CRITICA LETTERARIA: IL DUE E IL TRECENTO

 

Luigi De Bellis

 
 
  HOME PAGE

Vitalità della cultura medievale

Il pubblico colto del sec. XIII

Aspetti della poesia provenzale

Origine e forme della poesia siciliana

Poesia e prosa delle origini

Il Cantico di S. Francesco

La poesia di Jacopone

I volgarizzamenti del Due e Trecento

Caratteri del "Novellino"

Il "Libro delle meraviglie" di Marco Polo

Lo Stil Novo

L'esperienza poetica di Guido Cavalcanti

La poesia giocosa del Due e Trecento

La poesia di Cecco Angiolieri


Iscriviti alla mailing list di Letteratura Italiana: inserendo la tua e-mail verrai avvisato sugli aggiornamenti al sito


Iscriviti
Cancellati





 


Il «Cantico» di San Francesco
di L. SPITZER



Questo passo è tratto da uno degli ultimi saggi scritti dal grande linguista e critico viennese Leo Spitzer. Preso lo spunto da uno studio di Mario Casella, lo Spitzer compie un'indagine sugli elementi fondamentali del testo, osservando come sia necessario riconoscere una frattura fra la prima parte, di lode e rendimento di grazie, e la seconda, segnata dall'angoscia della morte e del giudizio imminente. Parrebbe a questo punto distrutta l'unità e la poesia del Cantico: ma piú valida unità il critico ritrova non nel contenuto, bensí nella corrispondenza degli elementi interni, linguistici e sintattici, del testo.

A chi ben consideri la struttura dell'opera, questa non si rivela per nulla semplice, integrata o «unitaria»; ma, al contrario, distinta in due parti di tono quanto mai diverso. E che si tratti di una distinzione non priva di conseguenze è facile comprendere.

Mi pare che il Casella, natura religiosa di indole idillica, inclinata all'armonia e all'armonizzazione, non abbia abbastanza sentito l'enorme contrasto tra la prima e la seconda parte del nostro inno; tra la metafisica. ottimistica che abbraccia tutte le creature all'infuori dell'uomo e il pessimismo etico fondamentale quando si tratta di descrivere l'uomo; tra la teodicea che riposa tranquillamente sull'universo creato e l'agone in cui si trova l'uomo postadamico. Poiché non può essere trascurato che soltanto l'uomo è un potenziale figliuolo prodigo in quanto lui solo conosce una «morte secunda» dopo la morte corporale che partecipa in comune con gli animali e con le piante. In verità, è difficile comprendere perché il nostro studioso citi delle Opuscula latine del Santo la sentenza pessimista: Omnes creaturae quae sub caelo sunt, secundum se, serviunt et cognoscunt et obediunt Creatori suo melius quam bomo, senza accorgersi, come pare, che è appunto tipica di San Francesco questa concezione pessimistica della condizione umana che colora tanto la seconda parte del nostro inno (e questo spiegherebbe anche il modo evasivo con cui l'uomo è compreso in quel passivo, Lodato si, della prima parte).

Come conseguenza di quanto sono venuto dicendo fin qui, sorge naturale la domanda perché mai, contrariamente ai salmimodelli e al racconto della Genesi che è rispecchiata da quei salmi, San Francesco, rappresentato nelle vecchie biografie francescane in atto di predicare a cuncta volatilia, cuncta animalia, cuncta reptilia e particolarmente agli uccelli, abbia omesso, nel suo elenco delle creature, proprio gli animali. La valutazione pessimistica della condizione umana giudicata inferiore persino a quella degli animali è caratteristica già del pensiero di Sant'Agostino.

Comunque si possa risolvere il problema dell'omissione degli animali, è chiaro che l'inno, da coro universale delle varie creature in lode di Dio ad un tratto si trasforma in una predica indirizzata agli uomini contaminati dal peccato originale. Ben si comprende quindi che il predicatore non rifugga dall'uso di parole minacciose per indurre i credenti alla penitenza. Egli, ben a proposito, sceglie per spaventare colori piuttosto neri e se la morte. è chiamata sorella, essa non è affatto quell'essere benigno che il Casella evoca, ma la morte livellatrice che non risparmia nessuno, a cui nullo omo vivente può scampare, insomma piuttosto la morte descritta da Villon:

                     Je cognois que povres et riches, 
                     sages et fous, prestres et lais,
                     nobles, vilains, larges et chiches... 
                     Mort saisit sans exception.


o dal Tasso:

mirò quasi in teatro od in agone l'aspra tragedia de lo stato umano, i vari assalti e il fero orror di morte.

L'agonia della morte corporale si complica dell'agone che minaccia il cristiano nella sua ultima ora terrena: l'attesa della morte secunda. Fedeli a questo ordine di idee le ultime parole del Cantico non consolano, perché esse accennano alla morte e non alla vita secunda, tanto che la felice alternativa appare soltanto con una formulazioni: negativa: no li farà male. Cosicché l'inno di San Francesco non termina ottimisticamente con uno sguardo alla vigna di Dio come invece termina il Ritmo Cassinese.

Per tutti questi motivi, credo piú che giustificato il rifiuto di accogliere una armonizzazione troppo facile, troppo idillica del Cantico che, di conseguenza, non può essere giudicato un'altra manifestazione del carattere «serafico» del «giullare di Dio». Con la fine dell'inno siamo piú vicini a un Dies irae (non a caso scritto dal francescano Tommaso da Celano) che ad un Alleluia:

                          Mors stupebit et natura 
                          judicanti responsura.


Tuttavia, pur accogliendo come corretta la mia analisi «disarmonica», come giudicare il valore artistico del Salmo che, considerato secondo la sua piú intima realtà, chiaramente desinit in piscem? Con tale interpretazione il Salmo di San Francesco non viene forse ridotto ad un prodotto ibrido (canto delle creature + predica), mancante di unità e, per conseguenza, inartistico? A tale dubbiosa domanda credo poter suggerire un buon motivo per riaffermare il positivo valore artistico del Cantico nel fatto che le due parti, in apparenza disunite, sono in realtà collegate dal tono sempre presente della litania. Riprendendo in esame la connessione dei versetti X-XIV, non possiamo fare a meno di riconoscere che le «lodi» e le «beatitudini» sono fra loro strettamente legate. Dio è lodato in X «per quelli che perdonano» cioè discepoli di Cristo, non diversamente da come è stato lodato nei versetti precedenti per le altre creature; i beati, quelli di XI e XIII sono uniti con i Laudato si di X e XII; né diversamente collegata è la sora ... Morte di XII con sora ... Terra di IX. Ne deriva che quando i credenti recitano l'inno, non possono fare alcuna pausa, una pausa che sarebbe come una sosta capace di offrir loro nuova lena. E questo perché il ritmo sospinge quasi forzatamente ad accettare le terribili realtà della vita cristiana: sofferenze, morte, possibilità di dannazione; ad accettare anche il terribile guai a quelli che morranno ne le peccata mortali. La dolce tirannia della litania (Laudato si - Beati quelli) conduce tutti, quasi inconsapevolmente, sulla strada della benedizione e della lode di Dio. Ma questa non è la stessa forza naturale della litania sia essa supplica o lode, che, distruggendo il tempo empirico e discontinuo della nostra vita pratica, ci immerge nel- flusso della divinità extratemporale, continua, onnipresente; quella forza precisamente che con magici poteri dissolve la nostra vita nell'onnipresenza divina? Si può, dunque, affermare che cosí e non diversamente San Francesco nel suo Cantico ha ravvivato la magía primitiva della litania e la sua forza persuasiva ben applicando in anticipo la famosa regola pascaliana: plier l'automate. Appare cosí evidente che San Francesco è ricorso all'automatico della litania per far sormontare al credente alcune sue intime resistenze (che, forse, erano le sue proprie) ottenendo il risultato di unire le due parti del suo inno. Né si dimentichi che la litania rivissuta dal Santo, anche se pare prolungarsi automaticamente, non è soltanto automatica, perché in verità essa è soprattutto una testimonianza di quella inondazione o invasione dell'onnipresenza divina che avvolge il credente. Si può pertanto dire che questa unità di tono lirico, del tono di elegia anche per verità angoscianti del dogma, trasforma quella seconda parte dell'inno che è un Dies irae in un Alleluia secondo lo spirito di tutto il salmo che, in tal modo, trova la sua assoluta unità artistica. Dopo tutto, non è forse chiaramente verosimile che il Santo nel quale viene per noi tutti raffigurata l'esperienza di Dio sentita nella carne umana del credente (il Santo-giullare che canta e danza per Dio e riceve le stigmate di Cristo); proprio la voce di un tal Santo, cosí sensibile al divino e che già aveva fatto risuonare sulla sua tastiera la musica mundana; non è verosimile, dico, che questa voce rimanesse, anche nella meditazione dell'agone finale della vita umana, accordata all'Alleluia già intonato sotto gli auspici del sole, della luce e della speranza? Per parlare piú tecnicamente, si può osservare che la melodia dell'inno (qualunque sia stata) rimane la stessa per tutte le lasse, siano lunghe o corte. La melodia unica si fa l'eco dell'attitudine unica di lode a Dio che il Santo ci propone o ci impone nel suo Salmo; quello stato teopatico che continua nel Santo al di sopra delle resistenze umane contro la morte (prima e seconda) e in cui si può davvero, come dice il Casella, «passare dal cielo alla terra e dalla terra al cielo»: Tuttavia si tratta per noi di non ridurre col Casella le difficoltà o resistenze che deve aver sentite il Santo; ma, al contrario, di rilevarle nella loro vera importanza in un momento primo dell'analisi, per poi apprezzare l'armonizzazione artistica di princípi contrari effettuata dal giullare di Dio.

 
2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it  - Collaborazione tecnica Iolanda Baccarini - iolda@virgilio.it