh… Non c’era gusto a vederli crepare salmodiando sbranati da quattro leoni pidocchiosi. Non si ribellavano, non reagivano. No, proprio non sapevano morire con onore.

 

Non avesse saputo dove si trovava la piccola arena di Emerita Augusta, sarebbe stato l’odore del sangue ad indicargli la strada. L’odore del sangue, del sudore e della paura, il lezzo delle belve inquiete rinchiuse dentro le gabbie, nei sotterranei. Dies Iovis. Giorno di mercato. Sarebbero accorsi in tanti, a veder morire la giovane cristiana che si era rifiutata di offrire incenso agli dei. Da tanto, troppo tempo, le autorità non erano in grado di offrire al popolo spettacoli più eccitanti e bisognava accontentarsi di quello.

 

Priscilla aveva le catene ai polsi, gli abiti stracciati, gli occhi bassi, i capelli sciolti e spettinati. Massimo non riusciva a vederla in faccia, mentre i suoi aguzzini la trascinavano al centro dell’arena. Notò la scia sottile del sangue tra le impronte dei suoi piedi sulla sabbia, e rabbrividì: dovevano averla stuprata. Si morse dentro la bocca, tanto forte da sentire dolore, e si concentrò sui suoi pensieri. Ti porterò via da qui sana e salva, Priscilla, mia adorata. Nessuno oserà più farti del male.

 

La luce del sole ferì gli occhi dei due leoni, quando un complicato meccanismo di funi e di pulegge portò su dai sotterranei le belve dentro gabbie dalle sbarre robuste. Una volta liberati, gli animali cominciarono a girare su se stessi, guardandosi intorno con aria stranita. Erano un maschio e una femmina, due vecchie bestie con i mantelli fulvi chiazzati di rogna e le costole sporgenti. Dovevano averli tenuti a digiuno, per renderli più feroci.

 

Faranno in fretta ad abituarsi alla luce del sole. La fame e l’odore del sangue, poi, completeranno l’opera. Dalla tribuna d’onore Lucio Antonio Porziano lo guardava con i suoi occhi gelidi. Io non l’ho avuta, ma non l’avrai nemmeno tu, Massimo Decimo Meridio. Mai più.

 

L’avrebbe ucciso, con le sue mani o con il suo coltello. Ma non c’era tempo da perdere. Come un pazzo, gridando “Sono cristiano anch’io”, Massimo si precipitò dalle gradinate al centro dell’arena, dove i leoni si muovevano circospetti verso l’angolo in cui Priscilla si era rifugiata per tentare inutilmente di dilazionare il suo destino. Un arciere aveva scoccato una freccia, nel tentativo di fermarlo, e quella freccia gli aveva trafitto il petto all’altezza del cuore. Gli spettatori urlarono terrorizzati, quando, invece di vederlo crollare morto sulla sabbia, videro che si strappava la freccia dalle carni e andava avanti, per frapporsi tra le belve affamate e la condannata. Forse era il suo Dio, quello in cui aveva urlato di credere che aveva ingiunto alla morte di rifiutarlo, e aveva gettato su di lui un potente sortilegio, forse era quel Dio in cui era proibito confidare a guidare la sua mano nel lanciare il coltello che era penetrato tra le costole del leone, a dargli quindi il coraggio di affrontare la femmina a mani nude. E di ucciderla.

 

Ecco un uomo che sa combattere con onore, pensò il facchino. Era lo stesso che aveva incontrato la sera prima sulla strada principale, un bel giovane che procedeva trattenendo per le briglie uno splendido cavallo e si portava appresso un’aria tesa e preoccupata. Aveva capito perché, adesso che l’aveva visto prendere tra le braccia la donna e allontanarsi, senza che nessuno osasse fermarlo, mentre la carcassa della leonessa giaceva al centro dell’arena e il suo compagno, trafitto dal coltello, si contorceva negli spasimi dell’agonia.

 

Priscilla era imbrattata del sangue suo e di quello di Massimo, e rantolava, quando lui la prese tra le braccia e la portò via. Io ti salverò, pensava, mentre l’ansia gli divorava l’anima, guardando quant’era pallida. Ti salverò, ti terrò con me il tempo che il tuo Dio ti concederà di vivere, e ti proteggerò da chiunque cercherà di farti del male. Con la mano destra, tormentava nervosamente l’elsa del pugnale ancora imbrattato del sangue del leone, e l’avrebbe alzato su Porziano, se lei non lo avesse guardato con gli occhi imploranti, accennato a un no movendo debolmente la testa. Non uccidere, Massimo. C’è più grandezza nel perdono che nella vendetta. E lui si accontentò di sputargli in faccia, passandogli vicino.

 

L’ANGELO

 

- Non credo di poter fare molto, per lei.

Sostene, il migliore medico della città, era stato quasi brutale, nella sua franchezza. Le ferite che la stanno uccidendo sono dentro di lei. L’hanno picchiata. E l’hanno stuprata. Dovevano essere in tanti.

Stuprata. Insozzata con l’oltraggio che è riservato alle donne dei nemici sconfitti, senza pietà alcuna. Non sapevano che era sposata, e volevano garantirsi di non mandare a morte una vergine.[6] Si diceva che portasse sfortuna.

 

Con le poche forze e la poca voce che le restava, gli aveva stretto la mano e l’aveva esortato a non essere triste.

- Sono in viaggio verso un mondo dove non c’è dolore, Massimo. Verso un mondo dove io e te potremo incontrarci di nuovo, quando verrà la fine dei tempi. Dove ritroverai tutti coloro che hai amato… Non essere triste, mi addolora sapere che non ti è dato di piangere… e che questo rende insopportabili le tue sofferenze… amore mio…

 

Massimo sentiva il dolore bruciargli gli occhi e il cuore, perché la sua pena, la sua tenerezza, il suo rimpianto non potevano sciogliersi in quelle lacrime che gli sarebbero state di conforto.

- Non potrai vedermi, ma sarò vicino a te… come gli angeli… Dio non ha voluto… che conoscessi la sofferenza di vedermi invecchiare e decadere mentre tu sarai quello che sei… per sempre. Stringimi la mano, Massimo. La mia vita accanto a te è stata… così bella…

 

EPILOGO

Campo de’ Fiori, Roma,17 febbraio 1600.

 

La neve cadeva sulle ceneri del rogo, quando le guardie armate dell’Inquisizione dispersero la folla. Giordano Bruno, ateo, stregone, eretico ed apostata, aveva avuto, per mano degli uomini, il castigo che tocca ai nemici di Dio: il fuoco.

Di lui non restava che un mucchio d’ossa calcinate dal fuoco e il ricordo di un martirio lento ed atroce al quale avevano assistito, senza batter ciglio, uomini, donne, perfino ragazzi.

 

Massimo gettò all’indietro la testa, e il cappuccio del mantello scivolò via, scoprendo i lunghi capelli castani. Faceva freddo, pensò rabbrividendo. E non era solo il gelo di febbraio quello che gli penetrava nelle ossa. Era capitato lì per caso, mentre le fiamme finivano di incenerire quel che era stato di un uomo che forse aveva sbagliato, ma non per questo meritava quella fine atroce. Saltò in sella al suo vecchio cavallo, mentre mille pensieri e mille ricordi gli turbinavano nella mente, come i fiocchi di neve che mulinavano nell’aria gelida.

 

Priscilla, martire del Quarto Secolo, giovane sposa uccisa a Merida, in Spagna, durante la grande persecuzione di Diocleziano per non aver voluto rinnegare la sua fede, adesso era una santa la cui intercessione veniva invocata nel dolore, nella malattia e nel pericolo e venerata sotto le sembianze di una statua dai lunghi capelli biondi, gli occhi acquosi e l’espressione melensa. Di una che non era lei. Perché Priscilla era stata una donna vera, non quello stereotipo sul cui viso da bambola non traspariva emozione alcuna. Perché Priscilla, quella vera, era stata capace di amore, di sacrificio e di perdono. Perché non avrebbe giustificato in alcun modo quel che era appena accaduto, se solo avesse potuto vedere.

 

Ho combattuto nella battaglia di Ponte Milvio, quella che consentì a Costantino di sconfiggere Massenzio e di prendere il potere. Sapevo che, se fosse uscito vittorioso dalla contesa e altri ostacoli non si fossero frapposti tra lui e il trono, il tempo delle persecuzioni sarebbe finito e i cristiani avrebbero potuto pregare il loro Dio alla luce del sole. Così è stato. Ed io vissuto abbastanza da vederli trasformarsi, da minoranza perseguitata, in detentori rapaci del potere, da vittime in carnefici. E ho visto innumerevoli brutture, di cui questa non sarà sicuramente l’ultima. Li ho visti rubare, ammazzare, ridurre interi popoli in schiavitù invocando il nome di Dio. Lo stesso Dio nelle cui mani Priscilla aveva rimesso il suo spirito, quando era morta, a vent’anni, martire della fede.

 

Massimo si avvolse stretto nel suo lungo mantello nero, mentre il cavallo procedeva al passo e la folla si scostava, lasciando frettolosamente il luogo del supplizio. C’era, quando i Mori erano sbarcati a Gibilterra e avevano strappato la terra di Spagna ai re visigoti. Aveva visto con i suoi occhi gli uomini dalla pelle scura e dai sottili lineamenti aquilini, che indossavano ampie vesti di seta e impugnavano scintillanti scimitarre dalle else istoriate. Aveva ammirato le loro bellissime donne, che ancora non si nascondevano dietro il velo, spalancato gli occhi di fronte alla meraviglia dei giardini dell’Alhambra. C’era, quando Carlo Martello aveva respinto la loro avanzata a Poitiers. Li chiamavano i nemici della fede. Eppure, al Andaluz, questo era il nome che avevano dato alla terra di Spagna, era il regno della prosperità, della cultura e della tolleranza, in cui cristiani, musulmani ed ebrei vivevano in pace, mentre Carlo, il signore cristiano dell’occidente, faceva sterminare chi non si convertiva al suo credo.

Lui aveva visto, diversi secoli dopo, i guerrieri cristiani che portavano il segno della Croce sulle vesti, irrompere seminando la morte oltre le mura della Città Santa. Aveva visto gli autodafè[7] nella Spagna riunificata e cristianizzata, lo sterminio degli indigeni nel Nuovo Mondo, l’Europa sconvolta dalle guerre di religione, i roghi degli eretici e delle streghe. Ho visto e vedrò ancora numerose infamie perpetrate nel nome di Dio, pensava. Gli uomini che hanno trasformato una donna come Priscilla in un’astrazione sono gli stessi che hanno trasformato un’ideologia fondata sull’amore, la fratellanza e il perdono nell’ennesima barbarie.

 

La piccola lo guardava con i suoi occhi chiari e sfacciati. Guardava lui, e il suo vecchio cavallo chiazzato di rogna. Poteva avere dieci, undici anni, e di certo non era una mendicante, ben vestita e ben coperta, il fresco viso rotondo, i capelli scuri lucidi e puliti che scappavano fuori a lunghi ciuffi dalla cuffietta inamidata. Aveva le mani e il naso rossi, chissà da quanto tempo si trovava lì, forse non le era sfuggito un particolare dell’agonia atroce dell’eretico. Che razza di genitori dovevano essere, i suoi, per permetterle di assistere a spettacoli simili?

- Piccola, che ci fai qui?Vattene a casa.[8]

 

FINE

 Lalla

9 agosto 2002

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[1] Si fa qui riferimento alla Tetrarchia inaugurata da Diocleziano: l’Impero era stato diviso in Oriente e Occidente. A capo di ciascun troncone erano gli Augusti (Diocleziano e Massimiano), tenuti a scegliersi i Cesari (Galerio e Costanzo Cloro, il padre di Costantino il Grande) che li avrebbero aiutati nella gestione del potere e sarebbero loro subentrati, dopo vent’anni, sul trono. Il sistema non andò oltre l’abdicazione del suo ideatore.

 

[2] Generalmente, le donne romane venivano chiamate con il nome di famiglia, per il solito ingentilito in un diminutivo.

 

[3] Lana d’albero= cotone

 

[4] La cerimonia nuziale cattolica così come viene celebrata adesso allora non esisteva e i cristiani si sposavano con l’antico rito romano, che poteva essere solenne o privato. Essi attribuivano tuttavia naturalmente al matrimonio il valore sacramentale di patto tra i suoi ministri (gli stessi sposi) e Dio e lo consideravano indissolubile. Inoltre, le unioni tra persone di religione diversa erano più consuete di quanto si possa immaginare: evidentemente l’intolleranza religiosa propugnata dalle autorità politiche non era poi così sentita dalla gente comune ed erano in parecchi a pensarla come Massimo.

 

[5] Palla=sopravveste femminile.

 

[6] Consuetudine, questa, largamente disattesa all’epoca delle persecuzioni contro i cristiani. La tradizione vuole comunque che alcune martiri venerate dalla Chiesa, come sant’Agnese, fossero riuscite a mantenersi caste con l’aiuto di Dio, malgrado il tentativo di stupro da parte dei loro aguzzini.

[7] Autodafè= i processi e le esecuzioni di ebrei ed eretici nella Spagna e nelle aree geografiche finite sotto la sua influenza.

[8] Si veda il primo racconto da me scritto su tema di Massimo Immortale, “La strega”.