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Maria nella letteratura

Antonello da Messina
 

 

sommario  
Maria e la Trinità  
Maria e i poeti maledetti  
Ave Maria

MARIA, OSTENSORIO DELLA TRINITA.

 

 

LA MARIOLOGIA TRINITARIA NELLA LETTERATURA ITALIANA DEL NOVECENTO

Scorrendo le antologie della letteratura d'ispirazione religiosa si resta colpiti dalla presenza di testi mariani. Recentemente A. Lacchini e C. Toscani hanno pubblicato un elegante volume di circa 500 pagine, splendidamente illustrato, che raccoglie una massa di testi poetici di autori italiani ispirati a Maria. Anche autori estranei al cristianesimo, dinanzi alla madre di Gesù, avvertono una particolare attrattiva che traducono in pagine soffuse di misteriosi richiami. Basta sfogliare il volume Mater Dei-2 di don G. De Luca per rendersene conto. Come spiegare tale attrazione? La risposta è semplice: Maria è l'incarnazione della bellezza, divina e umana. Ora, essendo l'uomo fatto per la bellezza, non può non essere attratto da colei nella quale la bellezza increata si riflette in pienezza. Non soltanto: in Maria, nuova Eva, sono espressi il nostro destino, la tenerezza materna, l'ideale femminino; e l'homo viator scopre in lei un approdo di pace.
L'ispirazione mariana della letteratura italiana trova in Dante un'espressione poeticamente e teologicamente perfetta. Egli ha il merito di aver visto Maria all'interno del mistero della Redenzione: Dio-Trinità l'ha eletta fin dall'eternità ad essere la madre del Verbo, termine fisso d'eterno consiglio; madre e figlia di Dio che le è padre e figlio; insieme vergine e madre, Vergine madre, figlia del tuo figlio. Petrarca nella canzone alla Vergine bella tocca vertici altissimi di poesia, ammantati di teologia, ma non raggiunge la forza teologica di Dante. I bellissimi versi della canzone sono la testimonianza della sua inquietudine psicologica e della catarsi di un'anima che ha vanamente amato e che infine si volge a colei che può placare i suoi tormenti e restituirlo al vero amore. Anche Boccaccio, negli ultimi tempi della sua vita, toccato dalla grazia, ha invocato Maria come guida e madre di misericordia
Dal secolo XIV in poi l'ispirazione mariana della poesia non si spegne, ma viene a mancare di vigore teologico. Sottol'influsso umanistico, che ha staccato gli animi da una concezione teologica e  religiosa della vita, anche la poesia mariana subisce un processo di impoverimento. Ci sono eccezioni (Vittoria Colonna, Torquato Tasso), ma generalmente essa è priva di autentico calore religioso. Nell'Ottocento Manzoni le ridona un'ispirazione genuinamente cristiana, ma accanto a lui e dopo di lui essa è carente di afflato poetico, sa di retorica, è monotona nei toni. alcuni  poeti poi (Severino Ferrari, Arturo Graf, Giosuè Carducci Gio- vanni Pascoli e perfino D'Annunzio) ' dedicheranno alla Vergine rime e versi, ma come a un ideale di bontà.
Nel Novecento l'ispirazione mariana della nostra letteratura è piuttosto diffusa e modulata su diversi registri. Generalmente però è puro sentimento, che si esaurisce nell'esaltazione dell'innocenza, della maternità, della bellezza e della nostalgia dell'Alto; talvolta è intuizione di realtà trascendenti di cui si captano frammenti senza scoprirne il Tutto. Soltanto quando il poeta è illuminato dalla fede, le sue parole rivolte alla Theotokos diventano genuina poesia mariana. Non si può chiedere a Carducci, a Rilke quanto si chiede a Gertrud von Le Fort, a Claudel a Rebora. Qui tenteremo una veloce ed essenziale carrellata sulla mariologia trinitaria degli autori italiani del Novecento.


«E tu, la Pura, il Creatore esprimi»
Chi è Maria? Nella raccolta poetica Miryam di Nazareth Elio Fiore (1935-) chiede: Uomini, conoscete il suo cuore? l'anima di Maria? L'interrogativo lascia perplessi perché in lei si
densa un mistero che sconfina nella Trinità. Il poeta lo tratteggia in versi semplici ed essenziali:
Figlia del Figlio, germinata dall'Amore del Padre e del Paraclito.
Dio disceso in lei per ristabilire
la Giustizia e la Pace, la Vita eterna.

Per sconfiggere la Morte e le Tenebre.

Uomini, conoscete il suo Cuore?.
Clemente Rebora (1885-1957), durante la sua vita appassionata, tesa tra nostalgia dell'Assoluto e pesantezza del vivere, ha tenuto lo sguardo fisso sull'Immacolata sia per irrobustirsi nella fiducia sia per carpirne i lineamenti. Ha espresso in un verso il risultato del suo indagare: E tu, la Pura, il Creatore esprimi. Nella visione reboriana, Dio «esprime», cioè manifesta se stesso e modella il creato.
L'Amante Padre aveva in suo consiglio

la Tuttabella a modellar le cose

secondo l'Esemplare di suo Figlio [...].

Così il creato, ov'è più meraviglia,

 sorse per lei; e stelle e rose, e i cuori

presero in lei a palpitar di Dio
quando da lei il Sol che tutto avviva

sorse in luce d'amor per ogni nato [...].

E tu, la Pura, il Creatore esprimi.
Dio Padre crea ogni cosa nel suo Verbo. Maria è il riflesso del Verbo; conseguentemente si può affermare che la creazione è modellata su di lei. Da tale visione circolare Rebora - poeta e
teologo - trae una conclusione che riecheggia il famoso testo paolino nella Lettera ai Romani (8,19-23):
O creazion, che ansiosa aneli,
non più al peccato ma servir d'ascesa

marianamente per Gesù al Padre: perché, finito il tempo, giunga l'ora

- assorbita in vittoria e guerra e morte

- allor che il Padre ogni lacrima asciughi:
e sia, ecco, tutto in tutti il nostro Dio
.
Si noti l'avverbio marianamente: il nostro tendere a Dio deve percorrere i sentieri percorsi da Maria, illuminati dalla sua luce, poiché Dio l'ha resa guida del nostro pellegrinaggio terreno. La visione poetico-teologica di Rebora si dilata e abbraccia i grandi misteri della fede. In essi il Poeta vede la Vergine come corredentrice e mediatrice di grazia; è anche la Regina della storia perché il flusso
della Grazia, inaugurato dalla Redenzione, vivifica le nostre grazie alla sua materna mediazione, sì che possiamo essere introdotti alle Nozze celesti, gloriando al Padre per la Madre il Figlio.
«Albergo santo del Figlio»


L'episodio dell'Annunciazione, nella poesia come nella pittura è ricorrente. Il concentrarsi in esso di tempo e di eternità, di risonanze angeliche e umane, di storia e di mistero, di attesa e speranza genera un tumultuare di sentimenti che orientano al mistero trinitario. Qui la poesia diventa adorazione, stupore,  fioritura di gioia. Lo spazio di una stanza si dilata in dimensioni sconfinate, le voci dei protagonisti si perdono negli sfondi dell'amore divino, l'ansia dei secoli si placa, la terra è riconsacrata.
Nella poesia Il nome di Maria Marcello Camillucci ( immagina che l'umanità attenda il dischiudersi della pupilla di Dio per leggervi dentro il nome misterioso/ che avrebbe ricongiunto terra e cielo. Quando la divina pupilla si dischiude, la voce che non si ascolta senza morire giunge sulla terra. È una voce grave come quando, sul Giordano, scese la Colomba sull'Atteso.
Quel nome, ancora celato ad Israele,/ era il tuo, Maria, esclama il poeta, dopo aver ascoltato la voce dell'Alto:
In Te, piena di grazia, mi sono compiaciuto,

albergo santo del Figlio, virgineo ospizio della croce perché da patibolo infame
si mutasse in ara di misericordia e gloria.

Narrando il mistero dell'Incarnazione Luigi Santucci  si sente sconvolto, tra incanto e stordimento. «"Lo Spirito Santo verrà su di te [...] ". Tu hai accettato questo sposo sconfinato, senza occhi per guardarti, nascosto in tutte le cose eppure sì crudelmente lontano, e gli hai risposto il tuo sì. In Ferruccio Parazzoli (1935-) lo stordimento di Santucci diventa sgomento «Qual bambino che nasce e viene posto nel presepe, esiste la sua natura divina, fin dall'eternità, così come esige Dio, poiché egli  stesso è quel Dio uno e trino che, nel Figlio, viene a condividere la natura umana». Questa verità dogmatica sgomenta lo
scrittore e lo sospinge sull'orlo di un abisso. Deve farsi violenza per non precipitarvi. A tale scopo si aggrappa alla verità rivelata e la proclama come un canto di vittoria: «Lo Spirito Santo che è "Signore e dà la vita", è mandato a santificare il grembo della Vergine Maria e a fecondarla divinamente, facendo sì che ella concepisca il Figlio eterno del Padre in un'umanità tratta dalla sua».
In conseguenza dell'Incarnazione la nostra non è più una Waste Land, una terra desolata, ma un santuario, perché in essa, col Verbo incarnato, abita la Trinità e non se ne allontanerà più. «Allora il cielo si confuse con la terra» scrive Marco Beck. «Punto di contatto rimase (e rimane: "Ecco, sono con voi fino alla fine dei tempi") quel corpicino palpitante [...]. Il Verbo incarnato riposò sul petto ansante di Maria, avendo già compiuto il suo primo miracolo: Dio era nato da una donna». Il poeta Giovanni Cristini (1925-98) si chiede perché il Verbo è voluto nascere da una donna e discendere in mezzo a noi/ nel nero fiume del mondo. La risposta spalanca l'abisso dell'amore di Dio. Il Verbo si è fatto uomo per diventare albero pietra sangue e fuoco cioè vita, roccia di salvezza, sangue redentore, fuoco d'amore. Maria pronuncia il suo «sì», e sulle nostre oscure radici fiorisce 1'amore.
Rebora riprende gli stessi motivi e li sviluppa su uno sfondo trinitario che richiama la meditazione sull'Incarnazione degli Esercizi Spirituali di sant'Ignazio di Loyola. La Trinità decreta la partecipazione dell'uomo alla vita divina e attende che Maria acconsenta di esser la madre del Messia.
«Ave...» L'Angelo è lì. Forse l'atroce

che sedusse Eva? «Non temere, darai

alla luce Gesù».
«Come? Non so quaggiù».

«Tutto può Dio: di Spirito avrai

il Suo Figlio». «Ecco. Sì». Fulge la Croce.
I versi della lirica sono lapidari, le parole si perdono nell'eternità: rivelano la volontà di Dio che invita a nozze? l'umanità, e la volontà di Maria che acconsente al progetto trinitario: S'immola, avvampa il cuore:/ «Conoscan Te, Signore,/ i miei fratelli!».

«Annunciazione»
Il tumultuare di sentimenti e di pensieri che si avverte dinanzi al mistero dell'Annunciazione è stato espresso da Laura Bosio in  Annunciazione, opera colta, densa di contenuto, ben costruita; Il personaggio narrante (l'Autrice) riferisce di una sua visita alla pinacoteca di Volterra. «In una fuga di marmi e di campagna tra una spirale di veli, atterra un angelo [...]. Un giglio brandito in una mano, l'indice puntato nell'altra, protende il viso in un atrio di colonne dove una donna indietreggia lasciando cadere un libro. Lo sguardo di quella Madonna dipinta da Luca Signorelli non l'abbandonerà mai più. Da quel giorno interroga Annunciazioni» (p. 13). Il volume è la storia di queste interrogazioni effettuate nelle terre della storia biblica, della poesia, della pittura, della mitologia e della mistica.
La Bosio non ha inteso comporre un'opera di catechesi né di ricerca scientifica; ha raccolto e ordinato una miriade di tasselli riguardanti l'Annunciazione, per comporre un mosaico che riecheggiasse la ricchezza e la profondità dell'evento evangelico. Maria è lo «specchio in cui Dio riflette la sua immagine. Vetro che lascia trasparire ogni oggetto senza venirne alterato. Di vetro è il vaso in cui si rinfrescano i gigli delle Annunciazioni» (p. 117). Certo, Dio è inimmaginabile, ma in Maria ci è dato intravedere, analogicamente qualche raggio della divinità. Per esempio, la santità l'amore che si dona, la bellezza nella sua interezza.
Quando l'io narrante si chiede quale sia il tratto distintivo di Maria, la risposta è perentoria: il silenzio, non 1'ubbidienza.
«Ma l'ubbidienza non è forse ascolto profondo? Oboedientia da ob-audio, ascolto profondo di ciò che sta sotto, oltre la parola immediatamente udita. Silenzio di Dio e silenzio di Maria. Nel primo, la sorgente pura del Verbo, l'origine senza origine, l'inizio di tutto ciò che esiste nella gratuità della creazione. Nel secondo, la preparazione, lo spazio aperto, il grembo pronto ad accogliere la parola, il nuovo inizio».
Elencando i simboli sotto i quali si cela la Vergine - «Perla che genera perle nella sua conchiglia», «Giardino inebriante», candida», «Albero», «Specchio di Dio» - l'attenzione si sofferma
su «Maria. Un libro. Un corpo sigillato da contemplare, da interrogare, da interpretare [...]. Un testo difficile da comprendere in cui la mano del Padre ha scritto il Verbo incarnato [...]. Scriba ispirato: lo Spirito santo. Stilo infallibile: la lingua di Dio» (p. 128).
La validità di Annunciazione risulta non soltanto dalla ricchezza tematica e dalla sapiente struttura letteraria, ma anche dalla capacità di trasportare il lettore, con passo leggero e ardito, nelle regioni del mistero cristiano per mostrargli il capolavoro della Trinità: la Vergine Madre. Contemplandola nella tela del Signorelli, la Bosio riporta un testo illuminante di Semej Bulgakov (nel volume L'Ortodossia):
«In Maria si è attuata l'idea della Sapienza nella creazione del mondo; ella è la Sapienza nel mondo creato; è in lei che la Sapienza è stata giustificata, e perciò la venerazione della Vergine si confonde con quel
la della Sapienza. È nella Vergine che si sono unite la Sofia celeste e la Sofia del mondo creato, lo Spirito santo e l'ipostasi umana. Il suo corpo è diventato completamente spirituale e trasfigurato. Ella è la giustificazione, il fine, il senso della creazione; ella è, in questo senso, la gloria del mondo. In lei, Dio è già tutto in tutti» (p. 55 s).


«E lo Spirito/ di Lui che ti possiede e feconda»
David Maria Turoldo (1916-92) è il poeta del Novecento che più di ogni altro ha cantato la Vergine, inquadrandola negli sfondi biblici e trinitari. Ciò perché la sua poesia si alimenta della Rivelazione intesa come vita, senso di ogni realtà, tensione dinamica e trasformante; è visione, preghiera, canto d'amore dal timbro appassionato e virile. Maria per Turoldo è la palma di Cades,/ orto sigillato per la santa dimora ~...],/ cattedrale del Silenzio,/ anello d'oro/ del tempo e dell'eterno. E' colei che porta la nostra carne in paradiso/ e Dio nella carne. Un suo privilegio colpisce in particolare il Poeta: Maria è l'innamorata sposa dello Spirito Santo. Colomba, Vergine-sposa, o Donna,

eterno sospiro della stesso Iddio 1...].

Fanciulla radiosa del Cantico,

«astata creatura» cui solo Iddio

sfiorerà la bocca di sorgiva,
sei il dispiegato vessillo dell'Amore

nella valle dei Terebinti.
Consapevole che Dio ha voluto fare del suo grembo il suo fiordo, Maria intona il Magnificat, inno di un'anima che è naufragata nel mare di Dio, sospesa tra il suo nulla e la sua grandezza, estasiata dalle meraviglie che l'Altissimo opera, servendosi di una povera sua ancella. Il suo canto si spande per l'universo. Vela a pieno vento la voce
si spande per l'universo, il Magnificat

 cantando dell'anima tua
naufragata nel divino mare:
e lo sguardo di Lui che ti guarda

dolcissimo, e ancora t'inonda

come dolcissima luce, e lo Spirito

di Lui che ti possiede e feconda!...
Poiché sposa dello Spirito Santo e madre del Verbo, Maria è associata all'opera trinitaria della Redenzione. Ora noi siamo i congiunti di Dio, sarà la terra per sempre il paese/ delle sue
la stanza o riviera/ ove si abbracciano l'uomo e il suo Dio
. Perché tali nozze siano feconde, Maria è sempre all'opera.

Caravella che porti il Signore
sotto la vela bianca,

regina e amante e madre,

Egli torni
fanciullo

a giocare...

Andrai - così ti preghiamo -

per l'Europa e l'Asia a deporre

il tuo frutto dietro le alte mura [...].

Emigrerai pellegrina e subito
e ovunque partorirai tuo figlio

gioia e unità delle cose,
o eterna madre.

Dinanzi alla piccola,/ e immensa fanciulla di Galilea, ma anche l'unica, la incoronata regina, la sposa dello Spirito, Italo A. Chiusano (1926-95) ha avvertito un senso di timore, e le ha chiesto di poterle parlare come si parla alla mamma che capisce e compatisce patisce tutto. R Ferruccio Ulivi (1912-) pensa che anche Giuseppe, quando se la vide davanti, dopo l'annuncio dell'Angelo, fu colto da una leggera vertigine. Il volto di lei appariva «uguale e irriconoscibile; meglio ancora, segreto, come infuso di un significato vagamente estraniante, e in definitiva irraggiungibile». Il Figlio che porta in grembo la rende, nello stesso tempo, irraggiungibile e vicina. Irraggiungibile per il mistero che la abita, vicina perché è anche madre nostra.
 

«Interrogatorio a Maria»
In Interrogatorio a Maria di Giovanni Testori (1923-93) la mariologia trinitaria è il tema portante, svolto in un linguaggio poetico, turgido di immagini che sanno di sangue e di carne, talora ossessivo e violento, ricco di contrasti, tra popolare e teologico, poesia moderna e lauda medievale. Il soggetto è semplice. Un coro (greco) di fedeli prega la Madonna di ritornare tra noi:

 Noi Ti chiamiamo,
di Te sete, fame

bisogno abbiamo.

Vieni;
porta disserrata,

speranza disarmata,

cima altissima e innevata!

Tu sai;
parlare Ti dobbiamo .

E Maria si presenta, muovendosi nella folla. Non giovane sposa, ma donna sciupata dagli anni e dalle sofferenze; viene dal grembo del suo Grembo, cioè dall'onnipresente realtà di Dio. Nell'immenso Io di Dio, assieme a lei, ci ritroviamo tutti noi, famiglia immensa e intera, bellissima foresta; lei vede tutti nella Realtà trinitaria dove ogni persona acquista una fisionomia nuova e una vocazione trascendente; è la madre di tutti perché è la madre di colui che ha assunto la carne di tutti: fu me, fu te, fu ognuno. Perché il Verbo si incarnasse bisognava che nel grembo di sua madre ci fossero tutte le vite apparse e che sarebbero apparse nei secoli futuri. Con la Madre di Dio siamo nella Trinità:
 
Io sono là, con Lui;

siedo nella Sua casa,

dentro la Trinità.
È immensa e insieme chiara,
non si comprende ed è di già compresa.

La mia maternità
fu di tutte le vite
somma, fusione ed unità (p. 23).

L'unione di tutti in Maria, in Cristo e nella Trinità induce il coro a interrogare la Vergine sul suo concepimento per opera dello Spirito Santo. Come è avvenuto? Cosa ha sentito nel suo ventre in quel momento?
Una carezza, un precipizio,

una dolcezza, un lampo,

come se in me scendesse

oltre lo spazio,

dell'Esistente, del Non-nato

e della Sua eterna carità,
il respiro, la gloria,
la bellezza, il fiato (p. 25).

Incoraggiato da queste confidenze, il coro formula domande ancora più intime. Le risposte sono quelle di una donna la cui volontà è riempita di Lui, che era Spirito eterno; e si lascia da Lui trasportare su quei lidi dove il concepimento diventa liturgia d'amore, concentrazione di eternità, possesso trasfigurante. La carnalità resta tale, ma trasfigurata perché rende l'amata tempio divino.

In me che  il Padre perforava
dentro il mio grigio nulla,

fecondandomi
lo Spirito erigeva la Sua grotta,

la Sua culla (p. 29).
In quel momento Maria intuisce che l'amore è dolore: accettando di essere grembo del Verbo, è ferita, lacerata da una spada perché dinanzi agli occhi le si presenta la passione del Figlio, che
si sarebbe ripetuta nel tempo. Anche qui e sempre/ vien preso, vien sputato,/ vien ferito, assassinato. E' il dolore del parto Mater Ecclesiae, e anche il dolore del Salvatore che s'incarna qui, qui muore,/ qui si reincarna e qui rimuore. Dopo aver descritto il Golgota di oggi, Maria supplica di non infierire più sul Figlio.

NO! Non battetelo più

non stringete più sul capo

la dura corona delle spine!
Chiede anche che lo si invochi con i suoi titoli più propri: Amore dell'Essere Santissimo e increato, amore della Santa Trinità, Parola fatta carne.
Un'ultima domanda: è possibile la distruzione dell'umanità? che l'eccidio del suo centro e del suo seme/ sia spento, sia fermato e soffocato? La risposta di Maria è rassicurante e tragica, nello stesso tempo: incarnandosi in lei, con la sua morte e risurrezione, il Verbo ha vinto la «Bestia» e ha recuperato il destino umano. Occorre, però, che l'uomo, con «un'umile e tenace volontà», accetti di vivere di lui e con lui. L'interrogatorio volge al termine. In uno slancio d'amore materno, la Vergine rivolge un invito e un appello. L'invito:
Stringiamoci; abbracciamoci; baciamoci così in Lui;
in Cristo,
dentro la Santa Trinità.

L'appello: ricorriamo alla preghiera affinché la nostra intelligenza e il nostro cuore siano vivificati nel Cristo Signore.
Cosi vivendo
siete, fratelli, il Suo Presepe, la Sua casa,
la Sua rosa (p. 53 s).


«Maria, diafano ostensorio dei Tre»
Giuseppe Centore (1932-) è poeta dal volo ardito; ama gli sbalzi e i colori forti sì che seguirlo è faticoso. Talvolta la sua ispirazione raggiunge i toni alti e rivela misteriose zone di luce, come avviene nella lirica Inventario d'amore a Maria. In una rapida sequenza di quadri presenta la Vergine come concentrazione di magnificenze umane e divine. Nella quinta strofa si legge:
Maria,
veliero di speranze senza approdi
se non a Dio diafano ostensorio dei Tre. Mite
lembo d'arcobaleno.


Perché «ostensorio» della Trinità, è sogno d'azzurrità, brina di fuoco, ancora e neve e tempio dai tetti d'oro, mare verde a picco su baratri di luce; fastigio di Sapienza; sillaba intatta e ramo di gemmato silenzio; primavera d'Angeli e di stelle. Nell'ultima strofa Maria è rappresentata come la mistica Rosa, simbolo della bellezza\ verginale e dell'amore di Dio per ogni uomo.
Marza
un firmamento bianco

di pensieri
una lontana eternità

d'Amore
per me per te

concisi in una Rosa.
La contemplazione estatica di questa «Rosa», fiorita nel della Trinità, ispira gli inni mariani della poetessa Cristina Lagopesole. Fanno parte del volume Il libro del pellegrino composto di 145 inni, salmi, cantici, laudi: un corpus poetico che rimanda il lettore alla migliore tradizione innografica dell'Oriente e dell'Occidente, e alla teologia mistica di ogni tempo. Negli otto inni mariani la presenza della Trinità è negli sfondi, misteriosa e dinamica. Maria l'avverte quando è in attesa del Figlio:
Figlio che sbocci nel mio ventre [...] Tu che sei l'Eterno, in me sei tempo, sei il mio Bambino [...],
quando lo contempla e ne intuisce il mistero: Benedetto il giorno in cui le tue mani plasmarono il Volto del mio Figlio.
lo facesti d'Amore, con pioggia di gigli ~....].

Di tempo e Tempo è la sua sostanza,
di terra e Cielo il suo sguardo.
essere ed Essente, misura e Sconfinamento.
Particolarmente bello è l'ultimo inno Dormitio Virginis: la Madre ha lasciato la nostra terra e si è addormentata nella «Luce increata», ma resta nei nostri occhi, presenza di cielo e di luce.

Dormi Fiore della terra, Madre.
In te riposa il cuore col Germoglio,

lo zampillo dell'Amore eterno.

Dormi, piccola, profusa di Luce increata,
avvolta nella notte dal riflesso di Dio,

custodito in eterno, perché eterno è l'Amore.

Dormi nel profondo, nel libro degli occhi,

nelle creature che in te sospirano e vedono.
 

«Digli che ho sete e secca è la cisterna»
Come tema letterario, la presenza di Maria si afferma, su toni intensi e sofferti, quando gli scrittori prendono coscienza della miseria umana e del peccato, e avvertono il bisogno di un aiuto per ritornare a Dio. Maria allora si presenta come ianua coeli, attraverso la quale tale ritorno è possibile. Colei che ha generato il Salvatore, lo rigenera in coloro che a lei ricorrono. Rinati in lui, mediante l'opera dello Spirito vivificante, si è resi degni d'invocare Dio come padre nostro.
Tra le liriche più vibranti alla Ianua coeli è Rosa autunnale di Domenico Giuliotti (1877-1956). Per la freschezza d'ispirazione e l'intensità di sentimenti don Giuseppe De Luca - così attento nei giudizi - si augurava che tutti la sapessero a memoria.

Trentasett'anni, Vergine, è che vo

stanco e cencioso come un vagabondo,

lungo il torto viottolo del mondo,
e quando e dove poserò non so.
Ma tu, che d'ogni sconsolato errante

segui, dall'alto, le intricate péste,
volgi i begli occhi al tuo Figliol celeste,

digli che m'apra le sue braccia sante.

Digli che ho sete e secca è la cisterna,

digli che ho fame ed ho per pane sassi; digli che, a notte, sugli incerti passi,

mi si spegne, guizzando, la lanterna.

Tuo Figlio, o Madre, è pane ed acqua e luce

che pienamente illumina e ristora;
Egli, accogliendo l'anima che implora, seco, se degna, al Padre la conduce.
L'invocazione continua, tra rimpianti e speranza. Il fardello dei peccati è pesante, ma il poeta ricorda alla Vergine che suo Figlio è l'amore che sana e sbenda, per condurre al Padre. La fiducia nella
Madre e l'amore del Figlio gli permettono di attraversare umano carcere tristo e raggiungere il sole in cui sfavilla Cristo. Antonio Corsaro (1909-92), poeta ermetico teologicamente ispirato sottolinea il perché di tale fiducia: Cristo risorto appare a sua e le chiede di restare tra noi, superando l'impazienza dell'anima

- Madre
- O Figlio ancora bianco di sepolcro

- Più non tramonta questa aurora

Ma tornerò dal Padre e Tu rimani

donna rimani ancora
perché la terra di troppo dolore
ne morrebbe se anche Tu venissi
Nel suggestivo volume Cominciò in Galilea Stefano Jacomuzzi (1924-96), raccontando l'episodio evangelico delle nozze di Cana mette sulla scena Maria, Gesù e il Padre celeste, invisibile. Quando lei presenta al Figlio il disagio degli sposi per la mancanza di vino, i suoi occhi implorano ma non lo guardano come quelli di una madre che guarda il figlio. «Mi guardava - osserva Gesù, come se io fossi distantissimo, e non proprio di fronte a lei. La  Madre intuisce che quel suo Figlio è anche il Figlio dell'Altissimo, pertanto da lei distantissimo. Gesù, in silenzio, invoca il Padre l'acqua davanti al suo Dio arrossisce». Il Padre non può non ascoltare la preghiera di Maria. Lei resta tra noi per ascoltare le nostre suppliche e per condurci al Padre.
Brilla alla nostra notte tenebrosa

stella mattutina.
D'un mattino sereno

alba serena
ad un meriggio eterno ella conduce.

Meriggio eterno, folgore.
Meriggio eterno, Sole.
Meriggio eterno, sovrarisplendente

volto di Dio.
Vultus tuus meridies.
.
Il volto di Maria è un meriggio di luce, perché riflette la Trinità.

(Ferdinando Castelli, Civiltà Cattolica, Aprile 2001)
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I così detti "poeti maledetti" invocano Maria

   

In quanto realizzazione di un’esigenza profonda dell’uomo, la bellezza, Maria è una presenza costante nella produzione letteraria di narratori, saggisti, poeti. Bellezza intesa sì in senso estetico, ma soprattutto in senso biblico e teologico. Madre della bellezza, ma anche dell’amore, della misericordia, Maria non è solo un richiamo universale; è rifugio e speranza per quanti avvertono sulla loro esistenza il peso del peccato, che è solitudine, smarrimento, perdizione. Ecco come poeti pagani e maledetti, da Villon a Lorenzo il Magnifico, da Goethe a Verlaine, Rimbaud, Wilde, D’Annunzio... si rivolgono a Maria e la invocano. Il messaggio che questi personaggi ci trasmettono è attuale per tutti.

La produzione letteraria dei Paesi di estrazione cristiana è percorsa da una nota (quasi) ricorrente: la presenza di Maria, madre del Signore. In merito, lo studioso più attento e più appassionato è stato don Giuseppe De Luca (1898-1962). Il suo volume Mater Dei è una sorprendente raccolta di testi mariani che documentano tale presenza. Narratori, saggisti, soprattutto poeti: tutti trovano un aggancio per contemplare, cantare e invocare la Vergine. Come spiegare questa presenza? La risposta è semplice. Perché in Maria l’uomo trova la realizzazione di una sua esigenza profonda: l’esigenza cioè della Bellezza.

Intendiamoci, non della bellezza intesa solo in senso estetico, ma in senso biblico e teologico: espressione del Bene, splendore del Vero. La bellezza estetica – armonia delle forme – è soltanto un aspetto della Bellezza. Così intesa, la Bellezza si è incarnata in Gesù Cristo, e si è resa sensibile al cuore, alla mente e agli occhi. Maria riflette suo Figlio in pienezza, quanto è possibile a una creatura: «Occorreva», scrive Gregorio Palamas, «che Colei che avrebbe partorito il più bello tra i figli dell’uomo, fosse Lei stessa di una meravigliosa bellezza».

Perché bellezza creata, Maria è un richiamo per tutti, poiché tutti siamo fatti per la Bellezza e da essa irresistibilmente attratti. «Per natura», scrive s. Basilio, «gli uomini desiderano il bello». Creati a immagine e somiglianza di Dio, Bellezza increata, essi non possono non tendere alla sorgente del loro essere. Un’intuizione particolare sospinge molte anime verso la Madre del Signore: se è la madre della Bellezza, è anche la madre della misericordia, cioè dell’amore. E chi non ha bisogno di amore, di misericordia, di salvezza? Ecco perché Maria non soltanto è un richiamo universale, ma è un rifugio e una speranza per quanti avvertono sulla loro esistenza il peso del peccato, che è solitudine, smarrimento e perdizione. Per illustrare questa verità presenteremo alcuni poeti ritenuti "maledetti", pagani, disgraziati.

François Villon, «grande poeta e non meno grande disgraziato». Così lo definisce don Giuseppe De Luca. La sua vita e la sua opera confermano la definizione. Sia come poeta sia come disgraziato domina il Quattrocento francese. Il poco che si conosce della sua vita riguarda le sue disavventure di scapestrato, nonostante avesse conseguito a Parigi (dove era nato, verso il 1430) il titolo di maître ès arts. Nella festa del Corpus Domini del 1455 uccise, in una rissa, un prete e fu costretto alla fuga. Graziato dal re, un anno dopo fece ritorno a Parigi che dovette presto lasciare per aver compiuto un furto di 500 scudi nel Collegio di Navarra, assieme a cinque compagni. Si condannò così a un’esistenza errabonda, scandita da numerosi misfatti e conseguenti prigionie. Condannato a morte nel 1462, ebbe la commutazione della pena con l’esilio. Di lui non si seppe più nulla.

La sua opera poetica – Lais, Petit testament, Grand testament – rivela in lui uno spirito passionale, non di rado lambito da lucidità filosofica, di volta in volta beffardo, tragico, lirico e giocoso. Non è difficile però cogliere nel nostro poeta momenti nei quali le voci profonde dell’anima hanno il sopravvento sulla rievocazione delle proprie scapestrataggini: l’affetto per la madre, i rimorsi e i rimpianti per la vita passata, la nostalgia del bene, il ricorso alla Santa Vergine.

In merito, famosa è la Ballade des pendus. Villon s’immagina impiccato, mentre ripete con i suoi compagni di forca: «Pregate Dio che ci voglia assolvere tutti». Riportiamo la Ballata per pregare nostra Signora, composta da Villon per sua madre, donna semplice e devota, nella quale egli trasfonde i propri sentimenti.

«Dama dei cieli, reggente della terra,/ imperatrice delle infernali paludi,/ ricevi la tua umile cristiana,/ perché sia compresa tra i tuoi eletti,/ nonostante che io mai sia valsa a nulla./ I tuoi beni, o dama e signora,/ sono molto più grandi di me peccatrice/ senza quei beni nessuno può acquistare meriti/ né possedere il cielo; non sono bugiarda:/ in questa fede voglio vivere e morire.

«Dillo a tuo Figlio che io sono sua,/ digli che siano rimessi i miei peccati./ Perdonami come a Maria egizia;/ o come egli perdonò il chierico Teofilo,/ il quale per tuo mezzo fu libero e assolto,/ benché abbia fatto la promessa al diavolo./ Preservami dal ripetere io stessa quel male,/ O Vergine, che fosti dimora senza peccato/ del Sacramento che si celebra nella messa:/ in questa fede voglio vivere e morire.

«Io sono una povera vecchia donna,/ che non sa nulla e mai lesse libri./ Nella chiesa del monastero che io frequento/ vedo dipinto un paradiso con arpe e liuti,/ e un inferno, dove vengono bolliti i dannati./ Uno mi fa paura, l’altro è gioia e letizia./ Fammi avere la gioia, eccelsa Diva,/ alla quale tutti i peccatori devono ricorrere,/ colmi di fede, senza finzione e senza pigrizia:/ In questa fede voglio vivere e morire.

«O dolce Vergine, o principessa, tu portasti/ Gesù, il re, il cui regno non ha mai fine./ L’Onnipotente assunse la nostra debolezza,/ lasciò i cieli e venne in nostro soccorso,/ offrì alla morte la sua cara giovinezza./ Questo è il Signore, così lo confesso:/ in questa fede voglio vivere e morire».

Lorenzo il Magnifico e Angelo Poliziano. Lorenzo de’ Medici (1449-92) fu detto "il Magnifico" sia perché, come signore di Firenze (dal 1469 alla sua morte, 1492), diede alla sua città un lungo periodo di pace e di benessere, sia perché mecenate e poeta di rilievo. Nella sua poesia «si concreta tutto il lassismo morale quattrocentesco. Nasce cioè l’immagine che sarà ripetuta all’infinito da tutti i poeti: quella della rosa che va colta prima che appassisca» (P. Bargellini, Pian dei Giullari, IV, 39). La giovinezza passa, la bellezza sfiorisce, le gioie svaniscono. «Tutto è effimero, tutto è transitorio. Sulle labbra del poeta delle laudi sacre, risona allora, quasi senza ch’egli lo voglia, la più triste esortazione della letteratura italiana: Chi vuol essere lieto sia;/ Di doman non c’è certezza». Non c’è certezza che i cieli di Dante e di Petrarca si siano abbassati e abbiano assunto i colori della terra.

Di lui Machiavelli ha notato: «A considerare in quello (nel Magnifico) e la vita leggera e la grave, si vedeva in lui essere due persone diverse, quasi con impossibile congiunzione congiunte». Alla prima appartengono i licenziosi Canti carnascialeschi (tra cui la Canzone di Bacco), alla seconda le Laudi spirituali (tra cui Ciascun laudi te, Maria). Alla gioia bacchica della vita, velata di malinconia per la gioventù che fugge, si contrappone la visione della bellezza della Vergine. In lei fiorisce la speranza di non restare schiavi del peccato; la natura stessa, in Maria, è come rinata. È naturale pertanto lodare colei che ci riscatta dalla caducità e dalla miseria morale.

«Quanto è grande la bellezza/ Di te, Vergin santa e pia!/ Ciascun laudi te, Maria: / Ciascun canti in gran dolcezza.

«Con la tua bellezza tanta/ La bellezza innamorasti./ O bellezza eterna e santa,/ Di Maria bella infiammasti!/ Tu d’amor l’Amor legasti,/ Vergin santa dolce e pia./ Ciacun laudi...».

La laude continua, in ritmi popolari, rievocando i prodigi della Redenzione, operati da Dio innamorato della bellezza della Vergine.

A metà della composizione, il poeta – rifacendosi al O felix culpa della liturgia – arriva a ringraziare il peccato originale perché ha reso necessaria la nascita di Cristo da una simile Vergine. «O felice la terribile/ Colpa antiqua e ’l primo errore,/ Poi che Dio fatto ha visibile/ Ed ha tanto Redentore!...».

Sulla stessa linea del Magnifico si colloca il Poliziano (1454-94), poeta, anche lui, del momento che fugge, della vita che passa, della rosa che sfiorisce. Perfetto umanista, strutturò la mente e l’anima di classicismo; ciò gli permise di coprire di raffinati orpelli il vuoto del suo mondo. Come Lorenzo, anch’egli intravide nella Santa Vergine un rifugio per non restare preda dell’inquieto nimico che ci svia. Il pensiero della Madre, soccorritrice dei poverelli, riuscì a smantellare i fatui paludamenti del suo puro umanesimo.

«Vergin santa, immaculata e degna,/ Amor del vero Amore,/ Che partoristi il Re che nel ciel regna,/ Creando il Creatore/ Nel tuo talamo mondo,/ Vergine rilucente/ Per te sola si sente/ Quanto bene è nel mondo;/ Tu sei degli affannati buon conforto, / e al nostro navil se’ vento e porto./ O di schietta umiltà ferma colonna,/ Di carità coperta/ Accetta di pietà gentil madonna,/ Per cui la strada aperta,/ Insino al ciel si vede,/ Soccorri a’ poverelli,/ Che son fra lupi agnelli,/ e divorar ci crede/ L’inquieto nimico che ci svia, / Se tu non ci soccorri, alma Maria».

Wolfgang von Goethe, poeta "pagano". Il grande, l’"olimpico" Wolfgang von Goethe (1749-1832) si è più volte definito "pagano". È stato, sempre, veramente tale? In molti suoi atteggiamenti di pensiero e di comportamento, sì; tuttavia due preghiere del suo Faust ce lo fanno vedere accanto a Dante: poeta mariano, anche lui.

La prima è la preghiera di Margherita che, al colmo di una serie di sventure, reca dei fiori a un tabernacolo della Madonna addolorata.

«Ah, inchina,/ Tu ricca di dolori,/ Il tuo sguardo benigno al mio affanno!

«La spada nel cuore,/ Con mille dolori,/ Tu guardi alla morte del tuo Figlio.

«Al Padre tu guardi,/ E rompi in singhiozzi/ Profusi sopra il tuo e il suo affanno.

«Chi sente/ In che modo scava/ Il dolore, dentro, nelle ossa,/ E di che cosa il mio povero cuore sta in apprensione,/ E di che cosa trema, e che cosa smania di ottenere?/ Sola a saperlo sei tu, tu sola unicamente/ (...). «Aiuto! Salvami dalla vergogna e dalla morte!/ E inchina,/ Tu ricca di dolori,/ Il tuo sguardo benigno al mio affanno».

L’infelice Margherita implora la Madonna per sé e per Faust. Muore in prigione, pregando. Mefistofele la crede condannata, ma una voce dall’alto la dice salva. Mefistofele allora cerca di impadronirsi almeno di Faust, ma Faust è chiamato da Margherita. Su questo richiamo finisce la prima parte del poema. La seconda parte si chiuderà non più in un duello tra Satana e l’Angelo, ma in una scena di paradiso, che richiama il Paradiso dantesco (c. XXXIII). Il "dottore mariano" si leva in estasi, tra il coro mistico, e rivolge alla Vergine una preghiera che richiama quella di Margherita. «Come per il candidato di Beatrice – nota don G. De Luca – parla Bernardo, così per Margherita e il suo candidato parla il dottore mariano. La Madonna si fa da presso, ed ecco salire a lei le preghiere dell’adultera, della samaritana, di Maria Egiziaca, infine di Margherita (nel nome della quale, più che la martire lontana, echeggia la vicina penitente di Cortona). Margherita supplica la Madonna di salvare Faust, e la Madonna lo salva. Al che il dottore mariano leva un inno, a cui fa eco il chorus mysticus. Si conclude così il grande poema».

«Dominatrice altissima del mondo,/ Fammi, nell’azzurro/ Spiegato padiglione del cielo, / Contemplare il tuo segreto./ Accogli quanto il petto dell’uomo/ Di vivo e di tenero agita,/ E con un santo piacere/ Verso di te lo trae.

«Invitto è il nostro coraggio,/ Quando tu imperi dall’alto;/ Sull’istante ci si mitiga l’ardore,/ Quando tu ci dai la pace./ Vergine, pura nel più alto senso,/ Madre degna di onore,/ A noi eletta regina,/ Nata pari a un dio (...).

«A te, Immacolata,/ Non disconviene/ Che chi con poco si lasciò sedurre/ Familiarmente si accosti./ Travolte dalla fragilità/ Si salvano a fatica:/ Chi può spezzare di forza propria/ Le catene del piacere? (...)».

Alla preghiera del dottor mariano s’intreccia quella di Margherita.

«Inchina, inchina,/ Tu senza pari,/ Tu ricca di raggi di luce,/ Il tuo sguardo propizio alla mia gioia».

La salvezza di Faust è assicurata, e il dottor mariano invita tutti a guardare in alto, donde viene la salvezza. Quindi esclama: «Sia ogni nostro valore più bello/ A te consacrato in servizio,/ Vergine, Madre, Regina,/ Dea, rimani propizia».

Due "poeti maledetti": Paul Verlaine e Arthur Rimbaud. Anche i poeti "maledetti" hanno avuto il loro "momento azzurro" nel quale hanno invocato la Mater pietatis. Tra gli altri ricordiamo Paul Verlaine (1844-96). «Quella tempesta che fu la mia vita!», ha scritto di sé. Tempesta di avventure degradanti, d’incontri sordidi, di malattie fisiche e morali, ma anche di nostalgia di redenzione e di sforzi per scuotersi di dosso il fango. Devastante fu particolarmente la sua amicizia ambigua con Arthur Rimbaud, che si concluse con due anni di carcere. Nel silenzio della prigione Verlaine avvertì tutta la vergogna della sua vita, e si convertì, deciso a far riemergere il fuoco del suo battesimo dal "mucchio di cenere" del suo passato. E per un certo tempo restò fedele agli impegni della conversione. Ma le vecchie abitudini lo travolsero, e finì per rassegnarsi alla sua degradazione. Prima di morire, fece chiamare un confessore per ricevere il sacramento della riconciliazione.

Come poeta è tra i più grandi dell’Ottocento francese, soprattutto per la semplicità delle sue liriche. In esse c’è la trasparenza dell’anima: l’anima di un fanciullo che contempla il mondo e ne canta le bellezze e le miserie, in versi cristallini, ricchi di risonanze e di armonia.

Poeta sperdutosi nella degradazione morale, ma nostalgico di purezza e di Dio. Nella seconda parte della sua raccolta poetica più nota, Sagesse, c’è una lirica alla Madonna che resta tra le sue cose più belle. Ritrovata la fede della sua infanzia, il poeta si affida a Maria, convinto che solo lei può aiutarlo a procedere sui sentieri del bene.

«Voglio amare ormai solo Maria./ Sono, gli altri, amori di precetto./ Ma benché necessari, mia madre soltanto/ Può accenderli nei cuori che l’amarono.

«Solo per Lei ho cari i miei nemici,/ Per Lei ho promesso questo sacrificio,/ E la mitezza di cuore e lo zelo al servizio,/ Fu Lei a concederli, a me che la pregavo.

«E poi ch’ero debole ancora e malvagio, vili le mie mani/ Gli occhi abbacinati dalle strade,/ Ella mi chinò gli occhi, mi giunse le mani/ E m’insegnò le parole che sanno adorare.

«Per Lei ho voluto queste mestizie,/ Per Lei il mio cuore è nelle Cinque Piaghe,/ D’ogni mio sforzo buono verso croci e tormenti,/ Poi che La invocavo, Ella mi cinse i fianchi.

«Voglio ormai pensare solo a mia madre Maria,/ Sede della Saggezza, fonte di ogni perdono,/ E Madre anche di Francia, poi che da Lei attendiamo/ Incrollabilmente l’onore della patria.

«Maria Immacolata, amore essenziale,/ Logica della fede cordiale e vivace,/ Amando voi, ogni bontà non è forse possibile,/ Amando voi, Soglia del cielo, unico amore?».

L’incredulo Anatole France, in una famosa novella, descrive un "cattivo soggetto" che "componeva le più dolci canzoni del mondo". Viveva tra l’ospedale e una stanzuccia di locanda, in un vecchio povero quartiere parigino. Tra tutte le viuzze, «una era secondo il suo cuore, fiancheggiata di stamberghe e bugigattoli», perché «portava, sul cantone di una casa, una Madonna dietro una grata, in una nicchia azzurra». Fa tenerezza questa immagine di Paul Verlaine ("cattivo soggetto") che ama una straduccia ("era secondo il suo cuore") unicamente perché in essa c’era l’immagine della Madonna.

Anche l’amico del nostro Verlaine, Arthur Rimbaud, "poeta maledetto", fautore di una "mistica selvaggia", ha composto una deliziosa lirica, in versi latini, alla Vergine, Il sangue e le lacrime. Alla Madre che piange perché il suo bambino si è fatto male con la sega del padre, Gesù dice: «"Perché piangi, madre che non sai? (...)/ Non è ancora venuto il tempo in cui dovrai piangere". E riprende il lavoro cominciato./ La madre rimane in silenzio./ Pallida, china il volto verso la terra./ Riflette a lungo,/ poi, volgendosi di nuovo verso il bambino, gli occhi tristi:/ "Dio sovrano, sia fatta la tua volontà"».

Huysmans, Wilde e D’Annunzio. La poesia di Verlaine ci richiama alla mente la preghiera alla Madonna di un altro scrittore, J.-K. Huysmans (1848-1907), che ha trascinato quasi tutta la sua vita tra esperienze nefaste, attrazione per il satanismo, smarrimento e vuoto. Dopo la pubblicazione del suo famoso romanzo À rebours (Controcorrente, Alla deriva), Barbey d’Aurevilly gli ripetè quanto aveva scritto a Baudelaire a proposito dei Fleurs du mal: dopo un libro del genere «non le resta che la bocca di una pistola o i piedi della croce». Huysmans scelse i piedi della croce: lo spettacolo di una "messa nera", cui aveva preso parte, e i vari riti satanici lo avevano sconvolto nel profondo. Convertito, rimase fedele agli impegni cristiani e morì santamente.

Nel romanzo La cathédrale il protagonista Durtal (sotto cui si nasconde lo stesso Huysmans) così prega la Madonna:

«Ah, Vergine santa, santa Vergine, abbiate pietà delle anime che si trascinano tanto pietosamente quando non sono più attaccate alle vostre vesti. Abbiate pietà delle anime indolenzite per le quali ogni sforzo è una sofferenza. Abbiate pietà delle anime che nulla riesce a sgravare e che sono afflitte da tutto! Abbiate pietà delle anime senza tetto e senza focolare, delle anime vagabonde, incapaci di trovarsi insieme. Abbiate pietà delle anime deboli e affrante. Abbiate pietà di tutte le anime come la mia. Abbiate pietà di me!».

Quando un’anima si rivolge in questi termini alla Mater pietatis è difficile che resti incatenata al male fino alla morte. Oscar Wilde (1854-1900), scrittore "scandaloso" tanto da meritarsi il carcere, ha subito, sì, l’incanto della Vergine, ma in lui l’elemento estetico ha il sopravvento sull’elemento religioso. In una poesia descrive il suo stupore dinanzi a un dipinto dell’Annunziazione di una chiesa fiorentina:

«(...) visitai questo luogo santo,/ Ed ora con gli occhi e il cuore pieni di stupore/ Io sto dinnanzi a questo mistero supremo di Amore:/ Una adolescente in ginocchio,/ Con un viso pallido e senza passione,/ Un angelo con un giglio nella mano,/ E al di sopra dell’uno e dell’altro,/ Con le ali aperte, la Colomba».

In un altro sonetto contempla la Vergine, una fanciulla liliale, non fatta per la pena di questo mondo.

«Tuttavia, benché le labbra mie la loderanno senza fine,/ Di baciare i suoi piedi nemmeno ho ardire,/ Sotto l’ombra, come sono, delle ali del timore...».

Il timore – la paura – di Dio non ha permesso a Oscar Wilde d’invocare la Madonna, come l’ha invocata il "disperato" Durtal. Così è rimasto impigliato nel suo estro.

Forse D’Annunzio (1863-1938) è stato il solo poeta d’Italia che abbia osato bestemmiare la Madonna. Negli ultimi versi di Maia egli prevede con gioia e desiderio che «la croce del Galileo/ Di rosse chiome gittata/ Sarà nelle oscure favisse/ Del Campidoglio, e finito/ nel mondo il suo segno per sempre». Allora – continua la lirica – anche la Madonna scomparirà dinnanzi a Venere. Vogliamo credere che l’"Immaginifico" abbia scritto questa lirica in un momento in cui soccombeva alle pose e alle escandescenze verbali. In momenti più sereni ha composto, sulla Madonna, versi di tutt’altro tenore. Nelle Laudi c’è la preghiera alla Madonna, Per i marinai d’Italia morti in Cina:

«Tu, Vergine Maria, Vergine pura,/ Tu guardalo dal male e tu l’aiuta!/ T’accenderò quant’io potrò di cera/ Quant’io potrò d’oliva, se sventura/ Non gli accade, se salvo mi ritorna./ Guardalo, Vergine alla madre sua,/ Guardalo alla sua madre e alla sua donna».


Lo scrittore, poeta e regista Pier Paolo Pasolini
con la mamma nel giardino di casa.

Anche Pasolini... Anche il povero Pasolini (1922-1975), dalla vita così torbida e drammatica, ha avvertito il fascino della Vergine. Le liriche della raccolta L’usignolo della Chiesa Cattolica, acerbe e sfrontatamente leggere, rivelano l’ossessione di riconciliarsi con la propria "diversità". A tale scopo il poeta ha voltato le spalle alla religione dei padri, deciso a vivere come «un fanciullo ignoto a Dio». La contemplazione del corpo di Cristo sulla croce rende più acuti i suoi vaneggiamenti. Nelle due liriche dedicate alla Madonna –L’annunciazione e Litania – i toni aspri si stemperano e si addolciscono.

«I figli: Madre, cos’hai/ sotto il tuo occhio?/ Cosa nascondi/ nel riso stanco?/ Domeniche antiche,/ fresche di cielo,/ antichi maggi/ rossi negli occhi/ delle tue amiche,/ antichi incensi.../ Ora, al tuo letto,/ tremiamo per te,/ madre, fanciulla,/ per le domeniche, gli incensi, i maggi./ Tu eri tanto/ bella e innocente... Madre... chi eri?/ quando eri giovane?/ E Lui, chi era?/ Madre, che muoia.../ Ah, sia fanciulla/ sempre la vita/ nella severa/ tua vita fanciulla...

«L’angelo: Non senti i figli?/ O lodoletta/ canta in un’alba/ di eterno amore...

«Maria: Angelo, il grembo/ sarà candore./ Pei figli vergini/ io sarò vergine».

Ai suoi figli – anche a quelli curvi sotto il fardello della miseria umana – la "Madre" si presenta sempre nella sua bellezza e innocenza di fanciulla. Alla richiesta dell’angelo di ascoltare la voce dei figli, lei risponde che pei figli vergini lei sarà vergine. L’espressione è ambigua, ma il senso di candore e d’innocenza, diffuso dalla "Madre", illumina gli sfondi.

Un messaggio straordinariamente attuale per tutti. È stato detto che l’uomo è un angelo decaduto che si ricorda dell’Eden. Maria è l’Eden incarnato. Perciò i poeti, che più degli altri avvertono la nostalgia della Patria, sono particolarmente sensibili al ricordo e alla presenza di lei. Anzi, quanto più il polverume dell’esilio annebbia il loro sguardo e appesantisce la loro anima, tanto più sentono la nostalgia della Patria perduta e il bisogno d’invocare colei nella cui bellezza e purezza ritrovano le zone più preziose di sé stessi.

È, questo, il messaggio che ci trasmettono i poeti da noi ricordati.

( Civiltà Cattolica, maggio 1999, Ferdinando Castelli)

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Ave Maria

La Madre
MADRE di Dio. È una professione di fede. Non mito o simbolo, invece uno dei misteri più ardui e accecanti. Che una donna, una creatura possa essere madre del suo Dio. Ricordiamo Dante? «Vergine madre, figlia del tuo figlio... ». Ma con Dante anche la vespertina comare che recita il Rosario diventa teologa. Dice la cosa abnorme, strepitosa in cui crediamo.
Dunque l'Immenso, 1'Onnipossidente ha voluto questo, una madre. Fra le nostre donne è venuto a sceglierla e a noi l'ha domandata. Allaccio queste due parole, Dio e madre: deìpara o teotochos, come il latino e il greco dei sapienti ce l'hanno astrusamente formulata. L'Essere astratto e invisibile, dilatato nell'infinità oltre tutti gli spazi, che si fa piccola virgola in Lei, da Lei si fa partorire. Ma allora Maria è genitrice anche di tutta quella cosmogonia che in Dio è gigantescamente implicata, nei poderosi e fantasiosi travagli della Genesi: quelle luci accese nel cielo, quei grandi cetacei, volatili e serpenti sparpagliati nelle acque e sulla terra, o il giardino dell'Eden coi quattro fiumi dai nomi squillanti che bagnano regioni ricche d'oro e di onice... La Vergine si è unita all'insondabile Mostro...
Qui la mente si smarrisce, ci arrestiamo, rinunciamo. E affermando Maria madre, ci giova allora rattrappirci nella mandorla terrestre che in noi evocano quelle tre parole - madre di Dio -. La notte di Betlemme. Abbiamo bendato questo schiacciante mistero in una soave, puerile poesia, una musica d'angeli e di cornamuse. E a Natale quell'enigma lo eludiamo con lo scambio di lieti regali e tavole imbandite.
Ma la divina maternità di Lei non si racchiude, come troppo spesso siamo portati a fare, in quella gentilezza d'immagini e di suoni. Madre è parola indissolubilmente di felicità e di spasimo. Per Lei la sofferenza del parto - dopo la profezia di Simeone che le annuncia la "spada" da cui il suo cuore sarà trapassato - durerà tutta la vita, fino alla croce e oltre. Certo insieme durerà in Lei - dilatata e arricchita dal suo cuore altissimo, capace come nessun altro anche di poesia - il gaudio dell'esser mamma. I delicati tripudi, le minuscole ricordanze colti dal bambino, dal fanciullo che è suo; gli orgogli del suo giovane profeta. Ma in cima a tutto, il giubilo, dilagante in ogni sua ora, di saper moltiplicata la propria maternità per miliardi di creature; d' esser stata Lei a dare a tutti quei suoi figli il dono messianico della redenzione.


Per noi peccatori
Dopo queste apostrofi con cui la chiamiamo, che mai si vuole da Lei, di che cosa la incarichiamo? D'un'unica ed essenziale cosa: non è qui favore o miracolo. PREGA PER NOI. La si prega di pregare: perché Lei soltanto sa e può davvero pregare. Anzi, Lei infine è la preghiera.
...PER noi. Noi chi? Chi siamo noi? Lungo i circa mille anni da cui dura questa preghiera, è una sola la parola che definisce e compendia l'uomo: "peccatore". È grande sentenza io trovo, anche se certo mortificante, che di fronte alla Madonna noi diamo a noi stessi un solo nome, una sola nuda e cruda qualifica. Giacché tutti, questo e null'altro siamo. Animal peccans, potremmo dire se volessimo inquadrare la nostra specie nelle tabelle dei naturalisti. Ce lo ha gridato Paolo, in quel passo della lettera ai Romani: « ... io sono venduto come schiavo al peccato »; e se io «non quello che voglio faccio, ma quello che detesto (...) non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me ». E poi Agostino, nelle sue Confessioni, chiamandoci tutti « una massa dannata ».
Il peccato è dunque il nostro quotidiano obbrobrio. Esso è come una secrezione fatale, appena muovendoci non facciamo che spurgarlo, come la lumaca la sua bava. Anche i migliori di noi; anche nei momenti più innocenti e altruistici - riconosciamolo fuori d'ogni illusione e presunzione - non abbiamo altra anagrafe e identità che questa: peccatore. Siamo radicalmente, strutturalmente, questa trista malattia che spande dolore e scandalo.
Bisogna allora che qualcuno fuori di quel guasto (ed è Lei sola, 1`Immacolata Concezione") venga a soccorrerci e lo faccia pregando suo Figlio per noi.


Adesso
Prega per noi, ma quando? Bella 1'Ave Maria. Bella e vorrei dire astuta. Con una formula, se ci pensiamo, di strategica lusinga, noi diciamo alla Madonna di pregare in due momenti.
NUNC, dicevamo in latino. ADESSO. Che cos'è questo "adesso" sul quale invochiamo la Vergine d'intervenire con la sua tutela? È l'ora che viviamo, è la stagione della storia che ci tocca planetariamente. Per noi le minacce di guerra atomica, il terrorismo, la fame, la droga e la corruzione, le celle dove si tortura, i tavoli attorno ai quali ambiguamente, col cuore torbido di Caino, si mercanteggia la pace::: C'è una grandiosa e una cristiana concretezza, un accettare e affrontare la storia in questo dirle "adesso". Con tale avverbio , Primo Mazzolari intitolò il suo giornale battagliero ed evangelico. Ma c'è poi il nostro adesso interiore e particolare. Vorrei che nel ripercorrere l'Ave Maria penetrassimo con tesa consapevolezza in questa parola. Pensando, ciascuno nell'intima nicchia dei suoi giorni, qual è, come è il proprio "adesso". Carico di quali urgenze, pene e speranze. E affidare alla Madonna quel breve, nebbioso mistero che è a noi stessi il nostro "nunc" perché lo sorregga e lo protegga. Lungo quest'anno che si svolge, e per quanti altri ce ne siano riservati.

 

L'ora ultima
Sia quindi Lei la madre orante su tutte le nostre ore. Ma più e soprattutto su quella che conterrà il nostro estremo respiro, il nostro staccarci dalla terra. Giacché la parola ultima, la clausola finale dell'Ave Maria è questa, e certo il passo più importante: NELL'ORA DELLA NOSTRA MORTE.
Pensiamo noi abbastanza a quell'ora? Ci crediamo davvero - avvolti dal nostro pulsante corpo e dalle mille frenesie di cui son fatti i nostri giorni - che in un punto la nostra vita finirà? La liturgia mette allora nella più quotidiana e rimasticata delle preghiere questo pungente "memento mori`; e la metapsicologia arditamente accetta di speculare anche dentro quell`ora". Sarà un frangente ignoto ma - giova sperarlo - soccorso da imprevedibili virtù, forse addirittura da metamorfosi stupefacenti che ci soccorreranno. «Noi non sappiamo » dice Gianfranco Ravasi «che cosa sarà in quel momento, quale misterioso occhio si aprirà per noi». E un francese ha sostenuto che in quel passo ultimo, quando l'uomo ha una visione di Dio diversa perché è ormai solo un esile lembo che lo separa dall'infinito, egli può, con una luce nuova e più ricca, fare la sua scelta per Dio o per il suo contrario: giacché il Padre ci dà fino all'ultimo una grazia segreta, e proprio attraverso di essa l'uomo può fare la sua perfetta orazione.
lo penso allora che quella "grazia segreta" sarà immancabilmente Lei, la Vergine, a promuoverla, memore e attenta a quella nostra richiesta che le abbiamo disseminato in grembo - più spesso distratti e spensierati - a chiusa di tutte le nostre Ave Marie. Ciò che giova chiederle per quell'ora non è solo una indulgenziale preghiera di Lei al giusto Giudice; ma la capacità nostra di fare noi stessi e per noi, nell'eco della sua, la nostra "perfetta preghiera".
Ma lasciamo a Maria i fluidi e le fantasie con cui "santificare" la nostra morte. A noi basti la certezza che in quell'ora sul nostro guanciale, sul nostro affannato respiro sgorgherà quell'ineffabile cosa di cui la Madre nostra è colma e prodiga: la sua tenerezza. Grazie a tale promessa, è già privilegio felice sapere che quell'ora non dev'essere più guardata come il terribilium terribilissimum. dopo che Cristo è morto sulla croce ed è risuscitato, dopo che Maria stessa ha partecipato di questa sorte umana ed è stata assunta al cielo.
Così siamo giunti al fondo di quella che, dopo il Padre nostro, è la suprema preghiera cristiana. Grande perché è dell'angelo, è della grazia, è della benedizione. Ed è insieme del peccatore, sì che tutti ci conferma e ci umilia nella spoglia identità di colpevoli; ma è pure l'occasione in cui, attraverso la maternità amorosa di Maria, anche il peggiore di noi si sente garantito nel suo riscatto.
Ma ecco che, nel congedarmi, proprio la mia esperienza di orante mariano mi ricorda che tutta questa puntigliosa e però inadeguata "analisi" non è in fondo necessaria.
C'è voglio dire un modo ancora, empirico e disancorato insieme, d'impadronirci dell'Ave Maria e tesoreggiarla. Non parlo qui del labile sussurro delle pie donne cui accennavo all'inizio. Mi sono accorto e ve lo confido che, a volte, nel dire questa preghiera io perdo volontariamente di vista ogni teologia e il senso dei passaggi che mi sono affannato a ripercorrere. Allora, sbrigliato da quei significati e dalla mia stessa anima, io mi affido alle quaranta parole. Salgo sull'Ave Maria come su una puledra alata. E sento vicini a me, in quel volare oltre le nuvole, altri ispirati cavalieri di Lei. Dante e Gounod, Luini e Petrarca, Schubert e Rilke, Simone Martini e Hopkins, Verdi e Dalì; e tanti ancora, che "pregarono" la Vergine nell'estasi delle loro strofe, delle loro melodie e dei loro colori.
Forse non è un vero pregare. Pure io mi accorgo che anche in quel trasognato inseguirla, 1'insipidità della mia acqua si trasforma in vino. Come a Cana, quando Lei disse ai servi: « Fate quello che Lui vi dirà ».

LUIGI SANTUCCI (testo preso da: Maria ieri e oggi, Edizioni Paoline, 1986, pp.62-71)
 

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