Home Page   Documento sui rapporti italo-sloveni.

 

  Premessa.

  Il testo del documento diviso in periodi:

  1. Periodo 1880-1918

  2. Periodo 1918-1941

  3. Periodo 1941-1945

  4. Periodo 1945-1956

  Giorgio Rustia critica il documento.

  Articolo tratto dal Corriere della Sera del 4 aprile 2001.

 

- Buona parte del materiale presente in questa pagina è tratto dal sito http://digilander.libero.it/nvg/ 

 

 

 - Premessa.

Il documento prodotto dalla commissione storica italo-slovena, incaricata di indagare sulle vicende e sulle conflittualità nazionali che hanno devastato l'attuale Venezia Giulia e quella parte dell'Istria oggi sotto sovranità slovena, ha innescato delle polemiche che dimostrano chiaramente quanto negativa sia e a quali situazioni paradossali possa portare la commistione tra l'interesse politico e la riflessione storiografica. Un arroventato dibattito scatenato da un documento che era stato pensato proprio per sopire i contrasti non solo tra due stati confinanti divisi da un tragico destino vissuto su fronti contrapposti ma anche per mettere una buona volta la parola fine ad un interminabile dopoguerra che avvelena ancora la memoria storica del popolo italiano. Caduto il muro di Berlino, avviata verso la liberazione dal comunismo l'Europa orientale, da più parti si era colta l'occasione per chiedere che venisse finalmente fatta luce sulle gravi questioni accadute al confine orientale d'Italia. Tale fu il significato della mozione approvata il 24 settembre del 1990 dal consiglio comunale di Trieste per costituire una commissione di storici capace di dare risposte soddisfacenti. I governi d'Italia e di Slovenia si attivarono, dunque, in tal senso e tre anni dopo essa fu varata. Analoga iniziativa venne avviata con la Croazia, ma dopo poche sedute tutto si arenò; sintomo di un rapporto difficile da instaurare con un paese fortemente nazionalista e tuttora impegnato in questioni balcaniche che non permettono alcun cedimento sul piano dell'orgoglio nazionale. Con la Slovenia, invece, il dialogo cominciò e, da parte italiana, l'incarico fu affidato a storici e ad esperti di diritto internazionale di chiara fama quali Sergio Bartole (poi sostituito da Giorgio Conetti), Fulvio Tomizza (al quale, alla sua morte, subentrò Raul Pupo), Elio Apih (sostituito da Marina Cattaruzza), Fulvio Salimbeni, Angelo Ara, Lucio Toth e, mai presente, Maria Paola Pagnini. Nella controparte slovena un ruolo di primo piano ebbero Milica Kacin Wohinz e Nevenka Troha. Il risultato finale dei vari incontri, che data al luglio del 2000, ha richiesto più di otto mesi, segnati da indiscrezioni, mugugni e dietrologie varie, perché fosse reso pubblico dopo un'azione di forza compiuta dal giornale sloveno "Primorske Novice" che ne ha pubblicato le bozze non definitive. A quel punto si è resa necessaria la diffusione del documento ufficiale e, in tale frangente, il ministero degli esteri italiano ha manifestato tutta la sua imperizia dando adito a una situazione paradossale per cui scaricava sugli storici della commissione l'onere di pubblicare in proprio un documento di cui il governo italiano è stato il committente. Vero è che ufficializzare una risultanza storica da parte di un organo governativo significa dare l'impressione che esista una versione imposta dallo Stato, cosa ovviamente non compatibile con un paese democratico, dove dovrebbe vigere l'assoluta libertà di ricerca e d'interpretazione. Ma allora, perché istituire una commissione storica nominata dai rispettivi governi? Non era già evidente nel 1993 il paradosso a cui si andava incontro? Il risultato che si voleva ottenere era, in realtà, soprattutto politico, ma il modo in cui la vicenda è stata gestita rischia di peggiorare le cose. Ciò che premeva era di trovare un punto d'incontro, una piattaforma su cui avviare un dialogo tra Italia e Slovenia in vista del comune futuro europeo. E' palese, allora, che i contenuti del testo contano ben poco. Parlare di un documento di estrema sinteticità, localizzato unicamente nell'ambito territoriale attuale dei due stati confinanti - di modo che gli avvenimenti e le stime numeriche si riducono a una minima parte di quanto realmente accaduto - e che affronta i rapporti italo-sloveni dal 1880 al 1956 in modo da riconoscere i torti e le ragioni dell'una e dell'altra parte, scontentando così gli ultras di entrambi i popoli convinti che le ingiustizie siano state compiute tutte dalla controparte, appare, per chi fa della seria riflessione storiografica, tempo perso. Anche perché chi professionalmente studia l'argomento conosceva già tutte le posizioni emerse dal testo in questione. Ciò che appare sconcertante è come si sia potuto credere di dare una risposta istituzionale a problemi che, come tutti i fatti storici, sono soggetti alle più svariate interpretazioni. Certamente, nonostante le critiche cui sono sottoposti oggi i componenti italiani della commissione, aver fatto ammettere agli studiosi sloveni la corresponsabilità slava nella secolare conflittualità nazionale, il collaborazionismo con il fascismo, la realtà delle foibe e delle persecuzioni che provocarono l'esodo è stato un risultato impensabile fino a pochissimo tempo fa. Che poi, invece, si affermi, tra le altre cose che scontentano gli italiani, che quella jugoslava fu "violenza di stato" d'ispirazione comunista piuttosto che "pulizia etnica" rientra in quella contrapposizione dialettica che sembra non finire mai e che, ci pare, sia del tutto indifferente alle vittime di quella violenza. Ma non a uno dei committenti della commissione storica, il governo italiano, che per motivi presumibilmente elettorali ha dovuto smentire lo stesso organo da lui voluto dichiarando che quella slava fu una vera "pulizia etnica". Rendendo in tal modo ancor più palese quanto poco valore abbia una ricerca storica finalizzata a motivazioni politiche e riducendo, con il proprio paradossale comportamento, tutta la questione ad una farsa. Di storia si parlerà un'altra volta. Il risultato della commissione è stato, in sostanza, un accordo fra gentiluomini speranzosi in un dialogo proficuo tra i due popoli ma dal punto di vista storiografico esso sarà dimenticato non appena si saranno placate le polemiche e ognuno darà, come è sempre avvenuto, la propria versione al di fuori di inaccettabili verità ufficiali.  

DIEGO REDIVO

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- Periodo 1880-1918

Il rapporto italo-sloveno nella regione adriatica ha la sua origine nella fase di crisi successiva al crollo dell'impero romano, quando da una parte sul tronco della romanità si sviluppa l'italianità e dall'altra si verifica l'insediamento della popolazione slovena. Di questo secolare rapporto di vicinanza e di convivenza s'intende qui trattare il periodo, che si apre intorno al 1880, segnato dal sorgere di un rapporto conflittuale e di un contrasto nazionale italo-sloveno. Questo conflitto si sviluppa all'interno di una realtà politico-statale, la monarchia asburgica, della quale le diverse zone costituenti il Litorale austriaco erano entrate a far parte attraverso un secolare processo, iniziato nella seconda metà del XIV secolo e conclusosi, con l'Istria veneziana, nel 1797. La plurinazionale monarchia asburgica nella seconda metà del XIX secolo appare incapace di dare vita a un sistema politico che rispecchiasse compiutamente nella struttura statale la multinazionalità della società, ed è scossa pertanto da una questione delle nazionalità che essa non sarà in grado di risolvere. All'interno di questa Nationalitätenfrage asburgica si colloca il contrasto italo-sloveno, sul quale si riflettono anche i processi di modernizzazione e di trasformazione economica, che toccano tutta l'Europa centrale e la stessa area adriatica.  Il rapporto italo-sloveno appare così caratterizzato, secondo un modello che si ritrova anche in altri casi della società asburgica del tempo, da un contrasto tra coloro, gli italiani, che cercano di difendere uno stato di possesso (Besitzstand) politico-nazionale ed economico-sociale e coloro, gli sloveni, che tentano invece di modificare o di ribaltare la situazione esistente. Il problema è reso ancora più complesso dall'indubbio richiamo culturale ed emotivo, anche se non sempre politico, che l'avvenuta proclamazione del Regno d'Italia e forse più ancora il passaggio a questo stato dei vicini territori del Veneto e del Friuli esercitano sulle popolazioni italiane d'Austria. Allo sguardo che gli italiani rivolgono oltre le frontiere della monarchia si contrappone la volontà slovena di rompere i confini politico-amministrativi, che in Austria li dividono tra diversi Kronländer (oltre ai tre del Litorale, la Carniola, la Carinzia e la Stiria), limitandone i rapporti reciproci e la collaborazione politico-nazionale.  L'unione del Veneto al Regno d'Italia aveva determinato anche la nascita di una questione che tocca direttamente le relazioni italo-slovene: con il 1866 la Valle del Natisone, la Slavia veneta, entra a fare parte dello stato italiano, la cui politica verso la popolazione slovena esprime immediatamente la differenza tra un vecchio stato regionale, la Repubblica di Venezia, e il nuovo stato nazionale. Il Regno d'Italia segue una linea di cancellazione del particolarismo linguistico, che ha le sue radici in una volontà uniformizzatrice che non tiene in alcun conto neppure l'atteggiamento lealistico della popolazione che è oggetto di queste misure.  Intorno all'anno 1880 gli sloveni si erano ormai dotati di basi sufficientemente solide per un'autonoma vita politica ed economica in tutte le unità politico-amministrative austriache nelle quali essi vivevano. Anche nel Litorale austriaco il movimento politico degli sloveni del Goriziano, del Triestino e dell'Istria costituì parte integrante del movimento politico degli sloveni nel loro complesso. Viene così a diminuire, per poi cessare quasi completamente nei decenni successivi, l'assimilazione della popolazione slovena (e anche croata) trasferitasi nei centri cittadini e in particolare a Trieste.  La più viva coscienza politica e nazionale e la maggiore solidità economica sono alla base di questo fenomeno che allarma le élites italiane, dà vita a una politica spesso angusta di difesa nazionale, che contrassegnerà la storia della regione sino al 1915, e contribuisce a rendere più teso il rapporto tra i due gruppi nazionali, anche a causa delle contrastanti aspirazioni slovene e italiane a una diversa delimitazione dei rispettivi territori nazionali.  In tutte e tre le componenti territoriali del Litorale austriaco (Trieste, Contea di Gorizia e di Gradisca, Istria) sloveni e italiani convivevano gli uni accanto agli altri. Nel Goriziano la delimitazione nazionale appariva più netta, con una separazione longitudinale Occidente-Oriente, etnicamente mista era solo la città di Gorizia, dove il numero degli sloveni era però crescente, tanto da far ritenere ad autori politici sloveni alla vigilia del 1915 che il raggiungimento di una maggioranza slovena nella città isontina fosse ormai imminente. Trieste era a maggioranza italiana, ma il suo circondario era sloveno.  Anche in questo caso la popolazione slovena appariva in ascesa. In Istria gli sloveni erano presenti nelle zone settentrionali, per la precisione nel circondario delle cittadine costiere a prevalenza italiana. In tutta l'Istria il movimento politico-nazionale degli sloveni si saldava con quello croato, rendendo talora difficile una trattazione distinta delle due componenti della realtà slavo-meridionale della penisola.  Il carattere peculiare degli insediamenti italiano e sloveno nel Litorale è rappresentato dalla fisionomia prevalentemente urbana di quello italiano ed eminentemente rurale di quello sloveno. Questa distinzione non va però assolutizzata, non devono essere dimenticati gli insediamenti rurali italiani in Istria e in quella parte del Goriziano detta allora Friuli Orientale e quelli urbani sloveni - oltre a tutto in espansione, come si è già detto - a Trieste e a Gorizia.  Ma anche se una separazione troppo marcata tra realtà urbana e rurale va evitata, il rapporto città-campagna rappresenta effettivamente un momento fondamentale della lotta politica nel Litorale, determinando anche un intersecarsi di motivi nazionali e sociali nel contrasto italo-sloveno, che ne renderà più difficile una composizione. Il nodo del rapporto tra città e campagna sta anche alla base di un dibattito politico e storiografico tuttora in corso sull'autentica fisionomia nazionale della regione Giulia.  Da parte slovena si afferma l'appartenenza delle città alla campagna, sia perché nelle aree rurali si sarebbe conservata intatta, non alterata dal sovrapporsi di processi culturali e sociali, l'identità originale di un territorio, sia perché il volto nazionale delle città sarebbe la conseguenza di processi di assimilazione che hanno impoverito la nazione slovena. La perdita dell'identità nazionale attraverso l'assimilazione è quindi vissuta dagli sloveni, ancora decenni dopo, come un'esperienza dolorosa e drammatica, che non deve ripetersi. Da parte italiana si replica con il richiamo al principio dell'appartenenza nazionale come frutto di una scelta culturale e morale liberamente compiuta e non di un'origine etnico-linguistica. Tornando al nesso città-campagna, secondo l'interpretazione italiana è invece la tradizione culturale e civile delle città che dà la propria impronta alla fisionomia e al volto di un territorio. Da questa differenza di impostazione deriveranno anche i successivi contrasti sul concetto di confine etnico e sul significato degli stessi dati statistici sulla nazionalità delle popolazioni in aree di frontiera, alterati - a parere degli sloveni - dall'esistenza di polmoni urbani prevalentemente italiani.  Benché la questione nazionale all'interno della monarchia asburgica presenti alcuni denominatori comuni, le condizioni conflittuali nelle singole zone e quindi anche nel Litorale presentano peculiarità specifiche. La rapida crescita del movimento politico ed economico sloveno e l'espansione demografica degli sloveni nelle città sono ricondotte da parte italiana anche all'azione dell'autorità governativa che avrebbe attuato una politica di sostegno all'elemento sloveno (ritenuto indubbiamente più leale di quello italiano, come risulta da dichiarazioni esplicite di autorità austriache), per contrastare l'autonomismo e il nazionalismo italiano.  L'attribuzione di una fisionomia esclusivamente artificiale all'espansione slovena non tiene però conto di quella che è la naturale forza di attrazione esercitata da centri urbani verso le aree rurali e nel caso specifico a quella esercitata da una grande città in crescita dinamica come Trieste verso il suo circondario. Questo rapporto risponde a leggi economiche, come hanno sottolineato Angelo Vivante e Scipio Slataper, e non solo a un disegno politico.  Anche alla Chiesa cattolica, come all'autorità governativa, gli ambienti nazionali e liberali italiani rimproverano frequentemente di svolgere una funzione filo-slovena, affermazione questa suffragata dall'attiva partecipazione di sacerdoti al movimento politico sloveno.  Su un piano politico-amministrativo l'asprezza della questione nazionale impedisce o rende incompleto l'adeguamento delle istituzioni e dei rapporti linguistici ai principi costituzionali e alle idee liberali. Le modifiche alle leggi elettorali locali si mantengono nell'ambito del sistema censitario: in tal modo la composizione dei consigli dietali e comunali non rispecchia le reali proporzioni numeriche esistenti tra i gruppi nazionali (ad esempio nella Dieta provinciale di Gorizia esisteva una maggioranza italiana, anche se gli sloveni costituivano i 2/3 della popolazione di quel territorio). L'evoluzione delle disposizioni in materia linguistica e lo sviluppo delle strutture scolastiche slovene e croate sono frenati dagli organi politici a maggioranza italiana, che impediscono una piena parificazione tra le lingue parlate nel Litorale, due nella Contea di Gorizia e a Trieste e tre in Istria.  Nei decenni che precedettero la prima guerra mondiale gli sloveni e gli italiani non strinsero legami politici. Costituisce un'eccezione la Dieta goriziana, nella quale si verificarono inconsuete alleanze tra i cattolici sloveni e i liberali sloveni e i cattolici italiani a stringere intese contingenti.  I cattolici italiani del Goriziano avevano il proprio punto di forza specie nella campagna friulana, dove agiva il partito popolare friulano, i cui dirigenti furono più tardi tacciati di austriacantismo. Il tentativo di dare vita ad associazioni cattoliche slovene-italiane, fallì, né suscitò più tardi legami tra i due popoli il movimento cristiano-sociale. Appare dunque evidente come le ragioni dell'appartenenza nazionale facessero premio su quelle ideologiche.  Questa tendenza è ancora più chiara in Istria, dove il partito popolare italiano è più vicino a posizioni nazionali e dove la vita politica è imperniata su una contrapposizione tra un blocco italiano, che tenta di mantenere in vita la prevalenza italiana nelle istituzioni politiche e nel sistema scolastico, e un blocco croato-sloveno, che cerca invece di modificare l'equilibrio esistente. In campo liberale e popolare-cattolico i due gruppi nazionali sono rappresentati in tutto il Litorale da parte di partiti "nazionali" distinti e contrapposti.  Si instaurarono invece legami più solidi nell'ambito del movimento socialista improntato all'internazionalismo benché nel Litorale austriaco esso si fosse dato un'organizzazione articolata in base a criteri nazionali. Fu proprio l'affermazione di questo principio a contenere l'assimilazione dei lavoratori sloveni, ma vi furono palesi attriti fra i socialisti delle due nazionalità e divergenze di vedute spesso aspre si manifestarono anche successivamente, verso la fine della prima guerra mondiale, nel corso delle discussioni sulla appartenenza statale di Trieste e sulla sua identità nazionale.  Un progetto croato, che contemplava una comune resistenza a un'asserita germanizzazione della monarchia asburgica, avrebbe potuto dare vita ad un "patto adriatico" tra le nazioni gravitanti sul Litorale, ma esso avrebbe, secondo gli sloveni, attribuito agli italiani aree di influenza così estese da danneggiare gli interessi sloveni.  Il mancato sviluppo di un dialogo e di una cooperazione italo-sloveni incide profondamente sull'atmosfera di Trieste e, sia pure in misura minore, anche di Gorizia e dell'Istria alla vigilia del 1915. Italiani e sloveni guardano prevalentemente alla loro identità nazionale e si rivelano scarsamente capaci di sviluppare un senso di appartenenza comune alla terra nella quale entrambi i gruppi nazionali sono radicati. Gli sloveni perseguono l'idea di una Trieste capace di alimentare l'attuazione dei loro programmi economici e sottolineano il ruolo centrale per il loro sviluppo di questa città, la cui popolazione slovena sebbene minoritaria era superiore a quella della stessa Lubiana, in ragione della diversa consistenza demografica delle due città.  La loro espansione demografica li portava a ritenere imminente il momento della conquista della maggioranza della popolazione a Gorizia e inevitabile, sia pure in tempi più lunghi, un risultato analogo a Trieste. La maggioranza della popolazione italiana si raccoglie così intorno a una politica di intransigente difesa nazionale, tesa a salvaguardare un'immutabile fisionomia italiana della città. Se gli sloveni guardano a un retroterra vicino, gli italiani si rivolgono al più lontano retroterra dei territori interni della monarchia e anche al Regno d'Italia.  In campo italiano Ruggero Timeus sviluppa anche un nazionalismo radicale minoritario che è fondato sull'idea di una missione civilizzatrice in senso culturale e nazionale della città e sull'imperativo di un'espansione economica dell'italianità nell'Adriatico. La forza politica più rappresentativa degli italiani di Trieste è però il partito liberale-nazionale, nel quale sopravvive una minoranza legata all'ispirazione mazziniana mentre la maggioranza vede il compito immediato dell'irredentismo nella difesa dell'identità italiana della città e delle sue istituzioni.  In questo clima teso e infuocato vennero alla luce anche idee di personalità del mondo della cultura che si innestarono sul solco segnato dagli autori della rivista "La Favilla" nella fervida atmosfera del 1848. Si trattò del gruppo che si raccolse intorno alla rivista fiorentina "La Voce", resasi promotrice di iniziative rivolte alla convivenza tra i popoli nonché alla conoscenza e al riconoscimento della realtà plurietnica di Trieste e del suo circondario. A questa rivista collaborarono alcuni giovani triestini, tra i quali Slataper e i fratelli Carlo e Giani Stuparich.  In opposizione all'irredentismo politico essi definiscono la loro posizione con il termine di irredentismo culturale e intendono sviluppare la cultura italiana nel confronto e nel dialogo con quelle slavo-meridionali e tedesca. Trieste assume quindi per loro la funzione di luogo di incontro tra popoli e civiltà diversi; la loro concezione politica sino al 1914 è quindi molto simile a quella del socialismo triestino. Del resto proprio nelle edizioni de "La Voce" viene pubblicato il più maturo risultato del pensiero socialista, e cioè il volume di Vivante sull'irredentismo adriatico. Dal versante sloveno non si ebbero riscontri incoraggianti né si registrarono reazioni a questo libro.  Gli sloveni apparivano ancora impegnati nella ricerca di una propria identità e incapaci di incamminarsi alla scoperta di altre identità. Rari furono coloro i quali riuscirono a ergersi al di sopra delle barriere nazionalistiche, si vedano ad esempio alcuni giudizi della fondazione dell'università a Trieste. Le tensioni erano troppo acute e agli sloveni pareva preferibile e più a portata di mano una soluzione slavo-meridionale della crisi che attanagliava la monarchia austriaca alla vigilia dello scoppio del primo conflitto mondiale. Con la prima guerra mondiale il programma dell'irredentismo diventa parte integrante della politica italiana, sia pure nella convinzione - che durerò almeno sino alla primavera del 1918 - che l'Austria-Ungheria, anche se profondamente ridimensionata sotto il profilo territoriale, sarebbe sopravvissuta al conflitto.  Prima ancora dell'entrata in guerra dell'Italia il diplomatico italiano Carlo Galli nel corso di una missione a Trieste incontrò, per incarico del suo governo, esponenti sloveni.  Per la dirigenza slovena si trattò dei primi contatti ufficiali con uno stato straniero. Già con il patto di Londra però il governo italiano adottò un programma di espansione, nel quale accanto alle motivazioni nazionali erano presenti ragioni geografiche e strategiche. Il già diffuso lealismo sloveno nei confronti dello stato austriaco trasse ulteriore alimento dalle prime voci sugli aspetti imperialistici del patto di Londra e sulle soluzioni in esso adottate in merito al confine orientale del Regno d'Italia nonché dall'atteggiamento delle autorità militari italiane nelle prime zone occupate.  Un parziale revirement italiano si determinò dopo la sconfitta di Caporetto, dando luogo a una politica di dialogo con le nazionalità soggette d'Austria-Ungheria che culminò nel congresso di Roma dell'aprile 1918 e in un'intesa con il comitato jugoslavo. Mentre il persistere del lealismo asburgico sembra ormai contraddittorio di fronte ai processi di disgregazione interna che scuotono lo stato austro-ungarico, tra gli sloveni si diffondono l'idea del diritto all'autodeterminazione e quella della solidarietà jugoslava. Nella fase finale della guerra e all'inizio del dopoguerra si palesa con tutta evidenza il contrasto tra una tesi slovena e jugoslava, tendente a un confine "etnico", che affonda le sue radici nella concezione dell'appartenenza della città alla campagna e che sostanzialmente coincide con il confine italo-austriaco del 1866, e una tesi italiana, mirante a un confine geografico e strategico, determinata dal prevalere nella penisola delle correnti più radicali e dalla necessità politico-psicologica di garantire una frontiera sicura alle città e alla costa istriane, prevalentemente italiane, e di offrire all'opinione pubblica segni tangibili di ingrandimenti territoriali, che compensassero gli enormi sacrifici richiesti al paese durante la guerra. 

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- Periodo 1918-1941

L'Italia, vittoriosa nella prima guerra mondiale, concluse così il proprio processo di unificazione nazionale, inglobando nel contempo, oltre agli sloveni residenti nelle città e nei centri minori a maggioranza italiana, anche distretti interamente sloveni, situati anche al di fuori del vecchio Litorale austriaco ed estranei allo stesso concetto di Venezia Giulia italiana, come era stato elaborato negli ultimi decenni. Ciò suscitò reazioni opposte fra le diverse componenti nazionali residenti nei territori dapprima occupati e poi annessi: gli italiani infatti accolsero con entusiasmo la nuova situazione, mentre per gli sloveni, che si erano impegnati per l'unità nazionale e si erano già alla fine della guerra dichiarati a favore del nascente stato jugoslavo, l'inglobamento nello stato italiano comportò un grave trauma.  Il nuovo assetto del confine, il cui tracciato era stato fissato sin dal patto di Londra del 1915 e che seguiva la linea displuviale tra il mar Nero e l'Adriatico, strappò dal ceppo nazionale, un quarto del popolo sloveno (327.230 unità secondo il censimento austriaco del 1910, 271.305 secondo il censimento italiano del 1921, 290.000 secondo le stime di Carlo Schiffrer), ma la crescita del numero degli sloveni presenti in Italia non influì sulla situazione di quelli della Slavia veneta (circa 34 mila unità secondo il censimento del 1921) già presenti nel territorio del Regno, ritenuti ormai assimilati e ai quali non venne pertanto riconosciuto alcun diritto nazionale.  L'amministrazione italiana, dapprima militare e poi civile, mostrò una notevole impreparazione ad affrontare i delicati problemi nazionali e politici dei territori occupati, dove si riscontravano consistenti insediamenti - in ampie zone maggioritari - di popolazioni non italiane che aspiravano all'unione con la propria "madrepatria" (nel caso degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia, il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni) e che avevano compiuto per lo più la loro acculturazione politica nell'ambito dello stato plurinazionale asburgico.  Tale impreparazione, unita al retaggio della guerra appena conclusa - in cui gli slavi erano stati considerati come nemici, strumenti privilegiati dell'oppressione austriaca - provocò da parte delle autorità italiane comportamenti fortemente contraddittori. Da un lato, nel periodo 1918-20, quando il confine italo-jugoslavo non era ancora definito, le autorità di occupazione, influenzate pure dagli elementi nazionalisti locali, usarono volentieri la mano pesante nei confronti degli sloveni che intendevano manifestare la propria volontà di annessione alla Jugoslavia.  Furono così assunti numerosi provvedimenti restrittivi - sospensione di amministrazioni locali, scioglimento di consigli nazionali, limitazioni della libertà di associazione, condanne dei tribunali militari, detenzione di militari ex austriaci, internamento ed espulsione, specie di intellettuali - che penalizzarono la ripresa della vita culturale e politica della componente slovena. Al tempo stesso le autorità di occupazione favorirono le manifestazioni di italianità anche per fornire alle trattative per la definizione del nuovo confine un quadro politicamente italiano delle regioni.  D'altra parte, i governi liberali italiani, pur all'interno di un disegno generale di nazionalizzazione dei territori annessi, furono generosi di promesse nei confronti della minoranza slovena e consentirono il rinnovo delle sue rappresentanze nazionali, il riavvio dell'istruzione scolastica in lingua slovena e la ripresa di attività delle organizzazioni indispensabili per lo sviluppo del gruppo nazionale sloveno. Anche il progetto - sostenuto da esponenti politici giuliani e trentini, e che i governi prefascisti presero in seria considerazione - di conservare ai territori annessi forme di autonomia non lontane da quelle già godute in epoca asburgica, avrebbe favorito un migliore rapporto fra le componenti minoritarie e lo stato. Inoltre, il Parlamento italiano formulò voti in favore di una politica di tutela della minoranza slava.  L'irremovibilità delle delegazioni italiane e jugoslava alla conferenza di Parigi sul problema della definizione del nuovo confine ritardò la stabilizzazione politica dei territori sottoposti al regime di occupazione, acuendo i contrasti nazionali. Il formarsi del mito della "vittoria mutilata" e l'impresa dannunziana di Fiume, pur non riguardando direttamente l'area abitata da sloveni, accesero ulteriormente gli animi e costituirono il terreno ideale per l'affermarsi precoce del "fascismo di frontiera", che si erse a tutore degli interessi italiani sul confine orientale e coagulò gran parte delle locali forze nazionaliste italiane attorno all'asse dell'antislavismo combinato con l'antibolscevismo.  Il movimento socialista vedeva infatti una larga adesione degli sloveni - fiduciosi nei suoi principi di giustizia sociale e di eguaglianza nazionale - che contribuirono a far prevalere al suo interno le componenti rivoluzionarie: anche da ciò in seguito derivò la coniazione da parte fascista del neologismo "slavocomunista" che alimentò ulteriormente l'estremismo nazionalista. Nel luglio del 1920, l'incendio del Narodni Dom, la sede delle organizzazioni slovene, di Trieste - che trasse pretesto dagli incidenti verificatisi a Spalato e che provocarono vittime sia italiane sia jugoslave - non fu così che il primo, clamoroso atto di una lunga sequela di violenze: nella Venezia Giulia come altrove in Italia la crisi dello stato liberale offrì infatti campo libero all'aggressività fascista, che si giovò di aperte collusioni con l'apparato dello stato, qui ancor più forti che altrove, come conseguenza della diffusa ostilità antislava.  Le "nuove province" d'Italia nascevano così con pesanti contraddizioni tra principio di nazionalità, ragion di stato e politica di potenza, che minavano alla base la possibilità della civile convivenza tra gruppi nazionali diversi.  Il trattato di Rapallo, sottoscritto nel novembre del 1920 tra il regno d'Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, accolse in pieno le esigenze italiane e amputò un quarto abbondante dell'area considerata dagli sloveni come proprio "territorio etnico". Tale esito era dovuto alla favorevole posizione negoziale dell'Italia che usciva dalla Grande Guerra come vincitrice e riconfermata nel suo status di "grande potenza". Il trattato, che non vincolò l'Italia al rispetto delle minoranze slovena e croata, garantiva invece la tutela della minoranza italiana in Dalmazia: ciò nonostante si verificò un trasferimento di alcune migliaia di italiani da questa regione al Regno d'Italia.  Clausole riguardanti la tutela delle minoranze nella Venezia Giulia non vennero incluse nemmeno nei successivi trattati del 1924 e del 1937 stipulati per avviare da parte jugoslava buoni rapporti con la potente vicina. Nelle intenzioni dei suoi negoziatori, italiani e jugoslavi, il trattato di Rapallo avrebbe dovuto porre le premesse per una reciproca amicizia e collaborazione fra i due stati. Così invece non fu e ben presto la politica estera del fascismo si incamminò lungo la via dell'egemonia adriatica e del revisionismo, assumendo crescenti connotati anti-jugoslavi; tale orientamento fu sostenuto anche da gruppi capitalistici, non solo triestini, interessati a espandersi nei Balcani e nel bacino danubiano e trovò non pochi consensi nella popolazione italiana della Venezia Giulia. Presero corpo anche progetti di distruzione della compagine jugoslava, solo momentaneamente accantonati con gli accordi Ciano-Stojadinovic del 1937, che sembrarono per breve tempo preludere all'ingresso della Jugoslavia nell'orbita italiana. Lo scoppio della guerra mondiale avrebbe trasformato tali progetti in un preciso disegno di aggressione.  Nonostante la difficile situazione esistente nella Venezia Giulia, la politica degli esponenti sloveni e croati - tra cui i loro rappresentanti al parlamento - fu improntata al lealismo nei confronti dello stato italiano, anche dopo l'avvento del fascismo; tra l'altro, essi non aderirono all'opposizione legale quando nel 1924 essa si ritirò sull'Aventino in segno di protesta contro il delitto Matteotti. Malgrado ciò, la loro battaglia parlamentare per la tutela dei diritti nazionali degli sloveni e dei croati, condotta in comune con i deputati della minoranza tedesca dell'Alto Adige, non diede alcun risultato, anzi, il regime fascista si impegnò a fondo, anche per via legislativa, nella snazionalizzazione di tutte le minoranze nazionali.  Così nella Venezia Giulia vennero progressivamente eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene e croate rinnovate dopo la prima guerra mondiale. Le scuole furono tutte italianizzate, gli insegnanti in gran parte pensionati, trasferiti all'interno del regno, licenziati o costretti a emigrare, posti limiti all'accesso degli sloveni al pubblico impiego, soppresse centinaia di associazioni culturali, sportive, giovanili, sociali, professionali, decine di cooperative economiche e istituzioni finanziarie, case popolari, biblioteche, ecc. Partiti politici e stampa periodica vennero posti fuori legge, eliminata fu la possibilità di qualsiasi rappresentanza delle minoranze nazionali, proibito l'uso pubblico della lingua.  Le minoranze slovena e croata cessarono così di esistere come forza politica e i loro rappresentanti fuoriusciti continuarono a operare tramite il Congresso delle nazionalità europee, sotto la presidenza di Josip Vilfan, cooperando così all'impostazione di una politica generale per la soluzione delle problematiche minoritarie.  L'impeto snazionalizzatore del fascismo andò però anche oltre la persecuzione politica, nell'intento di arrivare alla "bonifica etnica" della Venezia Giulia. Così, l'italianizzazione dei toponimi sloveni o l'uso esclusivo della loro forma italiana, dei cognomi e dei nomi personali si accompagnò alla promozione dell'emigrazione, all'impiego di elementi sloveni nell'interno del paese e nelle colonie, all'avvio di progetti di colonizzazione agricola interna da parte di elementi italiani, ai provvedimenti economici mirati a semplificare drasticamente la struttura della società slovena, eliminandone gli strati superiori in modo da renderla conforme allo stereotipo dello slavo incolto e campagnolo, ritenuto facilmente assimilabile dalla "superiore" civiltà italiana.  A tali disegni di più ampio respiro si accompagnò una politica repressiva assai brutale. Vero è che nella medesima epoca la maggior parte degli stati europei mostrava scarso rispetto per i diritti delle minoranze etniche presenti sul loro territorio, quando addirittura non cercava in vari modi di conculcarli, ma ciò non toglie che la politica di "bonifica etnica" avviata dal fascismo sia risultata particolarmente pesante, anche perché l'intolleranza nazionale, talora venata di vero e proprio razzismo, si accompagnava alle misure totalitarie del regime.  L'azione snazionalizzatrice fascista si diresse anche contro la Chiesa cattolica, dal momento che fra gli sloveni - dispersi e in esilio quadri dirigenti e intellettuali - fu il clero ad assumere il ruolo di punto di riferimento per la coscienza nazionale, in continuità con la funzione già svolta in epoca asburgica. I provvedimenti repressivi colpirono direttamente il basso clero, oggetto di aggressioni e provvedimenti di polizia, ma forti pressioni vennero condotte anche verso la gerarchia ecclesiastica di Trieste e Gorizia, in cui l'alto clero si era nei decenni precedenti guadagnato da parte dei nazionalisti italiani una solida fama di austriacantismo e filo-slavismo.  Tappe fondamentali dell'addomesticamento della Chiesa di confine - il cui esito va inserito nell'ambito dei nuovi rapporti fra Stato e Chiesa avviati dal fascismo - furono la rimozione dell'arcivescovo di Gorizia Francesco Borgia Sedej e del vescovo di Trieste Luigi Fogar. I loro successori applicarono le direttive "romanizzatrici" del Vaticano, in conformità a quanto avveniva anche nelle altre regioni italiane ove esistevano comunità "alloglotte", come pure nelle realtà europee caratterizzate dalla presenza di fenomeni simili: tali direttive infatti miravano a offrire il minimo di occasioni di ingerenza in materia ecclesiastica ai governi, totalitari e non, e a compattare i fedeli attorno a Roma, in difesa dei principi cattolici che la Santa Sede riteneva minacciati dalla civiltà moderna. Questi provvedimenti comportavano in via di principio l'abolizione dell'uso della lingua slovena nella liturgia e nella catechesi; essa tuttavia fu mantenuta in forma clandestina soprattutto in ambito rurale, a opera dei sacerdoti organizzati nella corrente cristiano sociale.  Tale situazione provocò gravi tensioni tra i fedeli e i sacerdoti slavi da un lato, e i nuovi vescovi dall'altro, e le difficoltà furono acuite dal diverso modo d'intendere il ruolo del clero, cui gli sloveni attribuivano una funzione prioritaria nella difesa dell'identità nazionale, che appariva invece agli ordinari diocesani italiani frutto di una deformazione nazionalista. Gli sloveni e i croati si formarono così la convinzione che la gerarchia ecclesiastica stesse di fatto collaborando con il regime a un'opera di italianizzazione che investiva ogni campo della vita sociale.  Gli anni Venti e Trenta furono per i territori annessi un periodo di crisi economica, solo tardivamente interrotta dalla politica autarchica: alle difficoltà generali segnate dalle economie europee fra le due guerre si sommarono infatti gli effetti negativi della ristrutturazione e frantumazione dell'area danubiano-balcanica, vitale per le fortune economiche delle terre giuliane. I provvedimenti compensativi assunti dallo stato italiano non riuscirono a invertire la tendenza negativa del periodo, dal momento che le sue cause profonde - vale a dire, la rottura dei legami con il retroterra - sfuggivano alla capacità di intervento sia delle forze locali sia della stessa Italia. Ciò dimostrò l'assurdità delle teorie imperialiste, predilette dai nazionalisti italiani, che speravano di fare di Trieste e della Venezia Giulia la base per la penetrazione italiana nell'Europa centro-orientale e balcanica, ma procurò anche blocco delle prospettive di sviluppo e, spesso, riduzione del tenore di vita, specie negli strati inferiori della società, nei quali più numerosi erano gli sloveni.  Difficoltà economiche e pesantezza del clima politico favorirono fra le due guerre un robusto flusso migratorio della Venezia Giulia: le fonti non ci consentono di quantificare con precisione l'apporto sloveno a tale fenomeno, che coinvolse anche elementi italiani, ma certo esso fu cospicuo, nell'ordine presumibile delle decine di migliaia di unità. Secondo stime jugoslave emigrarono complessivamente 105.000 sloveni e croati; e se nei casi di emigrazione transoceanica è più difficile tracciare un confine fra motivazioni economiche e politiche, nel caso degli espatri in Jugoslavia, che coinvolsero soprattutto giovani e intellettuali, il collegamento diretto con le persecuzioni politiche del fascismo è ben evidente.  Ciò che infatti il fascismo cercò di realizzare nella Venezia Giulia fu un vero e proprio programma di distruzione integrale dell'identità nazionale slovena e croata. I risultati ottenuti furono però alquanto modesti, non per mancanza di volontà, ma per quella carenza di risorse che, in questo come in altri campi, rendeva velleitarie le aspirazioni totalitarie del regime. La politica snazionalizzatrice riuscì infatti a decimare la popolazione slovena a Trieste e Gorizia, a disperdere largamente gli intellettuali e i ceti borghesi e a proletarizzare la popolazione rurale, che però, nonostante tutto, rimase compattamente insediata sulla propria terra.  Il risultato più duraturo raggiunto dalla politica fascista fu però quello di consolidare, agli occhi degli sloveni, l'equivalenza fra Italia e fascismo e di condurre la maggior parte degli sloveni (vi furono infatti alcune frange che aderirono al fascismo) al rifiuto di quasi tutto ciò che appariva italiano. Analogo atteggiamento di ostilità fu assunto anche dagli sloveni in Jugoslavia, anche se, alla metà degli anni Trenta, l'ideologia corporativa del fascismo attirò alcuni ambienti politici cattolici.  Un certo interesse per la letteratura italiana venne manifestato da parte slovena specialmente sul piano della traduzione e della promozione di opere di autori italiani, mentre assai limitata fu l'attenzione degli italiani verso la letteratura slovena, anche se vi furono alcune iniziative, specie nel campo delle traduzioni. Naturalmente, a livello di rapporti personali e di vicinato, come pure in campo culturale e artistico, continuarono a sussistere ambiti in cui la convivenza e la collaborazione erano normali, e ciò avrebbe mantenuto preziosi germi che l'antifascismo e l'aspirazione alla democrazia avrebbero sviluppato, ma in linea generale il solco fra i due gruppi nazionali si approfondì e nei territori giuliani si svilupparono varie forme di resistenza contro l'oppressione fascista.  In particolare la gioventù slovena di orientamento nazionalista, raccolta nell'organizzazione Tigr, collegata anche ai servizi jugoslavi e dalla vigilia della guerra anche a quelli britannici, decise di reagire alla violenza con la violenza sviluppando azioni dimostrative e atti di terrorismo che provocarono repressioni durissime. Di fronte alla durezza della repressione fascista, le organizzazioni clandestine slovene assieme a quella dei fuoriusciti in Jugoslavia, decisero, verso la metà degli anni Trenta, di abbandonare le rivendicazioni di autonomia culturale nell'ambito dello stato italiano per porsi invece come obiettivo il distacco dall'Italia dei territori considerati etnicamente sloveni e croati. Come risposta a tale attività di resistenza, il Tribunale speciale per la difesa dello stato comminò molte condanne a pene detentive e 14 condanne capitali, 10 delle quali eseguite.  Da parte sua, il partito comunista d'Italia maturò lentamente il riconoscimento come alleato del movimento irredentista sloveno, a lungo considerato un fenomeno borghese: la svolta si ebbe solo negli anni Trenta, sotto l'influenza dell'Internazionale, che per dare impulso alla lotta contro nazismo e fascismo prevedeva il collegamento con le forze nazional-rivoluzionarie per la costituzione dei fronti popolari. Fin dal 1926 il PCd'I riconobbe agli sloveni e ai croati residenti entro i confini d'Italia il diritto all'autodeterminazione e alla separazione dallo stato italiano, fermo restando che il criterio dell'autodecisione doveva valere anche per gli italiani.  Nel 1934 poi il PCd'I sottoscrisse assieme ai partiti comunisti della Jugoslavia e dell'Austria un'apposita dichiarazione sulla soluzione della questione nazionale slovena, impegnandosi altresì in favore dell'unificazione del popolo sloveno entro uno stato proprio. L'interpretazione da dare a tali risoluzioni sarebbe risultata particolarmente controversa durante la seconda guerra mondiale, quando il movimento di liberazione sloveno si trovò nella condizione di attuare nella prassi il proprio programma irredentista. A ogni modo, il patto d'azione stipulato nel 1936 fra il PCd'I e il movimento rivoluzionario nazionale degli sloveni e dei croati avviò la formazione di un ampio fronte antifascista, mentre nella Venezia Giulia debole rimase la consistenza dell'antifascismo italiano d'impronta liberale e risorgimentale.  Va comunque ricordata la collaborazione che si sviluppò alla fine degli anni Venti fra il movimento nazionale sloveno clandestino e le forze antifasciste democratiche italiane in esilio (e specialmente con il movimento Giustizia e Libertà), nel cui ambito la parte slovena si impegnò ad alimentare l'attività antifascista in tutta Italia, mentre da parte italiana agli sloveni e ai croati venne riconosciuto il diritto all'autonomia e, in alcuni casi, alla revisione dei confini. Tale collaborazione si interruppe quando tra gli sloveni prevalse la linea secessionista.

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- Periodo 1941-1945

Dopo l'attacco tedesco contro l'Urss la guerra in Europa, specie in quella orientale, divenne totale e diretta alla completa eliminazione degli avversari. Il diritto internazionale ed anche le più elementari norme etiche vennero in quegli anni violate dai contendenti con impressionante frequenza ed anche le terre a nord dell'Adriatico vennero coinvolte in questa spirale di violenza. La seconda guerra mondiale scatenata dalle forze dell'Asse introdusse nei rapporti sloveno-italiani dimensioni nuove che condizionarono il futuro di tali rapporti. Se infatti per un verso l'attacco contro la Jugoslavia del 1941 e la successiva occupazione del territorio sloveno acuirono al massimo la tensione fra i due popoli, nel suo insieme il tempo di guerra vide una serie di svolte drammatiche nelle relazioni fra italiani e sloveni. L'occupazione del 1941 rappresentò così per lo Stato italiano il culmine della sua politica di potenza, mentre gli sloveni toccarono con l'occupazione e lo smembramento il fondo di un precipizio; la fine della guerra rappresentò, per converso, per il popolo sloveno una fase trionfale, mentre la maggior parte della popolazione italiana della Venezia Giulia fu invece assalita nel 1945 dal timore del naufragio nazionale.  La distruzione del regno jugoslavo si accompagnò allo smembramento non solo della compagine statale jugoslava, ma anche della Slovenia in quanto realtà unitaria: la divisione del paese tra Italia, Germania ed Ungheria pose gli sloveni di fronte alla prospettiva dell'annientamento della loro esistenza come nazione di un milione e mezzo di abitanti e ciò li motivò alla resistenza contro gli invasori.  L'aggressione dell'Italia contro la Jugoslavia segnò il culmine della politica ventennale imperialista del fascismo, rivolta anche verso i Balcani ed il bacino danubiano. In contrasto con il diritto di guerra che non ammette l'annessione di territori occupati nel corso di azioni belliche prima della stipula di un trattato di pace, la Provincia di Lubiana fu annessa al Regno d'Italia. Alla popolazione della Provincia di Lubiana, di circa 350.000 abitanti, era stato garantito uno statuto di autonomia etnica e culturale; tuttavia le autorità di occupazione italiane manifestarono il fermo proposito di integrare quanto prima la regione nel sistema fascista italiano, subordinandone le istituzioni e le organizzazioni a quelle omologhe italiane.  L'attrazione politica, culturale ed economica dell'Italia avrebbe dovuto condurre gradualmente alla fascistizzazione ed all'italianizzazione della popolazione locale. Sulle prime l'aggressione fascista aveva previsto di poter soggiogare gli sloveni grazie ad un'asserita superiorità della civiltà italiana, perciò il regime d'occupazione inizialmente instaurato dalle autorità italiane fu piuttosto moderato.  A fonte di quello nazista, esso apparve perciò agli occhi degli sloveni un male minore, ed ottenne per questo alcune forme di collaborazione, anche se le stesse forze politiche che vi accondiscesero non lo fecero necessariamente in virtù di orientamenti filofascisti: gran parte degli sloveni confidava infatti, dopo un periodo di iniziale incertezza, nella vittoria delle armi alleate e vedeva il futuro del popolo sloveno a fianco della coalizione delle forze antifasciste. Fra i gruppi politici sloveni si manifestarono però due diverse vedute di fondo sulla strategia da seguire. La prima, propugnata dal Fronte di Liberazione (OF), sosteneva la necessità di avviare immediatamente la resistenza contro l'occupatore: vennero perciò formate le prime unità partigiane che condussero azioni militari contro le forze occupatrici, mentre ai piani italiani di avvicinamento culturale il movimento di liberazione rispose con il "silenzio culturale".  Aderirono al Fronte di Liberazione appartenenti a tutti i ceti della popolazione senza distinzione di credo politico ed ideale. L'altra opzione, maturata in seno agli esponenti delle forze liberal-conservatrici, suggeriva invece agli sloveni di prepararsi clandestinamente e gradualmente alla liberazione ed alla resa dei conti con l'occupatore alla fine della guerra. Certamente, tanto il Fronte di Liberazione che lo schieramento opposto, facente capo al governo monarchico jugoslavo in esilio a Londra, convergevano sull'obiettivo della Slovenia Unita, comprendente tutti i territori considerati sloveni nel quadro di una Jugoslavia federativa.  Al crescente successo delle azioni partigiane ed al radicalizzarsi della contrapposizione fra la popolazione e gli occupatori Mussolini rispose trasferendo i poteri dalle autorità civili a quelle militari, che adottarono drastiche misure repressive. Il regime d'occupazione fece leva sulla violenza che si manifestò con ogni genere di proibizioni, con le misure di confino, con le deportazioni e l'internamento nei numerosi campi istituiti in Italia (fra i quali vanno ricordati quelli di Arbe, Gonars e Renicci), con i processi dinanzi alle corti militari, con il sequestro e la distruzione di beni, con l'incendio di case e villaggi.  Migliaia furono i morti, fra caduti in combattimento, condannati a morte, ostaggi fucilati e civili uccisi. I deportati furono approssimativamente 30 mila, per lo più civili, donne e bambini, e molti morirono di stenti. Furono concepiti pure disegni di deportazione in massa degli sloveni residenti nella provincia. La violenza raggiunse il suo apice nel corso dell'offensiva italiana del 1942, durata quattro mesi, che si era prefissa di ristabilire il controllo italiano su tutta la Provincia di Lubiana.  Improntando la propria politica al motto "divide et impera" le autorità italiane sostennero le forze politiche slovene anticomuniste, specie d'ispirazione cattolica, le quali, paventando la rivoluzione comunista, avevano in quel momento individuato nel movimento partigiano il pericolo maggiore, e si erano rese perciò disponibili alla collaborazione. Esse avevano così creato delle formazioni di autodifesa che i comandi italiani, pur diffidandone, organizzarono nella Milizia volontaria anticomunista, impiegandole con successo nella lotta antipartigiana.  La lotta di liberazione si estese ben presto dalla Provincia di Lubiana alla popolazione slovena del Litorale che aveva vissuto per un quarto di secolo entro il nesso statale italiano. Ciò riaprì la questione dell'appartenenza statale di buona parte di questo territorio e rese manifesti non solo l'assoluta inefficacia della politica del regime fascista nei confronti degli sloveni, bensì pure il fallimento generale della politica italiana sul confine orientale. Contro la popolazione slovena erano stati adottati provvedimenti di carattere preventivo sin dall'inizio della guerra: l'internamento ed il confino dei personaggi di punta, l'assegnazione dei coscritti ai battaglioni speciali, l'evacuazione della popolazione lungo il confine, le condanne alla pena capitale nel quadro del secondo processo del tribunale speciale svoltosi a Trieste.  Fra gli sloveni della Venezia Giulia la lotta di liberazione capeggiata dal partito comunista trovò un terreno particolarmente fertile, perché aveva fatte proprie le loro tradizionali istanze nazionali tese all'annessione alla Jugoslavia di tutti i territori abitati da sloveni, anche di quelli in cui si riscontrava una maggioranza italiana. Il Pcs si era così assicurato l'assoluta egemonia sul movimento di massa e grazie alla lotta armata anche l'opportunità di attuare sia la liberazione nazionale che la rivoluzione sociale. Nell'opera di repressione del movimento di liberazione le autorità italiane ricorsero ai metodi repressivi già sperimentati nella Provincia di Lubiana, ivi compresi gli incendi di villaggi e la fucilazione di civili. A tal fine furono appositamente creati l'Ispettorato speciale per la pubblica sicurezza e due nuovi corpi d'armata dell'esercito italiano. Le operazioni militari si estesero pertanto anche sul territorio dello stato italiano.  Nei giorni successivi all'8 settembre 1943 le forze armate ed elementi dell'amministrazione civile italiana poterono lasciare i territori sloveni senza contrasto e giovandosi anche dell'aiuto della popolazione locale. Le conseguenze dell'armistizio comunque rappresentarono una svolta chiave nei rapporti sloveno-italiani. La configurazione prevalente da essi assunta sino ad allora, che vedeva gli italiani-occupatori ovvero nazione dominante e gli sloveni-occupati ovvero popolo oppresso, si fece più complessa. Sotto il profilo psicologico ed anche in termini reali la bilancia s'inclinò a favore degli sloveni.  L'adesione della popolazione slovena della Venezia Giulia al movimento partigiano, le azioni delle formazioni militari e degli organismi di potere resero testimonianza della volontà di tale popolazione che questo territorio appartenesse alla Slovenia Unita. Tale determinazione fu sancita nell'autunno del 1943 dai vertici del movimento sloveno e fu successivamente fatta propria anche a livello jugoslavo. Anche nella Venezia Giulia gli sloveni intervennero così in veste di attore politico; ne tennero conto entro un certo limite anche le autorità tedesche che, prendendo atto dell'assetto etnico e reale del territorio, cercarono di interporsi strumentalmente come mediatrici fra italiani e slavi.  I tedeschi comunque, per mantenere il controllo del territorio fecero ricorso all'esercizio estremo della violenza, per la quale si servirono pure della collaborazione subordinata di formazioni militari e di polizia italiane, ma anche slovene. Essi inoltre utilizzarono gli apparati amministrativi italiani ancora esistenti nei centri maggiori della regione, nonché strutture di collaborazione istituite appositamente, e, nella logica del "divide et impera", sempre strumentalmente accolsero alcune richieste slovene nel campo dell'istruzione e dell'uso della lingua, concedendo pure ad elementi sloveni limitate responsabilità amministrative. La condivisione degli obiettivi anticomunisti ed antipartigiani tra le diverse forze collaborazioniste non poté però superare le reciproche diffidenze d'ordine nazionale, e ciò portò anche a scontri armati.  Più ampi furono i movimenti di opposizione all'occupazione germanica tanto che i nazisti sentirono il bisogno di adibire all'eliminazione su larga scala degli antifascisti, in primo luogo sloveni e croati, ma anche italiani, una struttura specifica, la risiera di San Sabba, utilizzata anche come centro di raccolta per gli ebrei da deportare nei campi di sterminio. Particolarmente vasta fu la partecipazione al movimento di liberazione da parte della popolazione slovena, mentre quella italiana fu frenata dal timore che il movimento partigiano venisse egemonizzato dagli sloveni, le rivendicazioni nazionali dei quali non erano accettate dalla maggioranza della popolazione italiana.  Influì anche negativamente l'eco degli eccidi di italiani dell'autunno del 1943 (le cosiddette "foibe istriane") nei territori istriani ove era attivo il movimento di liberazione croato, eccidi perpetrati non solo per motivi etnici e sociali, ma anche per colpire in primo luogo la locale classe dirigente, e che spinsero gran parte degli italiani della regione a temere per la loro sopravvivenza nazionale e per la loro stessa incolumità.  Nel corso della seconda guerra mondiale i rapporti sloveno-italiani giunsero al culmine della loro conflittualità; tuttavia vennero contestualmente sviluppandosi anche forme di collaborazione su basi antifasciste, in prosecuzione di una pluridecennale unità maturata nel movimento operaio. Tale collaborazione assurse al massimo rilievo nei rapporti fra i due partiti comunisti, tra le formazioni partigiane slovene ed italiane, nei comitati di unità operaia e, fin ad un certo momento, anche fra l'OF e il CLN. Sotto il profilo generale, la collaborazione fra i movimenti di liberazione sloveno ed italiano fu stretta ed ebbe notevoli sviluppi.  Nonostante le nuove forme di collaborazione fra i due popoli, i due movimenti di liberazione si distinguevano sensibilmente per genesi, strutturazione, consistenza ed influenza e non superarono la diversità di obiettivi e di tradizioni politiche. Emersero divergenze fra le dirigenze dei due partiti comunisti come pure fra il CLN giuliano ed i vertici dell'OF, nonostante avessero stipulato alcuni importanti accordi. Nella Venezia Giulia la resistenza si rivelò un fenomeno plurinazionale piuttosto che internazionale, dal momento che entrambi i movimenti di liberazione, pur rifacendosi ai valori dell'internazionalismo, risultarono fortemente condizionati dell'esigenza di difendere i rispettivi interessi nazionali.  Il movimento di liberazione sloveno reputò di importanza centrale l'annessione alla Jugoslavia di tutti i territori in cui vi fossero insediamenti storici sloveni, ma ciò non ebbe esclusivamente implicazioni di ordine nazionale, bensì - dato il carattere del movimento - anche implicazioni inerenti agli obiettivi rivoluzionari che si era preposto. Il possesso di Trieste infatti era considerato di grande importanza, non solo per la sua posizione geo-economica rispetto alla Slovenia, ma anche per la presenza di una forte classe operaia, nonché come base sia per la difesa del mondo comunista dall'influenza occidentale sia per un'ulteriore espansione del comunismo verso Ovest, ed in particolare verso l'Italia del Nord.  Il PCI, a livello sia locale che nazionale, fino all'estate del 1944 non accettò l'idea dell'annessione alla Jugoslavia delle aree mistilingui ovvero a prevalenza italiana, proponendo di rinviare la definizione del problema al dopoguerra. Più tardi invece, in una mutata situazione strategica e dopo che il PCS ebbe assunto il controllo sia delle formazioni garibaldine che della federazione triestina del PCI, i comunisti giuliani aderirono all'impostazione dell'OF, mentre in campo nazionale la linea del PCI si fece più oscillante: le rivendicazioni jugoslave non vennero mai ufficialmente accolte ma nemmeno respinte, e Togliatti propose una distinzione tattica fra annessione di Trieste alla Jugoslavia - di cui non bisognava parlare - ed occupazione del territorio giuliano da parte jugoslava, che andava invece favorita dai comunisti italiani.  Sulla linea del PCI, oltre al sostegno sovietico alle rivendicazioni jugoslave ed al dibattito interno sugli sbocchi da dare alla lotta di liberazione in Italia, influì anche l'atteggiamento assunto da buona parte del proletariato italiano di Trieste e Monfalcone, che aveva accolto la soluzione jugoslava in chiave internazionalista come integrazione entro uno stato socialista alle spalle del quale si ergeva l'Unione Sovietica. Tale scelta provocò pesanti conseguenze all'interno della resistenza italiana, portando tra l'altro all'eccidio delle malghe di Porzus, perpetrato da un formazione partigiana comunista nei confronti di partigiani osovani.  Diversa era la posizione del CLN giuliano (dal quale alla fine del 1944 uscirono i comunisti, a differenza di quanto accadde a Gorizia); esso rappresentava i sentimenti della popolazione italiana di orientamento antifascista che desiderava il mantenimento della sovranità italiana sulla regione. Il CLN tendeva inoltre a presentarsi agli anglo-americani come rappresentante della maggioranza della popolazione italiana, anche al fine di ottenerne l'appoggio per la definizione dei confini. Il CLN e l'OF esprimevano orientamenti in materia di confini opposti e incompatibili, perciò quando il problema della futura frontiera venne posto in primo piano, una loro collaborazione strategica divenne impossibile. Sul piano tattico le ultime possibilità di accordo in vista dell'insurrezione finale svanirono di fronte all'impossibilità di raggiungere un'intesa su chi avrebbe avuto il controllo politico di Trieste dopo la cacciata dei tedeschi. Fu così che al termine della guerra ciascuna componente della Venezia Giulia attese i propri liberatori, la Quarta armata jugoslava e il suo nono corpo operante in Slovenia o l'Ottava armata britannica, e scorse in quelli dell'altra l'invasore.  Alla fine di aprile CLN e Unità operaia organizzarono a Trieste due insurrezioni parallele e concorrenziali, ma ad ogni modo la cacciata dei tedeschi dalla Venezia Giulia avvenne principalmente per opera delle grandi unità militari jugoslave e in parte di quelle alleate che finirono per sovrapporre le loro aree operative in maniera non concordata: il problema della transizione fra guerra e dopoguerra divenne così una questione che travalicava i rapporti fra italiani e sloveni della Venezia Giulia, come pure le relazioni fra l'Italia e la Jugoslavia, per diventare un nodo, seppur minore della politica europea del tempo. L'estensione del controllo jugoslavo dalle aree già precedentemente liberate dal movimento partigiano fino a tutto il territorio della Venezia Giulia fu salutata con grande entusiasmo dalla maggioranza degli sloveni e dagli italiani favorevoli alla Jugoslavia. Per gli sloveni si trattò di una duplice liberazione, dagli occupatori tedeschi e dallo Stato Italiano. Al contrario, i giuliani favorevoli all'Italia considerarono l'occupazione jugoslava come il momento più buio della loro storia, anche perché essa si accompagnò nella zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano ad un'ondata di violenza che trovò espressione nell'arresto di molte migliaia di persone, parte delle quali venne in più riprese rilasciata - in larga maggioranza italiani, ma anche sloveni contrari al progetto politico comunista jugoslavo - in centinaia di esecuzioni sommarie immediate, le cui vittime vennero in genere gettate nelle " foibe ", e nella deportazione di un gran numero di militari e civili, parte dei quali perì di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferimenti, nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i quali va ricordato quello di Borovnica) creati in diverse zone della Jugoslavia. Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo Stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo. L'impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario, che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani.

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- PERIODO 1945-1956

L'area della Venezia Giulia e delle valli del Natisone (Slavia Veneta) che vede l'incontrarsi dei popoli italiano e sloveno, era stata in passato già frammentata, mai però nella misura in cui lo fu nel primo decennio del dopoguerra. Dal maggio 1945 al settembre 1947 vi operarono infatti due amministrazioni militari anglo-americane (con sede a Trieste e Udine) e il governo militare jugoslavo. La Venezia Giulia venne divisa in due zone di occupazione: la zona A amministrata da un governo militare alleato (Gma) e la zona B amministrata da un governo militare jugoslavo (Vuja), mentre le valli del Natisone ricadevano sotto la giurisdizione del Gma con sede a Udine. Dopo il 1945 la situazione internazionale procedette rapidamente verso la contrapposizione globale fra Est e Ovest, e anche se nei rapporti diplomatici fra le grandi potenze la nuova logica si affermò solo gradualmente, il clima di scontro fra civiltà informò assai presto gli atteggiamenti politici delle popolazioni viventi al confine tra Italia e Jugoslavia. Inoltre, mentre nel primo dopoguerra i rapporti di forza a livello europeo avevano fatto sì che la controversia di frontiera italo-jugoslava si concentrasse sul margine orientale dei territori in discussione, nel secondo dopoguerra il rovesciamento degli equilibri di potenza fra i due Stati spostò il dibattito sui bordi occidentali della regione: il nuovo confine premiò così il contributo della Jugoslavia, aggredita dall'Italia, alla vittoria alleata e realizzò buona parte delle aspettative che avevano animato la lotta degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia contro il fascismo e per l'emancipazione nazionale. Il tentativo di far coincidere limiti etnici e confini di stato si rivelò tuttavia impossibile, non solo per il prevalere delle politiche di potenza, ma per le caratteristiche stesse del popolamento nella regione Giulia e per il diverso modo d'intendere l'appartenenza nazionale dei residenti nell'area: ancora una volta quindi, com'era già avvenuto dopo il 1918 e com'è del resto tipico dell'età dei nazionalismi, il coronamento (seppur nel caso degli sloveni non integrale) delle aspirazioni nazionali di un popolo, si risolse di fatto nella penalizzazione di quelle dell'altro.

Dopo l'entrata in vigore del Trattato di pace - che istituiva quale soluzione di compromesso il Territorio Libero di Trieste (TLT) - le relazioni italo-jugoslave vennero assorbite nella logica della guerra fredda. Il momento culminante di tale fase si ebbe nel 1948, quando l'imminenza delle elezioni politiche italiane indusse i governi occidentali ad emanare la Nota tripartita del 20 marzo in favore della restituzione all'Italia dell'intero TLT. A seguito del dissidio con l'Urss del 1948 la Jugoslavia non aderì più a blocchi politico-militari e le potenze occidentali si mostrarono disposte a ripagarne la neutralità con concessioni economiche e politiche, pur rimanendo essa retta da un regime totalitario. Sempre su sollecitazione delle potenze atlantiche, vista l'inconcludenza dei negoziati bilaterali sulla sorte del TLT, superata la crisi originata dalla Nota Bipartita dell'8 ottobre 1953, si pervenne il 5 ottobre 1954 alla stipula del Memorandum di Londra. L'assetto imposto dal Trattato di Pace e successivamente completato dal Memorandum riuscì complessivamente vantaggioso per la Jugoslavia, che ottenne la maggior parte dei territori rivendicati ad eccezione del Goriziano, del Monfalconese e della Zona A del mai realizzato Territorio Libero di Trieste, che pur vedevano la presenza di sloveni. Le valli del Natisone, la val Canale e la val di Resia, sebbene rivendicate dalla Jugoslavia, non costituirono oggetto di trattative. Diversa fu la percezione di tale esito da parte delle popolazioni interessate. Mentre la maggior parte dell'opinione pubblica italiana salutò con entusiasmo il ritorno all'Italia di Trieste, che era divenuta il simbolo della lunga contesa diplomatica per il nuovo confine italo-jugoslavo, gli italiani della Venezia Giulia vissero la perdita dell'Istria come un evento traumatico, che sedimentò nella memoria collettiva. Da parte slovena, la soddisfazione per il recupero delle vaste aree rurali del Carso e dell'alto Isonzo, si accompagnò alla delusione per il mancato accoglimento delle storiche rivendicazioni sui centri urbani di Gorizia e Trieste, in parte compensato dall'annessione della fascia costiera del Capodistriano - che vedeva una consistente presenza italiana - che fornì alla Slovenia lo sbocco al mare. A conclusione della vertenza, mentre tutta la popolazione croata della Venezia Giulia si ritrovò nella repubblica di Croazia facente parte della Federazione jugoslava, rimasero comunità slovene in Italia, nelle province di Trieste, Gorizia ed Udine, e comunità italiane in Jugoslavia, anche se all'atto della stipula del Memorandum d'Intesa queste ultime erano già state falcidiate dall'esodo dai territori assegnati alla Croazia in forza del Trattato di pace. Nelle zone in cui dopo il 1947 venne ripristinata l'amministrazione italiana, il ritorno alla normalità fu ostacolato dal permanere di atteggiamenti nazionalisti, anche come conseguenza dei rancori suscitati dall'occupazione jugoslava del 1945. Il reinserimento del Goriziano nella compagine statuale italiana fu accompagnato da numerosi episodi di violenza contro gli sloveni e contro le persone favorevoli alla Jugoslavia. Le autorità italiane mostrarono in genere diffidenza verso gli sloveni e, pur nel rispetto dei loro diritti individuali, non favorirono lo sviluppo nazionale della comunità slovena, e in alcuni casi promossero, anzi, tentativi di assimilazione strisciante. La divisione della vecchia provincia colpì gravemente il Goriziano, perché l'entroterra montano del bacino dell'Isonzo restò privo del suo sbocco nella pianura, e in particolare la popolazione slovena, che rimase separata dai propri connazionali. Ciò rese necessaria la costruzione da parte slovena di Nova Gorica, che nel nuovo clima instauratosi nei decenni seguenti venne allacciando, anche se con molte difficoltà, rapporti con il centro urbano rimasto in Italia, la cui ripresa, lenta e faticosa, si delineò appena sul finire degli anni Cinquanta. Più precaria si rivelò la posizione degli sloveni abitanti nelle valli del Natisone e del Resiano e nella Val Canale, che non furono mai riconosciuti come minoranza nazionale e rimasero quindi privi dell'insegnamento nella madre lingua e del diritto ad usarla nei rapporti con le autorità. In tali zone si registrò il rifiorire, a partire dagli ultimi anni di guerra, di forme di coscienza nazionale slovena, ma la comparsa di orientamenti politici filo-jugoslavi presso popolazioni che avevano sempre manifestato lealismo verso lo Stato italiano, venne prevalentemente giudicata da parte italiana, complice anche il clima della guerra fredda, frutto non di un'evoluzione autonoma ma di agitazione politica proveniente da oltre confine. I loro assertori furono fatti oggetto di intimidazioni e arresti, e in alcuni casi di atti di violenza, da parte di gruppi estremisti e formazioni paramilitari. Anche il clero sloveno incontrò difficoltà sia con le autorità civili sia con quelle religiose diocesane nell'affermare il proprio ruolo di riferimento per l'identità degli sloveni della Slavia Veneta a partire dall'esercizio dei suoi compiti pastorali in lingua slovena. Vi è certo stato in tali zone un persistente ritardo da parte italiana nell'attuazione di una politica di tutela corrispondente allo spirito della Costituzione democratica. Su tale ritardo vennero a pesare l'inasprirsi della situazione internazionale e le corrispondenti contrapposizioni politiche. Da ciò derivarono pure ritardi nell'istituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia, la cui autonomia avrebbe comunque consentito, secondo il disegno della Costituente, una maggiore attenzione alle regioni minoritarie. Nelle zone A e B della Venezia Giulia e dal 1947 del TLT, entrambi i governi militari operarono come amministrazioni provvisorie, tuttavia differivano fra loro per alcuni aspetti sostanziali. Mentre infatti il Gma costituiva soltanto un'autorità di occupazione, la Vuja rappresentava al tempo stesso anche lo Stato che rivendicava a sé l'area in questione, e ciò ne condizionò l'opera. Gli angloamericani introdussero nella zona A ordinamenti ispirati ai principi liberal-democratici, e, pur mantenendo sempre il completo controllo militare e politico nella zona A, cercarono sulle prime di coinvolgere nell'amministrazione civile tutte le correnti politiche. Poi però, per il diniego della componente filo-jugoslava e anche in virtù del peso crescente della guerra fredda - che fino al 1948 trovò nell'area giuliana uno dei suoi luoghi di frizione - si servirono soltanto della collaborazione delle forze filoitaliane e anticomuniste. Il Gma adottò comunque provvedimenti volti ad assicurare alla popolazione slovena i suoi diritti nell'uso pubblico della lingua nazionale ed in campo scolastico, cercando però nel contempo di ostacolare i rapporti della comunità slovena con la Slovenia. Inoltre, l'attivazione - sia pure tardiva - degli istituti di autogoverno locale, permise agli sloveni, con le libere elezioni del 1949 e 1952, di eleggere i propri rappresentanti dopo più di due decenni di esclusione dalla vita pubblica. In quegli anni fece ritorno a Trieste e a Gorizia una parte degli sloveni fuoriusciti nel periodo fra le due guerre, in particolare gli appartenenti ai ceti intellettuali, i quali assunsero importanti funzioni in campo culturale e politico. Fino al 1954 la priorità attribuita alla questione dell'appartenenza statuale della zona, sommandosi alle tensioni della guerra fredda, determinò una polarizzazione della lotta politica che rese più difficile l'avvio della nuova vita democratica. Lo spartiacque fra il blocco filo-italiano e quello filo-jugoslavo non era né esclusivamente nazionale né solo di classe o ideologico, bensì il risultato di un intreccio di tali elementi. Fino al 1947 all'interno dei due blocchi le distinzioni politiche si attenuarono e trovarono ampio spazio le pulsioni nazionaliste. Più tardi le articolazioni divennero più marcate e, anche se il peso dello sconto nazionale rimase assai forte, le componenti democratiche filo-italiane, che assunsero la guida politica della zona, badarono in genere a distinguere la loro azione da quella delle forze di estrema destra. In modo analogo si manifestarono pubblicamente anche le distinzioni ideologiche, prima offuscate, fra gli sloveni, i quali formarono gruppi e partiti ostili alle nuove autorità jugoslave. Presero corpo anche tendenze indipendentiste, che videro una certa convergenza di elementi italiani e sloveni attorno all'idea dell'entrata in vigore dello statuto definitivo del TLT. Oltre ai rapporti quotidiani fra la gente che viveva sullo stesso territorio e che non furono mai interrotti, si ebbe fino alla risoluzione del Cominform una stretta collaborazione fra gli sloveni e numerosi italiani della regione, legata soprattutto all'appartenenza di classe e cementata dalla comune esperienza della lotta partigiana, che in determinati ambienti era valsa a infrangere alcuni miti, come quello della naturale avversione fra le due etnie. La scelta in favore dell'annessione alla Jugoslavia, come stato nel quale si veniva edificando il comunismo, compiuta allora dalla maggioranza del proletariato locale di lingua italiana, soprattutto nella zona A, fece sì che fino alla frattura tra la Jugoslavia e il Cominform (1948) a lungo si mantenesse la solidarietà fra comunisti italiani e sloveni, nonostante le crescenti divergenze sul modo d'intendere l'internazionalismo e sulla concezione del partito, oltre che su questioni chiave come quella dell'appartenenza statale della Venezia Giulia. Stretta fu pure la collaborazione fra il Pci e il Pcj (Pcs), consolidata dalla lotta comune contro l'invasore e il fascismo, nonostante la diversità di posizioni su alcune questioni. Le tensioni esplosero all'atto della risoluzione del Cominform, sostenuta dalla maggioranza dei comunisti italiani, sicché si ebbe per parecchio tempo non solo l'interruzione di ogni contatto ma anche una vera e propria ostilità tra "cominformisti" e "titini". A seguito di ciò in Jugoslavia numerosi comunisti italiani, sia fra quelli residenti in Istria che fra quelli accorsi in Jugoslavia ad "edificare il socialismo", subirono il carcere, la deportazione e l'esilio. Si creò pure una frattura tra gli sloveni, essendosi schierata a favore dell'Unione Sovietica e contro la Jugoslavia anche la maggioranza degli sloveni della Zona A orientati a sinistra. Da allora per lungo tempo gli sloveni furono divisi in tre gruppi contrapposti e spesso ostili: i democratici, i "cominformisti" ed i "titini". Nonostante la Zona B della Venezia Giulia si estendesse su una vasta area compresa tra il confine di Rapallo e la linea Morgan, l'area amministrata dalle autorità slovene registrava una vasta presenza italiana solo nella fascia costiera, mentre la popolazione dell'entroterra era in larga prevalenza slovena. Nel 1947 tale area costiera concorse, assieme al Buiese amministrato dalle autorità croate, alla formazione della Zona B del TLT. Qui la Vuja, che aveva trasferito parte delle proprie competenze agli organi civili del potere popolare, cercò di consolidare le strutture tipiche di un regime comunista, irrispettoso del diritto delle persone. Le autorità jugoslave, in contrasto con il mandato a provvedere alla sola amministrazione provvisoria della zona occupata, senza pregiudizio della sua destinazione statuale, cercarono di forzare l'annessione con una politica di fatti compiuti. Così, oltre a provvedere al riconoscimento dei diritti nazionali degli sloveni, fino ad allora negati, tentarono di costringere gli italiani ad aderire alla soluzione jugoslava, facendo anche uso dell'intimidazione e della violenza. Nel contempo, le basi economiche del gruppo nazionale italiano, fino ad allora egemone, vennero compromesse sia dalla nuova legislazione che dall'interruzione dei rapporti fra le due zone, mentre le tradizionali gerarchie sociali vennero rivoluzionate, anche a seguito della progressiva scomparsa della classe dirigente italiana. Si mirò inoltre ad eliminare i naturali punti di riferimento culturale delle comunità italiane: così, a ben poco valse l'attivazione di nuove istituzioni culturali - come l'emittente radiofonica in lingua italiana - strettamente controllate dal regime, di fronte alla progressiva espulsione degli insegnanti e - dopo il 1948 - al ridimensionamento del sistema scolastico in lingua italiana, nonché all'orientamento complessivo dell'insegnamento verso l'attenuazione dei legami del gruppo nazionale italiano con l'Italia e verso la denigrazione dell'Italia. Allo stesso modo, la persecuzione religiosa del regime assunse nei confronti del clero italiano, che costituiva un elemento chiave per la difesa dell'identità nazionale, un'oggettiva valenza snazionalizzatrice. Se nei comportamenti anti-italiani di parte degli attivisti locali, che ribaltavano sull'elemento italiano l'animosità per i trascorsi del fascismo istriano, è palese sin dall'immediato dopoguerra l'intento di liberarsi degli italiani in quanto ritenuti irriducibili alle istanze del nuovo potere, allo stato attuale delle conoscenze mancano riscontri certi alle testimonianze - anche autorevoli di parte jugoslava - sull'esistenza di un piano preordinato di espulsione da parte del governo jugoslavo, che pare essersi delineato compiutamente solo dopo la crisi nei rapporti con il Cominform del 1948; questa spinse i comunisti italiani che vivevano nella zona, e che pur avevano inizialmente collaborato, anche se con crescenti riserve, con le autorità jugoslave, a schierarsi nella loro stragrande maggioranza contro il partito di Tito. Ciò condusse le autorità popolari ad abbandonare la linea della "fratellanza italo-slava", che consentiva al mantenimento nello Stato socialista jugoslavo di una componente italiana politicamente e socialmente epurata al fine di renderla conformista rispetto agli orientamenti ideologici e alla politica nazionale del regime. Da parte jugoslava, pertanto, si vide con crescente favore l'abbandono da parte degli italiani della loro terra d'origine, mentre il trattamento riservato al Gruppo Nazionale Italiano subì più marcatamente le oscillazioni dei negoziati sulla sorte del TLT. Alla violenza, che si manifestò nuovamente al tempo delle elezioni del 1950 e della crisi triestina del 1953, e agli allontanamenti forzati, si intrecciarono così provvedimenti miranti a consolidare le barriere fra Zona A e Zona B. La composizione etnica della Zona B subì inoltre rimaneggiamenti anche a causa dell'immissione di jugoslavi in città che erano state quasi esclusivamente italiane. In conseguenza di tutto ciò, dal distretto di Capodistria si registrò un flusso costante, anche se numericamente limitato, di partenze e di fughe, che divenne particolarmente considerevole agli inizi degli anni Cinquanta, fino a coinvolgere l'intero gruppo nazionale italiano dopo la stipula del Memorandum di Londra, quando per gli italiani venne meno la speranza che la loro situazione potesse mutare. Infatti, nonostante gli impegni assunti con il Memorandum l'atteggiamento delle autorità nella Zona B non cambiò, mentre il medesimo atto concedeva alla popolazione la possibilità di optare per la cittadinanza italiana entro un tempo limitato. Complessivamente nel corso del dopoguerra l'esodo dai territori istriani soggetti oggi alla sovranità slovena coinvolse più di 27.000 persone - vale a dire la quasi totalità della popolazione italiana ivi residente, oltre ad alcune migliaia di sloveni, che vennero ad aggiungersi alla grande massa di esuli, in larghissima maggioranza italiani (le cui stime più recenti vanno dalle 200 mila alle 300 mila unità), provenienti dalle aree dell'Istria e della Dalmazia oggi appartenenti alla Croazia. Gli italiani rimasti (l'8% della popolazione complessiva) furono in maggioranza operai e contadini, specie quelli più anziani, cui si aggiunsero alcuni immigrati politici del dopoguerra ed alcuni intellettuali di sinistra. Fra le ragioni dell'esodo vanno tenute soprattutto presenti l'oppressione esercitata da un regime la cui natura totalitaria impediva anche la libera espressione dell'identità nazionale, il rigetto dei mutamenti nell'egemonia nazionale e sociale nell'area, nonché la ripulsa nei confronti delle radicali trasformazioni introdotte nell'economia. L'esistenza di uno Stato nazionale italiano democratico ed attiguo ai confini, più che l'azione propagandistica di agenzie locali filo-italiane, esplicatasi anche in assenza di sollecitazioni del governo italiano, costituì un fattore oggettivo di attrazione per popolazioni perseguitate ed impaurite, nonostante il governo italiano si fosse a più riprese adoperato per fermare, o quantomeno contenere, l'esodo. A ciò si aggiunse il deteriorarsi delle condizioni di vita, tipico dei sistemi socialisti, ma legato pure all'interruzione coatta dei rapporti con Trieste - che innescarono il timore per gli italiani dell'Istria di rimanere definitivamente dalla parte sbagliata della "cortina di ferro". In definitiva, le comunità italiane furono condotte a riconoscere l'impossibilità di mantenere la loro identità nazionale - intesa come complesso di modi di vivere e di sentire, ben oltre la sola dimensione politico-ideologica - nelle condizioni concretamente offerte dallo Stato jugoslavo e la loro decisione venne vissuta come una scelta di libertà. In una prospettiva più ampia, l'esodo degli italiani dall'Istria si configura come aspetto particolare del processo di formazione degli Stati nazionali in territori etnicamente compositi, che condusse alla dissoluzione della realtà plurilinguistica e multiculturale esistente nell'Europa centro-orientale e sud-orientale. Il fatto che gli italiani dovettero abbandonare uno Stato federale e fondato su di un'ideologia internazionalista, mostra come nell'ambito stesso di sistemi comunisti le spinte e distanze nazionali continuassero a condizionare massicciamente le dinamiche politiche. La stipula del Memorandum di Londra non risolse tutti i problemi bilaterali, a cominciare da quelli relativi al trattamento delle minoranze, ma segnò nel complesso la fine di uno dei periodi più tesi nei rapporti italo-sloveni e l'inizio di un'epoca nuova, caratterizzata dal graduale avvio della cooperazione di confine sulla base degli accordi di Roma del 1955 e di Udine del 1962 e dallo sviluppo progressivo dei rapporti culturali ed economici. Nonostante i loro contrasti, già a partire dalla stipula del Trattato di Pace, i due paesi, l'Italia e la Jugoslavia, avevano avviato rapporti sempre più stretti, tali da rendere a partire dagli anni Sessanta tardi il loro confine il più aperto fra due Paesi europei a diverso ordinamento sociale. L'apporto delle due minoranze fu a tale proposito del massimo rilievo. Tutto ciò concorse, dopo decenni di accesi contrasti, ad avviare sia pure fra temporanee ricadute, i due popoli verso una più feconda collaborazione.

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- Giorgio Rustia critica il documento.

Dopo quasi dieci anni di studi, una Commissione storica mista, nominata dai governi delle Repubbliche italiana e slovena, nel luglio del 2000 ha presentato al nostro Ministero degli Affari Esteri una relazione congiunta "su i rapporti italo-sloveni dal 1880 al 1956". Gli uffici della Farnesina non hanno ritenuto opportuno pubblicare questo lavoro (negandogli così i crismi del riconoscimento ufficiale), cosicché dopo complesse vicende giornalistiche, esso è stato pubblicato, in forma semiclandestina, il 4/4/2001, dai quotidiani triestini "Il Piccolo" e "Primorski Dnevnik". Il documento è stato oggetto di diverse vantazioni tra le quali hanno prevalso quelle negative, e tra esse la più dura è stata quella del professor Antonio Sema, apparsa nel supplemento al n°9 del periodico semestrale "Tempi e Cultura" edito dall'Istituto Regionale per la Cultura Istriano-Fiumano-Dalmata. Il professore ha concluso il suo intervento lamentando che, contrariamente ai suoi auspici, i membri italiani della Commissione, "sfortunatamente, non hanno operato né da storici italiani né da storici competenti." Dopo un periodo d'oblio in cui il lavoro pareva definitivamente sepolto nel dimenticatoio delle cose mal riuscite, ultimamente si sono avute, tra alcune Associazioni storico-culturali triestine, delle riunioni informali e riservate, nelle quali è stata esaminata, peraltro senza successo, la possibilità di coagulare un consenso, evidentemente più politico che scientifico, sulla ricostruzione storica proposta dal documento. Il 12 aprile 2002, l'Istituto per gli incontri mitteleuropei di Gorizia, ha organizzato a Gradisca "un convegno a carattere seminariale" allo scopo di dibattere il citato documento, nato dai lavori della Commissione mista. In pieno contrasto con i principi del metodo della ricerca scientifica, principi dai quali la ricerca storica non può di certo prescindere, gli invitati al dibattito sono stati oculatamente scelti in modo da evitare la presenza di studiosi che avessero già affrontato il tema o, peggio, avessero dato sulla relazione della Commissione mista, un giudizio non positivo. Infatti gli organizzatori si sono ben guardati dall'invitare il professor Antonio Sema. Infine, nel mese di maggio di quest'anno, è uscita nelle librerie l'opera dell'Assessore alla Cultura della Provincia di Torino, Gianni Oliva, intitolata "Foibe. Le stragi negate degli Italiani" che tratta proprio degli avvenimenti della Venezia Giulia nel XX secolo. In questo libro, a parte una serie di incredibili affermazioni tragicamente esilaranti come Pola, Parenzo e Capodistria che fino al 1925 si sarebbero chiamate Pula, Porek(!) e Koper, detta relazione, benché non riconosciuta dal Ministero degli Esteri italiano e fieramente contestata da più parti, viene citata ripetutamente, come se i suoi contenuti avessero ormai assunto la dignità di dogmi. Evidentemente è in atto un ambiguo tentativo di dare surrettiziamente dignità scientifica ad un lavoro nato, cresciuto e concluso allo scopo di piegare la verità storica ad esigenze politiche. 

Pertanto questa nota intende proporre una serie di elaborazioni demografiche e di informazioni ricavate dalla storiografia accademica, le quali dimostrano come non poche affermazioni sottoscritte dai membri italiani della Commissione, prof. Giorgio Conetti, giurista; prof.ssa Maria Paola Pagnini, geografa; sen. Lucio Toth, magistrato; prof. Fulvio Salimbeni, prof. Giorgio Ara, prof. Raoul Pupo e prof. Marina Cattaruzza, storici, siano palesemente infondate.


Le affermazioni che saranno esaminate e confutate sono:
1) La "espansione demografica", asserita ma in realtà inesistente, che nel periodo 1880-1910 si sarebbe verificata tra la popolazione slovena della Venezia Giulia;
2) La conquista, asserita ma del tutto immaginaria, da parte degli sloveni della maggioranza della popolazione, nella città di Gorizia (definita imminente) ed in quella di Trieste (definita inevitabile, seppur in tempi più lunghi) ove non ci fosse stata la Grande Guerra;
3) L'esistenza, asserita ma del tutto smentita dai dati demografici, nella città di Trieste, di una popolazione slovena numericamente superiore a quella di Lubiana ed il "ruolo centrale" che, in conseguenza di tale dato immaginario il capoluogo giuliano avrebbe avuto per lo sviluppo dei programmi economici degli sloveni.
4) La "pulizia etnica", asserita ma in realtà mai avvenuta, che sarebbe stata operata dall'Italia ai danni degli slavi negli anni 1919-21, il cui collegamento con le persecuzioni politiche del fascismo sarebbe "bene evidente".
5) La definizione, assolutamente errata, dell'incendio dell' Hotel Balkan di Trieste come "primo atto di una lunga sequenza di violenze" interetniche nella regione.
6) Le richieste di "autonomia culturale" avanzate dagli sloveni allo Stato italiano prima di porsi, verso la metà degli anni Trenta, l'obiettivo del distacco da esso dei territori considerati etnicamente slavi. 
7) La riduttiva quantificazione della violenza dell'occupazione iugoslava della Venezia Giulia, che avrebbe trovato "espressione in centinaia di esecuzioni sommarie immediate le cui vittime vennero in genere gettate nelle foibe". 
8) Le generiche ed ovattate motivazioni dell'Esodo istriano ed i "numerosi episodi di violenza", le "intimidazioni e gli arresti" che sarebbero stati operati dalla Repubblica italiana a Gorizia e nella Slavia veneta, contro "gli sloveni le persone favorevoli alla Jugoslavia" e le "difficoltà" che il clero sloveno avrebbe incontrato nei rapporti con le autorità civili e religiose italiane. 


Come correttezza vuole, molte di queste osservazioni sono state inoltrate circa un anno fa, ai due più autorevoli membri italiani della Commissione. Non si e avuto alcun cenno di risposta. La risposta, invece, è giunta da un illustre cattedratico al quale dette osservazioni erano state inviate anche per ottenere una critica sulle metodologie statistico-demografiche usate nell'analisi dell'evoluzione della popolazione slovena della Venezia Giulia nel periodo 1880-1910. Detta risposta non solo ha confermato la sostanziale correttezza delle elaborazioni statistico-demografiche presentate in questa nota, ma anche la piena condivisione del giudizio negativo sulla relazione presentata dalla Commissione mista italo-slovena.


L' ESPANSIONE DEMOGRAFICA DELLA POPOLAZIONE SLOVENA DELLA VENEZIA GIULIA NEL TRENTENNIO 1880-1910


Nella prima parte della relazione intitolata "Periodo 1880-1918", in merito alla composizione etnica della regione e dei suoi centri, si sostiene che: 
"..etnicamente mista era solo la città di Gorizia, dove il numero degli sloveni era però crescente, tanto da far ritenere ad autori politici sloveni alla vigilia del 1915 che il raggiungimento di una maggioranza slovena nella città isontina fosse ormai imminente.
Trieste era maggioranza italiana, ma il suo circondario era sloveno. Anche in questo caso la popolazione slovena appariva in ascesa."

I dati numerici dei censimenti austro-ungarici, ricavati dalle opere di Sator ("Le popolazioni della Venezia Giulia", editore Darsena, Roma, 1946) e di Guerrino Perselli ("I censimenti della popolazione dell'Istria, con Fiume e Trieste e di alcune città della Dalmazia tra il 1880 e il 1936", editori, il Centro di Ricerche Storiche di Rovigno e l'Università Popolare di Trieste, 1993), ci consentono di ricostruire con precisione la composizione etnica della regione e la sua evoluzione nel tempo. La tabella N° 1

Tabella n.1

ed il relativo diagramma, illustrano, ripartita nei diversi distretti componenti la regione, come la popolazione slovena sia variata quantitativamente e percentualmente, rispetto al decennio precedente, nel trentennio in esame.
Dai dati esposti emerge:
- nel periodo 1880-1890, una "espansione demografica" pari al 3,4 ;
- nel periodo 1890-1900, una "espansione demografica" pari al 2,7 ; 
- nel periodo 1900-1910, una "espansione demografica" pari al 20,8.
Si osserva inoltre, per tutto il periodo, ma nel decennio 1900-1910 in particolare, che questa "espansione demografica" si verifica solamente in alcuni distretti, mentre in altri essa proprio non si manifesta o addirittura, come nel caso del distretto di Tarvisio, si ha una diminuzione significativa (-29 rispetto al 1900 e - 37 rispetto al 1880). I distretti in cui questa "espansione demografica" si manifesta maggiormente nel trentennio 1880-1910, sono:
- Trieste "espansione demografica" di 30.653 unità (+ 116,7 )
- Gorizia "espansione demografica" di 22.352 unità (+ 36,3 )
- Volosca/Abbazia "espansione demografica" di 6.922 unità (+ 67,9)
- Capodistria "espansione demografica" di 3.544 unità (+ 12,5)
- Pola "espansione demografica" di 2.392 unità (+ 178,9)
In questi cinque distretti si manifesta il 91,6% ( 65.863 su 71.924) di tutta la "espansione demografica" riscontrata nel trentennio 1880 - 1910. Per chiarire la natura di questa "espansione demografica", è stato applicato il metodo che consente di ripartire l'aumento totale della popolazione nella quota dovuta al saldo attivo tra natalità e mortalità ed in quella dovuta all'immigrazione. Si è operato come segue ( tabella N°2).

Tabella n.2

Il numero totale di sloveni censiti in regione nel 1880 (254.870 unità), è stato moltiplicato per il coefficiente di variazione demografica naturale del decennio 1880-1890 (Saldo tra natalità e mortalità, pari all' 1,350%) e si è ottenuto così il totale teorico della popolazione slovena derivante dal solo incremento naturale, pari a 258.311 unità, corrispondente ad un aumento di 3.411 unità. Poiché la popolazione slovena effettivamente censita nel 1890 risulta essere di 263.463 unità, appare evidente come l'incremento reale registrato di 8.539 unita sia dovuto alle già indicate 3.411 unità conseguenti al saldo attivo tra natalità e mortalità ed a 5.152 unità immigrate dalle altre regioni dell'Impero. Considerando il decennio 1890 - 1900 ed applicandovi lo stesso calcolo si ottiene:
- la popolazione slovena teorica, per effetto della sola differenza tra natalità e mortalità, avrebbe dovuto attestarsi su un totale di 261.728 unità mentre la popolazione slovena realmente censita raggiunge le 270.557 unità con un aumento di 7.094 persone.
- questo aumento risulta dovuto per 3.417 unità all'effetto della differenza tra natalità e mortalità, mentre per 3.677 unità è ancora dovuto all'immigrazione dalle altre regioni slave dell'Impero.
Infine considerando il decennio 1900 - 1910 ed applicandovi lo stesso metodo di calcolo, si ottiene:
- la popolazione slovena teorica, per effetto della sola differenza tra natalità e mortalità, avrebbe dovuto attestarsi su un totale di 266.445 unità mentre la popolazione slovena realmente censita raggiunge le 326.794 unità con un aumento di 56.247 persone.
-questo aumento risulta dovuto per 4.717 unità all'effetto della differenza tra natalità e mortalità, mentre per le restanti 51.530 unità è ancora dovuto all'immigrazione dalle altre regioni slave dell'Impero.
Considerando tutto il trentennio 1880 - 1910, nel quale appunto si sarebbe verificata la cosiddetta "espansione demografica" degli sloveni, si ottiene che:
-la popolazione slovena della Venezia Giulia, per effetto della sola differenza tra natalità e mortalità, è aumentata di 11.575 unità;
-la stessa popolazione, per effetto dell'immigrazione dalle altre regioni slovene dello Impero, e aumentata di 60.359 unità;
-l' incremento della popolazione slovena per effetto dell'immigrazione rappresenta l'84% dell'incremento totale.
Questi dati dimostrano, senza ombra di dubbio che nel trentennio in esame non si verificò alcuna "espansione demografica" della popolazione slovena ma che la Venezia Giulia fu sottoposta ad una vera e propria invasione pianificata e realizzata dall'imperial-regio governo al fine di sovvertire la sua composizione etnica, aumentando le popolazioni slave.
PERCIO' LA DEFINIZIONE DI "ESPANSIONE DEMOGRAFICA" DATA A QUESTA OPERAZIONE DI IMPORTAZIONE DI SLOVENI NELLA VENEZIA GIULIA E' INDISCUTIBILMENTE ERRATA E FUORVIANTE, PERCHE' TENDE A CREARE UN INESISTENTE "DIRITTO NATURALE" DI ESSI SULLA REGIONE L'ACCETTAZIONE Dl TALE DEFINIZIONE DA PARTE DEGLI STORICI ITALIANI DELLA COMMISSIONE MISTA, CONFERMA IL GIUDIZIO DEL PROF SEMA ESSI NON SI SONO COMPORTATI NE' DA STORICI ITALIANI. NE' DA STORICI COMPETENTI. LA CONQUISTA DELLA MAGGIORANZA DELLA POPOLAZIONE, DA PARTE DEGLI SLOVENI, NELLE CITTA' DI GORIZIA E DI TRIESTE. 


Continuando nella sua esposizione, la relazione, ad un certo punto afferma:
"La loro espansione demografica (cioè degli sloveni nds) li portava a ritenere imminente il momento della conquista della maggioranza della popolazione a Gorizia e, inevitabile, sia pure in tempi più lunghi, un risultato analogo a Trieste." 
Per valutare con serietà la fondatezza di queste affermazioni sulla conquista, da parte degli sloveni, della maggioranza della popolazione a Gorizia ed a Trieste, è necessario ricorrere nuovamente ai metodi di studio scientifici, ancorandoci a dati quantitativi e rifuggendo dalle suggestioni letterarie. Nella città di Gorizia, nel 1880, gli sloveni erano 3.420 su una popolazione totale di 20.920 abitanti. Costituivano il 16,3% degli abitanti. Dopo trent'anni, nel 1910, essi erano diventati 10.868 con un non disprezzabile aumento del 218% e costituivano il 35,1% della popolazione totale che intanto era salita a 30.995 unità. Come risulta dall'analisi dell'effetto immigrazione sulla popolazione slovena di Gorizia, illustrato nella tabella-diagramma n.3,

Tabella n.3

nel trentennio 1880 -1910, gli sloveni di questa città aumentarono, per effetto del saldo attivo tra natalità e mortalità, di 46 unità nel decennio 1880-1890, di altre 46 unità nel decennio 1890-1900 e di 63 unità nel decennio 1900-1910. Per effetto dell'immigrazione da altre regioni slave dell'Impero, essi aumentarono di 101 unità tra il 1880 ed il 1890, di 1.218 unità tra il 1890 ed il 1900, ed infine di ben 5.974 unità tra il 1900 ed il 1910. Complessivamente, nel trentennio, essi aumentarono quindi di 155 unità per effetto del saldo attivo tra natalità e mortalità, mentre altri 7.293 di essi (pari al 98% dell'aumento totale della popolazione slovena) immigrarono in Gorizia dalle altre regioni slave dell'Impero e costituirono il dato numerico rilevante della asserita "espansione demografica" degli sloveni. Chiarito quindi che a Gorizia tale "espansione demografica" altro non fu che un'immigrazione tendendo a snazionalizzare la città, appare evidente che a causa del solo effetto del saldo attivo tra natalità e mortalità, valutabile sulle 200 unità al decennio (10.868 abitanti X 1,802) gli sloveni avrebbero dovuto attendere più di 210 anni per conquistare la maggioranza della popolazione a Gorizia, sempre nell'ipotesi di crescita naturale nulla della popolazione italiana. Appare ancora evidente che questa conquista della maggioranza della popolazione di Gorizia, ritenuta imminente dagli sloveni, avrebbe potuto realizzarsi solamente continuando ad importare sloveni dalla Carniola ad un ritmo ancora più elevato di quello del decennio 1900-1910. Infatti, ove nel decennio 1910-1920, ovviamente in assenza del primo conflitto mondiale, fosse continuata l'importazione di sloveni dalle altre regioni dell'Impero al ritmo di 6.000 unità in dieci anni, la popolazione totale di Gorizia avrebbe raggiunto quota 40.000 mentre gli sloveni non avrebbero superato quota 17.000, rimanendo ancora al di sotto del 50% della popolazione totale. Sorge il sospetto che, per raggiungere il loro obiettivo, gli sloveni avessero in mente di ricorrere ad altri mezzi. Mezzi, tanto per intenderci, del tipo di quelli usati nei confronti delle popolazioni italiane di Capodistria, Isola e Pirano che come vedremo, furono letteralmente cancellate da queste città dopo la seconda guerra mondiale. Il sospetto che l'uso di tali mezzi nei confronti degli italiani, mezzi peraltro già efficacemente usati dai croati contro la nostra gente della Dalmazia fino dalla conclusione della terza guerra per l'indipendenza del 1866, si consolida passando ad analizzare la situazione di Trieste, esposta nella tabella n.4. 

Tabella n.4

In questa città, nel 1880, gli sloveni erano 2.817 su una popolazione totale di 74.544 abitanti. Costituivano il 3,8% degli abitanti totali. Dopo trent'anni, nel 1910, essi erano diventati 20.358 (+17 541 persone) con un non disprezzabile aumento del 623% e costituivano il 12,6% della popolazione totale che intanto era salita a 160.933 unità. Come risulta dall'analisi dell'effetto immigrazione sulla popolazione slovena di Trieste, nel trentennio dal 1880 al 1910, questo gruppo etnico era aumentato per l' incremento demografico naturale, cioè per il saldo attivo tra la natalità e la mortalità, di sole 206 unità, mentre per effetto dell'immigrazione in città di sloveni provenienti dalle altre regioni slave dell'Impero, era aumentato di ben 17.335 unita. Insomma, anche a Trieste, era stata applicata la solita ed ormai collaudata politica del governo imperial regio di spostare i sudditi delle etnie fedeli all'Augusto Sovrano, in questo caso gli sloveni, nelle terre abitate da etnie riottose ed insofferenti al fine di ridurle alla ragione snazionalizzandole. Chiarito quindi che anche a Trieste la asserita "espansione demografica" degli sloveni altro non era che una immigrazione tendente a snazionalizzare la città ai danni dei suoi abitanti italiani, l'affermazione secondo cui, da parte degli sloveni, sarebbe stata "inevitabile, seppure in tempi più lunghi" la conquista della maggioranza della popolazione, appare in tutta la sua demenzialità. Per effetto del solo saldo attivo tra natalità e mortalità, gli sloveni di Trieste sarebbero aumentati di circa 370 unità ogni decennio (20 358 x 1 802/100) per cui, in assenza di ogni altra perturbazione e nell'ipotesi di crescita zero per la popolazione italiana, detti sloveni avrebbero raggiunto la maggioranza della popolazione di Trieste non prima dell'anno 3.900 ! Continuando, invece, ad importare sloveni al ritmo di 15.000 al decennio ci sarebbero voluti ben 70 ANNI per raggiungere e superare la soglia delle 118.000 unità su cui erano attestati gli italiani, sudditi A.U. e "regnicoli" di Trieste nel 1910. Pertanto, come è stato dimostrato, le affermazioni sulla conquista da parte degli sloveni, della maggioranza della popolazione nelle città di Gorizia e di Trieste, "imminente" la prima ed " inevitabile, seppur in tempi più lunghi" la seconda, sono completamente errate, gravemente fuorvianti e danno solo la prova delle mai riposte mire imperialistiche ed espansionistiche degli sloveni verso i territori italiani. 
LA LORO ACCETTAZIONE DA PARTE DE! MEMBRI ITALIANI DELLA COMMISSIONE MISTA CONFERMA IL GIUDIZIO DEL PROF. SEMA. ESSI NON SI SONO COMPORTATI NE' DA STORICI ITALIANI, NE' DA STORICI COMPETENTI. TRIESTE E GLI SLOVENI. CONFRONTO QUANTITATIVO TRA LA MINORANZA SLOVENA DELLA CITTA' E GLI ABITANTI DI LUBIANA. RUOLO CENTRALE DI TRIESTE NEI PROGRAMMI ECONOMICI DELLA MINORANZA SLOVENA


Continuando nella sua esposizione, la relazione afferma:
"Gli sloveni perseguono l'idea di una Trieste capace di alimentare l'attuazione dei loro programmi economici e sottolineano il ruolo centrale per il loro sviluppo di questa città, la cui popolazione slovena sebbene minoritaria era superiore a quella della stessa Lubiana, in ragione della diversa consistenza demografica delle due città."
L'affermazione secondo cui la popolazione slovena di Trieste sarebbe stata superiore a quella della stessa Lubiana, pur basandosi su un presupposto esatto (cioè la diversa consistenza demografica delle due città) è completamente sbagliata. Essa dimostra come sia facile, quando non si lavori su dati quantitativi ma ci si abbandoni a deduzioni ed induzioni letterario-filosofiche, incappare in clamorosi errori, assolutamente ingiustificati ed ingiustificabili. Nelle tabella n.5

Tabella n.5

è esposto il confronto tra la popolazione slovena di Trieste e quella di Lubiana (questa ultima ricavata dal libro "Razvoj prebivalstva na obmocju Ljubljane", di Igor Vrizer, edito dal Knjiznica Kronike nel 1956 e donato alla Biblioteca Civica di Trieste dal Mestni Arhiv di Lubiana nel 1957). Osservando i dati di confronto tra i due centri si vede che, nel 1880 gli abitanti di Lubiana (22.105) superavano gli sloveni di Trieste (2.817) di 19.288 unità. Nel 1890, c'era ancora una differenza di 16.333 (24.897 contro 8.568) unità a favore degli abitanti di Lubiana, che nel 1900. diventava di 19.779 (25.942 contro 6.163) unità. Nel 1910, dopo l'immigrazione nel centro urbano di Trieste di ben 14.195 sloveni a partire dal 1900, la differenza tra gli abitanti di Lubiana e gli sloveni della nostra città, pur riducendosi sensibilmente, rimaneva ancora di 14.141 unità. L'opera del Vrizer non indica la quota di cittadini non sloveni sicuramente esistente tra i suoi abitanti e ciò, apparentemente, costituisce un limite all'attendibilità del confronto esposto. Il limite, invece, è solo apparente perché, ove si voglia accettare per vero il dogma della popolazione slovena di Trieste superiore alla popolazione slovena di Lubiana, bisogna riconoscere che gli sloveni di Lubiana non potevano superare, nel 1880, le 2.816 unità; nel 1890, le 8.563 unità; nel 1900, le 6.163 unità ed infine, nel 1910, le 20.357 unità. Ciò però significa ammettere che, rispetto alla popolazione totale della loro attuale capitale, gli sloveni di Lubiana rappresentavano, nel 1880 una quota inferiore al 13%; nel 1890, una quota inferiore al 35% ; nel 1900 una quota inferiore al 24% e nel 1910 una quota inferiore al 60%. Ciò significherebbe avallare l'immagine del popolo sloveno come quella di un popolo di villici, pastori e bifolchi, senza storia e senza città. In ogni caso una presenza slovena cosi minoritaria in Lubiana toglierebbe evidentemente ogni valore alle rivendicazioni degli sloveni su Trieste. Smentita inoppugnabilmente l'affermazione secondo cui gli sloveni abitanti nella nostra città sarebbero stati superiori come numero a quelli residenti a Lubiana, ci sono da fare delle altre considerazioni quantitative per confutare la tesi del "ruolo centrale" che Trieste avrebbe esercitato per il loro sviluppo economico, in ragione dell'elevato numero di sloveni che la abitavano. Abbiamo visto come il decennio in cui si manifestò l'invasione immigratoria slava nella Venezia Giulia fu quello compreso tra il 1900 ed il 1910. Orbene, considerando i dati del censimento austro-ungarico del 1900 esposti nella tabella n.6

Tabella n.6

emerge chiaramente che i centri della nostra regione con maggior numero di abitanti sloveni erano: 
- Idrìa con 8.515 abitanti sloveni pari al 98,7 della popolazione totale; 
- Trieste con 6.163 abitanti sloveni pari al 4, 6 della popolazione totale; 
- Chirchina con 5.808 abitanti sloveni pari al 99,9 della popolazione totale; 
- Gorizia con 4.754 abitanti sloveni pari al 18,7 della popolazione totale, 
- S. Martino Q. con 4.351 abitanti sloveni pari al 99,7 della popolazione totale; 
- Tolmino con 4.265 abitanti sloveni pari al 98,9 della popolazione totale. 


Quindi Trieste, oltre a non avere più abitanti sloveni di Lubiana, non era nemmeno la località della Venezia Giulia in cui abitava il maggior numero di sloveni. Quindi, se, come sostiene la relazione, fosse stato l'elevato numero di abitanti sloveni a svolgere il ruolo centrale per l'attuazione dei loro programmi economici, nel 1900, Idria sarebbe stata ben più idonea, a questo scopo, di Trieste, cosi come Chirchina lo sarebbe stata maggiormente di Gorizia e S. Martino di Quisca e Tolmino avrebbero dovuto esercitare un richiamo pari a quello del capoluogo isontino. Invece, dai dati dei censimenti si rileva che, al termine del decennio, nel 1910, la fiumana dell'immigrazione di oltre 20.000 sloveni non si era diretta verso Idria, Chirchina, San Martino di Quisca e Tolmino, ma si era riversata verso le grandi città italiane della regione. Infatti: 
- Idria aumentò di 520 unità raggiungendo i 9.035 abitanti sloveni.
- Chirchina aumentò di 228 unità raggiungendo i 6.036 abitanti sloveni.
- S. Martino Q aumentò di 247 unità raggiungendo i 4.598 abitanti sloveni. 
- Tolmino aumentò di 321 unità raggiungendo i 4.586 abitanti sloveni.
- Trieste aumentò di 14.195 emigrati sloveni, portando il loro totale a 20.358.
- Gorizia aumentò di 6.036 emigrati sloveni; portando il loro totale a 10.790.
In realtà gli interessi convergenti degli Asburgo (contrastare l'irredentismo italiano nella Venezia Giulia) e degli sloveni (scendere dalle montagne inospitali e spingersi verso le pianure fertili ed il mare) si fusero e diedero origine alla calata del popolo senza storia e senza città, verso Trieste e Gorizia. Quindi l'affermazione, secondo cui Trieste aveva una popolazione slovena superiore a quella della stessa Lubiana, è palesemente contraria al vero ed errata. Altrettanto contraria al vero ed errata è la tesi, sostenuta dalla relazione, secondo cui Trieste avrebbe esercitato un ruolo centrale per lo sviluppo economico degli sloveni in funzione della loro asserita, ma non vera elevata presenza tra la sua popolazione.
L'ACCETTAZIONE DI TALI TESI DA PARTE DEI MEMBRI ITALIANI DELLA COMMISSIONE MISTA CONFERMA IL GIUDIZIO DEL PROF. SEMA. ESSI NON SI SONO COMPORTATI NE' DA STORICI ITALIANI NE' DA STORICI COMPETENTI. L'INIZIO DELLA VIOLENZE INTERETNICHE NELLA VENEZIA GIULIA.


Trattando le vicende che vanno del 1918 al 1941, la relazione sostiene che:.
"Nel luglio del 1920, l'incendio del Narodni Dom, la sede delle organizzazioni slovene di Trieste - che trasse pretesto dagli incidenti di Spalato e che provocarono vittime sia italiane sia Jugoslave - non fu così che il primo, clamoroso atto di una lunga sequela di violenze."
Se i membri italiani della Commissione mista fossero stati dei lettori del quotidiano triestino "II Piccolo", dalla copia del 24 maggio 1995 (cinquantesimo anniversario dell' entrata in guerra dell'Italia contro l'Impero Asburgico) avrebbero appreso che in tale occasione scoppiarono "moti popolari" contro l'ex alleato triplicista, in quanto la dichiarazione di guerra scatenò i "gruppi anti italiani" i quali incendiarono la sede de II Piccolo, devastarono i locali della Società Ginnastica Triestina, della Lega Nazionale e saccheggiarono caffè e negozi gestiti da italiani. Ciò forse avrebbe riportato alla loro memoria che le violenze contro i giornali contro le associazioni sportive e culturali italiane e contro gli esercizi commerciali dei nostri connazionali, nel periodo intercorso tra la terza guerra di indipendenza e la prima guerra mondiale, furono una costante che si verificò ripetutamente Quando l'anarchico italiano Lucheni assassinò vilmente la consorte dell' Imperatore Francesco Giuseppe, benché i circoli liberal-nazionali italiani fossero assolutamente agli antipodi dei principii anarchici, i cosiddetti "gruppi anti italiani" di Trieste non badarono a queste differenze e si scatenarono contro di essi in quanto espressione dell'anima italiana della città. Comunque fu nel mese di luglio 1868, cioè quasi 52 anni prima dell'incendio dell' Hotel Balkan, che, come scrive la studiosa Tullia Catalan dell'istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia nell'opera collettanea "Storia del 900": "iniziarono i primi scontri tra italiani e sloveni." E non furono incidenti di poco conto, anche se la studiosa dell'Istituto storico resistenziale di Trieste afferma che "l'esito tragico dello scontro tra i liberali ed i territoriali sloveni fu la morte accidentale di Rodolfo Parisi figlio di Giuseppe Parisi, proprietario di una rinomata casa di spedizioni cittadina." Non furono scontri di poco conto perché in essi non morì solamente Rodolfo Parisi (e la sua morte non fu accidentale come sostiene la Catalan perché l'autopsia rilevò sul suo cadavere ben 26 colpi di baionetta!), ma altri due italiani Francesco Sussa ed Emilio Bernardini, perirono nei giorni seguenti a causa delle ferite ricevute. Inoltre furono feriti, più o meno gravemente, Ignazio Puppi, Giobatta Lucchini Giovanni Krammer, Pietro Bellafronte, Antonio Rustia. Emilio Rupnik, Edoardo Offacio, Giulio Cazzatura, Giacomo Katteri, Giuseppe Santinelli, Pietro Mosettig, Giovanni Stancich, Giuseppe Benporath della Comunità Ebraica cittadina, Teodoro Damillo. Nicolo Modretzky, Gaspare Hans cittadino svizzero Giovanni Schmutz, Edgardo Rascovich, Angelo Crosato, Luigi Grusovin ed Ernesto Ehrenfreund, 
QUINDI L'AFFERMAZIONE CHE L'INCENDIO DELL'HOTEL BALKAN FU IL PRIMO ATTO DI UNA LUNGA SEQUELA DI VIOLENZE INTERETNICHE NELLA VENEZIA GIULIA E' PALESEMENTE CONTRARIA AL VERO. IL FATTO CHE I MEMBRI ITALIANI DELLA COMMISSIONE L'ABBIANO ACCETTATA COME VERA CONFERMA IL GIUDIZIO EMESSO DAL PROF. SEMA. SOTTOSCRIVENDOLA ESSI NON SI SONO COMPORTATI NE' DA STORICI ITALIANI, NE' DA STORICI COMPETENTI. IL PRESUNTO ESODO DEGLI SLOVENA E DEI CROATI DALLA VENEZIA GIULIA ALLA FINE DEL PRIMO CONFLITTO MONDIALE. 


Continuando nell'esposizione dei fatti, ad un certo punto la relazione afferma:
"Secondo stime Jugoslave emigrarono complessivamente 105.000 sloveni e croati; e se nei casi di emigrazione transoceanica è più difficile tracciare un confine fra motivazioni economiche e politiche, nel caso di espatrii in Jugoslavia, che coinvolsero soprattutto giovani e intellettuali, il collegamento diretto con le persecuzioni del fascismo è ben evidente." 
Ancora una volta è necessario verificare la fondatezza di queste enunciazioni, ed ancora una volta, per chiarire la loro attendibilità, ci vengono in aiuto i dati quantitativi dei censimenti che sono esposti nella tabella N° 7

Tabella n.7

che confronta le variazioni della popolazione slovena della Venezia Giulia, suddivisa nei relativi distretti di appartenenza, nei periodi che vanno dal 1880 al 1910 e dal 1910 al 1921.Per tutta la durata del primo periodo, la regione fu soggetta all'amministrazione austroungarica, mentre al termine del secondo periodo, ad essa era subentrata, da tre anni, l'amministrazione italiana, cosicché, dalla differenza tra la popolazione slovena censita nel 1910 e quella censita nel 1921, si può ricavare un'indicazione quantitativa dell'asserito esodo cui sarebbero stati obbligati gli sloveni, nei tre anni immediatamente successivi alla fine della prima guerra mondiale. Si vede dai dati esposti come la popolazione slovena della Venezia Giulia, che nel 1910 era composta da 326.794 unità, nel 1921 fosse passata a 258.927,con una diminuzione di 67.867 unità pari al 26,6% del totale originario del 1910. Non si può però trascurare il fatto che tra il 1880 ed il 1910, detta popolazione avesse registrato un incremento di 71.924 unità, pari al 28,2% del totale originario del 1880, per cui, considerando il saldo tra gli sloveni presenti in regione al 31/12/1880 e quelli presenti al 31/12/1921, si deve prendere atto che il loro totale, in questo periodo, era comunque aumentato di 4.057 unità. A livello dei singoli distretti si nota che, come nel trentennio 1880-1910, ben l' 81% dell'immigrazione slovena nella Venezia Giulia si era verificata nel distretti di Trieste, di Gorizia e di Pola, così, nel 1921, da questi stessi distretti, partì il 79% del totale dell'emigrazione slovena dalla regione. E' già stato dimostrato come l'incremento del trentennio 1880-1910 (surrettiziamente definito "espansione demografica" dalla relazione), altro non sia stato che un'importazione selvaggia di sloveni nella nostra regione, per cui dall'analisi attenta dei dati quantitativi forniti dai censimenti, si ricava che questo asserito esodo degli sloveni fu solo il rimpatrio di tutta la moltitudine di funzionari, impiegati e manovalanza sloveni che il governo imperial-regio aveva fatto calare nella nostra regione. Ma non basta. 
Gli studiosi della Commissione storica mista italo slovena, che automaticamente hanno trasformato la differenza totale tra gli sloveni censiti nella Venezia Giulia nel 1910 e quelli censiti nel 1921, nell'ammontare delle vittime dell'asserita violenza dello stato italiano nei confronti della popolazione slovena, evidentemente non hanno tenuto conto del fatto che, tra le due date di confronto, ci fu la Prima Guerra Mondiale con i suoi 8,5 milioni di soldati caduti, tra i quali ben 1,2 milioni dell'Esercito Austro-ungarico, cui si aggiunsero, nel 1919, gli effetti devastanti della "febbre spagnola", che costò alla sola popolazione italiana, ben 300.000 morti in un anno. In ogni caso, anche non volendo considerare questi due eventi, il richiamo al presunto "esodo" degli sloveni alla fine della Prima Guerra Mondiale per controbilanciare la reale pulizia etnica subita dagli italiani dell'Istria, come vedremo nella tabella N° 7

Tabella n.7

è vergognosamente insultante e derisorio. I diagrammi ed i dati di questa tabella non hanno bisogno di alcun commento in quanto danno chiaramente ed inequivocabilmente la rappresentazione di come non ci sia stato alcun esodo da parte degli sloveni alla fine della Prima Guerra Mondiale (la loro percentuale sul totale della popolazione della Venezia Giulia si ridusse di 6,5 punti percentuali) e di quale invece sia stata l'ampiezza della brutale pulizia etnica esercitata dagli sloveni sulla popolazione italiana delle cittadine rivierasche dell'Istria occidentale (la percentuale degli abitanti italiani sul totale della popolazione si ridusse di 80 punti percentuali). Vale ancora la pena di ricordare che il Partito Nazionale Fascista ottenne la guida di un governo di coalizione solo dopo la cosiddetta "marcia su Roma" (28 ottobre 1922) che si avviò a diventare una dittatura dopo la promulgazione della legge elettorale maggioritaria del 23/12/1923 e lo divenne dopo il discorso pronunciato da Mussolini alla Camera il 3 gennaio 1925. Non si comprende come un partito che alle elezioni del mese di novembre del 1919 non riuscì ad ottenere nemmeno un seggio per insediare il suo "Duce" al Parlamento, e che in quelle del giugno 1921, ne ottenne appena 35. abbia potuto realizzare, senza aver alcun potere, al di fuori di quello delle manifestazioni di piazza, una politica di persecuzione etnica verso gli slavi, tale da farne fuggire ben 105.000 dalla Venezia Giulia. Parlare quindi di esodo degli slavi in genere e degli sloveni in particolare per effetto delle persecuzioni del regime avrebbe significato solo se esistessero dei dati dai quali risulti che dopo il rimpatrio dei 105.000 slavi registrato col censimento del 31/12/1921, altri 105.000 slavi abbiano lasciato la nostra regione. In realtà i dati non esistono ed alcuni Autori accennano ad un censimento riservato del 1939 (condotto dai segretari e dagli impiegati comunali sulla base della diretta conoscenza delle famiglie delle città e delle zone rurali) che avrebbe rivelato una presenza proporzionale di sloveni e croati ancora molto alta rispetto al totale della popolazione italiana. "Da questo punto di vista (cioè della snazionalizzazione nds), conclude un'Autrice gravitante nell'orbita degli istituti storici resistenziali, dunque si registra un fallimento." Non è quindi affatto evidente quale sia il collegamento diretto tra il rimpatrio dei 105.000 sloveni e croati, avvenuto tra il 1919 ed il 1921, e le persecuzioni del fascismo, proprio perché il regime si instaurò ben 4 anni dopo il 31/12/ 1921, data entro la quale il rimpatrio di sloveni e croati era già avvenuto. 
FUORVIANTE ED ERRATA QUINDI L'ATTRIBUZIONE DELLE CAUSE DEL RIMPATRIO DEGLI SLAVI DOPO LAPRIMA GUERRA MONDALE, ALLE VIOENZE DELLO STATO ITALIANO. L' ACCETTAZIONE SUPINA DI QUESTA TESI, DA PARTE DEI MEMBRI ITALIANI DELLA COMMISSIONE MISTA, CONFERMA IL GIUDIZIO DEL PROF.SEMA. FIRMANDOLA, ESSI NON SI SONO COMPORTATI NE' DA STORICI ITALIANI, NE' DA STORICI COMPETENTI. L' AUTONOMIA CULTURALE RIVENDICATA DAGLI SLOVENI.

L' AUTONOMIA CULTURALE RIVENDICATA DAGLI SLOVENI.

Proseguendo nella lettura della relazione si apprende che: 
"Di fronte alla durezza della repressione fascista, le organizzazioni clandestine slovene, assieme a quella dei fuoriusciti in Jugoslavia, decisero, verso la metà degli anni Trenta, di abbandonare le rivendicazioni di autonomia culturale nell' ambito dello stato italiano per porsi invece come obiettivo il distacco dall'Italia dei territori considerati etnicamente sloveni e croati. Come risposta a tale attività di resistenza, il Tribunale speciale per la difesa dello stato comminò molte condanne a pene detentive e 14 condanne capitali, 10 delle quali eseguite." 
Tali affermazioni sono assolutamente contrarie al vero.
Infatti le mire imperialistiche slave sulla Venezia Giulia, manifestate attraverso la formulazione del confine etnico all'Isonzo e perfino al Tagliamento, risalgono al 1843, quando da Zagabria vennero diffuse in tutta l'Europa le carte etnografiche di F. Drog-Seijan. Erano passati appena 35 anni da quando il Kopitar aveva scritto la prima grammatica della lingua slovena e poco meno da quando Ljudevit Gay aveva fissato i fondamenti della lingua letteraria croata e gli intellettuali di questi due popoli slavi avevano già avanzato le loro rivendicazioni espansionistiche verso terre dove essi, particolarmente sulla costa, erano un'infima minoranza. 
Infatti, mentre Matija Ban, sul giornale croato di Ragusa "L'Avvenire" scriveva che l'Adriatico era per eccellenza un mare slavo dall'Isonzo all'Albania, la situazione demografica dei centri costieri, da Trieste a Pirano, tanto per riferirsi alte sole pretese slovene, era quella esposta nella tabella N° 8.

Tabella n.8

 Da essa, appare di un'evidenza solare che nei centri urbani bagnati da quello che Matija Ban, definisce un "mare slavo", gli slavi tutti, cioè sloveni, serbi e croati, rappresentavano solo il 3,5 della popolazione totale! Considerando non solo i centri urbani rivieraschi, ma anche i loro circondari, evidentemente abitati da contadini e non certo da pescatori e marinai la situazione, sempre nel 1880, è quella esposta nella tabella N° 9. 

Tabella n.9

Gli sloveni non rappresentano più numericamente la terza minoranza come nei centri urbani (cioè dopo gli italiani sudditi del Regno e dopo i tedeschi), e passano ad essere numericamente la prima minoranza che supera appena il 18% della popolazione. I serbo-croati, invece, rimangono sempre la quarta minoranza attestata sullo 0,4% della popolazione. Ciò però, non impedì al croato Eugen Kvaternik di scrivere sul suo diario, nel 1859, questa frase che è illuminante sulle pretese imperialistiche ed espansionistiche degli slavi: "I porci italiani sono bramosi di possedere l'Istria litoranea. Per Dio. non avverrà almeno finché ha vita un solo croato!" 
Un altro esempio delle cosiddette "rivendicazioni di autonomia culturale" degli sloveni, è fornito dal loro quotidiano "Edinost" di Trieste, che, nel gennaio 1911, scrisse: 
"la nostra lotta è per il dominio....Non la abbandoneremo mai fino a quando non avremo sotto i piedi, ridotta in polvere, l'italianità di Trieste...che si trova agli sgoccioli e festeggia la sua ultima orgia prima della morte. Noi sloveni inviteremo, domani, questi votati alla morte a recitare il confiteor." 
Come si vede nella tabella N° 10

Tabella n.10

dopo la rilevante importazione di sloveni avvenuta nel trentennio 1880-1910, essi avevano raggiunto il 12,6% nel centro urbano (dove nel 1880 erano il 3,8%), il 31,5% nei sobborghi (dove nel 1880 erano il 21,9%) ed il 91,4% sull'altopiano (dove nel 1880 erano l'89,9%). Nel totale del comune di Trieste (dove nel 1880 erano il 18,1%) essi avevano raggiunto il 24,8% contro il 68,6% degli italiani, rimanendo comunque largamente minoritari. Ciononostante gli intellettuali slavi avevano stabilito, e proclamavano apertamente, il loro programma per la "soluzione finale" del problema italiano. I VOTATI ALLA MORTE (cioè gli italiani della Venezia Giulia) SAREBBERO STATI INVITATI A RECITARE IL CONFITEOR ! E si badi bene che l'enunciazione del genocidio degli italiani, realizzato in seguito ma già pianificato allora, avvenne quando la Venezia Giulia era sotto la amministrazione austro-ungarica, Benito Mussolini era un capo socialista e non aveva ancora fondato il Fascismo, alle cui persecuzioni gli slavi, mentendo, attribuiscono la responsabilità dei conflitti interetnici nella nostra regione. Interessante anche l'intervento del dottor Giuseppe Wilfan, tenuto il 31 maggio 1918 all'Hotel Balkan di Trieste. Su di esso così scrisse, una settimana dopo, il "Lavoratore", organo dei socialisti triestini: 
"L'avvocato Wilfan è stato di una limpidità sorprendente: Trieste e tutto il litorale appartengono alla madre jugoslava, ed in ciò NON CONOSCIAMO COMPROMESSO DI SORTA CON ALCUNO .'...se vogliamo incorporare Trieste nella futura Jugoslavia non lo facciamo per sradicare gli italiani da queste terre,ma perché consideriamo questi paesi come terra jugoslava... Dalle foci dell'Isonzo sino all'ultima cittadella dalmata E' SLAVO IL MARE CHE VI SI ESTENDE !" Dimostrato quindi che gli slavi, da sempre, considerarono e pretesero come loro anche delle terre in cui erano un'infima minoranza, resta da vedere quali furono le modalità con cui richiesero la loro "autonomia" all'interno dello Stato italiano. Tralasciando gli assassini del maresciallo della Guardia di Finanza, Postiglione, della guardia regia Giuffrida, del finanziere Plutino, del carabiniere Cecchin, della guardia regia Poldu, del tenente Spanò e del sergente Sessa, avvenuti a Trieste; quello del finanziere Stanganelli avvenuto a Postumia, del brigadiere dei Carabinieri Ferrara avvenuto a Pola e quello del soldato Palmerindo avvenuto a Carnizza, che, per la loro collocazione negli anni 1920-1922 possono essere attribuibili sia ad una matrice di scontro politico che interetnico, non si può ignorare ciò che avvenne nella Venezia Giulia, a partire dall'estate del '24, quando, risolto il contenzioso con il governo di Belgrado, si passò alla delimitazione del confine da parte di una delegazione italo-jugoslava. Nelle notti tra il 25 ed il 26 maggio e tra il 22 ed il 23 giugno furono attaccati, fortunatamente senza vittime, i posti della Guardia di Finanza di Coterdasnizza e di Molini. La notte successiva all'assalto del posto di guardia di Molini, una banda di una ventina di armati, provenienti da oltre confine, attaccarono il corpo di guardia del valico confinario di Unez, uccidendone il comandante, il sottobrigadiere Lorenzo Greco. Nell'aprile del 1926 fu attaccata a scopo di rapina la stazione ferroviaria di Prestrane. Nel vero e proprio combattimento sviluppatesi, furono uccisi il ferroviere Ugo Dal Fiume e la guardia di finanza Domenico Tempesta. Nel mese di luglio 1926 fu appiccato il fuoco al bosco del Littorio a Trieste, mentre in novembre ci fu un attentato dinamitardo alla caserma di San Pietro del Carso, nel quale, orrendamente dilaniato, trovò la morte Antonio Chersevan, e rimasero gravemente feriti Francesco Caucich ed Emilio Crali. Nella notte del 10 febbraio 1927, presso il castello di Raunach ci fu un'imboscata ad una pattuglia di militi e nella sparatoria rimasero feriti Andrea Sluga e Francesco Rovina. Nel maggio 1927 fu tesa, sulla strada tra Postumia e San Pietro del Carso, un'altra imboscata ad una di queste pattuglie, ed in essa rimase ferito il milite Cicimbri e, il 29 dicembre di quell'anno fu incendiato il Ricreatorio di Prosecco. Nell'aprile del 1928, ancora a Prosecco, fu incendiata la scuola elementare, nel maggio dello stesso anno fu incendiata quella di Cattinara e fu tentato l'incendio dell'asilo infantile dell'Opera Nazionale Italia Redenta di Tolmino. Il 3 agosto 1928, fu assassinata a tradimento la guardia municipale di San Canziano, Giuseppe Cerquenik. Alla fine dello stesso mese fu incendiato il ricreatorio della Lega Nazionale di Prosecco, e, dopo pochi giorni, ai primi di settembre, fu incendiata la scuola di Storie Infine, il 22 settembre, a Gorizia, furono uccisi lo studente Coghelli (che aveva abbandonato le organizzazioni irredentistiche slovene) ed il milite Ventin che aveva cercato di fermare l'assassino del Coghelli. Nel 1929, le violenze slave si manifestarono, in gennaio, con la devastazione dell'asilo infantile di Fontana del Conte, mentre nel marzo ci fu l'assassinio, a Vermo, di Francesco Tuchtan. Il responsabile dell'omicidio, tale Vladimiro Gortan, reo confesso, fu processato e giustiziato, come sarebbe avvenuto in qualsiasi altro stato del mondo, a chi si fosse macchiato di un omicidio. Nel giugno 1929, si ebbe l'incendio della scuola di Smogliani, nel luglio l'attentato alla polveriera di Prosecco, in novembre la rapina all'ufficio postale di Ranziano ed in dicembre, i tentati omicidi dell'agente Curet a S. Dorligo della Valle e della guardia Francesco Fonda. 
L'inizio del 1930 non si rivelò meno tragico: in gennaio ci fu l'attentato al Faro della Vittoria a Trieste, in febbraio fu incendiato l'asilo infantile di Corgnale e fu assassinato a Cruscevie il messo comunale Goffredo Blasina. 
Il 10 febbraio ci fu l'attentato dinamitardo al Popolo di Trieste, in cui perse la vita lo stenografo Guido Neri e furono feriti gravemente i correttori di bozze Dante Apollonio, Giuseppe Missori ed il fattorino Marcelle Bolle. I quattro responsabili dell'attentato, rei confessi, furono processati e giustiziati, come sarebbe avvenuto, in quell'epoca, in qualsiasi altro Stato del mondo. 
Nel maggio del 1930, vennero uccisi a San Dorligo della Valle, oggi Dolina, i coniugi Marangoni ed infine, nei primi giorni di settembre, in uno scontro a fuoco con dei terroristi sloveni che cercavano d'introdursi in regione, fu uccisa la guardia alla frontiera Romano Moise e il suo commilitone, Giuseppe Caminada, rimase gravemente ferito. 
Questo lungo elenco di attentati e di assassini, in parte realizzati ed in parte tentati, è stato ricostruito dalla stampa dell'epoca ed è certamente incompleto.
Tuttavia esso dimostra inequivocabilmente come una parte degli sloveni della regione non avesse alcuna rivendicazione di "autonomia culturale" da presentare al Regno d'Italia, ma perseguisse, con l'arma del terrorismo indiscriminato, già dal 1924, una prospettiva di guerra civile nella regione al fine di sottrarla alla sovranità italiana, col pretesto di considerare "etnicamente sloveni e croati" dei territori nei quali, in realtà, sloveni e croati erano larghissimamente minoritari. Alla luce di tutto ciò si confermano assolutamente contrarie al vero, sia l'affermazione secondo cui:
- "le organizzazioni clandestine slovene decisero, verso la metà degli anni Trenta, di abbandonare le rivendicazioni di autonomia culturale per porsi invece come obiettivo il distacco dall'Italia dei territori considerati etnicamente sloveni e croati." 
sia quella secondo cui:
-"Il Tribunale speciale per la difesa dello stato comminò 14 condanne capitali, 10 delle quali eseguite. 
Le condanne capitali pronunciate contro gli appartenenti alle organizzazioni terroristiche nazionaliste iugoslave, TIGR e Borba, furono cinque (Vladimiro Gortan, Luigi Valencic, Francesco Marusic, Zvonimiro Milos e Ferdinando Bidovec) e furono tutte eseguite entro il settembre 1930. 
Altre nove condanne alla pena capitale, furono pronunciate nel dicembre 1941, e cinque furono eseguite, in un contesto completamente diverso. Era già iniziata la seconda guerra mondiale, la Jugoslavia era smembrata e gli imputati facevano parte, non di organizzazioni nazionaliste slave ma di organizzazioni comuniste slave.
Particolare forse secondario, ma certamente curioso, è che uno dei quattro condannati cui il Tribunale speciale fascista concesse la grazia nel dicembre 1941, l'agronomo Antonio Schuka, nel maggio 1945 fu prelevato dagli stessi titini, e, dopo un breve soggiorno nel campo di concentramento di Prestranek, fu fatto sparire per sempre in qualche foiba sconosciuta.
QUINDI, L'ACCETTAZIONE DI QUESTE AFFERMAZIONI, DA PARTE DEI MEMBRI ITALIANI DELLA COMMISSIONE MISTA, CONFERMA PIENAMENTE IL GIUDIZIO DEL PROF. SEMA. ESSI NON SI SONO COMPORTATI NE' DA STORICI ITALIANI, NE' DA STORICI COMPETENTI.

L' OCCUPAZIONE JUGOSLAVA (1945) DI TRIESTE E DELL'ISTRIA.

Come conclusione della parte intitolata "Periodo 1941-1945, la relazione dice:
"...i giuliani favorevoli all'Italia considerarono l'occupazione jugoslava come il momento più buio della loro storia, anche perché essa si accompagnò nella zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano ad un'ondata di violenza che trovò espressione nell'arresto di migliaia di persone, parte delle quali venne in più riprese rilasciata -in larga maggioranza italiani, ma anche sloveni contrari al progetto politico comunista jugoslavo- in centinaia di esecuzioni sommarie immediate -le cui vittime vennero in genere gettate nelle foibe- e nella deportazione di un gran numero di militari e civili, parte dei quali perì di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferimenti nelle carceri o nei campi di concentramento creati in diverse zone della Jugoslavia." 
L'affermazione secondo cui l'ondata di violenza abbattutasi alla fine della guerra sulla Venezia Giulia in seguito all'occupazione iugoslava avrebbe trovato espressione in centinaia di esecuzioni sommarie, le cui vittime sarebbero state gettate nelle foibe, ci dà la conferma che i membri italiani della Commissione mista, sull'argomento "foibe", ignorano perfino le notizie giornalistiche degli ultimi anni. Essi, ad esempio, sono all'oscuro del recupero di 400 chili di ossa umane, effettuato da speleologi capodistriani da alcune grotte dei dintorni di quella città, annunciato il 22 luglio 1992 dal quotidiano locale nella pagina "Istria, Litorale e Quarnero". 
L'11 settembre dello stesso anno, in occasione del rinvenimento di una quindicina di corpi umani in una grotta a San Daniele del Carso, lo stesso quotidiano confermò la notizia dei ritrovamenti di Capodistria, scrivendo:"C'é il sospetto che la Slovenia pulluli di grotte che nascondono resti d'infoibati. In luglio una commissione di speleologi sloveni ha concluso un'operazione di recupero dei resti umani nel Capodistriano portando alla luce oltre quattro quintali di ossa." 
L'argomento ritornò alla ribalta della cronaca nella primavera del 2000, quando la stampa locale riprese l'accorato appello lanciato al Convegno regionale di Speleologia del Friuli-Venezia Giulia, dal capo degli speleologi sloveni che avevano effettuato i recuperi. Tra l'altro, nella sua relazione, l'uomo dichiarò pure che i 400 chili di ossa recuperati erano solo la "punta dell'iceberg" di quelli ancora giacenti. 
La semplice lettura dei quotidiani avrebbe dovuto far dubitare i membri italiani della Commissione sulla esiguità della quantificazione delle vittime degli infoibamenti espressa in "centinaia" di persone. 
Tuttavia, anche in assenza di tale informazione, non si comprende come mai nemmeno uno dei componenti italiani della Commissione sia stato a conoscenza di quanto scritto sull'argomento, non da un giornalista qualsiasi, ma da uno studioso delle vicende giuliane quale il professor Diego de Castro, allora professore ordinario nell'Università di Torino, nonché consigliere politico del governo italiano a Trieste. 
Già nel settembre 1945, egli aveva steso una serie di rapporti sull'argomento intitolati "Italian prisoners in Yugoslav camps", "Yugoslav atrocities and abuses in Venezia Giulia, Fiume and Zara" e "The ravines of death". Proprio in questo ultimo rapporto vi è la denuncia, chiara ed incontestabile, degli infoibamenti al Pozzo della Miniera di Basovizza e dei recuperi di grandi quantità di resti umani effettuati da tale tragico sito, dagli Alleati sino dall'estate 1945.
Il professore, in ogni sua opera, ha sempre ribadito questa denuncia, talché essa appare sia in "Il problema di Trieste", Cappelli, Bologna, 1952, sia in "Trieste. Cenni riassuntivi sul problema giuliano nell'ultimo decennio", Cappelli, Bologna, 1953.
In particolare, nel volume "Il problema di Trieste", con pazienza certosina, il professore espone nella nota n.1 delle pagine 171 e 172 del quinto capitolo intitolato "L'occupazione iugoslava nella Venezia Giulia", una lunga serie di riesumazioni desunte dalle cronache giornalistiche dell'epoca. 
Egli inizia dicendo: "Nella Zona A della Venezia Giulia, nel novembre 1945, cominciarono, da parte di squadre di giovani, le esplorazioni delle foibe. L'elenco che segue non è completo. Altre foibe furono trovate ed altre vittime riesumate. Quella di Basovizza era stata, già in precedenza, esplorata dagli Alleati che nel luglio ed agosto 1945, avevano tratto fuori, mediante una benna, 450 metri cubi di resti umani." 
E l'anno successivo, lo stesso professore, nel suo "Trieste. Cenni riassuntivi sul problema giuliano nello ultimo decennio", ribadisce sia i recuperi di 450 metri cubi di resti umani dalla foiba di Basovizza, sia gli altri recuperi, dicendo: 
"Altre foibe, innumerevoli, furono trovate col loro raccapricciante contenuto di resti umani tormentati o semplicemente uccisi; un elenco spaventosamente lungo e abbastanza preciso, se non completo, si trova nel mio volume "Il problema di Trieste" da cui sono tratte queste note."
Anche ammettendo che tutti i membri italiani che hanno firmato il documento della Commissione fossero all'oscuro di quanto scritto dal professor Diego de Castro, è necessario far notare un'altra circostanza che rende veramente inesplicabile la quantificazione delle vittime degli infoibamenti in "centinaia". 
Ai lavori della Commissione, infatti, ha partecipato per un non breve periodo di tempo, il professor Elio Apih, docente di Storia all'Università di Trieste, al quale va il merito di aver reperito per primo, al Public Record Office di Londra, una serie di documenti di fonte anglo-americana e di averne pubblicato il più significativo, anche se dopo avervi apportato alcune censure, a pagina 163 del suo "Trieste. La storia economica e sociale" edito nel 1988 da Laterza. 
Il documento in questione (PRO, FO 371/48953,r. 1085) che fa parte degli atti di un'inchiesta disposta dal Quartier Generale delle forze alleate in Italia, riferisce che:
- "E' stato stabilito, al di la di ogni dubbio, che durante l'occupazione jugoslava di Trieste e del territorio, molte migliaia di persone sono state gettate nelle foibe locali. A Trieste tutti i membri della Questura, della Pubblica Sicurezza, della Guardia di Finanza, dei Carabinieri, della Guardia Civica e combattenti e patrioti del CLN che sono stati presi dagli Iugoslavi, sono stati arrestati e gettati nelle foibe (...) Basovizza. E' stato riferito che vi sono state gettate circa 800 persone." - "Il 2 maggio egli (il testimone, un sacerdote sloveno nds) andò a Basovizza (...) vide in un campo vicino circa 150 civili (......). Tutti i 150 vennero fucilati in massa (...) e, in seguito, in quanto non c'erano bare, vennero gettati nella foiba." -"Il 3 maggio (...) vide nello stesso posto circa 250-300 persone. La maggior parte erano civili. C'erano soltanto circa 40 soldati tedeschi (...) Queste persone vennero uccise dopo un processo sommario. Nella maggior parte erano civili arrestati a Trieste." 
Poiché appare estremamente improbabile che nemmeno uno dei componenti italiani della Commissione abbia letto le opere dei professori de Castro ed Apih, e comunque, anche se ciò fosse avvenuto, è assolutamente da escludersi che quest'ultimo, nel corso dei lavori, abbia taciuto i risultati delle sue ricerche, non si comprende come essi abbiano potuto accettare una quantificazione delle vittime così riduttiva. 
Com'é errato e fuorviante quantificare le vittime delle foibe in centinaia, altrettanto errato e fuorviante è l'inciso riguardante gli sloveni, contrari al regime comunista, che avrebbero trovato la morte assieme agli italiani. Nella zona di Gorizia e di Trieste, tra migliaia e migliaia di scomparsi, le vittime slovene delle foibe non superano, quantitativamente qualche decina di persone. Tra esse, oltre al già citato Antonio Schuka, vanno ricordati Stana Bardule e Mario Cech-Cecchi di Basovizza, Mario Baus, Danilo Mackiewycz di Trieste, Dora Ciok di Longera, Francesco Jazbar di Idria, Stanislava Kravos di Gorizia ed Errich Sprinar di Montespino. 
In realtà, gli sloveni ed anche i croati contrari al regime comunista assassinati alla fine della seconda guerra mondiale furono centinaia di migliaia, ma la loro tragedia si compì in zone ben lontane dalla Venezia Giulia. Come testimoniato dagli articoli della "Voce del Popolo" di Fiume sulla messa funebre celebrata l' 8 luglio 1990 dall'arcivescovo di Lubiana, Alojz Sustar alla presenza dell'attuale presidente della Repubblica di Slovenia, negli abissi della foresta di Kocevje furono infoibati sicuramente 11.000 militari sloveni, 2.400 serbi, 4.500 russi e 18.000 croati, tutti anticomunisti. 
Essi si erano arresi agli inglesi in Carinzia e furono da questi consegnati ai titini, come quasi tutti coloro che fuggivano dalla Jugoslavia per sottrarsi al terrore comunista. Come testimoniato dall'articolo "Foibe, rivelazioni dei responsabili", apparso sul Piccolo del 30 novembre 1994, l'abisso di Podutik, nei dintorni di Lubiana, fu la tomba per un migliaio di esseri umani. La decomposizione dei corpi, però, portò all'inquinamento delle fonti d'acqua e costrinse gli stessi assassini, dopo qualche settimana, a recuperare le salme e sotterrarle nella vallata vicina. 
Nell' estate del 1999, dopo che nell'inverno precedente la televisione italiana aveva mostrato le immagini del fondo della foiba di Montenero d'Idria ricoperto da cumuli di ossa umane, e sul "Piccolo" erano apparse delle fotografie dalle quali anche il fondo della foiba di Casali Nemci, presso Tarnova, appariva in tali condizioni, la "Voce del Popolo" di Fiume diede la notizia che, nei lavori di costruzione della tangenziale di Maribor, erano stati ritrovati dei resti umani. 
Per la precisione, in settanta metri di scavi eseguiti dove durante la guerra c'era una fossa anticarro lunga dai 2,5 ai 3 chilometri, erano riemersi ben 700 scheletri. Avevano così drammatica ed incontestabile conferma, le denunce, rilasciate sin dall'immediato dopoguerra, dalla stampa dei fuoriusciti jugoslavi in cui, oltre al massacro di decine di migliaia di prigionieri a Rajenburg, Kamnik e nei pozzi abbandonati delia miniera di Brastnik, si citava esplicitamente che ben "40.000 cadaveri giacciono nelle fosse comuni intorno a Maribor." 
L'AVER ACCETTATO LA TESI SECONDO CUI LE VITTIME ITALIANE DEI MASSACRI AVVENUTI A FINE GUERRA, SOMMARIAMENTE PRECIPITATE NELLE FOIBE, SAREBBERO QUANTIFICABILI IN CENTINAIA, E L'AVER TACIUTO IL DRAMMATICO AMMONTARE DELLE VITTIME NON ITALIANE CHE SUBIRONO LA STESSA TREMENDA, INUMANA SORTE, CONFERMA PIENAMENTE IL GIUDIZIO DEL PROFESSOR SEMA SUI MEMBRI ITALIANI DELLA COMMISSIONE MISTA ITALO-SLOVENA. ESSI NON SI SONO COMPORTATI NE' DA STORICI ITALIANI, NE' DA STORICI COMPETENTI.
CAUSE DELL'ESODO ISTRIANO E PERSECUZIONI ITALIANE SUGLI SLOVENI DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE.


In conclusione, la relazione non può esimersi dall'accennare all'esodo degli istriani schiacciati sotto le efferate violenze del regime comunista titino. In merito a ciò, essa afferma: "Complessivamente nel corso del dopoguerra l'esodo dai territori istriani oggi soggetti alla sovranità slovena coinvolse più di 27.000 persone vale a dire la quasi totalità della popolazione italiana ivi residente..." 
Esponendo le ragioni di questo esodo la relazione usa delle espressioni molto ovattate quali: "l'impedimento della libera espressione dell'identità nazionale", "il rigetto dei mutamenti nell'egemonia nazionale e sociale nell'area","la ripulsa nei confronti delle radicali trasformazioni introdotte nell'economia", non mancando di accennare, di sfuggita "all'azione propagandistica di agenzie locali filoitaliane, anche in assenza di sollecitazioni del governo italiano.." 
Parlando invece, del ritorno dell'Italia a Gorizia, la relazione denuncia che il reinserimento della città nello stato italiano "fu accompagnato da numerosi episodi di violenza contro gli sloveni e contro le persone favorevoli alla Jugoslavia." 
Riferendosi poi alla posizione degli sloveni abitanti nelle valli del Natisone e del Resiano e dalla Val Canale, la relazione dice che gli assertori degli orientamenti politici filo-jugoslavi "furono fatti oggetto di intimidazioni ed arresti, e in alcuni casi di atti di violenza da parte di gruppi estremisti e formazioni paramilitari." 
Ed essa aggiunge ancora: "Anche il clero sloveno incontrò difficoltà sia con le autorità civili sia con quelle religiose diocesane nel riaffermare il proprio ruolo di riferimento per l'identità degli sloveni." 
Non si capisce come la relazione abbia ritenuto doveroso sottolineare queste asserite "violenze" ai danni degli sloveni ed abbia sottaciuto invece l'azione terroristica svolta dalle cosiddette "autorità popolari" (che si giovarono persino di italiani ideologicamente loro affini) e che portò alla eliminazione fisica di centinaia e centinaia di italiani di Capodistria, Isola e Pirano nel maggio-giugno 1945.
Eppure, è certo che
- nei primi giorni dell' ottobre 1945 a Berlocchi, una banda di sloveni titini massacrò quattro persone della famiglia Pizziga; 
- il 30 ottobre 1945, ci fu a Capodistria uno sciopero contro il furto legalizzato costituito dall'introduzione della jugolira, e che detto sciopero fu selvaggiamente represso dagli sloveni con la devastazione dei negozi italiani del centro della cittadina e con il bestiale linciaggio pubblico di Angelo Zardi e Francesco Reichstein. 
Altrettanto certi sono i rapimenti con relativa scomparsa che dura a tutt'oggi, operati dagli sloveni, ai danni dei seguenti italiani della Venezia Giulia: 
- Mario Marcosig, nato a Mossa di Capriva nel 1922. di professione muratore, rapimento avvenuto a Gorizia il 18 agosto 1945;
- Andrea Margarita, nato a Piedimonte del Calvario nel 1899. possidente, prelevato in via Diaz a Gorizia il 20 settembre 1945;
- Luigi Tracanelli, nato a Codroipo nel 1926, studente, prelevamento avvenuto nel febbraio 1946 a Osoppo;
- Giovanni Carta, nato a Fiume nel 1925, agente della Polizia Civile, rapimento avvenuto al posto di blocco di Albaro Vescovà il 24 marzo 1946; 
- Domenico Passalacqua, nato a Partinico (PA) nel 1901, medico condotto di San Dorligo della Valle, rapito dall'O.Z.N.A. il 4 giugno 1946; 
- Luigi Maffezzoni; nato a Piubega (MN) nel 1895, impiegato del comune di San
Dorligo della Valle, rapito il 13 luglio 1946; 
- Edoardo Devetach, già internato in Germania, impiegato presso l'amministrazione alleata a Comeno, rapimento ivi avvenuto il 25 agosto 1946;
- Vincenzo Meo, nato in provincia di Chieti nel 1898, prelevato a Gorizia il 3 settembre 1946. 
Non meno tragica sorte toccò, nell'Istria amministrata dagli sloveni, a:
- Mario Musizza, da Isola d'Istria, arrestato dalla polizia segreta UDBA e "trovato" impiccato nella sua cella delle carceri di Capodistria il 29 marzo 1948; 
- Piero Minca, nato a Capodistria nel 1898, di professione tipografo, arrestato il 5 marzo 1951 per aver avuto un diverbio con un "druze" della Difesa Popolare, consegnato cadavere ai suoi famigliari, tre giorni dopo, perché pure lui "si era impiccato". 
Passando alle valli del Natisone, dove, secondo la relazione si era instaurato un clima di intimidazione e di violenze ai danni degli sloveni, la Commissione ha taciuto nel settembre del 1945, furono assassinati il dr. Giuseppe Penasa, medico condotto e sindaco di S. Leonardo del Natisone e sua moglie Giuseppina, nata Cepparo. L'uomo aveva ripetutamente denunciato i delitti commessi dagli "assertori degli orientamenti politici filo iugoslavi", cioè di quella banda di criminali slavocomunisti, denominata Beneska Ceta, comandata dal ben noto Mario Sdraulig, che aveva terrorizzato la zona con omicidi e rapine durante e dopo la guerra. 
Sempre restando nella cosiddetta Benecia dove secondo la relazione, la minoranza slovena veniva brutalmente vessata dalla Repubblica Italiana, 
- la bambina decenne Ludmilla Mauri, il 4 dicembre del 1947, fu uccisa a raffiche di mitra da un soldato sloveno, sulla sponda dello Judrio, "perché tentava di espatriare"; 
- Silvio Buttolo nato ad Uccesa di Resia (Gorizia) nel 1925, l'11 settembre 1950 fu ucciso a fucilate dai gendarmi sloveni mentre, munito di regolare permesso, stava raccogliendo legna in un bosco nei pressi del confine.
Sul Carso triestino, a Draga Sant' Elia, due gitanti triestini, Pierina Panicari e Vittorio Di Pompeo, che la domenica 3 settembre 1951 avevano inavvertitamente sconfinato di pochi metri nel territorio della Zona B, furono uccisi entrambi a raffiche di mitra dai gendarmi sloveni. 
La relazione, come abbiamo visto, asserisce ancora che il clero sloveno avrebbe incontrato delle difficoltà nei rapporti con le autorità civili italiane.
Benché dette "difficoltà" non siano state chiaramente esplicitate, difficilmente esse furono superiori o paragonabili a quelle incontrate dal parroco di San Daniele del Carso, don Antonio Satej, assassinato dai partigiani sloveni il 26 settembre 1943; dal parroco di Poggio S. Valentino (Gorizia), don Luigi Obid, prelevato dai partigiani sloveni il 2 gennaio 1944, dal diacono della diocesi di Gorizia, Rodolfo Trcek, assassinato a Montenero d'Idria il primo settembre 1944, dai sacerdoti di Chirchina, don Ladislao Piscanc e don Lodovico Sluga, assassinati a Chirchina il 5 febbraio 1945; dal parroco di Brja (Gorizia), don Ernesto Bandelj assassinato il 18 aprile 1945; dal parroco di San Giovanni di Sterna, don Casimiro Paich, assassinato a S. Croce di Gorizia il 29 aprile 1945 o dal parroco di Goregna di Salona (Gorizia), don Isidoro Zavadiav, assassinato dai partigiani sloveni il 17 settembre 1946.
Quelli furono tempi molto duri per il clero slavo, ma solo per la parte di esso che rimase soggetta alla sovranità degli sloveni e dei croati, federati nella Repubblica comunista di Jugoslavia. 
Infatti da mano titino-croata, furono assassinati, solo nel dopoguerra, il parroco di Elsane, don Vittorio Perkan, (ucciso il 9 maggio 1945 mentre si trovava al cimitero ad officiare un servizio funebre); il curato di Villa Gardossi, don Francesco Bonifacio, prelevato e fatto sparire l'11 settembre 1946 ed il parroco di Mompaderno, don Miroslavo Bulesic, che fu assassinato a Lanischie il 24 agosto 1947. Nella stessa occasione, Monsignor Ukmar, si salvò solo perché ritenuto già morto. 
Ad ogni buon conto, anche Mons. Ukmar fu successivamente processato e condannato ad un mese di prigione per gli incidenti avvenuti quando i titini gli impedirono di cresimare i giovani di Lanischie.
E' incredibile che, da un lato la Commissione mista parli di generiche "difficoltà" incontrate dal clero sloveno nei rapporti con le autorità della Repubblica italiana, e dall'altro nessuno dei suoi membri italiani, a proposito di rapporti tra clero italiano ed autorità slovene, si sia ricordato di ciò che avvenne a Capodistria, il 19 giugno 1947. 
Per ricordarlo a questi immemori, citiamo ciò che ne scrive il professor Diego de Castro nel suo "La questione di Trieste" a pagina 592: "Un terzo episodio, che ebbe grandissima risonanza, per la personalità che ne fu coinvolta, è costituito dall'aggressione al Vescovo di Trieste e di Capodistria, Mons. Antonio Santin, che si era recato nella sua diocesi, cioè a Capodistria per la festa patrono, San Nazario, il 19 giugno 1947, dopo aver chiesto ufficialmente il permesso alle autorità Jugoslave.
Riporto dal libro del Vescovo: Mi trovarono, mi insultarono, gridando che dovevo andarmene. E mi trascinarono violentemente giù per le scale percotendomi con pugni, calci e con legni sulla testa. Arrivai in cortile perdendo mozzetta, rocchetto, croce e scarpe. Ero tutto insanguinato. Mi spinsero e trascinarono, mentre sui muri esterni del cortile gente arrampicata urlava improperi...
Il Vescovo si salvò perché i capodistriani corsero a chiamare la polizia, che intervenne tardi ad arginare la folla, proprio quando un energumeno entrato in cucina aveva preso dal tavolo un gran coltello con cui le suore tagliavano la carne.
E si salvò anche perché una donna del popolo lo avvertì che gli avrebbero offerto di riportarlo in barca a Trieste, allo scopo di gettarlo in mare in mezzo al golfo con una pietra al collo. E la barca gli fu effettivamente offerta. Il Vescovo era stato informato dell'aggressione prima di partire da Trieste: tuttavia era andato a Capodistria da solo per non mettere in pericolo la vita di altre persone che l'accompagnassero."
AVER SOTTACIUTO TUTTE LE PERSECUZIONI. LE VIOLENZE, LE RAPINE E GLI OMICIDI CHE GLI SLOVENI INFLISSERO AGLI ITALIANI DELL'ISTRIA, CAMUFFANDOLE COME L'IMPEDIMENTO ALLA LIBERA MANIFESTAZIONE DELL'IDENTITÀ' NAZIONALE, E NEL CONTEMPO L' AVER ACCREDITATO PER VERA UNA PRESUNTA, MA MAI AVVENUTA PERSECUZIONE DEGLI SLOVENI IN ITALIA NEL SECONDO DOPOGUERRA, SOSTENENDO PERFINO DELLE MAI AVVENUTE PERSECUZIONI RELIGIOSE E DIMENTICANDO LA BRUTALE AGGRESSIONE SLOVENA AL VESCOVO DI TRIESTE E CAPODISTRIA, SONO CONFERME DIRETTE ED INCONTESTABILI AL GIUDIZIO DATO DAL PROF. SEMA SUI MEMBRI ITALIANI DELLA COMMISSIONE. ESSI NON SI SONO COMPORTATI NE' DA STORICI ITALIANI, NE' DA STORICI COMPETENTI.

CONCLUSIONI PROPOSTE.

E' stato dimostrato che la relazione della Commissione mista è inficiata da una serie di errori clamorosi. Ciò è particolarmente grave in un lavoro che, secondo la coopresidente slovena Milica Kazin Wohinz, dovrebbe rappresentare "il punto di partenza per il dialogo e la riconciliazione" tra i due popoli vicini. 
La relazione, invece,contrariamente alle dichiarate buone intenzioni della Kazin, raggiunge lo scopo diametralmente opposto. Essa pare scritta apposta per alimentare il risentimento e l'odio reciproco tra gli sloveni e gli italiani. 
Ad esempio, essa, sostenendo contro ogni evidenza storico-demografica,che Gorizia e Trieste, senza la Grande Guerra, sarebbero diventate "naturalmente" due città slovene, alimenta il risentimento e l'odio degli sloveni verso gli italiani "usurpatori" di due loro città. Analogamente, tutte le affermazioni della relazione demolite con il presente studio, convincono il lettore sloveno che il suo popolo è stato una vittima degli italiani e lo inducono ad odiarli almeno fino a quando essi non avranno pagato il loro debito morale. 
E' vero che un lettore italiano, ignorante delle vicende della Venezia Giulia e credulone come i componenti italiani della Commissione, potrebbe, leggendola, convincersi dell'esistenza di un "debito morale" dell'Italia verso gli slavi. Ciò potrebbe anche indurlo a riconoscere le "giuste rivendicazioni" slovene su Trieeste e Gorizia, ed a giustificare la feroce pulizia etnica fatta Pirano, Capodistria ed Isola d'Istria e via discorrendo.
Ma non tutti gli italiani sono dei perfetti ignoranti sulle nostre vicende e non tutti sono dei creduloni come i già citati mèmbri italiani di questa Commissione. A parte i dati dei censimenti austroungarici, a smentire le affermazioni della relazione, c'è un'ampia letteratura scritta da storiografi quali Tamborra, Valiani, de Castro, Salvemini, Valussi, che sono studiosi ben più autorevoli ed importanti dei quattro docenti di storia, del giurista, del senatore e della geografa che, con scelta veramente infelice, i passati Governi italiani, hanno incaricato di confrontarsi con i membri sloveni. 
Così, il lettore italiano del documento della Commissione mista che andasse a verificare sui testi dei citati studiosi quale fu il vero svolgersi e concatenarsi degli avvenimenti, troverebbe confermato che gli sloveni, oggi come cento e più anni fa, non hanno riposto le loro mire espansionistiche sui territori italiani e che per loro, l'assassinio terroristico e l'attentato dinamitardo rivolti contro gli italiani, altro non sono che delle legittime manifestazioni di autonomia culturale. 
Insomma, questo documento "storico", anziché indurre nei lettori quel processo psicologico, così mirabilmente descritto dal Manzoni nei personaggi della "festa del perdono", altro non fa che aizzare all'odio entrambe le parti. 
Perciò esso non deve rimanere "congelato" alla Farnesina com'é adesso, ma deve venire pubblicamente sconfessato dal Governo italiano. 
Allo scopo di raggiungere questo obiettivo, cui dovrebbe far seguito una onesta ricostruzione delle vicende della nostra terra (ricostruzione basta sui fatti e non su interpretazioni letterario-filosofiche o peggio, sui desideri personali nati da inclinazioni politiche), il gruppo di studio sottopone i risultati di questa ricerca al giudizio di Enti pubblici, di associazioni socioculturali, di studiosi e di tutti coloro cui sta a cuore la pace e la pacifica convivenza tra i popoli, pronto ad accettare ogni critica fondata ed a discutere ogni punto esposto.

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- Articolo tratto dal Corriere della Sera del 4 aprile 2001.

La relazione italo-slovena: le centinaia di esecuzioni frutto di un progetto politico preordinato
di Francesco Alberti

MILANO - Vengono minuziosamente elencate le colpe del fascismo, accusato di aver cercato di «snazionalizzare» le minoranze slovene e croate presenti nella Venezia Giulia «con una politica repressiva assai brutale», il cui intento finale era quello «di arrivare alla bonifica etnica» della regione. Ma altrettanto severo è il giudizio sulle violenze compiute, dopo l’8 settembre 1943 e la cacciata dei tedeschi dalla Venezia Giulia, dai partigiani comunisti di Tito ai danni degli italiani: si parla di «molte migliaia di arresti», si quantificano «in centinaia» le persone che trovarono la morte nelle foibe (soltanto per quanto riguarda la Slovenia, Croazia esclusa), si ricordano «le deportazioni di un gran numero di militari e civili nelle carceri e nei campi di prigionia creati in Jugoslavia». E si ammette, per la prima volta da parte slovena, che quella dei partigiani titini fu una «violenza di Stato». Viene, inoltre, ricostruito l’esodo degli italiani dall’Istria nel dopoguerra, «oppressi da un regime di natura totalitaria che impediva anche la libera espressione dell’identità nazionale». Sono questi alcuni fra i passaggi più significativi della relazione ufficiale redatta - dopo sette anni di lavoro - dalla commissione italo-slovena istituita dai rispettivi governi per ricostruire la cruenta e controversa storia dei rapporti tra i due Paesi. Da otto mesi inspiegabilmente fermo nei cassetti della Farnesina e del ministero degli Esteri di Lubiana, il lavoro spazia dal 1880 al 1956 e - caso senza precedenti - è stato sottoscritto - dopo contrasti anche accesi - da tutti i 14 storici (7 italiani e altrettanti sloveni) che componevano la commissione. Le 31 pagine della relazione, delle quali il Corriere è entrato in possesso, si articolano in quattro capitoli (1880-1918, 1918-1941, 1941-1945, 1945-1956). 

VIOLENZA FASCISTA.
Il Trattato di Rapallo, firmato nel 1920 tra il regno d’Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni ebbe l’effetto di un fiammifero sulla benzina. «Il Trattato - è scritto nella relazione - accolse in pieno le esigenze italiane e amputò un quarto abbondante dell’area ritenuta dagli sloveni come proprio "territorio etnico"». La politica estera fascista fece il resto: «Nella Venezia Giulia vennero progressivamente eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene e croate, le scuole furono italianizzate, gli insegnanti licenziati o costretti ad emigrare, vennero posti limiti all’accesso degli sloveni nei pubblici impieghi». All’eliminazione politica delle minoranze, si accompagnò da parte del regime mussoliniano un’azione che «aveva l’intento di arrivare alla bonifica etnica della Venezia Giulia». In questo senso, la commissione mista ricorda la repressione attuata nei confronti del clero, che rappresentava un importante momento di sintesi della coscienza nazionale delle minoranze: «Tappe fondamentali dell’addomesticamento della Chiesa di confine furono la rimozione dell’arcivescovo di Gorizia, Francesco Borgia Sedej, e del vescovo di Trieste, Luigi Fogar. I loro successori applicarono le direttive "romanizzatrici" del Vaticano», anche attraverso «l’abolizione dell’uso della lingua slovena nella liturgia e nella catechesi». 


ODIO ANTI ITALIANO.
La prima conseguenza di «questo programma di distruzione integrale delle identità» fu la fuga di gran parte delle minoranze dalla Venezia Giulia: «Secondo stime jugoslave emigrarono 105 mila sloveni e croati». Ma soprattutto si consolidò, agli occhi di queste minoranze, un fortissimo sentimento anti italiano, «l’equivalenza tra Italia e fascismo» che portò «la maggioranza degli sloveni al rifiuto di quasi tutto ciò che appariva italiano». Come reazione, si radicalizzarono gli obiettivi delle organizzazioni clandestine slovene che, verso la metà degli anni Trenta, «abbandonarono le rivendicazioni di autonomia culturale nell’ambito dello Stato italiano per puntare invece al distacco dall’Italia dei territori considerati loro». Un’azione che trovò l’appoggio del Partito comunista italiano. La risposta fascista fu pesante: dopo l’occupazione dei territori jugoslavi nel ’41, il regime «fece leva sulla violenza, con deportazioni nei campi istituiti in Italia (Arbe, Gonars, Renicci), il sequestro di beni e l’incendio di case». 

TERRORE TITINO. 
L’8 settembre ’43 e il successivo ritiro dei tedeschi dalla Venezia Giulia aprirono un’altra stagione di terrore. Il movimento partigiano di Tito scatenò «un’ondata di violenza nella zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano», che portò «all’arresto di molte migliaia di persone, in larga maggioranza italiane, ma anche slovene contrarie al progetto politico comunista jugoslavo»; a centinaia di esecuzioni sommarie immediate nelle foibe; a deportazioni nelle carceri e nei campi di prigionia (tra i quali va ricordato quello di Borovnica)». La commissione, su questo punto, cerca di analizzare il contesto storico che portò a queste efferatezze: «Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e appaiono essere il frutto di un progetto politico preordinato in cui confluivano diverse spinte: l’eliminazione di soggetti legati al fascismo e l’epurazione preventiva di oppositori reali». Il tutto nasceva «da un movimento rivoluzionario (quello titino, n.d.r. ) che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani». 


DOPOGUERRA INCANDESCENTE. 
La fine della guerra e il Trattato di pace non placarono gli animi. Gli italiani «salutarono con entusiasmo il ritorno all’Italia di Trieste»», ma nello stesso tempo «vissero come un evento traumatico la perdita dell’Istria». A loro volta, gli sloveni incassarono con gioia «il recupero del Carso e dell’alto Isonzo», ma mal digerirono «il mancato accoglimento delle loro rivendicazioni su Gorizia e Trieste». Ciò determinò, nelle zone dove venne ripristinata dopo il ’47 l’amministrazione italiana, «atteggiamenti nazionalisti e di violenza contro gli sloveni». Nella Venezia Giulia, divisa in due zone di occupazione, il contesto era diverso. Mentre nella Zona A «il governo militare alleato costituiva soltanto un’autorità di occupazione», nella Zona B «il governo militare jugoslavo rappresentava al tempo stesso anche lo Stato che rivendicava a sé l’area in questione, e ciò ne condizionò l’opera». 


IL GRANDE ESODO. 
Dopo la rottura tra il movimento titino e il Cominform, «esplosero le tensioni» tra i comunisti italiani e quelli jugoslavi. Numerosi esponenti del Pci, la maggior parte dei quali erano accorsi in Jugoslavia attirati dal mito dell’edificazione del socialismo, «subirono il carcere, la deportazione e l’esilio». Nel ’47 la situazione peggiorò perché «le autorità jugoslave, in contrasto con il mandato di occuparsi solo dell’amministrazione provvisoria della zona B, cercarono di forzare l’annessione con una politica di fatti compiuti». Tentarono di «costringere gli italiani ad aderire alla soluzione jugoslava, facendo anche uso dell’intimidazione e della violenza». Un disegno - affermano gli storici - dal quale traspare «palese l’intento di liberarsi degli italiani in quanto ritenuti irriducibili alle istanze del nuovo potere». Nello stesso tempo, però, la commissione sostiene che «allo stato attuale delle conoscenze mancano riscontri certi alle testimonianze - anche autorevoli da parte jugoslava - sull’esistenza di un piano preordinato di espulsione da parte del governo jugoslavo, che pare essersi delineato compiutamente solo dopo la crisi nei rapporti con il Cominform del 1948». Alla fine, si ammette comunque che «da parte jugoslava si vide con crescente favore l’abbandono degli italiani della loro terra d’origine». Gli scoppi di violenza che avvenirono durante le elezioni del 1950, e successivamente la crisi triestina nel ’53, fecero il resto. Il risultato fu l’esodo dai territorio istriani di migliaia di italiani: 27 mila «nelle aree oggi soggette alla sovranità slovena», dai 200 ai 300 mila dalla Croazia. E qui la commissione accenna ad intenti di pulizia etnica da parte slava: «La composizione etnica della Zona B subì rimaneggiamenti anche a causa dell’immissione di jugoslavi in città che erano state quasi esclusivamente italiane». La causa, per gli esperti, fu «l’oppressione esercitata da un regime (quello jugoslavo, n.d.r. ), la cui natura totalitaria impediva l’espressione dell’identità nazionale». La fuga dei nostri connazionali fu anche favorita «dall’esistenza di uno Stato nazionale italiano democratico e attiguo ai confini». Molti dei nostri furono presi dal timore di «rimanere definitivamente dalla parte sbagliata della cortina di ferro».

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