Marco G. Corsini
Introduzione a Omero
Non
sappiamo se una guerra di Troia avvenne davvero e dove e di quali dimensioni e caratteristiche.
Probabilmente un fondo di verità esiste, ma certo i poemi omerici sono troppo
distanti, cronologicamente, dai fatti reali e hanno intenti politici propri,
che si sovrappongono alle motivazioni di quelli, e parlano ai moderni che
vivono a cavallo del secondo quarto del VII secolo a. C. Poiché i poemi omerici
emanano un’ideologia strutturalmente affine a quella medievale, intesa anche e
soprattutto come, letteralmente, cristiana (e vedremo perché), e medioevo vuol
dire cristianesimo e viceversa, per cercare di comprenderli e comprendere la
poetica di Omero non c’è niente di meglio che metterli a confronto col ciclo di
Orlando.
Fu
al tempo della prima crociata e cioè della guerra santa contro l’islam che un
tale Turoldo scrisse La Chanson de Roland in cui, senza nessun rispetto per la
verità storica, si contrapponeva il regno di Carlomagno che aveva conquistato
quasi tutta la Spagna a quello dei saraceni arroccati a Saragozza. Si giunge
alla pace a condizione che Carlomagno si ritiri. Nella retroguardia c’è Roland
che, assalito proditoriamente dai saraceni (che ovviamente sono malvagi e
traditori), a Roncisvalle si difende valorosamente con la sua spada Durlindana
donatagli da un angelo. Ferito a morte suona finalmente il corno Olifante
chiamando in soccorso Carlomagno. Il fatto storico è che nel 778, tre secoli
prima del poema di cui discutiamo, Carlomagno tentò una spedizione per
espugnare Saragozza, ma fu costretto a ripassare i Pirenei, e la retroguardia,
fra cui era un certo Hruodlandus, fu assalita dalle popolazioni basche e
distrutta presso Roncisvalle. Dunque bisogna distinguere fra l’episodio reale,
quello del 778, e quello più importante, politico, della guerra santa scatenata
dall’occidente cristiano, che aveva bisogno di un poema propagandistico come La
Chanson de Roland e gli altri che vi si ispireranno. In Italia i personaggi de
La Chanson de Roland italianizzati ebbero molta fortuna in racconti di autori,
all’inizio veneti, che ampliarono l’originale con nuove gesta. Entrarono nel folklore
e la loro popolarità sopravvive nel Teatro dei Pupi siciliani. Ora il parallelo
dei poemi omerici e in particolare dell’Iliade coi Pupi siciliani è stringente,
perché, a parte lo sfondo dell’Iliade che richiama da vicino quello delle
crociate in Terra Santa, una vena comica pervade l’Iliade – si pensi al litigio
omerico fra Achille (il più grande e grosso guerriero acheo a Troia, che si
lamenta con la sua mamma Teti piangendo come una femminuccia) e Agamennone, a
quello, sempre nel libro primo ma non omerico, di Era con Zeus, e poi, nel
secondo libro, a Odisseo, che, menando lo scettro di Agamennone a destra e a
manca, da solo, mette in riga un esercito di più di migliaia di ammutinati – e
nata con Omero si accentua cogli omeridi greci nonostante che ad essere presi
di mira fossero solo gli eroi greci e gli dèi che parteggiavano per i greci.
Dall’antefatto che suggerì la nascita della leggenda all’esecuzione omerica
trascorsero secoli come fra La Chanson de Roland e il Teatro dei Pupi. La
valutazione della poesia omerica non può dunque prescindere dal dato di fatto
che ha ad oggetto una favola antica dei greci su cui possono ridere sopra
soprattutto i greci.
Non
c’è dubbio che Omero si rivolgesse in greco ai greci e che manipolando i dati
archeologico-topografici disponibili allora come oggi mirasse ad accreditare un
antecedente tardo-miceneo – la cosiddetta guerra di Troia – della
colonizzazione greca dell’Anatolia occidentale. Nella piana di Troia intorno al
XIV secolo erano stanziati gli ahhiyawa o aqawaša, uno dei popoli del mare noti
dalle iscrizioni ittite ed egizie, e ciò poteva suggerire l’invasione da parte
di una grande flotta della regione dopo l’incendio (o olocausto che dir si
voglia) di Troia. C’era poi la serie di grandi tumuli eretta, secondo il valido
omerida al soldo di Fidone d’Argo, sulle ceneri degli achei caduti a Troia dal
« sacro esercito dei bellicosi Argivi, su una lingua di spiaggia, verso il
largo Ellesponto, perché di lontano fosse visibile, dal mare, agli uomini,
quelli che ora vivono e che in futuro saranno » (Od. XXIV, 81ss). Gli
archeologi non sono riusciti finora a dimostrare l’esistenza di un ponte fra
l’età micenea tarda della “ guerra di Troia ” e la colonizzazione greca
dell’Anatolia occidentale. I greci non erano i discendenti dei micenei. Hanno
costruito questo mito con la complicità di Omero, il più grande pubblicitario
di ogni tempo.
Il
discorso sui poemi omerici è alquanto più complesso di quello sul ciclo di
Orlando. Omero parlava ai greci ma con materiale della tradizione
etrusco-romana che vantava legami con popolazioni piratiche o piuttosto di
metallurgi tirreni che percorrevano la via del Mar Nero (su cui era Troia) alla
ricerca del ferro (vedi Le Argonautiche di Apollonio Rodio) e soprattutto
traeva le sue origini dalla Siria-Palestina, teatro dell’assalto dei popoli del
mare dopo l’anno 8 di Ramesses III (nell’anno 8 i popoli del mare avevano dato
l’assalto al delta egizio) fatto che secondo chi scrive diede origine alla
tradizione della “ guerra di Troia ”. Gli archeologi hanno trovato
documentazione della ceramica tardo-micenea evolutasi in ceramica filistea in
Palestina.
L’intento
politico dell’Iliade e dell’Odissea scritti nel VII secolo, a cinque secoli
dalla “ guerra di Troia ” è complesso ed è sia esterno (convincere i greci a
rispettare il libero mercato, cessando la pirateria, e ad investire e
commerciare nell’alto Lazio) che interno, a fini prevalentemente celebrativi
della civiltà raggiunta (che può far esaltare Tarquinia come signora dei mari
nel Viaggio d’Odisseo, il primo nucleo dell’Odissea, e Roma come signora del
mondo nell’Ira d’Achille, il primo nucleo dell’Iliade, e nell’Odissea) e di
pacificazione dell’etnia latina, di recente inclusa nel popolo romano, con
quella più antica etrusco-sabina (Ira d’Achille). Non si tratta in nessun caso
di poemi storici, ma di opere di fantasia costruite intorno al tema centrale
che vogliono propagandare e che nel caso del Viaggio d’Odisseo è il rapporto di
xenía, ospitalità, che si instaura fra il naufrago Odisseo e l’etrusca Arete,
perché la regina lo definisce suo ospite, e nel caso dell’Ira d’Achille è
quello della fusione di due popoli (il latino-greco da una parte e il
romano-troiano dall’altra) in uno attraverso il rapimento di Elena spartana da
parte di Paride troiano. Tarquinia e Roma, l’alto Lazio, è l’avanguardia della
civiltà, è la civiltà occidentale che si contrappone a quella orientale, greca
esiodea compresa. Omero fa eccezione, perché se la monarchia e le classi alte
di Tarquinia e Roma a cavallo del secondo quarto del VII secolo si riconoscono
negli eroi figli dei re divinizzati che li sorvegliano dall’alto dei palazzi
come quello di Murlo (presso Siena, di ascendenze siriane), gli dèi omerici
sono umanissimi e messi volutamente in caricatura per avere gli stessi vizi,
anzi peggiori, degli umani. Ciò dipende da una parte dal fatto che dopo la
caduta dei grandi imperi l’uomo che vive nelle città-stato, attraverso la
partecipazione alle assemblee civili e militari (che a Roma e nel paese di
Scheria omerica funzionano, al contrario di Itaca e degli achei in armi a
Troia), prende sempre più coscienza del suo potere di dirigere con la sua
razionalità il corso della storia e dunque mentre lui si sostituisce poco a
poco agli dèi, questi diventano la sua ombra, ridicoli perché immortali e nello
stesso tempo impotenti di fronte al destino, dall’altra parte questa ideologia
degli dèi come spettatori dell’agire degli uomini ha radici lontane che
risalgono a Ebla e alla civiltà che più da vicino influenza i poemi omerici,
quella alto siriana, cilicia e cipriota che Omero chiama di Iperea e Sargon
nelle sue iscrizioni Paese Superiore. Qui a Ugarit è avvenuta una specie di
Rivoluzione Francese del popolo democratico contro i re divini del passato, in
quanto è stata inventata la scrittura alfabetica, con la quale tutti finalmente
si possono esprimere perché basta riprodurre i suoni con le lettere. Ogni suono
ha la sua lettera. Prima invece la scrittura degli dèi, come la chiamavano gli
egizi, complicata come lo può essere quella cinese, era conosciuta solo da uno
stretto numero di scribi reali e di sacerdoti che pertanto detenevano il potere
assoluto e incontrollato e incontrollabile. Dopo l’invenzione dell’alfabeto
ugaritico tutti furono messi nella condizione di giocare la partita del potere
da posizioni più paritarie, democratiche, e l’umanità prese coscienza del fatto
che i re divini e gli dèi erano stati solo una colossale impostura per tenere i
popoli soggiogati, ignoranti e ciuchi. Omero è ateo non tanto perché non crede
agli dèi quanto perché, avendo orgini feacie orientali o iperee, come direbbe
lui, o levantine come diremmo noi, e appartenendo alla stirpe dei giganti, cioè
dei re e guerrieri siriani, si sente alla pari degli dèi e così condivide il
pensiero di Demarato/Alcinoo: « sempre, infatti, gli dèi ci si mostran
visibili, quando per loro facciamo elette ecatombi, banchettano in mezzo a noi,
sedendo dove noi siamo; e se un viandante, anche solo, li incontra, non si
nascondono, perché siamo prossimi a loro, come i Ciclopi e le selvagge tribù
dei Giganti. » Questa ideologia, che ricorda da vicino quella medievale e
feudale, viene ricollegata ad una guerra di Troia ideale che ricorda la
Roncisvalle di Turoldo e possiede un suo codice cavalleresco e della vita curtense
e anche mercantile, con mura merlate, ponti levatoi, cavalieri e cavalli e
scudieri e araldi dai mille colori e trombe e vessilli e tornei e duelli e dame
velate accompagnate da ancelle, che piangono e perorano la causa dei loro eroi,
ricamano sugli arazzi le coloratissime battaglie e i duelli o le orribili scene
di viaggi in terre lontane fra mostri marini e orchi montani: « Il tempo in cui
si svolgono le gesta dei cantari è insomma un concentrato di tutti i tempi e le
guerre, soprattutto di quelli della sfida tra Islam ed Europa cristiana, da
Carlo Martello a Luigi IX il Santo. Ed è proprio quando le Crociate con la loro
pressione propagandistica e il loro peso militare non fanno più parte
dell’attualità, che duelli e battaglie tra paladini e infedeli diventano una
pura materia narrativa, emblema d’ogni contesa, d’ogni magnanimità, d’ogni
avventura, e l’assedio dei Mori a Parigi un mito come quello della guerra di
Troia » (Italo Calvino racconta l’Orlando furioso, Einaudi). Il fatto è che
dopo l’espansione assiro-babilonese uno spicchio d’oriente s’è trapiantato
nell’alto Lazio e dunque etruschi e romani si ritengono eredi della civiltà
orientale che anzi sono ora coscienti di avere persino superato con la
costruzione di bei palazzi e tombe monumentali cariche di oggetti preziosi e di
elevata qualità artigianale, mentre dell’Egitto e di Babilonia non rimane che
uno sbiadito ricordo attraverso la dinastia etiope e i feaci orientali e i
ciclopi che gli vivono accanto. Se gli intenti della poesia omerica fossero
stati solo celebrativi i committenti Demarato, in quanto corinzio, cioè aperto
a riconoscere l’importanza della civiltà orientale, e Tullo Ostilio, in quanto
(terzo) re di Roma etrusca, non avrebbero trovato difficoltà a richiedere a
Omero la composizione di poemi non tanto in etrusco e latino, cosa che
probabilmente a Omero di madre etrusca di Roma e padre greco di Albalonga
sarebbe stato facile comporre, quanto la composizione di poemi
rispecchianti esattamente sul piano storico la dipendenza culturale
etrusco-romana non da Troia bensì dalla Siria-Palestina. Ma gli intenti del
mercante Demarato e del re latino di Roma che aveva distrutto Albalonga e
incorporato i latini nel popolo romano, erano soprattutto di natura economica e
di pacificazione interna, dunque dettati dall’intento di stuzzicare l’orgoglio
degli ellenofoni affinché investissero e commerciassero con le città che essi
già consideravano e ora di più venivano indotti a considerare di origine greca,
Tarquinia (a Pyrgi che allora dipendeva da Tarquinia Omero fa giungere Odisseo)
e Roma (fondata secondo Omero da Enea – che i greci, ad esempio Dionisio
d’Alicarnasso, consideravano greco – e in pratica anche da Odisseo che
secondo la profezia di Tiresia vi istituirà il rituale del suovetaurilia),
e altresì di pacificare l’elemento latino di Albalonga che si riteneva ed era
ritenuto dai greci di origine greca. Così necessariamente i poemi furono
commissionati in greco e la “ guerra di Troia ” originariamente scatenata dai
popoli del mare contro l’Egitto e il Levante fu spostata a Troia sui Dardanelli
per celebrare la colonizzazione greca dell’Anatolia occidentale. Ma nonostante
la manipolazione omerica (ma Omero ha comunque lasciato abbondanti tracce,
rilevate dallo stesso Erodoto, dell’origine siriana della guerra) dall’Iliade e
dall’Odissea traspira una civiltà che ha collegamenti profondi con la Terra
Santa e col cristianesimo, che per definizione è il medioevo e viceversa.
Dall’Iliade fondata sulla diffusione del culto di Afrodite Urania/Elena
filistea di Ascalona, dea del matrimonio (soprattutto inteso come unione fra
popoli diversi) attraverso il ratto, di Paride troiano (Erodoto che fondò la
questione della rivalità fra Europa e Asia, fra occidente e oriente, non si
rendeva più conto che l’unica traccia conservatasi della vera “ guerra di Troia
” era conservata dall’itinerario di diffusione del culto di Afrodite Urania
filistea, che passava per Memfi in Egitto dove la coppia era stata fermata dal
visir Toni o Toone e finiva a Sparta dove Menelao aveva infine portato Elena
dopo averla rapita in Egitto), all’Odissea coi feaci di Iperea che praticano il
rito dell’Ultima Cena, dell’Eucarestia, quindi il banchetto col calice del vino
(il Santo Graal; ma non manca l’evocazione della sindone attraverso il sudario
di Laerte) e col pane in onore del re defunto che così diverrà dio e da dio
continuerà a proteggere la comunità, dall’Iliade e dall’Odissea che hanno come
sfondo le faide fra clan legate al furto di bestiame o al ritorno dei guerrieri
che ricorda quello dei crociati dalla Terra Santa, la magia, la superstiziosa
credenza di un mondo di fate e folletti, di mostri, di maghi merlini e fate
morgane, ricaviamo un quadro di civiltà che veramente giustifica la tesi
erodotea della rivalità fra Europa e Asia. Come i popoli del mare cercavano di
scampare alla morte per fame assalendo i pingui pascoli del delta (e Odisseo
nei libri XIV e XVII ricorda spedizioni cretesi e cioè di pelasgi/filistei nel
delta a ridosso della guerra di Troia e ancora: « Non si può certo nascondere
il ventre affamato, funesto, che tante pene dà agli uomini, per lui
s’allestiscono le navi buoni scalmi sul mare mai stanco, a portar mali ai
nemici » Od. XVII, 286ss) e poi adattandosi ai meno pingui pascoli della
Palestina, le crociate medievali furono la valvola di sfogo della piaga della
cavalleria e dei cadetti privi di feudo ma anche la guerra per il predominio
sui porti e sulle vie carovaniere delle spezie e delle sete che conducevano al
misterioso Catai di Marco Polo, altro che difesa del Santo Sepolcro o reazione
all’espansione islamica! Ancora oggi si deve guardare non allo Scamandro e al
Simoenta troiani ma al Tigri e all’Eufrate iracheni, chiavi di volta del
controllo del petrolio su cui l’America e il suo satellite inglese (o è
viceversa l’America il satellite di Sua Maestà britannica?) hanno messo le
mani, patrioti iracheni permettendo. C’è un filo rosso che trascende tutto e
lega la storia dell’umanità dalle origini ai nostri tempi e passa sempre per il
Medio Oriente, fin dai tempi della “ guerra di Troia ” omerica, fin da millenni
prima, e vede sempre lo scontro fra Occidente e Oriente, fra Cristianesimo e
Islam, e sono gli ultimi, l’Oriente e l’Islam, che ci fanno sempre più bella
figura! Anche perché l’Oriente porta la civiltà all’Occidente e viceversa
l’Occidente porta la barbarie all’Oriente. I crociati, partiti per salvare il
Santo Sepolcro dagli Infedeli, tornarono in Europa conquistati dalla religione
islamica. La civiltà occidentale fu salvata dalla totale distruzione medioevale
anche e soprattutto dai dotti arabi. La IIIa guerra mondiale per il controllo
delle vie del petrolio e del potere sulla terra è sotto gli occhi di tutti ma
per fortuna in questo caso la disfatta della coalizione a guida USA è stata
scritta più di duemila anni fa da Tucidide e controfirmata da Platone. Quanto
all’antichità è evidente che la civiltà viene dall’Oriente e i barbari popoli
del mare hanno determinato il crollo degli imperi millenari che hanno fatto la
civiltà del Vicino Oriente. L’Oriente ha sempre vinto con la sua civiltà
superiore. Per di più a partire dai pelasgi dell’alta Siria e di Creta in età
minoico-micenea le coste tirreniche sono state frequentate da una cultura
esteriormente semitica e linguisticamente greca. Poi con l’orientalizzante s’è
manifestata la colonizzazione dell’Etruria dalla costa siriana (Retenu/Rasenna)
cioè etrusca e ancora greca di Cipro. Nell’alto Lazio il passaggio dal
villaggio di capanne alla città di case di mattoni con tetto a spiovente di
tegole di coccio sovrapposte viene attribuito dalla tradizione a Demarato,
padre o comunque antenato del primo re etrusco di Roma Tarquinio I, il
Laodamante dell’Odissea), ricco mercante della famiglia dei Bacchiadi di
Corinto, stabilitosi definitivamente a Tarquinia, con cui commerciava, dopo
l’instaurazione della tirannide di Cipselo, nel 657 a. C. Ma è verisimile che
lo stabilirsi di Demarato a Tarquinia vada anticipato intorno al 675 a. C. fra
primo e secondo quarto del VII secolo. E’ questo l’orizzonte della nobiltà
borghese tarquiniate (e romana) celebrata nei poemi omerici, consapevole di
rappresentare nel momento attuale la grandezza egizia e babilonese. Di questo
splendore abbiamo un riflesso nell’ambiente olimpico omerico: « Ella [Teti] si
assise accanto a Zeus padre, le fece posto Atena: Era le pose in mano una coppa
d’oro, bellissima, l’allietò con parole: Teti bevve e le ritese la coppa » (Il.
XXIV,100ss). Sui bassorilievi o sulle pitture tombali etrusche con scene di
banchetto ritroviamo la stessa grazia, la stessa olimpica serenità dei ricchi
beati omerici. Una fluidica gioia di vivere attraversa perfino le più sbiadite
pitture tombali etrusche e i nostri antenati quasi sembrano approfittare di un
nostro attimo di distrazione per staccarsi dalle umide pareti di pietra tufacea
e riprendere la festa che abbiamo interrotto violando la loro riservatezza,
festa di tutti i giorni, immutata dai tempi in cui l’eminente cittadino
tarquiniate Alcinoo/Demarato così parlava all’itacese (vale a dire burino)
Odisseo: « Ma ora ascolta parola mia, ché anche ad altri eroi tu possa narrare,
quando là nel palazzo banchetterai vicino alla sposa e ai tuoi figli, le nostre
virtù ricordando, in quali opere Zeus concede anche a noi l’eccellenza, fin dal
tempo dei padri… siamo a navigare eccellenti. E sempre il festino c’è caro, la
cetra, la danza, vesti mutate, e bagni caldi, e l’amore » (Od. VIII,241ss).
Nell’anno
8 di Ramesses III vi fu un assalto principale di sherdanu/sardi,
danuna/danai/daniti, peleset/pelasgi/filistei e tjekker/teucri o troiani di Dor
(sulla costa fra la Filistea a sud e la Fenicia a nord). Ma forse il nome di
troiani (Omero conosce i troiani, più esattamente i troi, e non i teucri,
nonostante la traduzione di Rosa Calzecchi Onesti) poteva essere suggerito anche
dai tur(u)sha (attraverso la metatesi tru- > troi > troiani), pure
menzionati fra i popoli del mare, collegati agli etruschi. Questa invasione di
popoli fu interpretata dai greci come guerra degli Epigoni (vittoriosi
finalmente su Tebe d’Egitto in quanto, contrariamente alla roboante propaganda
di Ramesses III, i popoli del mare sfondarono nel delta e, cosa più importante,
distrussero l’impero del Levante creato da Tuthmosis III; le guerre dei Sette
contro Tebe d’Egitto – di cui si ha un ricordo nell’Apoteosi di Radamanto,
Disco di Festo, decifrato da chi scrive, attraverso l’uccisione del faraone
Seqenenra Tao II/Radamanto da parte degli hyksos/achei di Tideo nel 1570 a. C.
ca. – e degli Epigoni furono poi riambientate dai greci a Tebe di Beozia dove
rimaneva l’ultimo caposaldo della colonizzazione egizia) e anche come
successiva “ guerra di Troia ” perché i popoli del mare si riversarono comunque
dove il contrasto era minore e cioè in Palestina che appunto prese il nome dai
peleset/pelasgi/filistei. Secondo la tradizione greca Diomede figlio di Tideo
aveva partecipato ad entrambe le guerre, degli Epigoni e di Troia. Nella
parallela tradizione ebraica invece Abramo era sceso in Egitto, intorno al 1730
a. C., e Mosè aveva traghettato gli ebrei dall’Egitto in vista della Palestina
e Giosuè l’aveva conquistata militarmente. Gli ebrei, o meglio i loro antenati
popoli del mare, al tempo di Ramesses III avevano invaso il delta con mogli e
figli su carri tirati da buoi gibbosi e con bestiame al seguito.
Ecco gli Ebrei
che con Mosè e Giosuè invasero la Palestina ovvero gli Epigoni che come Diomede
poi distrussero Troia, raffigurati a Medinet Habu, sulle pareti del tempio
funerario di Ramesses III.
Così
si spostavano anche altri popoli indeuropei quali celti e germani. Il dio di
greci, romani ed ebrei è sempre lo stesso, si chiami Zeus, Giove o Geova,
perché deriva dallo stesso radicale fisso indeuropeo ricostruito come *die/ow-
e gli è sacra una quercia oracolare che sarà ora quella del santuario pelasgico
di Dodona, ora la quercia di Egeria a Nemi o quella romulea di Giove sul
Campidoglio, ora la quercia di Mamre o di More. I poemi omerici e l’Antico
Testamento, in particolare la Torah, sono due facce della stessa medaglia
ricordando l’epopea dei popoli del mare soprattutto in Palestina. Nonostante
Omero faccia partire la grande armata achea da Aulide e la faccia approdare sul
lido di Troia è evidente, come emerge dalle lettere di Amarna e da altre
iscrizioni, che i primi assalti dei popoli del mare vengono registrati (come si
evince da Omero stesso) a Cipro e in Cilicia occupata dai danai/danuna/daniti,
dove a Tebe Ipoplacia (espugnata da Achille che vi prende schiava Briseide)
regna Eezione, padre di Andromaca moglie di Ettore, e poi in Palestina coi
pelasgi/filistei dagli elmi piumati. L’epopea si incentra soprattutto sulle
azioni dei pelasgi/filistei che combattono probabilmente contro i
tjekker/teucri/troiani di Dor (a nord della Filistea e in prossimità della
Fenicia) e i loro alleati sherdanu, antenati dei sardi, che in Egitto hanno
imparato ad adorare il dio della morte e resurrezione e della peste Reshef
verisimilmente in forma di mummia dentro un’arca a forma di sarcofago. Secondo
il racconto unificato di Iliade e 1 Samuele gli achei/filistei catturano
Criseide/l’arca di Geova(Reshef) e il dio Apollo/Geova manda la peste nel
relativo accampamento fino a che dopo la restituzione a Crise sacerdote
d’Apollo/ebrei e olocausti di grasso (dei filistei e degli achei: « saliva al
cielo il grasso, intorno al fumo avvolgendosi ») la peste cessa. Poiché questi
popoli del mare posero fine anche al moribondo impero ittita e a quello dei
suoi alleati della battaglia di Qadesh era aperta la strada al collegamento
omerico con Troia. La caduta di Troia fu fissata dallo storico e astronomo
Eratostene al 1184 a. C. e l’anno 8 di Ramesses III cade intorno al 1178. Se ce
ne fosse bisogno è lo stesso razionale a tutti i costi Tucidide a confermarci che
la guerra di Troia deve essere identificata con quella dei pirati popoli del
mare, condotta con una flotta che seppur certo inferiore a quella enumerata da
Omero era poca cosa per rappresentare tutta la Grecia. Questo numero ridotto si
spiega col fatto che le navi lunghe di tipo pirata avevano al massimo cinquanta
remi coi rematori che normalmente erano tutti combattenti, e partirono con
vettovaglie appena sufficienti al seguito, il che comportò una guerra decennale
perché mentre alcuni combattevano ed erano così numericamente equivalenti a
troiani e alleati, altri conducevano azioni piratiche o coltivavano il
Chersoneso. Se invece avessero avuto le vettovaglie necessarie e avessero
potuto dedicarsi solo alla guerra avrebbero sicuramente vinto in breve tempo.
Ma appunto non era la mancanza di denaro, come dice Tucidide in La guerra del
Peloponneso, denaro che a quel tempo non era ancora stato inventato, ma
piuttosto la mancanza di vettovaglie, cioè di cibo, che li aveva spinti a
prendere il mare (I,10-11).
Sia
i tjekker che i pelasgi portavano acconciature di piume e scudi rotondi. Se vi
aggiungiamo i carri tirati da cavalli dei maryannu hurriti e mitanni che
scorrazzano a centinaia per le pianure di Israele, antenati dei carristi della
guerra del deserto combattuta fra Rommel e Montgomery, il quadro è completo.
Lastra dal
tempio della rocca di Veio con guerriero e auriga di tipo omerico (Roma,
Museo di Villa Giulia)
E’
un’età violenta. Una punizione frequente in questo periodo è quella del taglio
del naso e degli orecchi, come si legge in atti ufficiali che ricordano il
processo a congiurati di palazzo al tempo di Ramesses III. E’ altrettanto
feroce la pena inflitta all’infedele capraio Melanzio nell’Odissea, cui vengono
amputati naso e orecchi, genitali, mani e piedi. Così Davide minaccia Golia: «
Io ti abbatterò e staccherò la testa dal tuo corpo e getterò i cadaveri
dell’esercito filisteo agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche » (1
Samuele 17,46). Gli eroi omerici tagliano le teste esattamente allo stesso modo
e le infilano anche su alti pali per portarle in processione e poi le espongono
con le armature nei loro templi esattamente come fanno i filistei e i romani a
partire da Romolo. Ecco ciò che dice Ettore ad Aiace Telamonio: « sazierai cani
e uccelli col corpo e le carni, caduto davanti alle navi » (Il. XIII,831s). Gli
esempi che ho riportato si riferiscono agli aggrediti Davide e Ettore e non
agli aggressori (Omero non era in sé quando mise in bocca proprio al pio Ettore
queste parole e infatti chi scrive è l’omerida al soldo di Fidone d’Argo), ma
il linguaggio degli aggressori era esattamente lo stesso (come quello di Golia
che per primo si rivolge a Davide con le medesime parole in 17,44), se non
ovviamente peggiore. Il filisteo Golia è un gigante. Sia Genesi che Baruc oltre
a Odissea ricordano il pazzo popolo dei giganti di Israele esperti nella guerra
figli degli dèi (anche in ebraico abbiamo elohim, che significa dèi) ovvero gli
eroi come Achille figlio di Teti dea del mare, un gigante cui non vanno bene le
armi degli altri achei e deve farsi fare apposta le armi dal fabbro Efesto.
Giganti è il titolo della casta guerriera dominante i cui esponenti una volta
defunti venivano eroizzati. Il termine corrispondente cananeo è khabiru, nome
che si riferisce a formazioni straniere ostili ai regni cananei sottomessi al
regno faraonico di Amarna (XIV secolo) e corrisponde ai cabiri della tradizione
greca, i “ grandi ” (arabo kabìru pl. kubaràu) associato sia a conoscenze
metallurgiche come gli affini metallurgi ciclopi (e in effetti i popoli del
mare innovano utilizzando lunghe spade di ferro) sia alla appartenenza agli
antenati defunti ed eroizzati. I khabiru o cabiri o giganti sono in Palestina
già al tempo del faraone eretico Ekhnaton come avvisaglia della massiccia
invasione di due secoli dopo. Alcuni di questi giganti, i feaci, sotto la guida
di Nausitoo partirono da Iperea (alta Siria) e si stabilirono a Scheria cioè
nell’Etruria con capitale Tarquinia e il suo porto di Pyrgi (Santa Severa).
Anche Romolo e Remo vengono identificati coi cabiri e, come anche Enea, con la
metallurgia. Anche gli etruschi/feaci di Demarato/Alcinoo e suo figlio quinto
re di Roma Tarquinio Prisco Lucumone/Laodamante (Omero vede nel passato mitico
con gli occhi dello splendido presente) sono organizzati come gli ebrei,
originati dall’integrazione delle diverse tribù di popoli del mare ed altre
dell’entroterra, in una lega di dodici popoli. Gli ebrei ebbero il loro
santuario federale a Silo, gli etrusco-romani anche a Roma presso il santuario
romuleo di Conso/Vertumno. I romani erano strettamente affini ai beniaminiti,
la tribù guerriera per eccellenza degli ebrei, proveniente dall’Eufrate, che
aveva come animale totem il lupo. Sia i beniaminiti che i romani rapirono le
donne dai rispettivi santuari per potersi fondere con gli altri popoli del
luogo, gli ebrei e i sabini rispettivamente. Un’altra cosa che i romani si
portarono dietro dalla Palestina furono le città di rifugio e il nome stesso di
Roma. Rama, che significa “ altura ”, dunque “ colle ”, era la città da cui
proveniva il giudice Samuele, l’ultimo dei giudici di Israele prima della
nomina di Saul a re. Giudici è una traduzione errata di suffeti che meglio si
dovrà tradurre pretori, affini agli zilath mekhl rasnal etruschi che Livio
chiama sacerdotes.
Quella
della coalizione achea fu la prima grande armata che si riversò in quella che
sarà la Terra Santa dei crociati. E la moderna coalizione anti-Saddam
guidata dagli USA ama atteggiarsi ad una spedizione crociata e così è vista in
certi ambienti religiosi e politici USA (quelli estremamente ricchi che
traggono profitto dal petrolio e quelli estremamente poveri che per una paga
che sicuramente non vale la vita umana mandano gli esuberi disoccupati in
questa sporca guerra; la verità più penosa è che gli USA sono un paese
sull’orlo del collasso cui rimane solo un imponente esercito con cui
sopravvivere stando continuamente in guerra, esattamente come i popoli del
mare) e gli ambienti estremisti islamici hanno raccolto la sfida. Occidente e
Oriente, Cristianesimo e Islam. Le crociate non approdarono a nulla di buono
per i franchi, cioè gli europei (i francesi, i franchi di allora, hanno capito
la lezione e oggi fanno scuola a tutti, gli americani no), e nemmeno portò bene
agli achei la spedizione navale contro Troia, perché questa si rivelò per loro
una vittoria di Pirro. Chi non morì a Troia morì durante il ritorno a casa
affondando con la sua nave oppure ammazzato a tradimento dalla moglie e dal suo
amante appena giunto a casa. Chi si salvò per lo più dovette trovarsi una nuova
terra dove abitare. La generazione dei crociati e dei giganti, degli eroi
achei, fu una generazione agitata, irrequieta (così dice Odisseo a Agamennone:
« noi, cui Zeus… donò che di giovinezza a vecchiaia dipanassimo il filo d’aspre
guerre, finché a uno a uno moriamo! » Il. XIV,85ss), ma trovò pane per i suoi
denti. E non sono certo rosee le prospettive dei signori della guerra guidati
dall’Agamennone texano. Dunque prima di tutto i poemi omerici che traggono
materia da quella che si può considerare la prima crociata indeuropea contro
l’Asia di cui la storia abbia ricordo non vanno nel modo più assoluto decantati
da noi europei come l’epica della nostra stirpe guerriera e rapace ma, come li
trattò lo stesso Omero, come la dura lezione, da non ripetere assolutamente, di
ciò che accade a fare i pirati e a compiere azioni malvagie, soprattutto contro
la terra madre, Babilonia, quella che ci ha dato la civiltà e contro cui
nessuna tecnologia ci permetterà mai di vincere una guerra illegittima e
immorale. Sarà poco storico ricercare oggi a oltre tremila anni di distanza
nell’invasione palestinese dei popoli del mare l’eterno conflitto di
palestinesi ed ebrei, due popoli eredi degli ariani popoli del mare che ancora
si affrontano, ma è in ogni caso ciò che accade.
La poetica Omerica.
Comprendere le coordinate della poesia omerica è
difficile, ma non impossibile, perché troppe diverse ottiche di cui è il
prodotto si intrecciano fino a confondere le idee. Diciamo che l’ottica
prevalente che alla fine confonde ogni visuale è quella dei poemi omerici come
favola, come rappresentazione di pupi siciliani (questo vale per l’Iliade,
mentre l’Odissea risulta un poema serissimo, pur nascendo da una favola), che
per di più cerca di ricostruire con le inadeguate conoscenze storiche che
poteva avere un uomo del VII secolo il mito della guerra di Troia e dei ritorni
che risaliva a cinque secoli prima, o almeno a un secolo prima, all’incontro
del villanoviano egualitario con l’orientalizzante esuberante, che dà vita alle
saghe degli Argonauti, della guerra di Troia (sulla via dei metalli e del ferro
per il Mar Nero), dei ritorni, ciò che avveniva più o meno al tempo della
colonizzazione greca dell’Anatolia occidentale. Le favole sono normalmente
create dai e indirizzate agli individui semplici come i bambini, i popoli
primitivi, gli uomini poco o affatto acculturati, più vicini di tutti alla
natura, spontanei, come è essenzialmente spontanea l’arte etrusca. Che
l’autore, Omero, sia un semplice, mi rifiuto di pensarlo, valutando la sua
opera inimitabile e irraggiungibile, il capolavoro della letteratura mondiale,
che se si dovesse salvare solo questo e tutto il resto dovesse perire, io non
verserei una lacrima per il resto che dovesse perire. E Omero non opera in una
società semplice, bensì nella più raffinata società del VII secolo, quella
traquiniate di Demarato corinzio e romana di Tullo Ostilio, pronipote di Osto
Ostilio fondatore di Roma e perciò detto Romolo. Ma Omero, oltre a lavorare su
favole, possiede anche una vena umoristica (che in questa breve esposizione dei
poemi omerici non ho inteso approfondire perché richiederebbe troppo spazio)
che gli omeridi greci interpolatori di Omero hanno addirittura accentuato,
nonostante questa vena umoristica colpisse proprio gli eroi greci e gli dèi
sostenitori degli eroi greci, ciò che dimostra che presso i greci s’erano
diffuse leggende e favole riguardanti la colonizzazione dell’Anatolia
occidentale poi entrate nel folklore e infine nel teatro comico, nella commedia
popolare. E Omero si rivolge certamente ai ricchi mercanti e magnati ellenofoni
ma con un linguaggio semplice che li tocchi nel loro lato intellettuale ma
terra terra, per ciò che hanno in comune con tutti gli esseri umani, i più
popolani, contadini, il lato umano, umoristico, alla Pippo Franco, per
intenderci. Dunque, anche per le cognizioni trascendentali e filosofiche che
dimostra di possedere, Omero è una persona di una certa cultura, eppure non mi
sento di classificarlo immediatamente nelle classi alte della società, anche se
è stato chiamato da queste a dar loro lustro immortale. Mi accontenterei di paragonarlo a Dante e definirlo
un autodidatta che ha raggiunto livelli eccelsi di cultura personale. Se ciò è
vero, anche da questo versante si aggiungerà un alone di favola fantasiosa
proprio laddove Omero non essendo un nobile vede i nobili da una certa distanza
(ancora nella seconda parte del Viaggio d’Odisseo, cioè nell’Odissea, il suo
ultimo lavoro, il che è estremamente significativo) più che altro immaginando
il loro modo di vivere, perché interpreta in un certo modo popolare quella che
lui crede debba essere la vita dei ricchi e nobili. E’ un po’ quello che accade
con le soap opere moderne dove il mondo dorato e lontano, più lontano di quel
che non si creda, dei ricchi e straricchi è visto dall’ottica di autori che
appartengono al ceto impiegatizio. Ma questo risultato potrebbe essere in più
rimarcato perché voluto da Omero per drammatizzare la favola e renderla più
semplice, come accadrebbe se egli traducesse in letteratura episodi che un
ceramista avesse modellato nell’argilla ad alto rilievo (Odisseo che prende a
bastonate l’esercito ribelle, Poseidone che solleva Enea in volo e lo salva
dallo scontro col gigantesco Achille tornato a combattere, e così via).
Con l’urbanizzazione della prima metà del VII secolo i re e
le classi più alte hanno la consapevolezza di rappresentare con la loro
opulenza l’età eroica della nascita della civiltà etrusco-romana e Omero
applica la vera e propria favola dei tempi mitici ad incarnare l’esaltazione
della splendida civiltà presente. Come insegna Marx, ad ogni struttura
economica corrisponde la sua ideologia. L’ideologia che traspira dai poemi
omerici è aristocratica su base egualitaria, democratica, come lo potrebbe
essere in seguito alla riforma serviana, attribuita dalla tradizione romana a
Servio Tullio re di Roma, che però è certamente posteriore ai poemi omerici.
Evidentemente un allargamento della base democratica (possiamo pensare a cento
senatori latini aggiunti ai duecento romano-sabini, dunque alla tribù latina
aggiunta solo sotto Tullo Ostilio dopo la distruzione di Albalonga e altre
città latine compresa Medullia di cui era originario) della società romana (di
cui è esempio perfetto Ettore che combatte inquadrato nella formazione
oplitica) deve risalire al tempo di Tullo Ostilio con la creazione di un
esercito a base ampiamente democratica che per imitazione si appoggia
(ancora per poco) ai modelli della precedente struttura aristocratica che poi
era quella importata dalla monarchia etrusca di Romolo. Sappiamo che le città-stato
etrusche furono in genere abbastanza conservatrici rispetto a Roma, ma
l’etruscità di Omero deriva soprattutto da Roma, di qui la democraticità di
Omero. Omero scrive in un momento storico in cui la società è da tempo retta da
ben precise leggi ed istituzioni codificate. Omero dunque non vive in un
momento di transizione, ma le sue favole si riferiscono a fatti della
tradizione che hanno un contenuto reale e sono avvenuti a cavallo del periodo
di transizione. Dunque prima di tutto la caratteristica della poesia omerica
non è in Omero ma in nuce nella tradizione che egli elabora. A ciò si aggiunge
la caratteristica peculiare degli etrusco-romani (i romani d’età monarchica,
dunque etruscocentrici e non ellenocentrici) e cioè con le parole di M. Pallottino
si può dire che alla sfera intellettuale etrusca era « estranea ogni
speculazione concettuale del tipo che si era andato affermando in Grecia, come
pure ogni sensibilità etica ed ogni disposizione del gusto se non in funzione
di una costante praticità legata ai perentori dettami di una legge superiore
tramandata e scritta, la cosiddetta Etrusca disciplina, nonché alle esigenze
concrete della vita. Per ciò noi vediamo apparire gli Etruschi, soprattutto
agli inizi della loro storia, come un popolo attivo e industrioso che sfrutta
al massimo i suoi beni naturali… crea città popolosissime… opera
esuberantemente sui mari » (Gli Etruschi, CDE spa, Milano, 1998, p. 21).
Possiamo affermare analogamente con F. Codino, ma questa volta risalendo
soprattutto all’età di transizione cui rimonta la favola di Omero, « che tutta
l’esistenza di questi uomini coincide esattamente con la loro attività sociale
o “ professionale ” (cioè con l’attività economica – sia la guerra o
l’agricoltura – che prima che si affermi la divisione sociale del lavoro è un
compito uguale per tutti). Gli eroi dei poemi formano ancora una società di
liberi e di uguali: siamo già al punto della rottura, esistono forti differenze
di ricchezze e di prestigio, ma ciascuno può superare queste differenze a
proprio vantaggio senza osservare convenzioni giuridiche o principi morali
superiori. Achille è umiliato da Agamennone, ma può resistere senza dover
temere o invocare un’autorità superiore o esterna. Odisseo ha conti da regolare
con i pretendenti, ma, purché gli bastino l’intelligenza e la forza, potrà
ancora sconfiggerli senza l’aiuto d’intermediari (leggi e poteri pubblici).
L’unica legge è quella della timè: possesso materiale ottenuto col merito
personale, col successo pratico, e accompagnato dal prestigio sociale. Tutte le
definizioni di caratteri… si riferiscono alla forza coraggiosa e intelligente,
che è l’unica virtù umana riconosciuta, e dunque sono tutte qualifiche “
professionali ”. Di quest’unica virtù, definita in tutta la sua estensione dal
termine aretè (che indica il successo, il buon esito, in qualsiasi campo di
attività pratica), posseduta in misura maggiore o minore, è fatta la
personalità degli eroi. Inutilmente si cercherebbero in queste figure le
manifestazioni di una patologia etico-psicologica derivante dalla
contrapposizione dell’individuo a quadri sociali fissi e differenziati »
(Introduzione a Omero, Einaudi, pp. 140-141). Nella società e nel mito del
periodo di transizione gli uomini vivono in un limbo in cui la società primitiva
non è più e quella più civile che la sostituisce non è ancora strutturata
rigidamente, « ogni loro azione si giustifica da sola, trae il suo valore
unicamente dall’esito immediato, non viene rapportata ad alcuna norma
superiore, ma è semplicemente descritta in assoluta presenza locale e
temporale, senza sottintesi significati etici » (Codino, p. 191). Come dice
Goethe « I personaggi più adatti », per l’epica e la tragedia, « sono quelli
che non hanno superato quel certo grado di cultura in cui la spontaneità
dell’agire si affida unicamente a se stessa, ed in cui l’uomo non agisce ancora
in senso morale, politico e meccanico, ma in senso individuale. Le tradizioni
greche [o piuttosto etrusco-romane e siro-palestinesi, ebraiche, il
corsivo è mio] dell’età eroica furono, in questo senso, particolarmente
favorevoli ai poeti ». Dunque le favole (che sono anche favole siro-cipriote,
orientali in genere) sono già bell’e pronte nel villanoviano e Omero, cui la
madre le ha raccontate mille volte da bambino, le mette in poesia nel VII
secolo dell’urbanizzazione. Non può cambiarle, se non limitatamente, e dunque
mantengono il loro sapore primitivo pur essendo calate nell’orizzonte
straordinariamente raffinato ed epico di Tarquinia e Roma di VII secolo. Omero
l’etrusco è il primo scrittore occidentale, cioè con lui per la prima volta la
scrittura, d’origine fenicia, viene impiegata per scrivere e per scrivere poemi
lunghi, immortali, che costituiscono le fondamenta della cultura e della
civiltà dell’occidente, e sappiamo bene quanto la civiltà occidentale sia
debitrice degli etruschi, che mangiavano tre volte al giorno, seduti a tavola,
introdussero l’uso del cognome, si lavavano e cambiavano spesso di vesti,
amavano i divertimenti e l’arte (la produzione vascolare greca, quella
migliore, si trova in Etruria), trattavano con le donne da pari a pari,
viaggiavano per i mari lontani e per le terre oltre lo Stretto di Gibilterra in
concorrenza coi loro cugini fenici. Dopo Omero Roma si dedicò esclusivamente
alle guerre e ebbe poco tempo da dedicare allo svago (comunque « si legge nelle
« Origini » di Catone che i convitati solevano nei banchetti cantare
accompagnati dal flauto le virtù degli uomini illustri » Cicerone, Tuscolane,
I, 2), ma il gusto popolare rimase legato al genere introdotto dall’Iliade, e
cioè alla commedia e alla tragicommedia. Roma, diventata agricola in reazione
ai re etruschi amanti del mare, fu anche di gusti assai semplici, com’è tipico
delle genti contadine. Quando Roma, venuta a contatto, attraverso la guerra,
con la Magna Grecia, riscoprì la letteratura greca, e Livio Andronico (III sec.
a. C.) tradusse in verso saturnio l’Odissea, il genere che ebbe fortuna fu
ancora la commedia. Ancor più è significativa la prosa – in greco! – degli
annalisti anteriori a Catone: « L’uso della lingua greca, che veniva ritenuta
la lingua della cultura diffusa nel bacino del Mediterraneo (il latino rimaneva
circoscritto – dice Cicerone – suis finibus, exiguis sane), ci mostra uno dei
fini dell’annalistica: quello di diffondere le idee di Roma, e, soprattutto, di
giustificare la sua politica espansionistica dopo la seconda guerra punica. In
ciò l’annalistica replicava alle tendenze di una storiografia filocartaginese,
in cui si distinse Filino di Agrigento (III sec. a. C.). A quest’opera,
ispirata soprattutto a criteri di pubblica utilità, si accinsero personaggi per
lo più assai in vista della vita politica romana, senatori e magistrati, in
gran parte personaggi di rilievo anche nelle vicende che andavano narrando.
Tipico dell’annalistica doveva essere il tono (quasi epico) di esaltazione, il
gusto del meraviglioso e del favoloso… » (Armando Salvatore e Antonio
Salvatore, Storia della letteratura latina, Loffredo Ed. Napoli, 1973, p. 66).
Abbiamo visto e vedremo nel corso della storia etrusco-romana dall’VIII al III
sec. a. C. un orientarsi della politica in senso filogreco con deviazioni in
senso filopunico a seconda delle convenienze commerciali dell’Etruria e di
Roma, cui non importava tanto farsi grandi con una storiografia o un’epica
celebrative, quanto sfruttare queste a fini puramente politici ed economici… il
senso pratico dei Romani, ma anche degli Etruschi. E l’iconografia del povero
Omero cieco che gira per le corti greche in cerca di un frusto di pane come il
suo conterraneo, l’esule Dante di due millenni posteriore (e altrettanto più
antico di idee), non potrebbe essere più lontana dalla realtà.
Il Viaggio d’Odisseo, il poema
aristocratico di Tarquinia Signora del Mediterraneo e l’Odissea, il poema dell’Impero
etrusco-romano.
Omero ha scritto l’Odissea in due tempi. Prima Il Viaggio
d’Odisseo di circa 4000 versi commissionatogli dal magnate tarquiniate Demarato
corinzio poi (dopo l’Ira d’Achille del 649 a. C.) aggiunse la Telemachia e il
ritorno a Itaca con strage dei pretendenti e ricongiungimento con Penelope,
ovvero completò l’Odissea, di circa 11.000 versi, che si concludeva col verso
246 del libro XXIII. Se immaginiamo che Omero visse fino a 70-80 anni, dopo il
649 a. C. ebbe ancora da 5 a 15 anni per terminare l’Odissea. Omero fu
contattato da Demarato attraverso l’ambiente della madre etrusco-romana (che
come tutte le donne romane, compresa l’emancipata Tanaquilla moglie di
Tarquinio I, è il modello delle donne omeriche immaginate sedute presso il focolare
a filare la lana, si chiamino Penelope e Elena oppure Andromaca e Arete) di
origini rasennie (cioè della costa siriana) e quello del padre greco (di stirpe
eolica, che impiegava il digamma, possibilmente da Cipro) costituito dai
discendenti di coloro che a suo tempo avevano usurpato il trono di Lavinio ma
erano stati cacciati da Romolo ad Albalonga che mai era stata la madrepatria di
Roma anche se ciò piaceva sostenere agli albani e ai greci e in ciò vengono
assecondati da Omero e dal suo committente Tullo Ostilio, di cui parleremo a
proposito dell’Ira d’Achille. Omero attinge ai ricordi del padre e della madre
e a quelli del loro ambiente che alla fin fine è sempre originario del Vicino
Oriente e raccoglie le tradizioni di questo conservati nel tempo in grandi
centri come Al-Mina e risalendo indietro nel tempo, Ugarit, Ebla.
Una
delle prime rappresentazioni dell’accecamento di Polifemo su un lato del
cratere di Aristonothos (a sinistra e in basso a destra), da Cere (secondo
quarto del VII sec. a. C.) mentre sull’altro lato (in alto a destra) compare
una scena di battaglia navale in cui una nave cerite assale una nave di pirati euboici. I due episodi vengono
messi in parallelo in quanto costituiscono la punizione di atti di pirateria e
di maltrattamento dell’ospite.
Il Viaggio d’Odisseo fu scritto certamente con breve preavviso e in
breve tempo su commissione di Demarato – forse subito dopo una battaglia navale
che aveva tolto agli euboico-calcidesi di Ischia e Cuma il monopolio del
mercato del ferro della Tolfa con l’Oriente – per celebrare non necessariamente
la costruzione ma il passaggio sotto controllo taquiniate del santuario-banca
di Ino Leucothea di Pyrgi, prima in mano agli euboico-calcidesi. (Nel passaggio
dall’impero alla città-stato i sacerdoti sono rimasti i banchieri di sempre ma
gli dèi hanno già assunto un ruolo solo formale a Roma e nella Scheria omerica
dove il potere delle assemblee funziona e l’uomo si rende sempre più conto che
è lui il vero motore del mondo. Così Omero se la ride degli dèi, ombre
pasticcione degli esseri umani che vivono realmente. Dunque mentre l’alto Lazio
decollava economicamente e Omero era un ricercato pubblicitario autore di soap
opere miliardarie, l’invidioso e retrogrado beghino Esiodo si doveva
accontentare dei miseri premi degli ormai in declino euboico-calcidesi)
Evidentemente si tratta di un edificio ancora da scoprire, antenato di quelli A
e B individuati dagli archeologi nella stessa area o nei pressi, il più antico
dei quali risale al 500 a. C. ca. Il cratere di Aristonothos mette in stretta
relazione la vittoria degli etruschi sugli euboico-calcidesi e il poema omerico
che invitava tutti e in particolare gli ellenofoni a commerciare civilmente
(cioè all’opposto di Polifemo), direttamente con gli etruschi, tramite il porto
di Pyrgi. Tutto ciò si svolge a cavallo del 675 a. C. quando Omero avrà avuto
intorno ai 39 anni. (Certo Omero avrà affinato la sua arte cominciando a
poetare molto presto nella sua natia Albalonga sulla scia di qualche cantore
della scuola che discendeva dalla corte di Lavinio e che già aveva adattato il
verso saturnio al greco inventando l’esametro, e magari producendo, Omero,
robaccia che è andata perduta, o forse non del tutto, come quel poemetto
sboccacciato all’etrusco-romana sugli amori di Ares e Afrodite di cui Demodoco
canta solo una parte, quella in cui i due si unirono per la prima volta in casa
di Efesto) Da questo momento compaiono le prime raffigurazioni vascolari del
mito di Polifemo. Secondo Dionisio d’Alicarnasso il ricco mercante Demarato di
Corinto commerciava da tempo con l’Etruria e si stabilì definitivamente a
Tarquinia dopo la salita al potere di Cipselo nel 657 a. C. E’ possibile che
Demarato fosse già influente in Tarquinia prima di stabilirvisi. Il Viaggio è
concepito da Omero intorno al committente e alla sua città natale, Efira/Corinto,
col suo eroe Sisifo, furbo matricolato da cui discendeva Odisseo prima di
essere spostato da Omero a Itaca e nelle isole di pirati che taglieggiavano i
mercanti corinzi diretti in Italia. Il nocciolo del Viaggio d’Odisseo è il
rapporto di ospitalità che si instaura fra il naufrago Odisseo e i reali di
Scheria cioè Tarquinia col suo porto di Pyrgi (Santa Severa) e sulla base di
questo inventato rapporto di ospitalità i greci sono chiamati a non fare la
guerra piratica contro gli etruschi e a commerciare con l’Etruria depositando
il controvalore nel santuario-banca di Ino Leucothea, la dea che prima di tutti
ha salvato Odisseo dal naufragio. Le innumerevoli avventure che Odisseo deve
affrontare prima di essere riportato a Itaca dai marinai di Scheria servono a
divertire i greci e a mostrare scherzosamente loro che Odisseo ebbe tante
disavventure (compreso il passaggio per l’inferno di Circe) sul lato orientale
del Mediterraneo (da dove invece viene la civiltà) mentre invece le cose
cominciarono ad andargli bene una volta passato lo stretto di Messina con
l’arrivo alla Sardegna-purgatorio di Calipso e da qui infine
all’Etruria-paradiso di Arete. E’ evidente invece che nell’età mitica della
guerra di Troia era l’occidente inesplorato o poco esplorato ad essere pieno di
pericoli per un greco come Odisseo. Però adesso le cose sono cambiate e Roma e
Tarquinia, città splendide nel cuore del Mare Tirreno e Mediterraneo si sono da
tempo riscattate da quell’origine e vogliono farsi faro di civiltà. Per questo
motivo c’è una doppia ottica nel racconto, che consiste nel vedere il passato
mitico della guerra di Troia e del ritorno di Odisseo collocato in un generico
1200 a. C. con gli occhi degli occidentali che nella prima metà del VII secolo
hanno realizzato una civiltà ormai superiore perfino a quella faraonica, di cui
non si ha che uno sbiadito ricordo. Dunque l’Odissea è la storia del pirata
Odisseo che ha atterrato Troia ma poi ha perduto tutte le sue prede e tutti i
suoi compagni e ha espiato le sue colpe attraverso l’inferno di Circe, il
purgatorio di Calipso e il Paradiso di Arete da cui, con tante ricchezze quante
non ne avrebbe portate da Troia, si reincarna a Itaca per salvare moglie e
figlio dalle angherie dei pretendenti. In realtà questa lettura trascendentale
(che deve aver influito e non solo a livello subliminale sul cristianesimo) si
intuisce fra le righe e Odisseo alla fine appare bene in carne ed ossa. Dunque
comportandosi onestamente è riuscito a tornare a casa sano e salvo e ricco. Il
messaggio dell’Odissea è il libero e corretto mercato senza le violenze di un
Polifemo. Nel parallelo ebraico del posteriore libro di Giobbe non v’è la
medesima lezione morale ma l’onnipresente arbitrio di Geova e l’aspirazione
semitica alla vita eterna tanto assurda quanto inutile in un inferno culturale
e ambientale come quello israelitico. Sono due opere l’una il rovescio
dell’altra. L’uomo divino cui non importa di essere mortale di Omero e l’uomo
mortale che inutilmente aspira alla divinità del libro di Giobbe. Demarato/Alcinoo
vuole educare non ai principi giudeo-cristiani, ma direi addirittura, da
epicureo ante litteram qual è, da laico, ai principi della Rivoluzione
Francese: Liberté Egalité Fraternité, e infatti così parla al greco e pirata
Odisseo: « L’ospite, il supplice, è come un fratello per l’uomo che abbia anche
solo un poco di senno ». Demarato e per lui Omero propugna uno spirito di
solidarietà tipico della gente di mare e simboleggiato dall’assistenza del
naufrago che viene lavato e vestito dalle ancelle di Nausicaa e cui poi viene
data ospitalità a palazzo dove mangia, viene ricoperto di doni e infine
riaccompagnato a casa a Itaca. E questa assistenza viene richiesta non solo ai
re ma anche a personaggi umili come il porcaro Eumeo che nei suoi limiti è altrettanto
generoso dei re etruschi. Ma soprattutto si intende educare ai rapporti
amichevoli di ospitalità regale e fra mercanti – un vero e proprio galateo o
cerimoniale, parola che deriva da Cere, ricca città etrusca di questo periodo –
esemplificati dall’ospitalità di Telemaco, Nestore, Menelao e invece
esemplificati negativamente, cioè cosa non si deve fare, dal comportamento di
Polifemo che addirittura si mangia gli ospiti: « Come in futuro potrà venir
qualche altro a trovarti degli uomini? Tu non agisci secondo giustizia. » lo
rimprovera Odisseo. Un altro insegnamento più generale è quello di fare il bene
perché come dice Penelope, « Gli umani han vita breve. Ora chi è senza cuore e
senza cuore si mostra, tutti gli auguran dietro del male i mortali da vivo, e
da morto lo disprezzano tutti; chi, invece, ha cuore nobile e cuore nobile
mostra, di lui larga fama gli ospiti portano intorno fra tutti gli uomini, e
molti lo dichiarano buono. »
Forse Omero ha concepito l’intera Odissea fin dall’inizio
ma l’ha realizzata in due tempi. La seconda parte del poema, scritta dopo l’Ira
d’Achille, del 649 a. C. (nel 649 Omero avrà avuto intorno ai 65 anni), viene
concepita in sottofondo come un richiamo di Odisseo dal mondo dei morti
(purgatorio di Calipso) dal figlio Telemaco che in uno stato di forte emozione,
quasi in trance, ne piange la mancanza e ne invoca l’aiuto contro i pretendenti
di Penelope che riempiono di soprusi il palazzo privo del suo capo. Questo
stato dello spirito lo mette in comunicazione – la preghiera – con gli dèi che,
approfittando dell’assenza di Poseidone presso gli Etiopi, adirato perché
Odisseo durante le sue peregrinazioni ha accecato l’unico occhio di suo figlio
Polifemo, ne decretano il ritorno a Itaca. Questo passo in particolare è stato copiato
dall’evangelista Giovanni/Marco (due evangelisti in uno) che non l’ha capito e
ha trasformato il sogno di Telemaco nel materialistico sonno suo e degli altri
apostoli privilegiati Pietro e Giacomo che avrebbero dovuto assistere alla
presunta esperienza trascendentale della Trasfigurazione, l’unica esperienza
prossima alla Resurrezione. La civiltà dell’Odissea e dell’Iliade è
esteriormente fenicia dall’ololyghè, il caratteristico ululato delle donne
berbere, di Euriclea e delle donne troiane nel tempio di Atena, alle tradizioni
che affondano nell’Iperea dei navigatori feaci di Radamanto, dei ciclopi,
eccetera. Viceversa la cultura è indeuropea di tipo celtico o celto-germanico.
Questa apparente contraddizione viene meno se si pensa che tutto origina dalla
civiltà degli hyksos/achei (heqew-eshowe, signori dei paesi stranieri) che era
appunto esteriormente semitica ma interiormente anche indeuropea. Odisseo ha
tutta l’aria di un druida, cioè di un “ molto sapiente ” celtico, legato come
Achille al santuario oracolare pelasgico di Dodona dove era la quercia
parlante. E tutto ciò che ruota attorno al favoloso paese dei Feaci è druidico.
E del resto il richiamo alla civiltà druidica è dovuto anche al fatto che Ino
Leucothea era assimilata ad Ilitia iperborea. La civiltà di Omero risale
all’indietro a quella dell’Apoteosi di Radamanto (Disco di Festo) e dell’alta
Siria. Se dal punto di vista linguistico il latino e il greco sono lingue più
antiche del celtico si dovrà concludere che la cultura celtica è stata più
conservatrice di quella latina e greca e dunque più vicina di queste
all’orizzonte rappresentato da Omero, che poi dev’essere il suo orizzonte
etrusco. Lo spazio di dodici giorni in cui Poseidone è assente verrà coperto
dai viaggi contemporanei di Telemaco a Pilo e Sparta in cerca di notizie del
padre e di Odisseo da Ogigia a Scheria e verrà riproposto nell’Iliade dove
invece è Zeus a rimanere assente per dodici giorni presso gli Etiopi. Qui però
lo stesso Omero dell’Ira d’Achille decise di cambiare impostazione. Così
durante l’assenza di Poseidone Atena va da Telemaco inducendolo a compiere un
viaggio alla ricerca del padre, viaggio inutile perché nello stesso momento
Ermete si reca ad Ogigia a consegnare a Calipso il decreto degli dèi che ordina
che rilasci Odisseo che appunto parte su una zattera di fortuna, viaggio che
ufficialmente serve a Telemaco per farsi un nome fra i re achei e serve
soprattutto a Omero per dipingere il quadro successivo alla guerra di Troia,
quello del ritorno a casa che per Nestore di Pilo e Menelao di Sparta è stato
positivo, anche se quest’ultimo è tornato abbastanza tardi e da poco, mentre
per altri è stato funesto, come per Agamennone re di Micene, il capo della
spedizione, vendicato da suo figlio Oreste. Questo squarcio sulla vita micenea
che ormai scorre serena a Pilo come a Sparta, e sul misterioso Egitto che
emerge dal racconto di Menelao è tanto bello che ci dimentichiamo che a farlo è
un ventenne nemmeno tanto in gamba. Nel Viaggio d’Odisseo Ino Leucothea era la
protettrice di Odisseo e nell’introduzione al poema il Sole Iperione cui i
compagni di Odisseo avevano mangiato le vacche sacre di Sicilia o del delta
egizio era il dio avverso al ritorno di Odisseo. Già nel Viaggio e comunque
nella stesura definitiva del poema, Omero deve aver oscillato
nell’identificazione del dio avverso e così, prima, secondo la tradizione, lo
ha individuato in Atena (lo dice espressamente Ermete a Calipso nel libro V),
poi, avendo capito che Atena poteva meglio svolgere il ruolo di dea protettrice
a Itaca decise genialmente di sostituirla e di sostituire lo stesso Sole (che
poi è Apollo) con Poseidone (che via Proteo/Vertumno è sempre Apollo) irato per
l’accecamento dell’occhio di Polifemo. Atena viene introdotta da Omero nella
stesura dell’Odissea come numen loci di Itaca e dunque si pone il problema
della sua assenza nel Viaggio d’Odisseo, quando sarebbe servita di più la sua
presenza. Io credo che l’introduzione di Atena già nella terra isolata (non
isola) di Scheria sia interpolazione pisistratide per mettere in cattiva luce
gli etruschi e cominciare l’opera di depistaggio circa l’etruscità di Scheria,
operazione che ha avuto successo anche sugli studiosi moderni che infatti sono
stati depistati. Eppure Odisseo dice chiaramente ad Alcinoo e Arete che una
volta tornato a itaca si augura di contraccambiare l’ospitalità « pur abitando
casa lontano » (Od. IX,18) mentre Itaca e Corfù sono ad un tiro di schioppo.
Magari è vero che Odisseo mente sempre e a tutti e può aver mentito anche qui,
ma Alcinoo e Arete non sono deficienti e dunque poiché non l’hanno visto e
sentito nominare prima d’ora loro non regnano certo a Corfù, bensì molto
lontano da Itaca. Poiché Omero in linea di principio non altera il Viaggio
d’Odisseo per armonizzarlo con l’Odissea, ha dovuto ripetere nel libro I la
richiesta di Atena circa il ritorno di Odisseo che Ino Leucothea faceva
all’inizio del Viaggio nell’attuale libro V. Il dodicesimo giorno da che è
iniziato il poema Poseidone è di ritorno dagli etiopi e avvista Odisseo sulla
zattera e lo fa naufragare sulla terra dei civili etruschi che lo riportano a
Itaca con un viaggio che sa di reincarnazione, dopo un’ultima cena col calice
del vino (che ha antecedenti eblaiti nel banchetto per il defunto eroizzato) e
con la nave dei feaci che con la velocità del pensiero e fasciata di nebbia
percorre il viaggio fra la notte e l’alba, l’ora dei fantasmi. Il rimanente
della storia è ispirato alla vera storia di Romolo (come si deduce dall’attenta
analisi del lavoro di Dionisio d’Alicarnasso) e di suo padre etrusco che nella
clandestinità fra i boscaioli e i porcari del Palatino si faceva chiamare
Faustolo. Questi erano riusciti a riprendere il possesso di Laurento e a
cacciare i greci che avevano usurpato il potere, relegandoli ad Albalonga che
mai era stata la città madre di Roma anche se questo era quanto affermavano i
greci. Omero, che è nato ad Albalonga e comunque su Monte Cavo, più o meno dove
oggi è Rocca di Papa, e ha vissuto a contatto coi pastori e i boscaioli dal cui
mondo sono tratte moltissime similitudini omeriche, trasfigura la vita
soprattutto degli allevatori di mandrie di vacche e cavalli, dei pastori da cui
ricava la tenda di Achille o l’interno della grotta di Polifemo e soprattutto
dei boscaioli alle cui baite (« come le capriate d'un'alta casa, che famoso
architetto ha incastrato, temendo la forza del vento... » Il. XXIII, 712-713)
si ispira per immaginare la casa d'Odisseo, che è la casa di un boscaiolo,
costruita a partire da un tronco d'olivo su cui è stato fatto il letto (Odisseo
« Si mise a sedere sulla soglia di frassino, di qua dalla porta, contro lo
stipite di cipresso, che ad arte polì il costruttore, e lo squadrava a livella
» Od. XVII, 339ss; Penelope va a prendere l'arco salendo le scale fino al
solaio, tutto in legno, dove era il " tesoro " di Odisseo, Od. XXI,
42ss: « Ora, come arrivò alla stanza la donna bellissima, e la soglia di
quercia salì, che l'artefice levigò ad arte, e la squadrava a livella, e sopra
drizzò gli stipiti, vi adattò porte splendenti... »). Il palazzo di Odisseo è
una baita di montagna dove i boscaioli (e anche i pretendenti di Penelope sono
in parte derivati dalla tipologia dei boscaioli) si ritrovano a vivere con le
loro donne con un mobilio semplice fatto di tavolacci, sgabelli e boccali di
legno che quando sono ubriachi e scazzottano fra loro come Odisseo e Iro, si
tirano addosso insieme ai resti di animali scannati e mangiati sul posto, come
fanno i pretendenti con Odisseo. Più esattamente la casa di Odisseo richiama
quella degli arboricoli o palafitticoli, in quanto il famoso letto di Odisseo
intorno al quale è stata fabbricata la casa non è al piano terreno come si
potrebbe pensare distrattamente, ma al piano alto, dove appunto Penelope si
ritira per dormire. Un richiamo alle abitudini palafitticole più che
capannicole degli antenati c'è in Omero nella recinzione di pali intorno alla
città dei Feaci e in quella affiancata al vallo a protezione della flotta
achea. Penelope e Nausicaa nonostante la loro dolcezza d’animo sono due donne rudi
come i loro uomini taglialegna che prendono la chiave per aprire il tesoro
nella “ mano robusta ” e “ balzano ” sul carro come maschiacci. Omero avendo
vissuto da boscaiolo una generazione dopo Romolo poté facilmente entrare in
contatto con lo stesso ambiente in cui Romolo visse la sua vita clandestina,
nei boschi del Palatino, e raccogliere dalle fonti bene informate tutte le
notizie più autentiche sulla vita del fondatore di Roma. Il poema complessivo è
stato concepito in 23 giorni, motivo ulteriore per cui è da ritenere che
l’ultimo libro dell’Odissea sia stato aggiunto in età pisistratide per
raggiungere il numero perfetto di 24 giorni su cui gli alessandrini
stabiliranno la divisione artificiale in 24 libri. L’Odissea omerica terminava
al verso 246 del libro XXIII con l’Aurora che non aggiogava i cavalli del Sole
e dunque non faceva sorgere il nuovo giorno, fermando il tempo e rendendo
eterno l’incontro di Odisseo e Penelope. Da qui in poi nonostante contenga due
brani all’altezza di Omero (entrambi nella parte iniziale del libro XXIV)
l’autore è troppo sfacciatamente credente (« Zeus padre, sì, che esistono gli
dèi sull’eccelso Olimpo, se veramente i principi la folle violenza pagarono! »
dice Laerte) ed esalta Atena con un primo piano nella chiusura del poema, ed è
dunque l’omerida al soldo di Pisistrato d’Atene.
Due
divinità il mercante Demarato vuole accreditare come male minore rispetto alle
altre che sono per lo più delle marionette di una favola popolaresca: Aurora e
Apollo. Aurora è Ino Leucothea di Pyrgi (dove è nota in etrusco come Thesan) la
dea che con la scienza druidica ferma nel tempo l’abbraccio di Odisseo e
Penelope che si ritrovano dopo venti anni di attesa. Aurora, Alba, è certo la
divinità di Albalonga, ed è divinità onnipresente nell’Iliade. Apollo è il dio
protettore della prova dell’arco di Odisseo e della strage degli usurpatori che
cade nel giorno di festa di Apollo. Anche Apollo è venerato nel santuario di
Ino Leucothea a Pyrgi ed è il dio che scatena la peste nel campo acheo e l’Ira
d’Achille. Apollo più che Adone è il dio che rinvia a Reshef dio della morte e
resurrezione e della peste, il dio ebraico, come rinvia al romano
Conso/Vertumno ovvero a Proteo omerico, il dio che in tutto si trasforma e poi
in fuoco elemento del sole, divenendo dunque una più accessibile
rappresentazione del dio ebraico di quanto non siano Zeus, Giove, Geova di
derivazione indeuropea. Questo dio è rappresentato dallo stesso Odisseo che
scende agli inferi e risorge, ferito alla coscia dalla zanna del cinghiale sua
manifestazione (ed è per questo che arabi ed ebrei si astengono dal mangiare
carne di porco), e viene riconosciuto dalla nutrice Euriclea solo dopo che
questa ne tasta la ferita come accade a San Tommaso con le ferite del costato e
delle mani e dei piedi di Gesù risorto. Il cristianesimo non è una derivazione
dall’ebraismo ma da tradizioni culturali alto-siriane cipriote e cilicie che
pervengono fino ad Omero e sono note a San Paolo di Tarso in Cilicia, il vero
fondatore del cristianesimo. In sintesi estrema si può affermare che
nell’Odissea, ma in parte anche nell’Iliade c’è il cristianesimo in nuce.
L'Ira d’Achille, il poema
democratico di Roma Signora del Mondo.
Tullo
Ostilio, terzo re di Roma, commissionò a Omero, ormai famoso per il suo Viaggio
d’Odisseo, l’Ira d’Achille per celebrare i ludi consualia (cioè i giochi della
fondazione, in quanto condere in latino significa fondare) e saeculares (con
scadenza di cento anni) del 649 a. C. a Roma nel Foro fra l’area del Circo
Massimo (dove si tenevano le corse delle quadrighe rievocate da quelle
organizzate da Achille per i funerali di Patroclo), il santuario federale di
Vertumno (intorno a cui Romolo il quarto anno dalla fondazione di Roma, nel 749
a. C. aveva istituito i ludi e aveva fatto rapire le sabine), e il santuario di
Aurora-Mater Matuta, la dea derivante dall’Afrodite Urania di Ascalona che
aveva propiziato l’unione fra romani e sabini attraverso il rapimento. E’
possibile che come il Viaggio d’Odisseo inaugurava il santuario-banca di Ino
Leucothea di Pyrgi l’Ira d’Achille inaugurasse il santuario-banca di Mater
Matuta sul Tevere. Come Il Viaggio d’Odisseo è cucito intorno al suo
committente Demarato, l’Ira d’Achille lo è sul suo committente Tullo Ostilio il
cui antenato fondatore di Roma detto Romolo era in effetti un Osto Ostilio
(della gens degli Hostilii, etrusco Hustile attestato indirettamente da una
Hustileia di Vulci degli inizi del VII secolo) originario di Medullia, che
aveva sposato una Ersilia (nota anche come moglie di Romolo) e cui apparteneva
la tomba detta di Romolo o Volcanal col Lapis Niger. Ovvio che a Tullo Ostilio
interessasse personalmente celebrare la storia del suo antenato e fondatore di
Roma nel centenario appunto della fondazione attraverso i ludi presso il
santuario federale di Conso/Vertumno durante i quali i ramnenses (mercenari
stranieri o coloni di una città etrusca in qualche modo imparentati coi
beniaminiti; forse ramnenses da Rama la città del suffeta Samuele?), avevano
rapito le sabine per formare un solo popolo. E nell’occasione della recente
distruzione di Albalonga proprio da parte del latino Tullo e della integrazione
a Roma dell’elemento latino quel ratto delle sabine era di grande attualità e
il poema serviva a riconciliare con Roma i latini esaltandone la tradizione
secondo cui anche Troia da cui si dicevano originari era stata distrutta come
Albalonga ma dalle sue ceneri erano sorti i romani stessi grazie proprio a Enea
e agli altri esuli che autori greci come Dionisio d’Alicarnasso consideravano
greci e dai quali una cinquantina di famiglie albane trapiantate a Roma si
dicevano discententi, mentre secondo un’altra tradizione raccolta dallo stesso
Omero Odisseo aveva istituito a Roma addirittura il rito del suovetaurilia.
Presentare la civiltà etrusco-romana come ellenica mirava a favorire gli
investimenti greci nel Lazio poiché questi ritenevano come propria la civiltà
etrusco-romana. Dunque attraverso la favola nata dalla diffusione del culto
filisteo di Afrodite Urania e cioè del rapimento della spartana Elena da parte
di Paride troiano si celebrava non solo rispetto ai greci cui i poemi erano
rivolti anche come invito ad investire i propri capitali a Roma ma anche
rispetto ai latini che si ritenevano greci, l’unione di due in un solo popolo i
cui antefatti venivano fatti risalire al tempo mitico della guerra di Troia. E
non c’è dubbio che Tullo vedesse Elena col volto della sua bisnonna sabina
Ersilia rapita dal suo bisnonno etrusco-romano Ostilio/Romolo. Tullo Ostilio si
appropriava poi anche del Viaggio d’Odisseo commissionando il suo completamento
(Odissea) con l’epopea della riconquista del trono di Lavinio da parte del suo
avo sia pure trasfigurata dietro all’impresa del ritorno di Odisseo e del
massacro degli usurpatori. Immaginando che Omero sia nato l’anno 714 a. C. e
cioè l’anno della morte di Romolo, è evidente che nella sua infanzia ha potuto
addirittura parlare con qualcuno che conobbe Romolo e partecipò alle sue
imprese. Però Omero, pur salito alla notorietà come ricco compositore di soap
opere del tempo, non deve essere appartenuto alla classe nobile e dunque non ha
vissuto realmente nei ricchi palazzi che descrive solo con gli occhi della
fantasia e col supporto della tradizione degli ambienti materno e paterno
riconducibili al Vicino Oriente. Omero si ispirò al suo paese natale di
Albalonga, la capitale federale dei latini su Monte Cavo/Monte Albano come
l’odierna Rocca di Papa e immaginò così l’alpestre Itaca e la rocca di Troia e
anche il Monte Ida sormontato dal tempio di Giove. E questa immagine di
Albalonga come Troia era più che giustificata dal fatto che la vera Troia che
si celebrava con l’Ira d’Achille era proprio Albalonga, la città-madre di Roma
secondo latini e greci e che Tullo Ostilio aveva fatto atterrare. A parte gli
altri indizi ritengo che Omero sia nato ad Albalonga per il pianto altrimenti
inspiegabile di Odisseo quando Demodoco canta l’impresa del cavallo che porterà
alla distruzione della città. Odisseo piange perché, fra le righe, è un morto
momentaneamente incarnato al solo scopo di salvare moglie e figlio dopo di che
dovrà tornare nell’al di là? Questa spiegazione potrebbe valere se Omero non
avesse preferito calcare la mano su un ritorno in carne ed ossa, senza dire che
la lettura di sottofondo la può comprendere solo chi è estremamente addentro
alla lettura dei poemi omerici se è vero che nessuno l’ha rilevata prima del
sottoscritto. Perché piangere poi se grazie all’inganno del cavallo la guerra
di Troia ha finalmente cessato di mietere vittime fra gli achei? Al
contrario, Odisseo dovrebbe essere orgoglioso della sua impresa e semmai
esprimere rammarico per la distruzione di una così grande e fiorente città, o
per la morte di vittime anche innocenti, ma nulla di più. Io credo che Odisseo,
e Omero con lui, piange per la distruzione della città di Troia/Albalonga.
La
guerra di Troia fu immaginata da Omero sulla falsariga della guerra fra Albani
e Romani e delle successive, così che il vallo a difesa dell’accampamento
albano, detto fossa di Cluilio, divenne il vallo costruito dagli achei a difesa
delle loro navi. I combattimenti individuali fra i campioni omerici sono
ricalcati sull’episodio del combattimento fra Orazi e Curiazi. Dopo l’unione
dei due popoli romano-sabino e latino, l’alleato latino traditore Mezio Fufezio
fu legato con cinghie mani e piedi a due quadrighe lanciate in corsa in opposta
direzione più o meno come Ettore, finendo smembrato. Ettore coi suoi buchi alle
caviglie è il prototipo di Gesù inchiodato mani e piedi alla croce. Prima di
fare la brutta fine che abbiamo detto, a Mezio Fufezio furono strappate le
vesti e fu flagellato come poi Gesù sotto Ponzio Pilato. La pena che sarebbe
stata applicata all’Orazio superstite per aver ucciso la propria sorella se non
avesse fatto appello all’assemblea popolare (delitto di lesa maestà perché solo
il re poteva condannare a morte un traditore, nel caso specifico la sorella
dell’Orazio) prevedeva che il condannato, a capo coperto, fosse legato ad un
albero stecchito (arbor infelix) e fustigato dentro e fuori il pomerio fino
alla morte. Qui è la prefigurazione della croce. Abbiamo poi un oracolo di Teti
(la madre di Achille) localizzato in Etruria forse a Cere, la punizione delle
figlie di Tarchezio che per non aver adempiuto all’oracolo furono condannate
dal padre a sposarsi solo dopo aver tessuto una tela che però lui di nascosto
faceva stessere di notte, come Penelope faceva con la sua tela, il lenzuolo
funebre di Laerte. La segnalazione alle navi achee riparate dietro Tenedo che
potevano tornare visto che i Troiani dormivano ubriachi e le porte erano aperte,
può venire dall’analogo stratagemma ideato dalla schiava Filotide o Tutola che,
entrata con altre schiave nell’accampamento dei latini, tenendo di notte una
fiaccola sollevata sopra un caprifico – si ricordi il famoso caprifico delle
porte Scee – avvisò i romani che, usciti dalla città assalirono e sconfissero i
nemici. Tutto ciò lo derivo dalla storia di Romolo nelle Vite parallele di
Plutarco. E anche l’aureola visibile intorno alla testa dei futuri re di Roma
fecondati dal fuoco connesso al sole cioè Apollo così caro ad Omero.
Il titolo originale, l’Ira d’Achille, è
rimasto conservato nell’introduzione, a dimostrazione del fatto che nonostante
le aggiunte e le alterazioni dell’omerida al soldo di Fidone d’Argo queste non
hanno troppo alterato la trama (che comunque è intatta salvo il libro XIX dal
libro XV in poi) che fa da cornice all’opera omerica. Il titolo di Iliade è
verisimilmente alessandrino e non corrisponde al contenuto del poema che
riguardava pochi giorni (probabilmente 10 giorni – 10 come gli anni della
guerra di Troia – quelli di cui ha descritto gli avvenimenti dall’inizio alla
fine della sua Ira d’Achille) dell’ultimo anno della guerra di Troia. La trama
del poema, che è rimasta ricostruibile dall’inizio alla fine, è l’ira d’Achille
che si ritira dal conflitto perché Agamennone prima ha cacciato malamente dal
campo acheo il sacerdote d’Apollo Crise senza restituirgli la figlia Criseide
che era venuto a riscattare e così Apollo ha mandato la peste nel campo acheo
che miete numerosi morti, poi dopo che Achille ha chiesto all’aruspice Calcante
di svelare la causa della peste, ha restituito Criseide ma in cambio s’è preso
Briseide, la schiava che nella spartizione del bottino era toccata ad Achille.
Per la verità Achille ha esagerato nel rimproverare Agamennone, ma se non
l’avesse fatto la favola non avrebbe potuto avere l’esito noto. L’ira d’Achille
sarà causa del rovescio dell’esercito acheo, poi della morte di Patroclo, della
vendetta di Achille che uccide Ettore e, ma questo rimane fuori dal poema
omerico, alla fine morrà lui stesso ucciso da una freccia di Paride per non
essersene tornato a Ftia come aveva minacciato. Anche Achille che dice di
tornarsene a Ftia e poi sta sempre a Troia è una contraddizione necessaria
perché se no la favola sarebbe un’altra e non quella immortale creata da Omero.
Omero, ormai famoso per il suo Viaggio d’Odisseo, fu contattato assai per tempo
da Tullo Ostilio per realizzare l’Ira d’Achille per celebrare i Consualia del
649 a. C. (quando aveva circa 65 anni) e dunque è possibile che per quella data
abbia realizzato con un’unica stesura il poema lungo di circa 10.000 versi su
cui poi modellerà il poema definitivo dell’Odissea, che raggiungerà gli 11.000
versi circa.
Achille dopo essere stato offeso da
Agamennone aveva chiesto soddisfazione alla madre Teti che vantava un credito
presso Zeus avendolo aiutato a sopraffare una congiura nell’Olimpo e Zeus aveva
promesso di dar la vittoria momentanea ai Troiani. Nell’Ira omerica Zeus prometteva
e manteneva la promessa della vittoria dei Troiani che uscivano dalle mura,
davano l’assalto al vallo e alle navi, ne bruciavano qualcuna. A questo punto
gli Achei se la vedevano brutta e tutti i grandi capi della spedizione erano
malconci. Anche questa è una situazione comica. Achille, che ancora non se n’è
andato, si accorge che un guerriero acheo (Macaone) è stato ferito e manda
Patroclo a informarsi di chi si tratta. Patroclo va e torna col desiderio di
fare qualcosa per gli Achei. Achille, che ha detto che sarebbe intervenuto solo
se i Troiani avessero colpito le sue navi, poiché l’incendio divampa fra le
navi vicine alle sue consente a Patroclo di rivestire la sua armatura (così i
Troiani crederanno di avere di fronte Achille) e di guidare i mirmidoni col
preciso divieto di avvicinarsi troppo alle mura. Patroclo preso dalla foga si
dimentica della promessa e muore ucciso da Ettore che ne veste l’armatura. Teti
fa fare ad Efesto la nuova armatura di Achille che smette l’ira e vendica
Patroclo uccidendo Ettore. Achille consegna il cadavere di Ettore a Priamo e
l’opera si chiude coi funerali di Ettore pianto da tutti e in particolare dalle
tre Marie al sepolcro: Ecuba, la madre, Elena la cognata e Andromaca la moglie.
Omero deve aver previsto per l’Ira d’Achille uno spazio analogo a quello del
Viaggio con questa volta Zeus assente per dodici giorni presso gli Etiopi da
riempire verisimilmente con quelli che ora sono i libri da II a VII. Poi non si
è servito più di questo spazio e vedremo perché, ma vedremo anche perché pur
inserendo questi libri riusciva a mantenere intatta la promessa di Zeus di dare
soddisfazione a Teti e cioè l’attacco troiano al vallo e alle navi achee che
ora inizia dal libro XV. Dunque nell’Ira d’Achille omerica Teti promette che
fra dodici giorni quando Zeus tornerà dagli Etiopi gli andrà a parlare e gli
parla subito, già nel primo libro, ma Era se ne accorge e non da in
escandescenze come nella versione definitiva dell’omerida al soldo di Fidone
d’Argo, bensì fa finta di nulla e trama la sua contromossa, l’Inganno a Zeus,
ora nel libro XIV, in seguito al quale Zeus viene drogato e reso innocuo. A
questo punto, dunque fra gli attuali libri XIV e XV, Agamennone aduna
l’assemblea e comunica che le condizioni dei patti non sono più le stesse perché
Achille s’è ritirato e dunque si trovano in una situazione di inferiorità. E’
dunque doveroso (« è giustizia », come dire che è la prassi in queste
circostanze) da parte sua chiedere agli achei se vogliono continuare l’impresa
oppure sciogliere il loro impegno perché sono cambiati i presupposti
dell’accordo. Questo è il comportamento che almeno noi moderni ci aspettiamo da
parte di un popolo libero come quello greco, agli antipodi del dispotismo
orientale dimostrato nell’Iliade dall’Agamennone di Fidone d’Argo. L’esito era
certamente disastroso e tutti, presi dalla paura, se ne correvano alle navi per
tornarsene a casa. Un ruolo nel convincimento alla fuga dell’esercito nella
versione omerica può averlo avuto l’altro brutto intelligente omerico (il primo
è Efesto, che in Omero non fa ridere, perché è un eccezionale inventore e
artigiano e perché si vendica del tradimento di Afrodite con Ares prendendoli
nella rete e esponendoli al riso degli dèi raccolti intorno), Tersite, che pur essendo un povero soldato semplice,
oltretutto deforme (dunque da riformare, altro che combattere a Troia!), ha il
coraggio di dire quel che pensa ad alta voce, e di dirlo bene (« Solo Tersite
vociava ancora smodato, che molte parole sapeva in cuore… per sparlare dei
re: quello che a lui sembrava che per gli Argivi sarebbe buffo » II, 213ss;
« Tersite, lingua confusa, per quanto arguto oratore, smetti e non
osare, tu, di offendere i re » gli dice Odisseo, II, 246-247), tanto che nella
versione finale dell’iliade paga prendendosi le randellate di Odisseo e
suscitando il riso fra la soldataglia. Tersite è più facilmente opera
dell’etrusco Omero che non di un greco educato alla banale perfezione
geometrica secondo cui tutti dovrebbero essere belli, pieni di muscoli e magari
anche stupidi. Anche fra gli strati bassi della popolazione c’era chi sapeva
ragionare con la propria testa. Anche Achille ha fatto le stesse accuse ad
Agamennone, ma gigantesco, forzuto, e con ampio seguito com’è s’è guardato bene
dal trarne le conseguenze eliminandolo fisicamente, preferendo vigliaccamente
ritirarsi dall’impresa. Insomma, i brutti e deformi d’Omero non sono per questo
anche degli idioti, anche se devono soccombere spesso in una società di vecchio
stampo villanoviano cioè di tipo celto-germanico, dove prevalgono i violenti
guerrieri. Vedendo le navi marcite e le funi allentate Agamennone considerava
che erano passati nove anni da quando erano sbarcati a Troia e l’impresa non
era compiuta: « Ormai nove anni del grande Zeus sono andati, e delle navi il
legno è muffito, son lente le funi… e a non l’opera è ancora incompiuta per cui
venimmo qua… ». Queste sue parole, dette quasi fra sé e sé dovevano dare inizio
al ricordo da parte di Agamennone dei fatti passati della guerra senza una
cronologia ordinata ma confusa come quella dei pensieri o dei sogni, come una
sequenza disordinata di flash back negli attuali libri da II a VII. Così mentre
Agamennone è trasognato, ora nel libro II ma nella versione omerica fra il
libro XIV e XV, Era la furba ne approfitta per inviare Atena, quella che le fa
i lavori sporchi, da Odisseo che, preso dalle mani di Agamennone « lo scettro
avito, indistruttibile sempre », con parole che scendono « simili ai fiocchi di
neve d’inverno » o più spesso con randellate distribuite a destra e a manca con
lo scettro medesimo rimette in riga tutti gli achei pronti a riprendere la
guerra. Dunque Agamennone al suo risveglio ha di nuovo l’esercito a
disposizione dopo aver sognato tutto quello che c’era da sognare, oggi nei
libri da II a VII, oppure passando già da quello che oggi è il libro II dal
sogno alla realtà che riproduce gli antefatti della guerra troiana, il poema
giunge fino alla massima avanzata dell’esercito greco che costringe l’esercito
difensore entro le mura di Troia e costruisce il vallo a difesa delle navi,
senza infastidire l’uditorio per la contraddizione fra la promessa e la
realizzazione della promessa da parte di Zeus. Infatti nella parte finale del
libro XIV (e iniziale del libro XV) gli Achei avanzavano (ma non dietro a Poseidone,
che nella versione omerica proteggeva i Troiani, in quanto corrisponde al
Vertumno romano e al Dagan alto-Siriano presente come segno del sillabario
festio nel Disco di Festo) fino alle navi e Aiace Telamonio con una pietra
colpiva e metteva a terra Ettore. Ma Zeus all’inizio del libro XV si risveglia
in tempo per ordinare ad Apollo di guidare l’assalto troiano al vallo e alle
navi. Questa è l’Ira d’Achille omerica. Certo è possibile che soprattutto nella
edizione definitiva dell’omerida filonide quelli che dovevano essere dei flash
back rapidamente percorsi e caoticamente dal trasognato Agamennone siano
diventati episodi reali di guerra attuale che però ricordavano e ripetevano
quelli della guerra passata. C’è da dire qualcosa a proposito del ferimento
proditorio di Menelao da parte di Pandaro. Prima di tutto la responsabilità si
deve riversare su tutta la collettività troiana perché altrimenti la favola non
andrebbe avanti. Pandaro sarebbe punito, Menelao avrebbe vinto e si
riporterebbe Elena a casa. Avendo ricondotto la civiltà dell’Iliade e quella
dell’Antico Testamento ad un medesimo antecedente è invece chiaro che la
responsabilità era a livello tribale e colpiva anche i figli del reo e dunque
non avendo impedito il gesto di Pandaro tutti i Troiani erano responsabili per
l’accaduto. Fidone d'Argo alla metà del VII secolo ricordava la grandezza di
Agamennone, imponendo il suo dominio su Argo (da qui l'accento sugli Argivi e
sul loro campione Diomede) e su una vasta porzione del Peloponneso e s'era appropriato
dell'organizzazione dei giochi olimpici. A partire da Fidone d’Argo il libro I
da subito dopo l’incontro fra Zeus e Teti è stato separato dall’Inganno a Zeus
e chiuso con l’alterco fra Era e Zeus che sarà pure un pezzo di bravura ma è
seguito poi da una per niente convincente chiusa con lo zoppo Efesto ridotto al
rango di Ganimede che fa ridere tutti e peggio ancora con Era e Zeus che si
coricano nello stesso letto come niente fosse, letto fabbricato questa volta
dall’artefice Efesto pensiero sapiente, ricco di gloria! Dunque ritengo che il
Sogno cattivo nel libro II sia stato introdotto dall’omerida di Fidone con quel
che segue della versione attuale dell’Iliade dove Agamennone finisce col
diventare un despota orientale che tartassa l’esercito che è venuto a liberare
sua cognata Elena, dunque per il suo onore. Viene alterato il progetto omerico
e fra i libri da II a VII omerici viene inserito il libro V e connessi raccordi
della Diomedea e poi dopo il VII i libri da VIII e XIII compreso riallacciandosi
all’Inganno a Zeus e a tutto il rimanente poema omerico in cui viene inserito
il libro XIX dell’interruzione dell’ira. Poiché la critica omerica si appunta
in particolare sui libri da II a VII (che io ritengo omerici soprattutto in
quelli che in origine erano dei flash back di Agamennone) per notarvi delle
anomalie e dichiararli non omerici o che Omero avrebbe scopiazzato male da
presunti poemi ciclici anteriori, ritengo che queste anomalie debbano ricadere
tutte sull’omerida al soldo di Fidone d’Argo che ha frainteso passi omerici e
li ha riadattati male alla sua stesura definitiva che ha manomesso il testo
omerico e (oltre a limitati interventi altrove) va soprattutto dalla fine del
libro I all’inizio del libro XIV, cioè praticamente corrisponde alla prima
parte dell’Iliade. Nei libri da VIII a XIII si viola palesemente l’impostazione
omerica con alterne vicende fino all’effetto del moltiplicarsi dell’assalto al
vallo e alle navi con esclamazione di impotenza del povero omerida: « E
combattevano tutti, ciascuno per la sua porta: ma raccontare ogni cosa, come un
dio, m’è difficile ». Questo poi introduce nel libro XI la missione di Patroclo
inviato da Achille per conoscere l’identità del ferito portato nella tenda di
Nestore come elemento di raccordo a intreccio che si riallaccia all’inizio del
libro omerico XVI con la Patroclia. Viceversa Omero non conosce l’esposizione a
intreccio nella successione ordinata del racconto che il naufrago Odisseo fa
alla coppia reale di Scheria e semmai nel primo libro dell’Ira d’Achille, che
dunque deve essere successivo, abbozza un susseguirsi anche contemporaneo di
avvenimenti diversi che possono dare l’idea dell’intreccio: dopo la lite con
Agamennone Achille se ne va al suo accampamento presso il mare nel mentre che
Agamennone invia Odisseo a restituire Criseide al padre e manda gli araldi al
campo di Achille a prendersi Briseide; Achille a sua volta piangendo invoca da
sua madre Teti vendetta contro gli Achei, mentre Odisseo raggiunge Crisa con la
sacra ecatombe, restituisce Criseide al padre e fa ritorno al lido di Troia;
intanto poiché Zeus è tornato dagli Etiopi Teti gli fa visita e ottiene la
promessa che darà la vittoria ai Troiani per vendicare l’affronto ad Achille.
In alcuni di questi libri l’omerida con una vera e propria ricerca antiquaria
inserì pezzi archeologici d’età micenea miranti a collegare più precisamente il
mito omerico con l’età micenea. L’incontro di Ettore e Andromaca era situato
originariamente poco prima dell’Inganno a Zeus perché da questo momento la
morte di Ettore è vicina. Fu spostato ad integrare il libro VI dall’omerida al
soldo di Fidone d’Argo che attraverso l’incontro fra Glauco corinzio e Diomede
vuole celebrare l’Iliade poema argivo attraverso il celebre Viaggio d’Odisseo
poema del corinzio Demarato. La luce del primo poema si diffondeva così come
luce riflessa sul secondo, dando di conseguenza lustro riflesso alla dinastia
argiva. Dunque l’Ira d’Achille è gravemente manipolata dalla fine dell’incontro
fra Zeus e Teti del libro I all’intero libro XIII e in particolare ampliata coi
libri da VIII a XIII che moltiplicano le battaglie e gli assalti al vallo e
alle navi. Ne deriva che il lettore che ama l’Iliade rimane in sostanza
affascinato dalla lettura della prima metà opera dell’omerida al soldo di
Fidone d’Argo e quando passa a leggere la seconda eccelsa parte scritta da
Omero stanco com’è di battaglie non è in grado di accorgersi che questa seconda
parte è notevolmente migliore e l’attribuisce alla stessa mano. Anche l’Iliade
conteneva il suo insegnamento fondamentale del nuovo guerriero cittadino in
armi che difende la sua città nella falange politica a struttura democratica.
Il tipo violento di guerriero vecchio stampo di Achille (ma soprattutto
violento è Patroclo che ha fatto
la fine che meritava) viene alla fine riconciliato alla civiltà e all’umanità
attraverso la riconciliazione con Priamo cui restituisce il cadavere di Ettore.
L’umanità omerica è espressa anche da Odisseo, che rimprovera Euriclea che
esulta al veder compiuta la strage degli usurpatori: « In cuore, balia, godi,
ma frènati, non esultare: non è pietà su uomini uccisi far festa. Costoro la
Moira dei numi travolse, e le azioni malvage; perché nessuno onoravano degli
uomini in terra, né il tristo, né il buono, chi arrivasse tra loro: così, pel
loro folle orgoglio, turpe fine trovarono » Od. XXII, 411ss). L’oriente
distrutto dalle invasioni assiro-babilonesi rivivrà a Roma attraverso gli esuli
guidati da Enea l’eroe cui gli dèi impediscono di combattere con l’invincibile
Achille e di fronte al quale cielo e terra si inchinano portando omaggio. Altro
insegnamento connesso proprio con l’ira d’Achille era di astenersi dall’ira cui
invece erano inclini i popoli del mare e loro derivati. L’Iliade dove più
questo messaggio contro l’ira è presente è però anche il poema dei greci che
non avevano capito il messaggio civilizzatore dell’Odissea e dell’Ira d’Achille
e continuavano barbaramente sulla strada dell’esaltazione delle virtù guerriere
fini a se stesse, che Omero aveva voluto condannare sostituendole col valore
civico di Ettore che moriva per la propria patria avendo di meglio da desiderare,
il figlio Astianatte e la giovane sposa Andromaca. Più di tutti se ne servì
Pisistrato tiranno d’Atene (VI sec. a. C.) che utilizzò propagandisticamente
l’Iliade e l’Odissea per celebrare la sua occupazione di Sigeo sull’Ellesponto (una
guerra di Troia in miniatura), l’organizzazione delle grandi Dionisiache (da
qui possibilmente l’accenno al culto di Dionisio), la maggiore solennità data
alle grandi Panatenee, e più in generale per esaltare la sua politica e
l’orgoglio ateniese. Operazione più impossibile che spudorata, in quanto il suo
eroe Eracle tebano, è trattato da Omero nell’Odissea come ladro di bestiame e
assassino dell’ospite sacro, mentre gli Ateniesi nell’Iliade sono accusati di
codardia. Per non parlare di Atena, che è la dea più squallida dell’Olimpo.
Omero
visse sempre fra Roma e Tarquinia. Viaggiò con la fantasia come Emilio Salgari.
La sua tomba si troverà forse un giorno a Roma. I suoi poemi ebbero fortuna
nella Ionia asiatica grazie ai rapporti di questa con l’Etruria. Nacque presto
la falsa storia di un Omero greco girovagante per la Grecia e dell’Omero parte
greco parte etrusco-romano nato nel Lazio si perse ogni cognizione.
Per
approfondire gli argomenti di questa introduzione si consiglia di visitare il
sito internet dell’Autore:
http://digilander.libero.it/marcoguidocorsini
Fine