CRITICA LETTERARIA: IL SETTECENTO

 

Luigi De Bellis

 
 
  HOME PAGE

Il Vico "scopritore" dell'estetica

Lingua e storia nel Vico

Significato storico dell'Arcadia

La grazia elegante della lirica arcadica

Storia e ideologia negli "Annali d'Italia"

Parola e musica nella poesia del Metastasio

Le componenti della poesia e della personalità di Pietro Metastasio

Il razionale entusiasmo dell'Illuminismo

Illuminismo italiano e Illuminismo europeo

Francesco Algarotti letterato e poligrafo

L' "homo novus" della "Frusta Letteraria"

Il "Saggio" del Cesarotti e le polemiche linguistiche del Settecento

 
Iscriviti alla mailing list di Letteratura Italiana: inserendo la tua e-mail verrai avvisato sugli aggiornamenti al sito


Iscriviti
Cancellati




 


ILLUMINISMO ITALIANO E ILLUMINISMO EUROPEO

di FRANCO VENTURI



Il Settecento italiano si inserisce sin dalle origini in quella «crisi della coscienza europea» che chiuse il Seicento e apri l'età dei lumi. Nei primi decenni del secolo Pietro Giannone e Alberto Radicati rappresentano le figure di maggior rilievo che contribuiscono al grande dibattito ideologico, mentre col Muratori la storia d'Italia viene esplorata nel più vasto quadro della storia degli altri popoli d'Europa. La seconda metà del secolo presenta personalità che si distinguono non tanto sul piano ideologico generale, ma su quello concreto delle riforme, accogliendo dalle culture soprattutto di Francia e d'Inghilterra idee, proposte e fermenti per inserirli nell'ambito non rivoluzionario, bensí aperto al rinnovamento del dispotismo illuminato.

Di rado il pregiudizio nazionalistico è stato tanto nocivo alla comprensione di un'epoca storica quanto il giorno in cui esso venne applicato al nostro Settecento. Eppure, proprio alle soglie del nostro secolo di lumi, Vico ci aveva messo in guardia contro i mali effetti della «boria delle nazioni». Più tardi gli uomini del 'nostro illuminismo ci avevano detto quanto naturalmente essi si sentivano vivere e respiravano nel cosmopolitismo della loro epoca. Bastava ascoltarli per non poter più parlare d'un nostro, autoctono, chiuso e tradizionale illuminismo.
Al contrario, il valore del Settecento italiano consistette precisamente nell'aver saputo inserirsi fruttuosamente nell'Europa dei lumi.
Ciò fin dalle origini, fin dagli anni di quella « crisi nella coscienza europea » che, al passaggio tra il Seicento e il Settecento, chiuse l'epoca della Controriforma e aprí quella della Ragione e della Natura.
In questa crisi gli italiani ebbero una funzione non indifferente.
Non ci fu da noi naturalmente quel tormento che portò in Inghilterra e tra i fuorusciti ugonotti francesi a pensare al problema della tolleranza religiosa come alla questione centrale del secolo che stava per nascere. Non sentiamo da noi risuonare quelle note profonde che Pierre Bayle t seppe toccare parlando dei rapporti tra moralità individuale e religiosità sociale. Ma, trasferiti su un piano diverso, i nostri problemi son pur sempre quelli della tolleranza (finalmente ottenuta allora dai Valdesi) e soprattutto quelli dei rapporti tra Chiesa e Stato.
In quest'ultimo campo dimostrammo di essere in grado di dire una parola nostra, originale e inserita insieme nelle generali discussioni dei primi decenni del secolo nuovo.
Giannone a Napoli e Radicati in Piemonte seppero portare a conclusioni profonde quei conflitti con la Curia romana che costituiscono, negli Stati italiani come in Francia, in Austria e in Spagna, la prima, solida base d'una autentica revisione delle idee politiche e religiose. Giannone col suo peregrinare da Napoli a Vienna e a Ginevra, dopo aver invano cercato rifugio nelle città italiane, è il simbolo di questa ricerca d'un nuovo contatto col mondo d'oltr'Alpe. Il Triregno, una delle più alte opere del nostro Settecento, testimonia d'una ricerca intellettuale che va allargandosi e approfondendosi. Dalla rinnovata tradizione ghibellina Giannone risale ai problemi filosofici e storici di tutta la sua epoca. La sua tragica prigionia nelle carceri del re di Sardegna sta a dirci quali siano gli ostacoli che questa volontà di rinnovato contatto col mondo trova sul suo cammino.
Alberto Radicati sembra nascere come una pianta anche più solitaria. Eppure anche per lui il punto di partenza sta nel conflitto politico tra Vittorio Amedeo II e la Corte papale, e il punto d'arrivo sta nell'esilio in Inghilterra e in Olanda, nella misera morte solitaria e nella conquista d'un pensiero che non è volteriano soltanto per ardire e vivacità, ma anche per ampiezza cosmopolita di respiro.
È Radicati a sottolineare con intensa energia l'origine politica dei mali che affliggono l'Italia e a sostenere che nulla può scusare la mancanza di volontà a porci rimedio. Diceva:



Non bisogna attribuire il bene o il male al clima del paese o al temperamento degli uomini... L'esperienza ci fa vedere sempre che gli uomini sono buoni o cattivi a seconda delle buone o cattive leggi che osservano. Sappiamo che delle nazioni che erano in altri tempi modelli di virtú sono ora esempio di vizio... Se gli inglesi sono buoni e virtuosi ciò dipende dalle buone leggi... È glorioso presso di loro difendere la libertà e i diritti della nazione, perché essi vivono sotto un governo giusto e libero, basato sul consenso generale dei popoli... Se si trasportassero in Italia, in Spagna e in Portogallo le buone leggi e la costituzione dell'Inghilterra, mentre si stabilissero là le cattive norme di questi ultimi paesi, in meno di cinquant'anni si vedrebbero gli inglesi diventar vili, traditori, assassini, superstiziosi e crudeli, come sono oggi italiani, spagnoli e portoghesi.

Nel pensiero solitario di Radicati nasceva così la volontà d'una integrale riforma, politica e religiosa, che prende in lui anche la forma d'una volontà unitaria per la Penisola. Finirà per dedicare i suoi Discorsi morali, storici e politici, da cui sono tratti i passi ora riportati, a quel principe, don Carlos di Borbone, che egli stimava o sperava capace di ridurre l'Italia in un'unica nazione.
Se Giannone e Radicati furono i frutti più originali e nuovi del regalismo nascente, esso alimentò anche uomini e mentalità ben diversi, dando loro un primo impulso a riconsiderare le grandi questioni dell'incipiente XVIII secolo. Muratori è un preciso difensore dei diritti del suo piccolo stato di fronte a Roma, e vive in un'atmosfera in cui non sono assenti il rigore insieme filologico e religioso dei padri maurini francesi ed i sogni di riconciliazione tra le chiese cristiane del grande Leibniz. L'esplorazione immensa che Muratori operò nel nostro Medioevo è illuminata da un amore profondò per tutto il passato delle nostre città, dei nostri castelli, dei nostri villaggi. Eppure, dalla sua grandiosa ricerca sorge di fronte ai nostri occhi, quasi naturalmente, una visione che si inserisce senza sforzo nel passato degli altri paesi d'Europa. Il padre della storia italiana è membro d'una società cosmopolita di dotti, di quella repubblica di studiosi che rinasce e si trasforma nel Settecento, ed è insieme il calmo, sereno assertore d'una concezione della nostra storia che è parte naturale d'Europa.
Se il primo Settecento ci ha dato grandi figure isolate, nella seconda metà del secolo constatiamo già la presenza d'una piccola ma attiva classe dirigente capace di operare riforme e di portare ormai nelle cose il pensiero illuminista.
Il confronto con gli altri paesi si fa più vivace. L'Europa dei lumi si differenzia e si articola e gli italiani cercano, di volta in volta, un incitamento o uno specchio in cui guardarsi a Parigi, a Londra, a Madrid, a Berlino o a Vienna.
Se vogliamo semplificare potremmo dire che il fermento delle idee viene soprattutto dalla Francia e dall'Inghilterra, mentre i metodi di governo, le strutture burocratiche, le riforme concrete vengon spesso dall'Europa centrale e, talvolta, dalla Spagna.
Nessuno infatti dei centri della cultura e delle riforme italiane aveva la possibilità di mettersi al ritmo non diciamo della libera Inghilterra del Settecento (cosí conservatrice e cosí innovatrice insieme, e sempre profondamente amante della libertà), ma neppure della Francia, dove ormai tutta la società sembra essersi messa in movimento, dove i fisiocratici diventano una forza politica, gli enciclopedisti un partito, i parlamentari il centro d'una resistenza insieme privilegiata e pre-liberale. Dove cioè il dispotismo illuminato rimane soltanto un tentativo saltuario e dove la realtà consiste invece in una sempre più libera lotta fra i vari corpi, gruppi, classi e uomini dell'antico regime. Da Londra e da Parigi vengono perciò idee più che suggerimenti politici immediati. Le idee stesse prendono un significato diverso mettendo radici a Milano, a Firenze, a Napoli o a Torino.
L'esempio più caratteristico ci è dato da Milano, all'Accademia dei Pugni e dal Caffé. Le idee di questo gruppo sono ispirate da Locke, Condillac, da Helvétius. Rappresentano la rottura del sensismo e dell'utilitarismo di fronte alla tradizione umanistica e giurisdizionalista. Sono, in Italia, un caso particolarmente importante della nascita di quel radicalismo filosofico che Élie Halévy ha tanto profondamente studiato, parlandoci soprattutto della Francia e dell'Inghilterra.
Ma Pietro Verri, Cesare Beccaria, Gianrinaldo Carli sono degli alti funzionari dell'impero di Maria Teresa e poi di Giuseppe II. Il brillante, intelligente rapporto che essi seppero trovare tra l'Inghilterra e soprattutto tra Parigi, il focolare dei lumi, e le esigenze reali del paese in cui operarono, costituirono il nerbo e il vigore della loro formula intellettuale.
La loro opera non può toccare direttamente i problemi politici, nel senso tradizionale di quest'ultima parola. Non la trasformazione dell'equilibrio delle potenze in Italia, non lo spostamento dei confini o il cambiamento di sovrani rientra nei loro obiettivi. Essi si concentrano perciò sul mondo sociale ed economico. Studiano gli ingaggi della società civile. Si pongono problemi sociali e morali. Sono ormai ben lontani dal timoroso senso di distacco, di dileggio e magari d'orrore che ha dominato in passato l'animo di tanti italiani di fronte alla politica. Non la paventano perché hanno scoperto un loro mondo politico, quello in cui essi possono fare qualcosa di vero e di serio. Con i loro scritti, con le loro carriere burocratiche, i loro carteggi, le loro gazzette ed Accademie, sono ormai in grado di far nascere il pensiero di questa o quella riforma, di seguirla, appoggiarla, difenderla e portarla a buon fine. Accettano cioè la situazione politica quale essa sta loro intorno perché intendono applicare le loro energie soltanto là dove le ritengono maggiormente feconde. Sono dei riformatori, insomma, non dei rivoluzionari giacobini della generazione posteriore, né, tanto meno, dei patrioti ottocenteschi.

2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it  - Collaborazione tecnica Iolanda Baccarini - iolda@virgilio.it