La vera storia del Tenente pilota Lyth
L’8 febbraio 1945 una squadriglia di aerei americani che aveva condotto un attacco aereo nelle retrovie del fronte della Garfagnana, rientrava alla base e il capo-squadriglia redigeva il seguente rapporto:
“” 8 Febbraio '45. Il Lt. Alfred R. Lyth, del 66th FS /57th FG, a
bordo del P-47D 42-29307, fu costretto a
lanciarsi con il paracadute
dopo che il suo aereo era stato
investito dall'esplosione provocata da
un treno carico di munizioni nei pressi
di Castelnuovo Garfagnana.
Mentre cabrava, dopo aver sganciato le bombe, il suo caposezione, 1st
Lt. Mosites, notò lingue di fuoco uscire dal turbocompressore
dell'aereo di Lith. Gli ordinò di dirigersi verso Sud.
Immediatamente dopo, il Lt. Lith
rovesciò il proprio aereo e si lanciò,
da circa 4000 piedi. Il vento portò il paracadute di Lith ad
atterrare mezzo miglio ad Ovest di Castelnuovo. Un
aereo leggero
da osservazione L5, fu notato
dirigersi verso il punto in cui Lith era
atterrato. L'aereo si schiantò a Cerretoli. “”
In realtà non era “un treno carico di
munizioni” che Lith aveva preso di mira, ( fin dal
giugno dell’anno prima non era più giunto nessun treno in Garfagnana)
bensì una galleria ferroviaria all’interno della quale erano ricoverati
bersaglieri della Divisione “Italia” (presumibilmente artiglieri) e, forse, un
deposito di munizioni.
La
vicenda era stata seguita e attentamente osservata da molti garfagnini
che furono testimoni oculari dell’accaduto. In particolare la seguirono quei garfagnini che si trovavano nei pressi del luogo dove
l’aereo cadde e dove il pilota, lanciatosi col paracadute, atterrò.
Erano gli ultimi mesi di guerra e l’aviazione
nemica (americana e inglese) dominava pressoché incontrastata i cieli della Garfagnana, anche se la contraerea si faceva sentire e
riusciva ogni tanto ad abbattere qualche aereo.
Ed era così anche quell’8 febbraio 1944.
Quella mattina erano cacciabombardieri americani P47D
a battere
le retrovie del fronte. Ruotavano nel cielo fino a che non avevano individuato
il bersaglio e fino a che non avevano assunto la posizione adatta, poi si
gettavano in picchiata mitragliando fino a poche centinaia di metri dal suolo,
sganciavano le due bombe di circa 250 chili l’una, poi cabravano e si
riportavano in alto.
Quel giorno il Lyth
aveva preso di mira l’imbocco della galleria dei Messali situata fra la
stazione di Castelnuovo Garfagnana
e la stazione di Villetta San Romano, sulla linea ferroviaria Lucca-Aulla. Su tale linea, che all’epoca non raggiungeva
ancora Aulla ma si fermava a Piazza al Serchio, non
passavano più treni, come già detto, dal giugno 1944, allorché successivi
attacchi aerei avevano distrutto tutto il materiale rotabile disponibile, per
cui i militari sia italiani che tedeschi utilizzavano le gallerie come luogo di
ricovero per uomini e munizioni. E anche la galleria dei Messali veniva
utilizzata in questo modo.
Fatto sta che il Lyth
si gettò in picchiata proprio per colpire l’imbocco di tale galleria. La
picchiata fu effettuata e le bombe sganciate esplosero fragorosamente. Ma,
purtroppo per il pilota, l’esplosione investì anche l’aereo che stava cabrando
e che, forse, si era abbassato eccessivamente.
Non, dunque, l’esplosione di un treno carico
di munizioni , ma, molto più semplicemente, l’esplosione delle sue stesse bombe
provocarono la caduta dell’aereo. E’ da escludere l’esplosione di munizioni
ricoverate in galleria perché ciò avrebbe provocato morti e gravi danni alla
galleria stessa, cosa che non risulta accaduta. L’esplosione di un deposito di
munizioni avvenuto nella notte fra il 3 e il 4 aprile 1945 nella galleria
ferroviaria “della mula” nei pressi di Camporgiano,
infatti, fece crollare buona parte della galleria che dovette essere
ricostruita nel dopoguerra e dilaniò i corpi dei bersaglieri che la occupavano.
Così la gente vide (e forse vide lo stesso Don
Palmiro Pinagli, parroco di Filicaia,
che registrò scrupolosamente il fatto nelle sue cronache) l’aereo che tentava
di allontanarsi verso sud lasciando una vistosa scia di fumo, poi lo vide
rovesciarsi e vide il pilota che si lanciava con il paracadute.
E molto più chiaramente degli altri e con ben
maggiore preoccupazione assisterono alla
scena gli uomini e le donne della famiglia Pioli che videro con spavento
l’aereo precipitare molto vicino alla loro casa.
I Pioli, infatti, abitavano all’epoca una
casa colonica situata a sud di Cerretoli, in un luogo
detto “Scepato di sopra” e l’aereo del Lith si schiantò a poco più di cento metri a sud della loro
casa.
Possiamo immaginare l’emozione che l’immagine
dell’aereo che precipitava, il terribile fragore dello schianto al suolo
avranno provocato negli allibiti e allarmati spettatori.
E nuova emozione avrà certamente provocato la
visione, sopra le loro teste, del pilota che stava scendendo appeso al
paracadute.
Essi ne seguirono con lo sguardo la discesa e
l’atterraggio, avvenuto questa volta a poco più di cento metri a nord della
loro casa. I due Pioli, il padre Silvio e il figlio Pietro , corsero sul luogo
e videro che il pilota era rimasto impigliato fra i rami di un pioppo ed era
impossibilitato a scendere perché avviluppato dalle corde del paracadute.
E quale sarà stata la loro sorpresa nel
constatare che l’uomo teneva stretta fra le braccia una cagnetta che,
evidentemente, egli aveva condotto con se sull’aereo.
Valutata rapidamente la situazione, i due
Pioli salirono sul pioppo, tagliarono con un pennato le corde che trattenevano
il Lith e lo aiutarono a scendere dall’albero. Una
volta a terra, essi avrebbero condotto l’uomo, che aveva una gamba dolorante
per averla battuta violentemente contro un ramo del pioppo nella caduta, presso la loro casa. Ma proprio in una stanza
della loro casa, all’uopo requisita, aveva sede un piccolo presidio della
Divisione “San Marco”, e gli uomini del presidio, che pure avevano assistito
alla caduta dell’aereo e alla discesa del paracadute, corsero subito sul luogo
dell’atterraggio del pilota per farlo prigioniero
Ma ecco che, dopo breve tempo, giungono sul
posto anche alcuni uomini dell’esercito tedesco
che avevano presidio poco sopra,
in una casa distante poco più di 200 metri (Casa Bonini)
e che avevano potuto, essi pure, osservare la caduta dell’aereo e la discesa
del pilota.
Al primo incontro col pilota i comportamenti
sono improntati alla correttezza. Il tenente Lith
offre sigarette a tutti e si tenta di scambiarsi qualche frase mentre si fuma.
Ma poi coi tedeschi nasce una disputa perché i tedeschi vogliono portare via il
pilota prigioniero mentre quelli della San Marco, che lo avevano catturato,
volevano considerarlo loro prigioniero e tenerlo. Quelli della San Marco, però,
hanno un piccolo presidio mentre la pattuglia tedesca è piuttosto numerosa, per
cui prevale la volontà dei tedeschi che se lo portano via.
Prima di andarsene il pilota riesce in
qualche modo a farsi capire e raccomanda di non fare del male alla cagnetta
alla quale era, evidentemente, molto affezionato. Questa sopravviverà,
verrà adottata da un certo Gualtierotti e vivrà a
lungo partorendo anche molti cuccioli, regalati a questo e a quello. E,
forse, qualche discendente della
cagnetta vive ancora in Garfagnana.
Il Lith viene
dunque condotto via e sollecitato a camminare alla svelta. Ma egli ha una gamba
dolente e cammina piano. Qualcuno dice che è stato visto un tedesco spingerlo
brutalmente per farlo accelerare, colpendolo addirittura con dei calci nei
polpacci.
Il prigioniero viene condotto alla “Palazzina”
, una villetta nei pressi di Antisciana e consegnato
al comando del reparto della divisione “Italia” che è lì acquartierato.
Subito il prigioniero viene condotto a Camporgiano ove si trova il comando della divisione col suo comandante Generale Mario Carloni. A prelevarlo andò personalmente, con un autista,
il Capitano Simonitti che era a capo, in quel
periodo, dell’ufficio informazioni (Ufficio 1–C ) essendo il capitano Ruini,
titolare di quel comando, in permesso.
A Camporgiano vengono
mostrate al pilota le rovine dell’Ospedale Militare distrutto da un
bombardamento poco tempo prima malgrado le grandi croci rosse dipinte sul tetto
degli edifici. Subito dopo viene portato prima nella ex caserma dei carabinieri
ora sede dell’ufficio informazioni, poi al comando, presumibilmente nei locali
scavati sotto la rocca estense. In questi casi funge da interprete il Tenente Peruzzi che conosce l’inglese, Il prigioniero risponde alle
domande riferendo il proprio nome e il proprio grado evitando di fornire
qualsiasi tipo di informazione. Il generale Carloni
esprime il suo apprezzamento per il corretto comportamento del prigioniero.
Subito dopo il Lyth viene ricondotto all’ufficio
informazioni.
Ed ecco che
accade qualcosa di non molto chiaro. Pare che il capitano Simonitti, che era rimasto molto turbato dal bombardamento
dell’ospedale, fosse molto indignato con i piloti nemici e li accusasse di
essere dei veri criminali di guerra. E a un certo punto disse che riteneva che
il Generale Carloni gli avesse rivolto un cenno che,
secondo lui, era l’ordine di uccidere il prigioniero. I suoi collaboratori,
primo fra tutti il tenente Peruzzi, tentarono di
dissuaderlo dicendogli che forse aveva interpretato male la volontà del
generale. E lo invitarono a tornare dal generale stesso per avere un eventuale
conferma esplicita dell’ordine. Ma Simonitti fu
irremovibile. Nel pomeriggio fece scavare una fossa nel retro del cimitero e la
sera tardi vi condusse il prigioniero
insieme al caporale Pilon, a un certo tenente Paolini (personaggio equivoco
aggregato, non si sa bene come, all’ufficio informazioni) e a un altro soldato.
Giunti davanti alla fossa il capitano Simonitti
ordinò a Pilon di sparare al prigioniero che,
colpito, cadde nella fossa e non si mosse più. La versione ufficiale che fu
diffusa fu che il prigioniero aveva tentato la fuga ed era stato ucciso.
E non se ne parlò più. Ma subito dopo la fine della guerra – doveva essere
intorno alla metà di maggio – ecco che arriva a Camporgiano
un grande furgone bianco, si ferma davanti al cimitero, ne scendono alcuni
uomini vestiti con tute bianche e con mascherine davanti alla bocca e si
mettono a scavare dove era stato sepolto il Lyth.
Estraggono il corpo che era stato sepolto senza cassa e lo portano davanti al
cimitero, dove erano stati sepolti anche tutti i morti della guerra, vicino al
fugone. Qui i molti ragazzi curiosi che erano accorsi per vedere (fra cui il
sottoscritto) poterono constatare che il corpo era ancora intero (non era,
cioè, ridotto a scheletro) anche se la carne, ormai putrefatta, aveva assunto
un colore grigiastro. Gli uomini in tuta bianca, deposto il corpo a terra, lo
esaminarono a lungo con molta attenzione. Particolare attenzione posero
nell’esaminate l’etichetta della maglia, sul dorso del cadavere. Una volta
accertata l’identità del caduto, chiusero il cadavere in una apposita sacca
impermeabile, lo caricarono sul furgone e se ne andarono. Una certa imponenza
dell’intervento e, soprattutto, la rapidità, alimentarono la leggenda che si trattasse
dei nipote del presidente degli U.S.A. allora in carica, Truman. Ma non se ne è
mai avuto conferma.
La storia ha un seguito, perché gli americani cercarono di individuare i responsabili di quella morte. Così ricercarono fra i prigionieri catturati a fine guerra il Capitano Simonitti, capo dell’Ufficio informazioni, il sergente Pilon e il generale Carloni e li processarono con l’accusa di aver ucciso un prigioniero di guerra. Siamo ora in possesso degli atti del processo (celebrato dal 25 settembre al 4 ottobre del 1946) dai quali emergono, anche per le confessioni di alcuni imputati, tutti i particolari della vicenda e le responsabilità. Il processo si concluse con l’assoluzione del Generale Carloni, la condanna all’ergastolo del caporale Pilon e la condanna a morte del Capitano Simonitti. Egli fu fucilato il 27 gennaio1947 presso il poligono di tiro di Pisa. Il Sergente Pilon fu condannato all’ergastolo.
Ci sono altre due notizie, tuttavia, che vale la pena di riportare:
La prima riguarda un giudizio sul Capitano Simonitti. Alcuni anni fa un ricercatore storico intervistò il Cav. Ernesto Pellegrinotti che in tempo di guerra era Capo di Stato Maggiore del II Btg della Brigata “Garfagnana” della Divisione partigiana Garibaldi Lunense (con tale titolo è citato nel suo Un partigiano isolato di Bruno Zerbini che fu comandante di quel Battaglione) e che è poi stato anche Sindaco di Minucciano. Durante l’intervista il Pellegrinotti apprese della fucilazione del Simonitti e si mostrò molto dispiaciuto. Disse che l’aveva conosciuto perché una volta era stato arrestato proprio dagli uomini del Simonitti. Ed era stato il Simonitti che lo aveva interrogato comportandosi – sempre secondo il Pellegrinotti - con molta umanità e correttezza, lasciandolo, infine, libero.
La seconda riguarda la visita che un nipote del Simonitti fece a Camporgiano alcuni anni fa. Egli voleva vedere i luoghi ove erano avvenuti i fatti che avevano portato alla morte lo zio e raccogliere notizie e giudizi da parte di chi lo aveva ricordato e conosciuto. Aveva con se un diario scritto dal Capitano Simonitti durante i due anni di detenzione, del quale, però, fece conoscere solo alcuni brani rifiutandosi di far conoscere l’intero diario. Secondo il nipote, il Simonitti sarebbe stato sottoposto a vere e proprie torture psicologiche per indurlo a rivelare particolari inesistenti. Gli dicevano, ad esempio, che sarebbe stato accusato di aver seviziato il prigioniero e, addirittura, di avergli tagliato le mani e i piedi. Il che era sicuramente non vero. Ma per uno che sta per essere processato tali insistenti accuse rappresentavano una vera e propria tortura psicologica.
(Scritto con la collaborazione di Francesco Pioli, figlio di Pietro, e della zia Rina Pioli, presente ai fatti, nonché con la consulenza del Dott. Giulio Verrecchia per quel che riguarda gli atti del processo)
La famiglia Pioli all’epoca dei fatti
La
zia Rina oggi