interpretazione letteraria del progetto

“LA CASA PIU’ BELLA DEL MONDO”

Mi sono svegliata in una nuova euforia: di lì la curva delle colline a fermare l’orizzonte; di qui, l’operoso brusio della città. Mi sono presa le misure frammezzo: ho cominciato ad ascoltarmi per stabilire confidenza col mio proprio spazio. Non è subito facile imparare ad abitare nel mondo: piantati sul quadrante terrestre e, insieme, con vaga perspicacia del cielo aperto. Quindi ho sbadigliato soddisfatta per essere emersa dalle fantasie: adesso io esisto, mi sono detta. Non mi disperdo più nell’accozzaglia dei pensieri interrotti e dei progetti mancati. Adesso io vado pensandomi: perciò, forse, esisto. Di quei primi momenti ho ricordi confusi; sentirsi nuovi significa anche subire una qual dispersione già con se stessi. Di qui ti freme il terreno d’attorno, di lì avverti un istinto conflitto nel suolo, poi ti capita una frescura a scompigliarti gli infissi, mentre dappertutto è un volteggio di pieni e di vuoti, di aperture, di forma, di falde oblique e di passaggi in piano o in ascesa. Insomma, dovevo riordinare i miei sogni slegati - congetture di uno stile ideale - per trasformarli in pensieri compatti, che sono l’identità. Sembra, d’altronde, che perfino il concetto più rifinito sorga da un sentimento di fondo. Da un’indole, magari da una propensione che nicchia nel buio dell’animo. Questa è stata la mia prima impressione: di avere una natura doppia, un carattere anfibio che mi scinde e insieme mi salda. Mi oppongo tra me eppure, come credo, al solo scopo d’ingranare un equilibrio tra le parti. Era, del resto, una semplice suggestione; eppure, proprio al mio interno, ho immaginato che si avverasse un connubio, o un sodalizio, o una discorde concordia. Un’armonia, dunque, che risulta dalla tensione tra opposti. Non voglio, ora, fare inutile sfoggio di sofismi, che in quell’esordio non potevo possedere. Tuttavia, la sensazione immediata di una duplice vita questa si, un presentimento del destino, che è il mio Come tutte le giovani creature, ho provato l’impulso di scoprire e sapere. Ho seguito una voce ancora inespressa, fatta di vento, filtrata dall’ambulacro che nel mio interno segna un confine - una sorta di giunto o cerniera dell’anima. Il muro che gli dava perimetro s’è aperto in un lato, attirandomi al gioco sobrio di un cortiletto: un angolo semplice, piccolo se vogliamo, eppure con l’espressione di cui medita. Anche qui, un equilibrio: tra spigoli intagliati, introversi, e le fronde composte ma libere di un alberello - sono ancora ignorante di flora e di fauna: perciò me ne sfugge il nome. Lo considero un pegno del mondo, un modo per ricambiare l’ospitabilità fra dentro e fuori. Ho proseguito, e mi sono dilatata fra stanze affacciate sull’erba, sui solchi, sull’opera e sui giorni della campagna accanto. Sperimentavo uno spazio che dava braccetto ai colori terragni: incomiciavo la natura e l’accoglievo in me, quasi prolungandomi in essa. Mi aggiravo imparando, attaccata al suolo e golosa di una vista immediata, raso terra. Però, ricordando la doppia vocazione che avevo intuito al principio, mi son levata di sotto in su profittando di un altro cortiletto, simmetrico ed opposto allo spazio dell’albero (non so ancora se sia un bosso, un carpino o un acero). Da questa parte ho sentito il richiamo verso una direzione incrociata alla mia precedente: non più a giro d’orizzonte, bensì slanciata in verticale. Era l’altra mia propensione che si faceva notare: incombeva o svettava su di me, dentro me. Ho risalito una scala protetta da un astuccio di vetro e mi sono addentrata nell’alto, traverso stanze tra loro accorpate, sino al piano secondo. Qui, tutt’intorno, mi ha accolto un brusio di parole, un coacervo di frasi, declamazioni, bisbigli: dappertutto, a partire da quattro cantoni, si snodavano gli scaffali di una biblioteca. Interrotti da vetrate convesse, subito riprendevano fiato migliaia e migliaia di discorsi stivati nelle coste policrome, rilevate e in brossura. Un coro, una grande enciclopedia della cultura che, lo confesso, mi ha subito messo in soggezione. Quelli nuovi e giovani, come me, si sfrenano nella luce, nei refoli di vento: ma qui la luce era dosata, e il vento frusciava di parole. A incoraggiarmi in questa mia parte concliusa è stato un soppalco centrale, un poggiolo interno da dove si abbracciava l’insieme dei libri. Ancora uno scatto di scala, di sopra, e mi sono trovata in una specie di specola a ottagono: come un periscopio sporgente nel cielo. Qui si culmina in contemplazione aerea, a volo d’uccello: sicché ciò che sotto (in biblioteca) è panorama verbale, ora si compensa in panorama di colli, di campi squadrati a coltivi, di profili urbani e di tutta la variabile comparsa di nubi. Con emozione ho toccato il mio culmine e, insieme, ho abbracciato il mio perimetro; ne ho ricavato uno schema all’ingrosso della mia personalità, proprio mentre qualcuno cominciava ad abitarmi. Qualcuno che dava sostanza alle mie ricognizioni e le verificava in gesti, in consuetudini, in tempo vissuto. Non fosse per le modifiche del fogliame, e per l’oscurità che spiove giù dalla specola a ritmo alterno, il tempo sarebbe per me una nozione superflua. Mi capacito che altri libri sono arrivati, il fruscio conversevole è in aumento. Sento che nei miei spazi ascendenti si ritempra una cura devota alle parole; mentre in quelli distesi a giro di cintura (un chiostro aperto sull’esterno), si riposa l’efficienza dedita alle cose. Linguaggio e azione: di lì una vita pragmatica, di qui una vita teoretica. Dovrei soffrirmii strabica, per quest’uso doppio del mio interiore: invece mi affermo in entrambi, come succede in quei sistemi organici (chiamati “cervello”) dove una metà provvede a ciò per cui l’altra è negata. Così, acquattata in un luogo di me che penso di raccordo comune, mi capita di riconoscere i miei due inquilini a partire da un disegno (o stemma, o crittogramma) disteso a pavimento, disposto ad entrambi, che ritrae la fotografia del mio spirito. Si tratta di un simbolo dei luoghi nativi, qui d’intorno, un paesaggio dell’anima tirato però in linee precise, perfino economiche, su cui i depositano le tinte familiari del mio.circondario - color di trattori, boscaglie, terre fertili. A volte mi spingo all’infuori per spiare la strada: sbircio a destra e a manca, subito stupita per due colonne che fiancheggiano. So che non stanno lì per vanavoglia, bensì come avviso del mio carattere duplice. Poi, nonostante la mia esperienza cresciuta, mi lancio in capriola: scendo la scala nella guaina di vetro per un’esplorazione degli ipogei sottostanti il mio ritratto a pavimento - vado giù nel mio inconscio, un mistero buffo del tutto domestico. Insomma mi svago tra me e me, mi radico nel mondo sapendo che non basta mai una sola e unica vocazione per viverlo in bellezza. Ci sono dei giorni, quando l’aria di collina smuove l’alberello e si azzarda in risalita della scala, su fino alla specola: ebbene, mi viene da ridere - una casa che ride! La lucerna vibra di concerto coi miei occhi socchiusi sui campi. Mi concedo allora, doppia in una, di sentirmi affiatata, come fossi la casa più bella del mondo.

(Marco V. Borghesi)