Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore (Gladiator, 2000)

 

 Il Gladiatore

Un finale alternativo

di Ilaria Dotti

I

Massimo chiuse gli occhi e la sua testa rotolò all'indietro sulla sabbia.
Invasa dal terrore, Lucilla gli posò una mano sul collo per sentire il battito del cuore e con sollievo si accorse che era ancora vivo. Ma non lo sarebbe stato ancora per molto se un medico non fosse intervenuto immediatamente.
"Quinto," urlò la donna al capo delle guardie pretoriane che stava in piedi lì vicino, con un'espressione sgomenta sul viso. Al suono della sua voce il soldato scattò e chiese: "Augusta Lucilla?"
"Cerca Ipparco e conducilo qui, immediatamente," rispose lei, riferendosi al medico personale della famiglia imperiale, presente quel giorno al Colosseo con il compito di assistere l'imperatore.
"Non è necessario, Augusta Lucilla," si intromise il senatore Gracco, "Ipparco è già qui," e così dicendo spinse un ometto anziano al centro dell'arena dove giaceva il corpo di Massimo. 
Il medico si chinò e con l'aiuto di Lucilla liberò Massimo dall'armatura e lo tastò con mani esperte e delicate, scoprendo la piccola, profonda ferita causata dal pugnale di Commodo. Ipparco la esaminò, poi aprì la sua borsa e ne estrasse un flacone pieno di una poltiglia verdastra. Il dottore ne spalmò un po' all'interno ed attorno alla ferita e poi la fasciò con cura.
Quando ebbe terminato, Ipparco alzò la testa e fissò Lucilla, parlando con schiettezza e sincerità.
"Sarò franco, Augusta: la ferita è molto profonda e già infetta e come puoi vedere la febbre lo sta già divorando. Non credo che abbia molte possibilità di cavarsela." Vedendo le lacrime salire agli occhi della donna, l'uomo continuò. "Però possiamo sperare, dato che è forte e giovane e io ti prometto che farò tutto quanto in mio potere per salvarlo. Ora dobbiamo portarlo in un luogo caldo e pulito dove io gli somministrerò un decotto che potrebbe aiutarlo a combattere l'infezione e la perdita di sangue."
Lucilla fece un debole sorriso e ordinò alle guardie di far avvicinare la lettiga imperiale: avrebbe condotto Massimo a Palazzo e avrebbe vegliato su di lui, assicurandosi che ricevesse le migliori cure possibili. Quando la lettiga arrivò, il Generale vi fu sollevato con estrema delicatezza, mentre i pretoriani e suoi compagni gladiatori formavano una scorta d'onore intorno ad essa. In pochi minuti il convoglio si mise in marcia verso il Palatino, dove sorgeva la residenza Imperiale e mentre usciva dall'arena Lucilla parve accorgersi per la prima volta della folla che ancora gremiva gli spalti e che, rimasta in religioso silenzio fino a quel momento, al passaggio della lettiga si mise ad urlare "Massimo! Massimo! Massimo!" 
Lucilla sorrise e poi si affrettò a seguire il convoglio.

II

Era a casa, nella sua fattoria in Spagna. 
Era estate: il cielo era sereno e i caldi raggi del sole gli accarezzavano le spalle, mentre una leggera brezza gli scompigliava i capelli e faceva ondeggiare il grano. Massimo sorrise ed allungò una mano per sfiorare le spighe dorate e mature: quell'anno avrebbe avuto uno splendido raccolto.
Un movimento in lontananza attrasse la sua attenzione e Massimo strizzò gli occhi contro il riverbero del sole per vedere di che cosa si trattasse. Il suo sorriso divenne ancora più ampio nel vedere suo figlio che gli correva incontro a piedi nudi e con le braccia spalancate.
"Papà, papà!!" urlava a squarciagola il piccolo Marco e Massimo incominciò a muoversi nella sua direzione.
Il bambino era ormai a pochi metri e Massimo si chinò, pronto a ricevere il suo abbraccio.
Poi si udì un'altra voce.
"Fermati Marco," era una voce di donna, dolce e nello stesso tempo autorevole.
Massimo si rialzò in piedi e si voltò a guardare sua moglie con uno sguardo interrogativo. La donna si avvicinò e si fermò affianco a Marco, posandogli un braccio sulle spalle.
"Selene.." mormorò il Generale.
"Che cosa fai qui, Massimo? Non è ancora arrivato per te il momento di tornare da noi." 
"Ma io voglio stare con voi…" disse lui senza capire, continuando a fissare sua moglie e suo figlio.
Selene fece un passo avanti, gli sfiorò la guancia con la mano e disse: "Ti amo Massimo, ma non è ancora giunto per te il momento di ricongiungerti a noi. Quando arriverà saremo qui ad aspettarti, ma ora è troppo presto." La donna si interruppe e volse la testa di lato, come se stesse ascoltando un qualche rumore lontano. Poi tornò a guardare suo marito, sorrise e disse: "Ora va, c'è qualcuno che ti sta chiamando." E cosi dicendo, gli volse le spalle, prese per mano Marco e cominciò ad allontanarsi.
"Selene! Marco!" urlò Massimo disperato alle due figure che stavano diventando sempre più piccole. Suo figlio si voltò, gli fece un cenno di saluto con la mano ma continuò a camminare.
Massimo provò ad inseguirli ma non riuscì a muovere un passo: era come se i suoi piedi fossero incollati al terreno. Impotente vide i suoi cari farsi sempre più lontani e sparire dal suo campo visivo.
Attorno a lui il paesaggio stava cambiando: il sole era scomparso e il vento si era fatto più forte e freddo. Massimo rabbrividì e si avvide che stava incominciando a piovere. Sollevò il viso per guardare il cielo e delle gocce di pioggia gli caddero sulle labbra screpolate. Lui le raccolse con la lingua, accorgendosi improvvisamente di avere una gran sete. Poi sentì una voce, "Massimo? Massimo, ti prego, svegliati." Massimo aggrottò la fronte: chi era che lo chiamava? Era una voce di donna, di questo era sicuro, come era sicuro di conoscerla, ma non riusciva a ricordare di chi si trattasse.
"Beh," pensò tra sé e sé. "Tanto vale che vada a vedere di chi si tratta visto che qui non c'è niente per me". E lanciata un' ultima occhiata nostalgica alla sua casa, si voltò nella direzione da cui proveniva la voce e cominciò a camminare. 

III 

La stanza era illuminata da alcune lucerne che lanciavano bagliori dorati, creando giochi di luci e ombre sui mobili e sulle due persone che vi si trovavano. Una di loro era seduta su di una sedia e continuava ad intingere un panno bianco in un catino di ceramica pieno di acqua fredda, per poi passarlo sul viso e sul petto dell'altro occupante della stanza, l'uomo che giaceva sul letto, coperto di sudore e in preda alla febbre.
Lucilla sentì qualcuno bussare alla porta e si girò in tempo per vedere entrare Ipparco. Il medico la salutò con un cenno del capo e poi si diresse verso il letto dove Massimo giaceva tranquillo. Ipparco gli prese il polso, gli sollevò le palpebre per scrutargli le pupille e controllò che la fasciatura attorno ai fianchi fosse ancora al suo posto. Poi annuì con la testa e si voltò verso Lucilla.
La giovane donna gli lanciò un'occhiata ansiosa e il medico sorrise. "La febbre sta calando e il polso si sta facendo più forte, segno che l'infezione è stata vinta. Ora il pericolo più grave è la disidratazione: bisogna fargli bere più acqua possibile. Adesso vado in cucina a preparare un altro decotto di erbe per aiutarlo a recuperare le forze." E dopo un altro cenno di saluto, il medico se ne andò.
Lucilla si voltò sollevata verso il ferito e gli passò una mano tra i capelli sudati. "Massimo," mormorò con voce carica d'emozione, travolta da sentimenti che minacciavano di sommergerla.
In quel momento Massimo scosse la testa violentemente mentre dalle labbra gli uscirono grida disperate. "Selene! Marco!" 
Lucilla riconobbe i nomi e si rese conto che egli doveva essere caduto in preda ad un incubo che riguardava la sua famiglia. Il suo corpo ferito prese a dimenarsi e Lucilla lo spinse con fermezza sul letto tenendolo per le spalle, così da evitare che potesse farsi del male. Dopo qualche secondo Massimo parve tranquillizzarsi e lei gli passò il panno bagnato sul viso, facendo gocciolare un po' d'acqua sulle sue labbra screpolate. Massimo leccò l'acqua con avidità e vedendo quel gesto Lucilla prese a chiamarlo. "Massimo? Massimo, ti prego, svegliati." 
Le palpebre del ferito tremolarono per alcuni secondi e poi si aprirono lentamente.

*****

Quando Massimo aprì gli occhi gli occorsero alcuni minuti per mettere a fuoco l'ambiente intorno a sé. Il generale girò debolmente la testa e una fitta dolorosa gli trafisse la schiena, togliendogli il respiro.
"Shhh," sussurrò una voce. "Stai tranquillo." Lucilla entrò nel suo campo visivo e lui la fissò, cercando di dire qualcosa ma non riuscì ad emettere alcun suono. La donna immerse il panno nel catino e poi glielo posò sulle labbra. Massimo lo succhiò e deglutì lentamente l'acqua.
"Va meglio adesso?" chiese Lucilla.
"Sì," rispose lui con un filo di voce, continuando a fissarla. Lei lesse le domande nel suo sguardo e mormorò: "Ti ricordi che cosa è successo?"
"No..."
"Commodo è morto, l'hai ucciso tu. Adesso ti trovi a Palazzo, perché sei rimasto gravemente ferito, ma il medico ha detto che presto starai bene." 
"I miei uomini..." sussurrò Massimo.
"Se ti riferisci ai tuoi amici gladiatori, sono tutti liberi e stanno bene. Se invece intendi i tuoi legionari stanziati ad Ostia, beh, non appena è arrivata loro la notizia che tu eri vivo, hanno eliminato il loro comandante e trecento di loro sono adesso accampati alle porte di Roma."
Massimo annuì lentamente, commosso dalla lealtà dei suoi soldati. Poi si rammentò di un’ultima cosa. "Lucio?" mormorò.
"E' al sicuro e sta bene. Grazie a te," rispose la giovane donna con le lacrime agli occhi. 
Massimo tentò un debole sorriso, poi sentì le palpebre farsi più pesanti e lentamente i suoi occhi si chiusero.
Lucilla vide che si era addormentato e chinatasi su di lui lo baciò dolcemente sulle labbra e mormorò: "Dormi tranquillo, amore mio, nessuno lo ha meritato più di te. E non preoccuparti, ci sono io qui a vegliare su di te."

V

"Augusta Lucilla," disse il senatore Gracco, "dobbiamo agire in fretta: il tempo stringe."
La donna lo fissò duramente e disse: "Che cosa vuoi dire, Senatore?"
"Roma è in fermento: la morte di Commodo ci ha liberato da un tiranno ma ci sono decine di persone che bramano di prendere il suo posto. I pretoriani vogliono offrire il trono a Elvio Pertinace, che ha promesso loro grandi elargizioni di denaro." 
"Pertinace?" esclamò Lucilla, "Ma è un inetto, non durerebbe un anno al potere!"
"Questo lo so anche io, Lucilla, ma ci sono anche altri pretendenti, senatori e cavalieri che si stanno organizzando e armando eserciti privati." 
"Che cosa proponi? Restaurare la Repubblica?" 
"No, non è possibile. Per quanto mi sia penoso ammetterlo, i tempi non sono ancora maturi per un cambiamento del genere. Senza un uomo forte al potere scoppierà il caos."
"Allora cosa vuoi fare?"
"Vorrei far dichiarare Lucio imperatore e..." Gracco fu interrotto dall'esclamazione esterrefatta di Lucilla.
"COSA?!"
"E' l'unico erede di Marco Aurelio e con te e il Generale Massimo come reggenti, potremmo riportare la pace a Roma," il senatore si interruppe in attesa di una reazione.
Lucilla rimase in silenzio, mentre la sua mente lavorava freneticamente. Suo figlio, imperatore! Voleva davvero poggiare tutto quel peso sulle fragili spalle di un bambino di appena otto anni? Aveva visto come il potere poteva corrompere l'animo degli uomini, voleva davvero che Lucio corresse tutti quei rischi? 
Gracco intuì la sua esitazione e disse: "Non devi temere, Lucilla, con le truppe di Massimo a vegliare su di lui, il tuo bambino sarà al sicuro."
"Non se ne parla nemmeno," disse una voce decisa alle loro spalle, facendoli voltare di scatto.
Massimo era lì, appoggiato allo stipite della porta. Erano passati solo cinque giorni dal suo tragico scontro con Commodo e il generale era ancora pallido e debole. Ipparco gli aveva consigliato di rimanere a letto ma evidentemente lui non gli aveva dato retta.
Zoppicando per via della ferita alla gamba destra, Massimo si avvicinò lentamente a Gracco e Lucilla. 
"Come ti senti?" chiese lei sollecita.
"Molto meglio, grazie," rispose lui, mentre il senatore lo fissava intensamente.
"Generale, che cosa intendi dire con ‘Non se ne parla nemmeno’?" gli chiese senza preamboli. 
"Che non ho alcuna intenzione di rimanere a Roma. L'ho detto la prima volta che ci siamo incontrati e lo ripeto adesso." 
"Ma Roma ha bisogno di te, Generale. I pretendenti al potere si stanno scatenando come avvoltoi sulle carogne e se non agiremo subito scoppierà una guerra civile," si accalorò Gracco.
Ma Massimo scosse la testa. "Io non sono l'uomo adatto per guidare l'impero. Sono solo un contadino." 
"Non ti sminuire, Generale, sei un grande condottiero."
"A Roma non serve solo un condottiero, ma anche un politico e un diplomatico, qualcuno che conosca i bisogni dell'impero e possa soddisfarli e io non sono quell'uomo," rincarò Massimo con aria definitiva. Poi all'improvviso il suo sguardo si illuminò e disse: "Tuttavia potrei conoscere la persona adatta."
"Di chi si tratta?" chiese Gracco sospettoso mentre Lucilla lo guardò con interesse.
"Del governatore militare della Pannonia, Lucio Settimio Severo."
"Quel provinciale africano?!" commentò con disprezzo il senatore.
"Non fare il difficile, Gracco: anch' io sono un provinciale, eppure poco fa non ti sei fatto problemi ad offrirmi l'impero. Settimio Severo è un grande comandante, amato dalle sue truppe e cosa ancora più importante, è un ottimo diplomatico."
Massimo vide Gracco scambiare un'occhiata con Lucilla e capì che i due stavano prendendo in considerazione la sua idea. Bene, forse ora l'avrebbero lasciato in pace. L'unica cosa che voleva fare era andarsene da Roma e tornare alle sue terre, a ricostruire la sua casa e a coltivare i suoi campi. Negli ultimi mesi, non sapeva nemmeno lui esattamente quanti, aveva vissuto con un unico proposito: uccidere Commodo e vendicare i suoi cari, intimamente convinto che non sarebbe sopravvissuto al suo nemico. Ma lui era ancora vivo, era sopravvissuto allo scontro finale e ora si sentiva stanco, svuotato, disgustato da tutte le violenze che aveva dovuto sopportare e compiere e privo di propositi, come una nave senza nocchiero. Quella situazione non gli piaceva per niente e sapeva di dover reagire: gli dei avevano deciso che non fosse ancora giunto per lui il tempo di riabbracciare sua moglie e suo figlio ed egli doveva ora trovare il modo di dare un senso al resto della sua vita.
Lucilla lo guardò allontanarsi zoppicando e capì che niente e nessuno sarebbe riuscito a fargli cambiare idea. Ed era giusto così: Roma non era posto per lui. Il suo cuore era troppo onesto, troppo puro per quel mondo corrotto. La donna si girò verso Gracco e disse: "Credo che sia il caso di inviare dei messaggeri in Pannonia e convocare il Generale Severo qui a Roma: potremmo presto aver bisogno di lui." 

VI

Una settimana dopo, scortato dai suoi legionari, Massimo lasciò Roma per il porto di Ostia, dove lo attendeva la nave che lo avrebbe ricondotto in Spagna. Il trasporto, armato a spese del Senato, era il ringraziamento della città di Roma per averla liberata da un tiranno pazzo e sanguinario, anche se era ancora da vedersi in quali mani sarebbe finito lo scettro del potere. Per il momento nessuno aveva provato ad impossessarsene con decisione, probabilmente in attesa di sapere da che parte si sarebbe schierato Massimo, se si fosse schierato. Il generale era troppo popolare, troppo amato, perché potesse essere eliminato o anche solo ignorato, come dimostravano i trecento cavalieri che lo stavano accompagnando al porto. Per fortuna però, quello che dal punto di vista di molti era solo un ostacolo ai propri piani di grandezza, aveva deciso di rimuoversi spontaneamente dalla scena. Aveva accettato solo una cospicua somma di denaro - ben misero risarcimento per tutto il dolore causatogli da Commodo - offertagli da Lucilla e il Senato come dono del popolo di Roma, con cui ricostruire la propria casa e riprendere la sua vita da contadino.

*****

Fin dalle prime ore del mattino un'enorme folla si era assiepata ai bordi della strada che da Roma conduceva a Ostia: si trattava di contadini, artigiani, bottegai con le loro famiglie, convenuti con l'unico desiderio di acclamare l'uomo che così coraggiosamente li aveva liberati dal giogo della tirannia.
Massimo procedeva lentamente in mezzo a quelle due ali di folla per nulla intimorita dai trecento soldati in alta uniforme che lo scortavano. Molte persone riuscirono ad intrufolarsi tra i soldati e a raggiungere l'ex generale, nella speranza di riuscire a sfiorargli una gamba o addirittura di stringergli la mano. Per ognuno di loro Massimo ebbe parole gentili e di ringraziamento, ma tutta quella devozione lo metteva a disagio, poiché lui non aveva ucciso Commodo per il bene del popolo ma solo per una vendetta personale.
Giunto al porto, Massimo scese da cavallo, mentre i suoi soldati si schierarono davanti a lui, per porgergli l'ultimo saluto. L'ex generale li passò in rassegna come aveva quella fatale mattina nelle foreste della Germania, e per tutti ebbe parole di elogio e di esortazione a compiere bene il proprio dovere verso Roma. Poi si incamminò lungo il molo con i suoi pochi averi raccolti in una sacca di cuoio gettata sulla spalla. 
Era quasi arrivato alla nave quando scorse una figura familiare ferma vicino alla passerella che collegava l'imbarcazione al molo. "Juba," esordì sorridendo.
"Massimo," disse il Nubiano ricambiando il sorriso e dandogli una pacca sulla schiena. "Mi fa piacere trovarti così in forma, amico mio: quando ti hanno portato via temevo che non ti avrei rivisto mai più, almeno non in questa vita. Sono anche venuto al Palazzo Imperiale, ma non mi hanno lasciato avvicinare. - 
"Che cosa fai qui?"
"La stessa cosa che fai tu: torno a casa. La mia nave parte tra venti minuti."
Massimo annuì lentamente, percependo la felicità che permeava le parole del suo amico: il Nubiano aveva qualcuno da cui tornare, una famiglia che lo avrebbe accolto con gioia, un villaggio che lo avrebbe festeggiato, mentre lui avrebbe trovato ad attenderlo solo un cumulo di rovine, campi bruciati, e ricordi dolorosi. Sentendo dentro di sé una vampata di invidia che mal gli si addiceva, distolse lo sguardo, voltando la testa verso il mare.
Juba si accorse del suo stato d'animo e continuò a fissarlo in silenzio, finché i loro occhi non si incontrarono di nuovo. Allora mormorò: "Dai tempo al tempo, Massimo. Ora che li hai vendicati, lascia che tua moglie e tuo figlio riposino in pace. Non sprecare il resto della tua vita consumandoti nel dolore e nel rimpianto: sono sicuro che loro non lo vorrebbero."
"Tu parli troppo," rispose brusco Massimo, ma Juba sapeva che non era arrabbiato e che le sue parole non erano cadute nel vuoto. Rimasero in silenzio ancora per qualche istante poi il Nubiano disse: "Devo andare." 
Massimo lo attirò in un forte abbraccio e disse: "Ave atque vale, Juba, e buona fortuna." 
"Buona fortuna a te, amico mio," e dopo un'ultima stretta di mano, si voltò e se ne andò.
Massimo lo guardò allontanarsi, perso nei suoi pensieri, finché una voce non lo riportò alla realtà.
"Allora Generale, che ne dici di levare l'ancora e fare rotta per l'Hispania?" Si voltò di scatto verso la nave ed un'espressione di stupore gli si dipinse sul volto. "Valerio! Che cosa fai lì sopra?"
L' ex comandante della fanteria si appoggiò al parapetto della nave e disse: "Generale, non mi dire che ti sei dimenticato che io sono un marinaio!?" esclamò fintamente offeso. "Non dopo avermi preso in giro per dieci anni! Il marinaio che comanda le truppe di terra!"
"Certo che no!" rispose Massimo salendo a bordo e salutando il robusto soldato, che come lui era di origine iberica.
Valerio scrutò il mare con occhi esperti e disse: "Il vento ci è propizio, Generale: issiamo queste vele ed andiamo a casa."
"Sì," annuì Massimo. "Andiamo a casa." 

EPILOGO - 18 MESI DOPO

Il sole splendeva benigno sulla campagna nei pressi di Trujillo. Gli animali brucavano tranquilli, gli alberi erano carichi di frutti, i campi di grano erano dorati e quasi pronti per la mietitura e sui crinali gli ulivi e le viti crescevano forti e rigogliosi.
Dall'alto di una collina, in groppa al suo cavallo preferito, Massimo fece scorrere lo sguardo sulle sue terre e per la prima volta in tanto tempo si sentì in pace con se stesso e con il mondo. 
Osservò i suoi contadini intenti nelle più svariate attività e si ritrovò a riflettere su quanto la sua esperienza come gladiatore avesse cambiato il suo modo di vedere la vita. Prima di cadere prigioniero, aveva sempre pensato alla schiavitù come a qualcosa di naturale, scontato e necessario. Ora, la sola idea che un uomo potesse possederne un altro ed avere su di lui diritto di vita o di morte, gli dava il voltastomaco. I suoi contadini erano tutti liberti, schiavi da lui acquistati al mercato e subito liberati, per poi assumerli poi come operai salariati. Tra loro c'erano uomini, donne e bambini, tutti gran lavoratori ed estremamente leali. Non poteva permettersi di pagarli molto, ma i campi e il bestiame davano loro di che vivere più che dignitosamente.
Il suo cavallo, un giovane stallone appena domato, diede segni di impazienza, scotendo la testa e muovendo qualche passo. Massimo lo accarezzò sul collo e disse: "Hai ragione, amico mio, è ora di rientrare." Un leggero tocco coi talloni e i due trottarono via.
Stavano percorrendo il viale alberato che conduceva alla sua casa quando scorse un uomo che correva nella sua direzione. Massimo aggrottò la fronte riconoscendo uno dei suoi contadini, poi arrestò il cavallo e chiese: "Che cosa c'è, Fabio?"
L'uomo gli rispose col fiato corto. "Signore, ci sono degli ospiti."
"Ospiti?"
"Sì, domine: una signora dell'alta società con la sua dama di compagnia e quattro altri servitori." 
Massimo rimase un attimo interdetto: non aspettava nessuno e ormai da mesi non riceveva più le visite inaspettate da parte di notabili e popolani curiosi. Ad ogni modo non aveva senso stare a perder tempo, per cui spronò il cavallo al galoppo e si diresse verso la villa.
Quando arrivò al cortile antistante la casa notò immediatamente il carro di ottima fattura che vi sostava. Scese di sella, affidò il cavallo allo stalliere ed entrò. Nell'atrio gli venne subito incontro Flaminia, la sua cuoca che muovendo le braccia agitata, gli disse di aver fatto accomodare la signora nel grande triclinio. Lui la rassicurò dicendo che aveva fatto benissimo e poi la congedò.
Massimo entrò nell'ampia sala dove lui e i suoi uomini erano soliti cenare, si guardò intorno e vide la donna. Lei gli dava le spalle, persa nei suoi pensieri, ma lui la riconobbe subito e il suo cuore iniziò a battere velocemente. 
"Augusta Lucilla," la salutò emozionato.
Lei si voltò di scatto e scotendo la testa mormorò: "Solo Lucilla ora." Poi sorrise e gli si avvicinò.
"Massimo, che piacere rivederti: ti trovo in ottima forma." Era vero: lui era abbronzato, i capelli e la barba ben tagliati erano schiariti dal sole e i suoi occhi chiari sprizzavano voglia di vivere. Sembrava perfino più giovane di come lei se lo ricordava, molto più simile al ragazzo che aveva amato tanti anni prima... e che ancora amava.
Anche Massimo la osservò attentamente mentre prendeva le sue mani e se ne portava una alle labbra. Lucilla sembrava invecchiata dall'ultima volta che l'aveva vista, ma ai suoi occhi era bellissima come sempre. Sulla sua fronte e sul viso erano evidenti i segni della preoccupazione e della fatica e lui si domandò che cosa potesse averli causati. "A cosa devo il piacere della tua visita?"
Lei si scostò da lui senza rispondere e, evitando il suo sguardo, si mise a gironzolare per la stanza, sfiorando gli schienali delle sedie con la punta delle dita, e prendendo in mano alcuni soprammobili per poi rimetterli subito al loro posto. Massimo la osservò per alcuni minuti: era evidente che lei desiderava parlargli e lui cercò di renderle le cose più facili. "Ti va di camminare un po'?" le chiese.
Lucilla fece un cenno d'assenso con la testa, e lo seguì all'esterno.

Camminarono in giardino, fianco a fianco, in silenzio finché non arrivarono ad un piccolo quadrato di terra recintato da pietre dove, ricoperte da fiori multicolori, potevano essere scorti due semplici monumenti funebri. Lucilla li contemplò per alcuni istanti prima di mormorare: "Tua moglie e tuo figlio, vero?"
"Sì," annuì lui.
Il silenzio scese di nuovo tra loro e guardando il volto di Lucilla, Massimo si accorse che la donna stava combattendo una battaglia interiore con se stessa. Alla fine parve prendere una decisione, si voltò verso di lui e disse: "Non mi sono mai scusata con te per averti tradito rivelando i tuoi piani a Comodo," e così dicendo, abbassò la testa, cercando di evitare il suo sguardo.
Massimo le si fece più vicino e le sollevò il mento con dita delicate. "Non era necessario. L'hai fatto per tuo figlio, qualsiasi madre avrebbe fatto lo stesso," la rassicurò comprensivo.
Lei gli sorrise grata e disse: "E' a causa di Lucio se sono qua." 
"Come?" domandò Massimo perplesso.
Lucilla lo prese sottobraccio. "Vieni camminiamo ancora un poco... Hai seguito gli sviluppi della crisi politica a Roma?" 
Lui scrollò le spalle. "Le notizie qui arrivano lentamente e non sempre esatte; comunque so che i pretoriani avevano proclamato imperatore Elvio Pertinace, ma che è rimasto ucciso dopo solo tre mesi di regno."
"Infatti; ora l'imperatore è Lucio Settimio Severo, l'uomo che tu mi avevi consigliato di chiamare," commentò Lucilla stringendogli il braccio. 
"Che cosa ne pensi?"
"Penso che tu avessi ragione quando mi hai parlato di lui. E' un ottimo diplomatico, ha il controllo di gran parte dell'esercito e credo che potrebbe diventare un buon sovrano. Tuttavia nella capitale ci sono ancora delle sacche di resistenza, persone che non hanno ancora seppellito le proprie ambizioni o che non vedono di buon occhio un imperatore provinciale. E' per questo che me ne sono andata."
Massimo la guardò senza capire e lesse la paura nel suo sguardo. Lucilla continuò: "Poco tempo fa mi è giunta notizia di un'ennesima congiura contro Severo, solo che questa volta i cospiratori volevano mettere sul trono Lucio, il mio Lucio. Non potevo permettere che una voce del genere venisse riferita da altri all'imperatore e così sono andata a parlargli di persona e gliel'ho detto io stessa. Poi gli ho giurato eterna lealtà e ho chiesto il permesso di lasciare Roma per allontanare mio figlio dai pericoli e lui ha acconsentito. Mi ha detto di avere avuto molta ammirazione per mio padre e mi ha chiesto dove avrei voluto andare. Io gli ho accennato alla Spagna e con mia grande sorpresa lui mi ha fatto dono di alcune terre aldilà di quelle colline," e le indicò con la mano. "Per cui, Massimo, si può dire che ora siamo vicini di casa," concluse sorridendo.
Lui ricambiò il sorriso e le disse. "Benvenuta a Trujillo, vicina." Si guardarono negli occhi teneramente e lei aggiunse: "Dovrai aiutarmi con i miei poderi, perché io non so niente di campi, sementi e raccolti." 
"Sarà un piacere consigliarti."
Ripresero a camminare, ma all'improvviso Lucilla si arrestò, il viso di nuovo serio.
Massimo le toccò una spalla e chiese dolcemente: "Che cosa c'è?"
Lei lo fissò e poi mormorò: "Vorrei chiedere il tuo aiuto anche per un'altra cosa, ma non so se..." la sua voce si spense. 
"Dimmi," la incoraggiò lui.
"Lucio," disse lei velocemente, "Lucio ha bisogno di un uomo che gli faccia da guida, da punto di riferimento. Ha bisogno di qualcuno che gli spieghi come funziona davvero la vita, ha bisogno di qualcuno che gli faccia da p..." Lucilla si interruppe prima di dire troppo ma Massimo non ebbe dubbi nel completare la frase con la parola giusta, 'padre'. In preda ad una forte emozione girò la testa e si voltò a guardare le tombe di Marco e Selene. Una leggera brezza gli scompigliò i capelli e il sibilo del vento tra i rami degli alberi parve portare con sé la risposta alla sua muta domanda. "Acconsenti, Massimo, hai ancora tanto amore dentro di te. Non lo sprecare." 
Un ampio sorriso gli si dipinse lentamente sul volto e nel vederlo il cuore di Lucilla fece le capriole.
"Sarò onorato di aiutare Lucio a crescere, se lui me lo permetterà." 
"Se te lo permetterà?! Ma vuoi scherzare? Durante tutto il viaggio non ha fatto altro che dire ‘Massimo qui, Massimo lì’. Oggi ho dovuto letteralmente chiuderlo a chiave in camera sua per riuscire a parlarti da sola!" 
"Davvero?"
"Certo! Non ti ha mai dimenticato, nemmeno per un attimo."
"Neanche io l'ho mai dimenticato." Si guardarono negli occhi e, vinto da un impulso irresistibile, Massimo chinò la testa e le diede un bacio. Lucilla gli gettò le braccia al collo, lo tenne stretto a sé e quello che era cominciato come un bacio fraterno divenne molto ma molto di più. Quando si staccarono lentamente l'uno dall'altra lei sussurrò: "Credi che ci sia qualche speranza per noi?"
Lui la guardò teneramente e rispose: "Non lo so, però possiamo fare un passo alla volta e vedere insieme come andranno le cose." Lucilla annuì e lui continuò: "Adesso rientriamo in casa e poi andiamo a liberare Lucio: stasera sarete miei ospiti a cena." 
Massimo porse il braccio a Lucilla, lei lo prese gioiosamente ed insieme si avviarono a passo lesto lungo il viale, accompagnati dal canto delle cicale e dal profumo dei fiori.

 

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