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Gino Paoli: i miei parenti finiti nelle foibe (tratto dal "Corriere della Sera" del 21 dicembre 2005).

Dentro le foibe jugoslave, in segreto. Le inedite rivelazioni di un ex sottotenente del Genio pionieri alpini, «007» per caso nel 1957 (inserimento del 14/12/2005).

Norma Cossetto  (...violentata da 17 aguzzini venne poi gettata nella foiba...). Medaglia d' oro al Merito civile

Annamaria Muiesan (...mio padre prelevato e mai più rivisto...) Il Padre ah ricevuto, in data 08/02/2006, una medaglia

Mafalda Codan (...una scalmanata, con un cucchiaio mi gratta le palpebre gonfie, ferite e chiuse: "Apri gli occhi che te li levo"...).

Don Francesco Bonifacio  (...i titini lo massacrarono di botte e poi lo fecero sparire in una foiba...).

Don Angelo Tarticchio (...scaraventato nudo in una foiba con una corona di spine in testa ed i genitali in bocca...).

Giovanni Radeticchio di Sisiano  (...mi appesero un grosso sasso per mezzo di filo di ferro ai polsi già legati con altro filo di ferro...).

Marija Kukaina  (...attutiti dalla distanza ci arrivavano flebili pianti, lamenti e gemiti...).

Umberto Bertuccioli  (...ho letto la disperazione nei civili italiani condannati senza motivo...).

Graziano Udovisi  - sopravvissuto -  (...infoibati solo perché italiani...).

Leo Marzini e Nidia Cernecca  (...23 salme recuperate a Villa Bassotti...).

Giuseppe Vasi (...fu pulizia etnica...).

Giovanni Lurman  (...spinsero nella foiba due carabinieri vivi...).

Antonio Mechis  (.. non seppi più nulla di mio figlio...).

Giovanni Prendonzani  (...fucilati perché affamati...).

Silvana Spagnol  (...la professoressa Elena Pezzoli venne torturata...).

La famiglia Sverzutti (...un nostro congiunto non è mai più tornato...).

Marisa Brugna (...mio padre salvo grazie ad un suo cugino...).

Renzo De Vidocich (...venivano nelle case, prelevavano ed infoibavano...).

 

 

Gino Paoli: i miei parenti finiti nelle foibe (tratto dal "Corriere della Sera" del 21 dicembre 2005).

La vita e la storia devono essere davvero più complicate di quanto si creda, se accade di scoprire quasi per caso, in fondo a due ore di conversazione, che Francesco De Gregori non è l’unico cantautore simbolo della sinistra (mai rinnegata) ad aver vissuto in famiglia i crimini compiuti dai comunisti, sul confine orientale, al finire della guerra. 
Racconta Gino Paoli che «mio padre, figlio di un operaio analfabeta delle ferriere di Piombino, aveva fatto l’accademia di Livorno ed era arrivato ai cantieri di Monfalcone come ingegnere navale. Là aveva sposato mia madre, che invece veniva da una famiglia benestante, i Rossi. Io sono nato nel 1934 e ho vissuto i primi mesi Monfalcone, poi ci siamo trasferiti a Genova. Dieci anni dopo, parte della famiglia di mia madre morì infoibata. miei parenti non erano militanti fascisti, erano persone perbene, pacifiche. Ma la caccia all’italiano faceva parte della strategia di Tito, che voleva annettersi Trieste e Monfalcone. I partigiani titini, appoggiati dai partigiani comunisti italiani, vennero a prenderli di notte: un colpo alla nuca, poi giù nelle foibe. Mia madre e mia zia non hanno mai perdonato. Mi ricordavano spesso i nomi dei loro cari spariti in quel modo, senza lasciare dietro di sé un corpo, una tomba, una memoria. Peggio: una memoria negata. Per questo mia zia odiava gli jugoslavi; e per me è stata una bella sorpresa, da adulto, andare per la prima volta in Jugoslavia e scoprire che non erano affatto tutti così». Interviene Amanda, la splendida figlia che Paoli ha avuto dal suo amore con Stefania Sandrelli diciottenne: «Papà, ho fatto una lettura pubblica sull’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, e non hai idea di cosa abbiano commesso i nazisti...». «Sì invece Amanda, conosco bene quella storia. È atroce ma, vedi, le atrocità ci sono state da entrambe le parti. È la guerra che rende l’uomo atroce; per questo io odio la guerra. Una parte della nostra famiglia è finita nelle foibe e di queste cose per decenni non si è parlato. E la sinistra porta una responsabilità culturale, perché il partito doveva coprire la connivenza dei partigiani rossi con la strategia di Tito. Vedrai che ci vorrà un altro mezzo secolo perché le passioni si spengano e se ne parli liberamente. Atrocità hanno commesso anche gli alleati che risalivano l’Italia. Le truppe d’assalto avevano il diritto, riconosciuto per iscritto, di saccheggiare e stuprare: e le truppe d’assalto erano per gli americani i neri, per i francesi i marocchini, per gli inglesi gli indiani. Le conseguenze le hanno patite le donne italiane, finché queste truppe non si sono attendate al Tombolo, in Toscana, in un accampamento frequentato da femmine alla disperata ricerca di cibo, finché non sono arrivati gli americani ad arrestare tutti. Io stesso, Amanda, dovetti scendere dal treno che ci riportava a Genova e passare tra le macerie di Recco distrutta dal bombardamento alleato - non avevo ancora dieci anni - camminando tra due pile di cadaveri. È un ricordo indelebile. Per questo, quando le due torri crollarono, ho reagito diversamente da chi la guerra non l’ha conosciuta, da chi bombardamenti non ne ha subiti mai. Anche se riconosco agli americani (al di là del comportamento di Bush che ha usato la tragedia come un pretesto) di aver reagito dimostrando il loro senso dello Stato. Magari ce l’avessimo anche noi italiani». 
La politica appassiona Paoli fin da ragazzo. «Le mie prime manifestazioni furono quelle contro Scelba». Un altro ricordo indelebile, il luglio 1960. «Quando a Genova si seppe che per il congresso missino sarebbe tornato in città Basile, l’uomo che aveva compilato le liste degli operai da mandare in Germania, allora studenti e portuali, professori e camalli reagirono allo stesso modo, senza neppure bisogno di parlarsi. Il Pci fu del tutto scavalcato, come lo fu Togliatti dal fratello, che insegnava all’università e marciò in testa ai cortei. Io presi la mia razione di botte. Le jeep caricavano fin sotto i portici, e i respingenti di gomma facevano male. Il congresso dei missini, che allora si chiamavano ancora fascisti, non si fece più, il governo cadde, ma una generazione ha pagato cara quella vittoria: c’è gente che ha passato in galera vent’anni, un mio amico portuale in galera c’è morto». 
«Facevo politica ma non mi sono mai iscritto al Pci. Mai amato le bande, i gruppi, i movimenti: ho visto troppi capi dei movimenti finire da Vespa. Meglio pochi amici, con cui passare la notte a parlare», musicisti come Tenco, Lauzi, Endrigo, ma anche Bagnasco e Renzo Piano. «Più di Marx ho sempre amato Rousseau: i beni della terra e dell’intelletto devono essere beni comuni. Come ogni artista, sono un po’ anarchico. Mi piaceva una scritta che vedevo da ragazzo a Pegli: "Comunismo sì, ma anarchico". Non so bene cosa voglia dire, però mi ci riconosco». Anarchico si dice fosse De André, «ma con lui non ci frequentavamo. Apparteneva a un’altra casta, suo padre era il braccio destro di Monti, comandava all’Eridania». La politica ha portato Paoli in Parlamento, tra gli indipendenti di sinistra, nel 1987. «Non è stata un’esperienza del tutto negativa. Ho imparato molte cose. Però avrei preferito rendermi utile agli altri. Invece la politica è complicata; per questo gli improvvisati che vi arrivano da fuori combinano un sacco di guai». 
Non che Paoli sia entusiasta neppure dei professionisti. «Una volta avevamo politici che facevano affari. Oggi abbiamo affaristi che fanno politica. E il fenomeno non è esaurito da Berlusconi; riguarda anche la sinistra. Io capisco se uno come Della Valle si arrabbia: se perde soldi, son soldi veri. Questi altri giocano: spostano soldi virtuali. E mi dispiace che in questo gioco sia rimasta invischiata la sinistra. Che ora si trova in un bel guaio. Se dice la verità sugli anni di sacrifici che ci attendono, non vince le elezioni. Se dice balle, le vincerà ma sarà cacciata appena comincerà a fare l’inevitabile. In Inghilterra la società è più avanzata: non a caso Marx aveva previsto che la rivoluzione si sarebbe fatta là. Non è andata così ma in compenso hanno avuto la Thatcher, che nei primi anni ha messo il Paese alle strette, però a lungo andare ha portato risultati. Mi farò odiare, ma l’Italia avrebbe bisogno di una destra seria: liberale e dotata di senso dello Stato; che non privatizzi scuola e sanità ma imponga le ristrettezze necessarie a preparare la stagione delle riforme. Prima un po’ di conservatorismo per mettere da parte i soldi, poi gli investimenti per ristrutturare la casa».  Paoli non rinnega il passato; piuttosto, non si riconosce nel presente. Pur non amando Berlusconi, non si è unito alla mobilitazione di artisti e intellettuali contro di lui. «Ho attaccato Berlusconi quando non voleva pagare la Siae, negando alla cultura la sua fonte di sostentamento. Per il resto, non avevo nulla da dimostrare. Tutti sanno bene come la penso. E io non ho cambiato idea; sono loro ad averla cambiata. Io sono sempre di sinistra, diciamo pure comunista; sono loro a non esserlo più. E poi, come dicevo, non credo alle bande. Nel 1968 smisi di suonare per fare l’oste a Levanto: le mie cose non erano più adatte ai tempi, e non mi andava di cantare "viva" o "abbasso". Restai zitto per sette anni, fino a quando Gianni Borgna, allora capo della Fgci romana, mi invitò a suonare qualche canzone al Pincio. Andai avanti per due ore, e scoprii che i giovani comunisti potevano ascoltare Sapore di sale, che avevano capito come anche la poesia e l’amore fossero politica». 
Sapore di sale, forse la più bella canzone mai scritta da un italiano, è del 1963. Sono gli anni in cui Paoli vive come Tenco e come una sua giovane scoperta, Lucio Dalla, nel mito degli chansonniers , degli esistenzialisti, degli artisti maledetti. È l’anno in cui si spara al cuore. «Ogni suicidio è diverso, e privato. È l’unico modo per scegliere: perché le cose cruciali della vita, l’amore e la morte, non si scelgono; tu non scegli di nascere, né di amare, né di morire. Il suicidio è l’unico, arrogante modo dato all’uomo per decidere di sé. Ma io sono la dimostrazione che neppure così si riesce a decidere davvero. Il proiettile bucò il cuore e si conficcò nel pericardio, dov’è tuttora incapsulato. Ero a casa da solo. Anna, allora mia moglie, era partita; ma aveva lasciato le chiavi a un amico, che poco dopo entrò a vedere come stavo». L’anno dopo Paoli ha avuto due figli: Giovanni, che ora ha curato per Laterza la sua biografia; e Amanda, con cui adesso discute di storia. 


Aldo Cazzullo

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Dentro le foibe jugoslave, in segreto. Le inedite rivelazioni di un ex sottotenente del Genio pionieri alpini, «007» per caso nel 1957 (inserimento del 14/12/2005).

Nell’ottobre del 1957, carabinieri e militari dell’esercito italiano in assetto da combattimento entrarono in missione segreta, a più riprese, in territorio jugoslavo per visitare alcune foibe dove erano state compiute esecuzioni sommarie. Nel corso delle operazioni vennero esplorate quattro cavità con vari resti umani, furono scattate fotografie e redatti rapporti. La missione, organizzata con ogni probabilità dal Sifar, il servizio segreto antenato dell’attuale Sismi, era stata preceduta da un’operazione di copertura a Trieste, con l’esplorazione delle foibe di Monrupino e Basovizza. A rievocare questi fatti oggi è Mario Maffi, 72 anni, di Cuneo, allora giovane sottotenente di complemento del Genio pionieri alpini inquadrato nella Compagnia «Orobica» di Merano. Fu proprio Maffi, agente segreto per caso, l’ufficiale che materialmente si calò nelle foibe nel corso degli sconfinamenti in Jugoslavia per raccogliere la documentazione richiesta. Mario Maffi venne arruolato nella missione in virtù della sua esperienza di speleologo e di esperto di esplosivi, e oggi la sua testimonianza aggiunge un tassello nuovo a uno dei capitoli più drammatici della storia delle nostre terre.
La vicenda comincia all’inizio dell’ottobre 1957. Allora presidente del Consiglio è Adone Zolli, vicepresidente Giuseppe Pella, ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani, il governo è retto dalla Dc. Mario Maffi ha 24 anni, la sua famiglia vanta solide tradizioni militari e antifasciste: il nonno era stato ufficiale del battaglione Monviso nella prima guerra mondiale, il padre è ufficiale all’Istituto geografico militare, sua madre era stata partigiana, e lo stesso Maffi da bambino aveva operato come staffetta nella Resistenza. Quando viene chiamato a svolgere il servizio militare Maffi sceglie di fare l’ufficiale di complemento. Il giovane è anche uno speleologo esperto: è stato tra i fondatori del Gruppo Speleo Alpi Marittime del Cai di Cuneo, all’interno del quale svolge ancora oggi attività speleologica e didattica. Dopo il servizio militare Mario Maffi entrerà alla Fiat, dove rimarrà fino al 1988. Andrà in pensione con un anno di anticipo perché il periodo passato a Trieste verrà considerato come «missione di guerra».

All’inizio di ottobre del 1957, al termine delle esercitazioni estive, Mario Maffi viene convocato al Comando di Brigata. «Il generale - racconta oggi - mi disse che per una certa missione serviva un ufficiale esperto di grotte e di mine; mi disse anche la missione era coperta dal più assoluto segreto militare, e che era volontaria; non ero obbligato ad accettare, e inoltre l’operazione comportava anche un certo rischio».

Maffi accetta l’incarico. Scrive due lettere per i suoi cari che affida al cappellano («se non dovessi tornare per favore le spedisca», gli dice) e pochi giorni dopo parte. Nessuno gli spiega dove sta andando, e lui non deve fare domande. Si ritrova nella caserma dei carabinieri di Monfalcone, e qui finalmente viene a sapere quale sarà il suo incarico: dovrà scendere, assistito dagli speleologi del Gruppo grotte di Monfalcone, nella foiba di Monrupino «per constatare o meno la presenza di spoglie umane, stimarne la quantità e documentarle con fotografie». Successivamente dovrà fare lo stesso nelle foiba di Basovizza.
Il giovane tenente non ha mai sentito parlare di foibe, anzi quella parola, «foiba» la sente per la prima volta all’imbocco del cavità di Monrupino, prima di calarsi giù. Maffi non sa nemmeno che l’esplorazione delle due cavità triestine non è altro che un’operazione di facciata, e che la vera missione, ben più pericolosa, deve ancora cominciare. Del resto sia il pozzo della miniera che la foiba 149 sono già state esplorate in precedenza, e a più riprese. Ma a queste cose l’ ufficiale non pensa mentre scende nei 126 metri della foiba di Monrupino. Assieme a lui c’è un noto speleologo monfalconese, Giovanni Spangher. «Fui calato con una specie di seggiolino - ricorda - e quando arrivai in fondo mi sentii accapponare la pelle: tra il pietrisco su cui camminavo spuntavano ossa umane, una mandibola, alcune costole, l’intero braccio di un bambino che avrà avuto non più di otto anni viste le dimensioni delle ossa». Maffi scatta fotografie e prende appunti. Accerta che le pareti della grotta sono state fatte saltare con esplosivo, e ipotizza altri resti umani sotto i detriti, probabilmente quelli «dei soldati tedeschi degenti all’ospedale di Trieste, che si diceva fossero stati gettati nella grotta prima di farla saltare».
Il giorno dopo è la volta della foiba di Basovizza. La missione dovrebbe essere segreta, in realtà si volge alla luce del sole e in seguito i giornali ne parleranno anche ampiamente, con tanto di nomi e cognomi. La discesa nel pozzo della miniera avviene con l’ausilio degli speleologi della Commissione grotte «E. Boegan» dell’Alpina delle Giulie. Stavolta per scendere e salire vengono utilizzate le scalette, e Maffi impiega quasi un’ora solo per scendere i 130 metri di pozzo artificiale. «Sul fondo - racconta oggi - non c’era niente, solo immondizia; là dentro avevano scaricato di tutto, anche materiali bituminosi che avevano lasciato una specie di bava saponosa sulle pareti del pozzo; il fondo era melmoso e maleodorante; mi dissero che i resti umani erano più sotto, coperti dal materiale di scarico; dov’ero io però non c’era nulla, a parte una ruota di bicicletta e altre porcherie». Maffi esegue il suo lavoro e torna su. La missione si conclude con una lauta cena offerta dall’esercito a tutti gli speleologi, con brindisi e foto di rito.

Il giorno dopo la musica cambia. A Maffi viene illustrato il nuovo piano operativo. Gli ordinano di non avere rapporti con nessuno, di diffidare di chiunque, di vestire abiti borghesi. I carabinieri gli consegnano documenti con falsa identità, gli dicono di restare nella camera d’albergo e di non muoversi. «Rimasi segregato un paio di giorni - racconta -, uscivo a passeggiare la mattina ma il pomeriggio stavo chiuso in camera in attesa di ordini; poi mi fecero cambiare albergo». Comincia la vera missione: «Ogni pomeriggio mi veniva recapitata una lettera normalissima con l’indirizzo scritto a mano; all’interno c’era una seconda busta sigillata con scritto ”Da aprire solo dopo le ore x”, e dentro questa c’erano le istruzioni alle quali dovevo attenermi».

Per quattro notti consecutive tutto si svolge nello stesso modo. All’ora convenuta il tenente Maffi apre la busta, verso le 23 esce dell’albergo e seguendo le istruzioni raggiunge un’auto civile con persone in borghese. Nessuno parla, nessuno chiede niente. L’auto raggiunge una zona poco frequentata, sempre diversa, dove c’è una «Matta», la camionetta dei carabinieri. Maffi si avvicina e pronuncia la parola d’ordine («erano frasi del tipo: avete un sigaretta?»), gli viene risposto con la contro-parola (tipo: «di che marca?»), e quindi l’ufficiale salta sul mezzo. «Mentre la camionetta camminava - ricorda Maffi - mi cambiavo indossando tuta, elmetto, scarponi, cinturone con pistola e due caricatori, uno innestato e uno in fondina; a fine corsa scendevo, e scortato da due carabinieri armati ma senza mostrine e gradi proseguivo per un lungo tratto fra le sterpaglie; a un certo punto i miei accompagnatori si fermavano e piazzavano il mitragliatore pesante in postazione mascherandolo con alcuni rami; messi i colpi in canna un solo milite, strisciando con me, mi indicava il percorso fino a quando potevo individuare nel buio la dolina prescelta; da lì proseguivo da solo fin sull’orlo della foiba». Il giovane tenente ha con sé due spezzoni arrotolati di scala da dieci metri l’uno, senza fare il minimo rumore per non essere scoperto dalle pattuglie jugoslave fissa la scala a un appiglio sicuro, poi scende nella foiba senza sicura. Arrivato in fondo documenta quanto vede, poi torna su con la massima cautela. Recupera le scale, le arrotola e strisciando raggiunge il compagno non prima di aver lanciato il segnale convenuto, «un fischio a imitazione del verso del gufo». «Questa storia - dice ancora Maffi - si ripeté per quattro notti durante le quali visitai quattro foibe diverse tutte oltre la linea del confine; mi avevano detto che le imboccature potevano essere minate, ma solo una volta mi imbattei in un oggetto che poteva essere una mina e girai al largo». Sul fondo di quelle foibe Maffi riscontrò «diversi resti umani, non in quantità esorbitanti ma, purtroppo, in condizioni atroci: alcuni teschi con lo sfondamento della nuca, mani o piedi avvolti da filo spinato, la stessa cosa su una cassa toracica; trovai uno scheletro rannicchiato in un anfratto: quel poveraccio doveva essere ancora vivo quando lo gettarono giù; alcuni avevano lembi di divise militari o vestiti civili, per altri non c’era traccia di indumenti; ricordo un cranio con i capelli lunghi, probabilmente una donna; in tutte e quattro le foibe era stato usato l’esplosivo».

La mattina dopo la quarta sortita Maffi viene svegliato dal portiere dell’albergo: «Mi disse che il signor tal dei tali mi aspettava nella hall; era un segnale convenuto, significava che dovevo lasciare l’albergo in tutta fretta, il controspionaggio era venuto a sapere qualcosa». Due giorni dopo il tenente Maffi è di nuovo a Merano. In caserma stampa le fotografie, di nascosto fa una copia per sé («ma solo di quelle delle foibe di Monrupino e Basovizza, purtroppo») e scrive il suo rapporto, notando che almeno per le foibe triestine «a mio avviso non era possibile organizzare un recupero di salme». La storia della missione segreta del tenente Maffi termina qui. Ancora oggi l’anziano speleologo cuneese non saprebbe indicare quali furono esattamente le cavità da lui visitate in Jugoslavia, né perché il nostro governo decise quella missione, e neppure dove si trovano i documenti relativi l’intera operazione. Questa, casomai, è materia da storici. Mario Maffi sa solo che dopo il congedo e una vita dedicata al lavoro nelle officine della Fiat, adesso che è un pensionato come tanti il ricordo di quella missione da 007 gli è rimasto impresso nel fondo dell’animo, e che quando sente pronunciare la parola «foiba» viene preso da un nodo alla gola.

 

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Norma Cossetto: "una storia di follia partigiana" .

 

Alcune foto di Norma Cossetto.
Norma Cossetto

Norma Cossetto era una ragazza di 24 anni di S. Domenico di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l'università di Padova. In quel periodo girava in bicicletta per i comuni dell'Istria per preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo "L'Istria Rossa" (Terra rossa per la bauxite). Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa (espropriazione proletaria). Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone. Il giorno successivo prelevarono Norma. Venne condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capibanda si divertirono a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese. Al netto rifiuto, la rinchiusero nella ex caserma della Guardia di Finanza a Parenzo assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici tra i quali Eugenio Cossetto, Antonio Posar, Antonio Ferrarin, Ada Riosa vedova Mechis in Sciortino, Maria Valenti, Urnberto Zotter ed altri, tutti di San Domenico, Castellier, Ghedda, Villanova e Parenzo. Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio. Fissata ad un tavolo con alcune corde, venne violentata da diciassette aguzzini, ubriachi e esaltati, quindi gettata nuda nella foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli istriani. Una signora di Antignana che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio gemiti e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udí, distintamente, invocare la mamma e chiedere da bere per pietà...  

Il 13 ottobre 1943 a S. Domenico ritornarono i tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre. Il 10 dicembre 1943 i Vigili del fuoco di Pola, al comando del maresciallo Harzarich, ricuperarono la sua salma: era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati; aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate. Emanuele Cossetto, che identificò la nipote Norma, riconobbe sul suo corpo varie ferite d'arme da taglio; altrettanto riscontrò sui cadaveri degli altri". Norma aveva le mani legate in avanti, mentre le altre vittime erano state legate dietro. Da prigionieri partigiani, presi in seguito da militari italiani istriani, si seppe che Norma, durante la prigionia venne violentata da molti. Un'altra deposizione aggiunge i seguenti particolari: "Cossetto Norma, rinchiusa da partigiani nella ex caserma dei Carabinieri di Antignana, fu fissata ad un tavolo con legature alle mani e ai piedi e violentata per tutta la notte da diciassette aguzzini. Venne poi gettata nella foiba".  

La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Castellerier. Dei suoi diciassette torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l'ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro, alla luce tremolante di due ceri, nel fetore acre della decomposizione di quel corpo che essi avevano seviziato sessantasette giorni prima, nell'attesa angosciosa della morte certa. Soli, con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all'alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra ..."

 

- Il presidente Ciampi ha concesso l'onorificenza alla ragazza istriana barbaramente trucidata dai titini (22/12/2005).

Roma. Un atto di giustizia e di onore per la memoria storica italiana è quello compiuto in questi giorni dal presidente Ciampi. Una medaglia d'oro al Merito civile è stata conferita alla memoria di Norma Cossetto, la giovane istriana di ventitrè anni che fu gettata nelle foibe dopo essere stata violentata e orribilmente seviziata dai partigiani di Tito. Ne dà notizia il senatore di An Franco Servello, che ha ricevuto una lettera dalla Segreteria generale della Pre­sidenza della Repubblica. Nella motivazio­ne all'onorificenza si legge: «Giovane stu­dentessa istriana, catturata e imprigionata dai piartigiani slavi, veniva lungamente seviziata e violentata dai suoi carcerieri e poi barbaramente gettata in un foiba. Luminosa testimonianza di coraggio e di amor patrio». Le circostanze della morte della Cossetto ne hanno fatto da subito un figura-simbo­lo del martirio italiano delle terre adriatiche. Una richiesta per il conferimento della medaglia d'oro venne presentata alla Presidenza della Repubblica già al tempo in cui al Quirinale sedeva Oscar Luigi Scalfaro. L'iniziativa è stata ripresa recente­mente da Servello che nel maggio scorso ricevette una struggente lettera dalla sorella della Cossetto, Licia: «Sono anzia­na ma vorrei, prima di morire,- che sapere che il sacrificio di mia sorella venisse rico­nosciuto e ricordato». Nella missiva, la signora Licia ricordava di aver subito altri lutti per mano degli slavi: «Oltre a mia sorella Norma anche il mio papa è stato ammazzato e infoibato con altri familiari in quegli stessi giorni. Siamo la famiglia più colpita». Nel rivolgersi alla Presidenza della Repubblica, il parlamentare di An sottolineava il fatto che «il tanto atteso conferimento dell'onorificenza da parte dello Stato sarebbe apprezzato non soltanto dalla famiglia Cossetto ma anche dalle genti istriane».

Ora, finalmente, una battaglia così lunga e tenace trova il giusto coronamento. «E' con soddisfazione -dice Servello- che apprendo la notizia del conferimento del­l'onorificenza alla memoria di Norma Cossetto. Si tratta di un atto di grande civiltà che rende onore alle sofferenze al dolore di tutti quegli italiani che piangono i loro cari barbaramente uccisi dai partigiani di Tito nel 1943 e nel 1945.,Questa medaglia d'oro arriva dopo fa restituzione alla memoria nazionale della tragedia delle foibe e del dramma dell'esodo attraverso l'i­stituzione della Giornata del Ricordo». Ancor oggi; ricordando la storia della Cossetto, è impossibile reprimere un moto di rabbia e di orrore. Norma viveva a San Domenico di Visinada e si stava laureando in lettere e filosofia all'università di Padova. Il prologo della tragedia avvenne il 25 settembre 1943, diciasette giorni dopo la capitolazione dell'Italia e il disfacimento dell'esercito. Quei giorni di vergogna pro­dussero un terremoto che si avvertì in modo drammatico anche in Istria. Quel giorno, un gruppo di partigiani slavi, approfittando dello sbandamento genera­le, irruppe in casa sua razziando ogni cosa, com in una sorta di "esproprio proletario" ante-litteram. Ma le belve non non sono mai paghe dei loro istinti criminali. All'indomani prelevarono la povera ragazza. Venne condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capi-banda comunisti si divertirono a tormen­tarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese. Norma non era certo tipo da tradire la sua gente. Al suo deciso e orgoglioso rifiu­to, la rinchiusero nella ex caserma della Guardia di Finanza, a Parenzo, insieme con altri sventurati. Dopo un paio di giorni vennero tutti trasferiti nella scuola di Antignana. Fu lì che cominciò il vero martirio di Norma. La legarono a un tavolo con alcune corde e la violentarono. Una signora di Antignana che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio gemiti e lamenti, verso sera, appena buio, provò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udì, distintamente, invocare la mamma e chiedere da bere per pietà. Norma venne gettata nella foiba il giorno successivo.

Il 13 ottobre a San Domenico tornarono i tedeschi su richiesta della sorella Licia, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine della ragazza e di suo padre. Il 10 dicembre 1943 i Vigili del fuoco di Pola, recuperarono la salma di Norma: era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati. Aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate. La vicenda di Norma creò un fremito d; indignazione in tutta l'Istria. Tra tutte le storie dei martiri delle foibe, è quella che viene maggiormente ricordata. La sua foto campeggia in tutti i libri che ricostruiscono la tragedia italiana di sessant'anni fa. Le sono state dedicate anche poesie. In una troviamo scritto: «Non più odio né sensi feriti/un campo solcato è ormai il mio cuore/e il silenzio opprime la mente».

Ricordare e onorare il suo sacrificio non vuol dire odio e vendetta. E' un atto d'amore alla memoria italiana.

Aldo Di Lello

 

- Per visitare il sito del Quirinale clicca sul link,si aprirà una nuova finestra

http://www.quirinale.it/onorificenze/DettaglioDecorato.asp?idprogressivo=162029&iddecorato=161496 

 

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Don Angelo Tarticchio.

Nato nel 1907 a Gallesano d’Istria, parroco di Villa di Rovigno. Il 16 settembre 1943 - aveva trentasei anni - fu arrestato dai partigiani comunisti, malmenato ed ingiuriato insieme ad altri trenta dei suoi parrocchiani, e, dopo orribili sevizie, fu buttato nella foiba di Gallignana. Quando fu riesumato lo trovarono completamente nudo, con una corona di spine conficcata sulla testa, i genitali tagliati e messi in bocca.

Notizia del 19 dicembre 2004 - Trecallo (Como): sarà intitolato a Don Angelo Tarticchio il rotondello della cittadina. Per saperne di più clicca qui.

Notizia del 13 dicembre 2005 - Como: sarà intitolato a Don Angelo Tarticchio una piazza cittadina.

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I brani che seguono sono tratti dal diario di Mafalda Codan che venne arrestata a Trieste, dove si era rifugiata, ai primi di maggio del 1945.

Anche il padre e gli zii della giovane donna, commercianti e possidenti, erano stati arrestati e infoibati in Istria nell'autunno del 1943. 

Il 7 maggio 1945 [...] prendo un libro e vado in giardino. Appena uscita mi trovo davanti tre partigiani comandati da Nino Stoinich con il mitra spianato. Prima di tutto si rallegrano dell'orribile morte dei miei cari e poi mi intimano di seguirli. Vestita come sono, senza poter più né entrare in casa né salutare la mamma, devo seguirli. Con un filo di ferro mi legano le mani dietro la schiena e mi fanno salire su una macchina.[...] Prima sosta, Visinada. Mi portano sulla piazza gremita di gente, partigiani, donne scalmanate, urlano, gesticolano, imprecano. S. mi presenta come italiana, nemica del popolo slavo, figlia di uno sfruttatore dei poveri, tutti cominciano a insultarmi, a sputacchiarmi, a picchiarmi con lunghi bastoni e a gridare: a morte, a morte. [...] A Santa Domenica mi portano davanti alla casa di Norma Cossetto, infoibata nel settembre del 1943, chiamano sua madre, vogliono farla assistere alle mie torture per ricordarle il martirio della sua Norma. La signora, nonostante le severe intimazioni, si rifiuta di uscire, la trascinano a forza sulla porta e, appena mi vede in quelle condizioni, cade a terra svenuta. [...]
Siamo arrivati davanti a casa mia. [...] Si raduna subito una folla scalmanata e urlante: il tribunale del popolo. Stoinich tira fuori un foglio e comincia a leggere le accuse: infondate, non vere, testimonianze false, imposte. Vedo i miei coloni e molte persone aiutate e mantenute gratis da mio padre. Non posso credere ai miei occhi, sono gli stessi che prima "veneravano" la mia famiglia e si consideravano amici, ora sono qui per condannarmi e gridare "a morte". Sono diventati tutti un gregge di pecore, fanno ciò che è stato loro imposto di fare, ora seguono chi comanda, chi promette loro la spartizione delle terre dei padroni. Non posso stare zitta, urlo anch'io, non posso puntare il dito contro quelle bestie mostruose solamente perché ho le mani legate, li chiamo allora per nome, li accuso della morte dei miei cari, dei furti commessi, dei soprusi, dei debiti mai pagati...  e da accusata divento accusatrice. [...] Nell'ex dopolavoro mi attendono tre donne. Mi legano a una colonna in mezzo alla sala, a sinistra e a destra mi mettono due bandiere slave con la stella rossa e sopra la testa il ritratto di Tito. È un druze grande e grosso che dà il via al pestaggio. Con tutta la sua forza comincia a percuotermi con una cinghia. Mi colpisce così forte sugli occhi che noti riesco più a riaprirli. Mi spiace perché ho sempre avuto il coraggio di fissare negli occhi chi mi picchiava. Le sevizie continuano, le donne mi colpiscono con grossi bastoni, con delle tenaglie cercano di levarmi le unghie ma non ci riescono perché sono troppo corte. Una scalmanata, con un cucchiaio mi gratta le palpebre gonfie, ferite e chiuse: "Apri gli occhi che te li levo" mi grida. [...] Più tardi mi fanno fare il giro del paese legata a una catena come un orso, mi segue un codazzo di bambini divertiti. [...] Arriva un carro, mi fanno salire, fanno correre il cavallo e io devo stare in piedi. Le continue scosse mi fanno cadere e, ogni volta, un colpo di mitra mi rialza. In quelle condizioni giro diversi paesi. [...] A Parenzo mi portano nel piazzale del Castello, ora caserma, dove sono radunati gli uomini. [...] Quello che si scaglia furibondo contro di me è Ziri, un mio ex colono che ha avuto tanto bene da mio padre. Dice di essere felicissimo di vedermi in quelle condizioni e spera che tutta la famiglia sia distrutta per essere lui il padrone dei nostri campi.
[Nel castello di Pisino] Tutte le notti, un partigiano dalla faccia cupa e torva, entra nelle celle ed esce con qualcuno che non tornerà più. Quando al lume delle torce cerca sul foglio i nomi, gli occhi di tutti sono attaccati alla sua bocca e un brivido improvviso ci attraversa il corpo. Le urla di dolore di Arnaldo [il fratello diciassettenne, detenuto e torturato nel medesimo carcere] e degli altri suoi compagni di pena mi risuonano dolorosamente nella testa giorno e notte. [...] Una notte la porta si apre e subito mi assale il terrore, questa volta sul foglio c'è anche il mio nome. [...] Io vengo legata braccio a braccio con una giovane incinta. Ci conducono sullo spiazzo del castello dove ci attendono due camion già pieni di prigionieri, con i motori accesi. Ci caricano sul secondo, chiudono le sponde e vien dato l'ordine di partire. In quell'istante arriva di corsa un ufficiale con un foglio in mano e grida: "Alt! Mafalda Codan giù". Mi sento mancare, tremo tutta […]. Il capo mi prende per un braccio, mi accompagna in una casetta di fronte al carcere, mi getta in una stanza buia e mi chiude dentro. [...] Al mattino gli aguzzini tornano felici di aver ucciso tanti nemici del popolo. Li hanno massacrati tutti. Uno entra nella mia nuova "residenza" e mi chiede: "Quanti anni aveva tuo fratello? Non voleva morire sai, anche dopo morto il suo corpo ha continuato a saltare" […].
Una mattina un druze mi accompagna al Comando. Entro in un ufficio, dietro una scrivania siedono due uomini dall'apparenza civile, sono due giudici, uno indossa l'uniforme, l'altro è in borghese. "Hai visite" mi dicono, aprono una porta ed entrano quattro donne scalmanate. "Come? E' ancora viva?" chiedono arrabbiate. "Perché non è "partita" con gli altri? ". Urlano, gridano, vogliono picchiarmi. I due capi glielo proibiscono. Mi accusano di cose inaudite e allora urlo anch'io e, anche questa volta, da accusata divento accusatrice, di cose vere però. Da una frase detta dalle forsennate, capisco che, durante le perquisizioni e i furti perpetrati a casa mia, hanno trovato il mio diario. In un quadernone ho scritto infatti il calvario della mia famiglia iniziato con l'occupazione slavo-comunista del settembre 1943. Ho annotato tutto nei minimi particolari, ore, giorno, mese, avvenimenti, parole dette, tutto [...] e completato con fotografie, documenti importanti e pezzi di giornale. Sono testimonianze che scottano, verità che non si possono negare, che fanno paura, è per questo che vogliono la mia morte. Ora racconto ai giudici tutto quello che è stato fatto alla mia famiglia, cosa ho vissuto, faccio nomi, non riesco a tacere perché ho la coscienza a posto, so di essere innocente, non ho paura di nessuno. [...] Da quell'istante la mia vita cambia. I due capi hanno capito che non ho fatto niente di male. [...] Riacquisto subito la semilibertà, giro da sola senza la scorta di guardie armate e divento la donna di servizio della moglie di Milenko, uno dei capi. È un giovane dalmata, laureato in legge, parla abbastanza bene l'italiano e il francese ed è molto umano. [...] Mangio con loro e, alla sera, ritorno in prigione. Mi trattano umanamente, ma tra noi rimane pur sempre uri rapporto schiavo-padrone. [...] Potrei scappare ogni giorno, ma i miei principi e la parola d'onore data, mi impediscono di farlo. Per nessuna cosa al mondo tradirci la fiducia delle persone che hanno creduto in me. E intanto, pian piano, il grigio sconforto che mi aveva colmato il cuore e la mente negli ultimi mesi, comincia a dissiparsi.

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La storia del giovane curato di Villa Gardossi, in Istria, che i titini massacrarono di botte e poi fecero sparire in una foiba.

 

Don Francesco Bonifacio

 

Don Francesco, la sera dell’11 settembre 1946, tornava verso casa percorrendo un sentiero in salita. Nel pomeriggio, in una frazione della zona, aveva ordinato la legna per scaldare il focolare domestico durante i rigori dell’inverno. Più tardi era salito a Grisignana per trovare conforto nell’amicizia che lo legava a un confratello, monsignor Luigi Rocco, e per ricevere l’assoluzione. Sulla via del ritorno il sacerdote venne fermato da due uomini della guardia popolare. Un contadino che era nei campi si avvicinò ai sicari e chiese loro di lasciar andare il suo prete, ma fu allontanato brutalmente e minacciato perché non dicesse nulla di ciò che aveva visto. Poco dopo le guardie sparirono nel bosco. Il sacerdote fu spogliato e deriso, ma egli, a bassa voce, cominciò a pregare. Si rivolse al Signore e chiese perdono anche per i suoi aggressori. Accecati dalla rabbia, i due cominciarono a colpirlo con pugni e calci: don Francesco si accasciò tenendo il viso tra le mani, ma non smise di mormorare le sue invocazioni. I suoi carnefici tentarono di zittirlo scagliandogli una grossa pietra in volto, ma il curato, con un filo di voce, pregava ancora. Altre pietre lo finirono. Da allora non si seppe più nulla di lui. Il suo corpo, dopo l’atroce esecuzione, scomparve. Quasi certamente fu gettato in una foiba.

Don Francesco Bonifacio fu ucciso a trentaquattro anni, ma rimase nel cuore e nella memoria di chi ebbe la fortuna di incontrarlo.

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-La foiba doveva essere la sua tomba. Riuscì a sopravvivere Giovanni Radeticchio di Sisano.

Ecco il suo agghiacciante racconto: "... addi 2 maggio 1945, Giulio Premate accompagnato da altri quattro armati venne a prelevarmi a casa mia con un camioncino sul quale erano già i tre fratelli Alessandro, Francesco e Giuseppe Frezza nonché Giuseppe Benci. Giungemmo stanchi ed affamati a Pozzo littorio dove ci aspettava una mostruosa accoglienza; piegati e con la testa all'ingiù fecero correre contro il muro Borsi, Cossi e Ferrarin. Caduti a terra dallo stordimento vennero presi a calci in tutte le parti del corpo finché rinvennero e poi ripetevano il macabro spettacolo. Chiamati dalla prigionia al comando, venivano picchiati da ragazzi armati di pezzi di legno. Alla sera, prima di proseguire per Fianona, dopo trenta ore di digiuno, ci diedero un piatto di minestra con pasta nera non condita. Anche questo tratto di strada a piedi e per giunta legati col filo di ferro ai polsi due a due, così stretti da farci gonfiare le mani ed urlare dai dolori. Non ci picchiavano perché era buio. Ad un certo momento della notte vennero a prelevarci uno ad uno per portarci nella camera della torture. Era l'ultimo ad essere martoriato: udivo i colpi che davano ai miei compagni di sventura e le urla di strazio di questi ultimi. Venne il mio turno: mi spogliarono, rinforzarono la legatura ai polsi e poi, giù botte da orbi. Cinque manigoldi contro di me, inerme e legato, fra questi una femmina. Uno mi dava pedate, un secondo mi picchiava col filo di ferro attorcigliato, un terzo con un pezzo di legno, un quarto con pugni, la femmina mi picchiava con una cinghia di cuoio. Prima dell'alba mi legarono con le mani dietro la schiena ed in fila indiana, assieme a Carlo Radolovich di Marzana, Natale Mazzucca da Pinesi (Marzana), Felice Cossi da Sisano, Graziano Udovisi da Pola, Giuseppe Sabatti da Visinada, mi condussero fino all'imboccatura della foiba. Per strada ci picchiavano col calcio e colla canna del moschetto. Arrivati al posto del supplizio ci levarono quanto loro sembrava ancora utile. A me levarono le calze (le scarpe me le avevano già prese un paio di giorni prima), il fazzoletto da naso e la cinghia dei pantaloni. Mi appesero un grosso sasso, del peso di circa dieci chilogrammi, per mezzo di filo di ferro ai polsi già legati con altro filo di ferro e mi costrinsero ad andare da solo dietro Udovisi, già sceso nella foiba. Dopo qualche istante mi spararono qualche colpo di moschetto. Dio volle che colpissero il filo di ferro che fece cadere il sasso. Così caddi illeso nell'acqua della foiba. Nuotando, con le mani legate dietro la schiena, ho potuto arenarmi. Intanto continuavano a cadere gli altri miei compagni e dietro ad ognuno sparavano colpi di mitra. Dopo l'ultima vittima, gettarono una bomba a mano per finirci tutti. Costernato dal dolore non reggevo più. Sono riuscito a rompere il filo di ferro che mi serrava i polsi, straziando contemporaneamente le mie carni, poiché i polsi cedettero prima del filo di ferro. Rimasi così nella foiba per un paio di ore. Poi, col favore della notte, uscii da quella che doveva essere la mia tomba..."

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-Marija Kukaina: "Di notte sentivo pianti, lamenti e spari".

CRNI VRH (Slovenia) - Marija Kukania aveva dieci anni nel 1945. Adesso abita con il marito architetto vicino a Nova Gorica, ma non ha dimenticato. La casa dei suoi è sul limitare del bosco, a poche decine di metri da quell'avvallamento che inghiottiva le persone: “Mi svegliava la luce dei fari dei camion. La prima notte ho sentito 36 spari, la seconda 38. Attutiti appena dalla distanza ci arrivavano flebili pianti, lamenti e gemiti. Mio padre era a Mathausen. Quando tornò andammo a vedere che cosa era successo. Trovò un orologio tutto schiacciato e un frammento di mandibola. Si sedette e si mise a piangere, a piangere. Nella foiba sono finite di sicuro più di cinquanta persone. Ho capito la tragedia solo quando ho origliato per caso un dialogo fra mamma e papà”.
Maria era nella folla degli oltre cinquecento sloveni che hanno depositato decine di lumini e che hanno assistito alla solenne benedizione delle vittime il 25 ottobre. Anka Puzenel, 51 anni, la donna che si è battuta per dare una sepoltura degna agli scomparsi, la ricorda come “quella donna che ha pianto tutte le sue lacrime”. Quando le è venuta l'idea del funerale signora?
“Tanti anni fa. I miei genitori mi parlavano sempre dell'accaduto. Se ne discuteva anche a scuola, ma solo fra amici fidatissimi. Era del tutto impensabile affrontare l'argomento in pubblico. C'è gente che ancora non ammette l'accaduto”.
Chi per esempio?
“I borzi, i partigiani, hanno sostenuto che nella foiba non c'è assolutamente nulla. Il presidente della sezione di Idrija dell'Associazione ex partigiani Franz Petric ha scritto al consiglio comunale per tentare di bloccare la nostra iniziativa. Ha sostenuto che avremmo dovuto chiedere la licenza municipale per costruire un monumento e che comunque prima di erigere una stele si sarebbe dovuta accertare l'identità degli scomparsi”.
Che cosa l' ha spinta a questa battaglia?
“L'umana pietà, non ho parenti scomparsi. Sono consigliere di frazione a Monte Nero, ma la politica non c'entra nulla. Sono solo una cattolica convinta. Il sindaco Samo Beuk mi ha appoggiato. Abbiamo cominciato a lavorare due anni fa. Ho trovato un mucchio di volontari. I falegnami che hanno costruito la staccionata e la croce, i muratori che hanno piantato i supporti di ferro nella roccia, l'architetto che ha disegnato il tutto... pagherò di tasca mia solo i materiali. Abbiamo scelto il 25 perché era l'ultima domenica prima della festa dei morti”.
E' stata lei a chiamare il vice primo ministro?
“Assolutamente no. E' venuto di sua iniziativa assieme al ministro della giustizia il giorno dei defunti. Ma il momento più felice della mia vita è stato una settimana prima, quando l'ausiliario Renato Podbersic e il parroco Albert Strancar hanno benedetto la foiba. E' venuta giù un acqua fitta, uno scroscio, come se il cielo volesse partecipare al pianto... Ho mandato 180 inviti. La mia amica architetto Petric Moravec ci ha fatto stampare sopra questo appello: “Partecipate a un viaggio. Per tutti gli scomparsi il viaggio è durato 53 anni”. Adesso finalmente è finito”.

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- Umberto Bertuccioli:"Altri massacri lungo la ferrovia per Fiume".

“Scavate, lì ci sono le foibe” Bertuccioli, 78 anni appena compiuti, ex guardafrontiera del Gaf il corpo creato da Mussolini per sorvegliare i confini nazionali, ha un incubo ricorrente, tornato a galla dopo la notizia del ritrovamento di fosse comuni a Monte Nero “La ferrovia che porta a Fiume potrebbe nascondere decine di altre foibe, in cui sono finiti migliaia di civili italiani innocenti, massacrati dai comunisti dopo l'8 settembre”
Ad avvalorare la tesi che potrebbe far lievitare il già tragico bilancio di morti innocenti durante l’ultima guerra, sono alcuni particolari che Bertuccioli ricorda e denuncia: “A Villa del Nevoso in provincia di Fiume, dove stavo svolgendo servizio militare, dopo l'8 settembre i partigiani rastrellarono tutte le donne e gli uomini italiani della zona. Li portarono in una fabbrichetta e, dopo avere invitato me ed altri militari a riconoscere nel gruppo qualche presunto criminale, cosa che non facemmo, annunciarono loro che il giorno dopo sarebbero stati fucilati. Ma né io né i miei compagni soldati sentimmo sparare un colpo e da allora abbiamo vissuto col sospetto, ma è qualcosa di più, che quella gente fosse stata lanciata nel vuoto da viva nelle foibe circostanti, forse per non dare alla gente del posto il sospetto della fucilazione di massa, e lì trovò la morte. Difficile, molto difficile pensare che tutti siano stati trasportati nella grande fossa in fondo al pozzo carsico del Monte Nero, una località troppo lontana da Villa del Nevoso”.
Bertuccioli, di guardia col suo cannoncino lungo la ferrovia, saprebbe dove andare a scavare: “Abbiamo vissuto quei momenti in presa diretta. Tutti hanno sempre saputo che ogni paesino che era attraversato dalla ferrovia che portava da Postumia a Fiume, era stato saccheggiato e rastrellato. Ogni paese, ogni zona carsica limitrofa a questi centri abitati potrebbe nascondere una buca di cadaveri. Così come il fiume sotterraneo Timavo, che si infila sotto il monte di Villa del Nevoso, potrebbe essere stato il cimitero per molti. Tutti hanno sempre saputo, ma nessuno ha mai ficcato il naso in queste zone e adesso è arrivato il momento di farlo”.
Immagini che sono scolpite nella mente dell'ex soldato: “Io stesso ho visto molte foibe, con i miei occhi. Ho letto la disperazione nei civili italiani condannati senza motivo: ferrovieri, impiegati, perfino la maestra dell'asilo, tutti ammucchiati come bestie e portati a morire negli strapiombi carsici. Ricordo il viso di una ragazza bellissima, un'impiegata della previdenza sociale, compagna di un mio amico soldato. Ci guardava mentre i partigiani ci invitavano a riconoscere quei poveretti, cosa che non facemmo. Non la rivedemmo più. Ci salvammo cantando bandiera rossa e poi scappammo, purtroppo, verso i campi di concentramento tedeschi”.

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-"Non sono croato ma italiano, e ne sono fiero!" Un'intervista al tenente Udovisi.

(Clicca qui, invece, per leggere il racconto di Udovisi).

Nonostante quello che ho patito c'è qualcuno che sta falsamente diffondendo l'ipotesi che io sia croato a causa del cognome, solo per screditare la mia persona e la mia storia. Inizialmente il cognome di mio padre era “Udovicich”. Nel ‘22 è stato cambiato in Udovisi, perché con l'avvento prima dell'Italia, poi del fascismo molti hanno deciso, in base ai loro sentimenti, di italianizzare i loro cognomi. Ma la prova che sono istriano è nell'-h finale, tipica dei nomi della piccola penisola". Inizialmente, da un primo contatto con il tenente dell'esercito italiano Graziano Udovisi, oggi settantunenne, è emersa una certa sua reticenza nel rilasciare l’intervista, indisponibilità svanita non appena letto l’ultimo numero di Nuovo Fronte. "Mi è piaciuta molto l'intervista a Pititto, è un giudice molto in gamba e mi auguro che riesca a portare a termine il suo lavoro estremamente difficile. Uno dei principali motivi della iniziale reticenza di Udovisi è la sofferenza che prova ogni volta che racconta e rivive la sua drammatica esperienza. Udovisi è determinato più che mai a ribadire il suo amore per la Patria, il suo senso del dovere e il ricordo di oltre ventimila fratelli italiani che non ce l' hanno fatta. E' vergognoso il fatto che non percepisca alcuna pensione di guerra, ma solo una pensione da insegnante, in base al lavoro svolto. Lo stato italiano non lo riconosce come combattente. (Sotto una foto di Udovisi).

Graziano Udovisi

L'unica soluzione è che "Scalfaro prenda a cuore questo fatto e finalmente ci riconosca non soltanto come combattenti, ma ci ridia almeno tutti i nostri gradi, la nostra dignità, il nostro titolo personale, quindi anche la pensione, come è stata data ai nostri infoibatori - ha invocato il nostro compatriota-  ma questo significa sconfessare completamente il comunismo dei primi tempi, vuoi dire sconfessare Togliatti, vuoi dire sconfessare addirittura lo Stato italiano che finora ci ha trattato così miseramente". Dopo tutto quello che ha subìto, alla domanda di che cosa provasse nel sapere che il Tribunale penale di Roma non ha ancora potuto disporre l'arresto dei due massacratori jugoslavi Ivan Motika e Oskar Piskulic, rispettivamente di 89 e di 76 anni, a causa della loro avanzata età, ha risposto: "Noooo... è inutile, dopo tanto tempo (sospirando lungamente in segno di sconforto). Sono miserie umane, soltanto miserie umane. Io non conosco i nomi di coloro che mi hanno torturato e infoibato, erano più grandi di me, ora saranno morti. Forse saranno in mano a quei cani neri che hanno buttato per primi dentro le foibe, perché fossero quei cani neri a trattenere le anime degli infoibati e gli infoibatori potessero dormire i loro sonni tranquilli. Siamo stati percossi, torturati, perseguitati e sempre ci hanno chiamato "fascisti". E’ comodo dare a noi, giuliani, istriani, fiumani, dalmati, la colpa di una guerra fatta da tutti gli italiani, iniziata nel 1940. Si parla ancora di fascisti; se anche lo fossimo stati che colpa avevamo per essere infoibati? Attenzione che i fascisti sono persone comuni, come lo sono comunisti, democristiani e altri. E gioire per le sofferenze inflitteci? Eh no! Troppo comodo anche per tutti i partiti che sono al potere. Non ci sto. L'altra mattina mi hanno telefonato dall'Australia per programmare un collegamento diretto tramite una stazione radio di nome "Rete Italia". Laggiù ci sono tanti italiani che vogliono sentire le vicissitudini dell’Istria e mi ha profondamente commosso di essere ricordato dai nostri fratelli istriani emigrati in Australia". Quello di Udovisi è un triste diario di ricordi che fa parte di un macabro e vergognoso capitolo della storia, dimenticato da troppi. Ancora oggi non dorme sonni tranquilli, i suoi pensieri tornano indietro, a quel terribile sabato 5 maggio 1945, quando si presentò alle ore 17,30 direttamente presso il comando slavo. Il suo senso di responsabilità lo fece intervenire per cercare di salvare i suoi sottufficiali. Niente da fare. I massacratori slavi non lo fecero neanche parlare ma, dopo avergli chiesto solo nome, cognome e grado, lo legarono con le mani dietro alla schiena col fil di ferro e lo stiparono in una cella tre metri per quattro, assieme ad altri trenta italiani, stretti come sardine, quasi senza aria e tutti con le mani legate col fil di ferro dietro la schiena. Morivano di sete e dopo imploranti richieste hanno offerto loro un fiasco con urina. Seminudi, avevano solo un paio di pantaloni addosso. "Bisogna ricordare che io non parlo per me stesso, ma almeno ventimila nostri italiani sono stati massacrati in questo modo, almeno ventimila!". Allora Udovisi era tenente della Milizia Difesa Territoriale, reggimento comandato da Libero Sauro, figlio di Nazario Sauro, l'eroe istriano. "Mi sono presentato insieme a un amico, che era mio ospite, proveniente dalla zona di Mantova e considerato un regnicolo, ossia un suddito del Regno d'Italia. Da sottolineare che serbi e croati, non appena occupata la zona istriana, hanno considerato slavi tutti coloro che vi risiedevano, ormai per loro non più cittadini italiani". Ma, anche se considerati slavi, secondo il loro modo di pensare, eravate da eliminare? “Non tutti. C'erano quelli che nel '43 hanno immediatamente impugnato le armi per difendere la popolazione e il territorio italiano. Poi ci sono stati quelli che stavano a guardare e quelli che stavano con gli slavi". Ma era già allora tutto preordinato? "Oggi possiamo dare una risposta affermativa. Era già preordinato un fattore politico, preparato a tavolino, cercare di creare nelle nostre terre la psicosi di terrorismo per ottenere remissione e obbedienza dalle masse. I padroni dovevano essere loro. Dopo l'8 settembre dominarono per circa un mese l'Istria, periodo durante il quale sono sparite alcune migliaia di persone. Il luogo si scoprirà solo dopo, a causa di continui lamenti che provenivano dalle fenditure rocciose di chi ancora non era morto. Chiedo scusa alla popolazione istriana e alla nazione per non essere riuscito a salvare il territorio italiano. Eravamo in molti, ma non ce l'abbiamo fatta". Ma perché questi infoibati? "Perché italiani. Ma all'epoca il perché non si sapeva e ancora al giorno d'oggi c'è qualcuno che mette in dubbio l'accaduto. All'epoca nemmeno i più sapienti e colti riuscivano a individuarne i motivi e ripiegarono sull'unica ipotesi immaginabile: la vendetta. Ma come potevano essere vendette personali, se le vittime erano uomini, donne e bambini?". Ma perché siete stati additati come fascisti dai comunisti di allora? "Questo rimane sempre un grande interrogativo". Forse era l'unico modo per poter arrestare questa pulizia etnica? “Non era una pulizia etnica, questa dizione è stata inventata nel 1980 da uno psichiatra serbo. Io lo chiamo terrorismo etnico". Perché Sandro Pertini, in qualità di capo dello Stato, andò a Belgrado a riverire la salma di Tito e non passò mai a visitare le foibe? Dovendo rappresentare l'unità d'Italia non avrebbe dovuto omaggiare prima di tutto quei luoghi dove migliaia di compatrioti innocenti sono stati trucidati? "Fino a pochi anni fa nessun presidente della Repubblica Italiana ha mai onorato della sua presenza una foiba: solo Cossiga, nel 1991 e in seguito Scalfaro, che ha definito il tutto "una montagna di sofferenze". La verità è che ci sono stati molti, per non dire moltissimi, non solo ex capi di Stato, ma anche leader di partito, che sono stati più vicini ai nostri persecutori che a noi perseguitati. Ci sono tanti italiani che hanno infierito su di noi. Il Pm Giuseppe Pititto li ha trovati e ha parlato di crimini contro l'umanità. Come sono stati perseguitati gli ebrei e qualcuno doveva pagare qui in Italia, così italiani, croati, serbi e sloveni, tutti gli jugoslavi, cioè slavi del sud, hanno detto che eravamo noi a dover pagare, come se noi avessimo dichiarato loro guerra". Ma perché il governo italiano non ha difeso le proprie terre e si è comportato così irresponsabilmente? "Basti pensare che abbiamo un segretario dei partito della sinistra triestina (Pds) che ha affermato sui giornali che negli anni '43-'48 il comunismo diede copertura e legittimazione alle foibe. Quindi, era tutto preordinato, tutto predisposto. Il nostro sforzo di combattere gli slavi fu totalmente vano". Lei aveva solo 19 anni quando è stato sul punto di morire. Se la sente di raccontare la sua storia? "Io non sono stato catturato, ma mi sono presentato direttamente al comando slavo e non per consegnare le armi, perché ero già in borghese. Rientrato con il mio reparto a Pola di notte, nessuno sapeva del mio ritorno, tranne alcuni dei miei compagni. Non sarebbero riusciti mai a trovarmi, ma uno dei miei sottufficiali, parlando con mia madre, disse che gli slavi li stavano cercando dappertutto e chiese se potevo fare qualcosa. Capii che avevo il dovere di presentarmi al comando slavo per dire che avevo mandato la maggioranza dei miei uomini a Trieste. Solo così, forse, avrebbero smesso di cercarli. Sono intervenuto solo per salvare qualche mio soldato". Ha sortito qualche effetto questo gesto di grande coraggio? “Assolutamente no. Però, ringraziando Iddio, mi sono salvato sia io che il mio amico presentatosi con me. Lui, essendo stato considerato regnicolo, quindi abitante del Regno d'Italia, era stato mandato in un campo di concentramento e per cercare di mantenere buoni i contatti con l’Italia lo hanno considerato prigioniero di guerra, mentre per quel che mi riguarda mi hanno considerato un traditore, perché ufficiale”. Che sentimento è rimasto in lei dopo quella tragica storia? “L'amaro in bocca, anche perché l'Italia ha fatto ben poco. Certo gli slavi potevano ammazzarci in altro modo. Per quale motivo le foibe? Avevano forse cercato di cancellare le loro tracce, nascondendo i corpi martoriati nelle fenditure rocciose". E poi che è successo? "Ad un certo punto ci hanno prelevati in sei e portati in un'altra stanza per torturarci tutta la notte. Dopo mezz'ora non sentivo più nulla, avrebbero potuto anche tagliarmi a pezzettini, ma non me ne sarei reso conto. Ormai il corpo non rispondeva più ai riflessi, era inerme, e quando a un certo momento mi hanno ordinato di alzarmi in piedi, ho cercato di guardarmi intorno: il mio volto era talmente tumefatto, livido e gonfio che vedevo a malapena da due piccole e lunghe fessure degli occhi, dovevo avere la testa rovinata. Ricordo di aver visto un mio compagno di fronte a me, la cui schiena era completamente rossa e mi chiesi per quale motivo lo avessero dipinto di quel colore, invece era tutto il sangue che stava uscendo dalle innumerevoli ferite. Se lui era ridotto in quel modo, se gli altri erano così, allora anch'io ero in quelle condizioni, ma non me ne rendevo conto. E quando ci hanno fatto alzare in piedi per portarci fuori entrarono due ufficiali, un uomo e una donna, la quale disse che il più alto doveva stare davanti alla fila. Nessuno si mosse, allora questo ufficiale mi prese per i capelli, mi strattonò spingendone davanti a lei, la quale senza dire una parola mi spaccò la mascella sinistra con il calcio della pistola. Mi misero alla testa della fila perché ero ufficiale, gli altri erano dietro, ma l'ultimo non ce la faceva a stare in piedi. Forse perché lo avevano massacrato più degli altri, forse perché più debole, non so. Sin dal primo momento di prigionia ci avevano legato le mani dietro la schiena col fil di ferro, per non slegarcele mai più, neanche durante le torture. Si può facilmente immaginare come quei maledetti fili taglienti avessero solcato la carne dei polsi e come continuavano a incidere sulle ferite al minimo movimento. Poi ci misero in fila e ci portarono fuori seminudi, senza scarpe: forse il fresco della notte ha fatto in modo che capissi qualcosa di più, in quanto la testa era completamente imbambolata, il cervello funzionava relativamente. A quel punto altri soldati, ben vestiti, ci portarono fuori, nel bosco, non erano quelli che ci avevano torturato. Dovevano essere dei militari, qualcuno della banda d'accordo con loro e anche borghesi, partigiani comunisti, erano tutti contro di noi. Ci hanno disposti in fila l'uno dietro all'altro, sempre con le mani dietro la schiena e ulteriormente legati insieme tramite un filo di ferro che scorreva sotto il braccio sinistro di ognuno, per formare una fila dritta, fino ad arrivare all'ultimo che, non avendo la forza di stare in piedi, essendo svenuto a terra, era stato legato non al braccio, ma intorno al collo. Ricordo di aver sentito suggerire da due che parlavano in italiano, nel nostro dialetto, di legarlo attorno al collo. Sicuramente durante il tragitto l'ultimo è morto soffocato dal filo che ci legava l'un l'altro. Abbiamo camminato per un viottolo, non so per quanto tempo, ero distrutto e il fil di ferro che mi univa ai compagni era una tortura. Appena riuscii a farlo scorrere leggermente lungo il braccio, fino al polso, mi sembrò un sollievo; in quel momento sono scivolato e caduto. Immediatamente mi è arrivata una botta con il calcio di una mitragliatrice al rene destro. A causa di ciò ho subito tre operazioni al rene, che da quel momento ha sempre prodotto calcoli". Quante altre conseguenze ha avuto?  "Tante. Non solo sono stato leso in modo tale da essere sordo all'orecchio sinistro e al destro ci sento per metà. Ma dal tragitto di trasferimento da Pola fino a Fianona me ne hanno fatte di tutti i colori, mi hanno fatto mangiare della carta, dei sassi, mi hanno sparato vicino alle orecchie, si divertivano tanto a vederci sobbalzare. Mi hanno accompagnato verso un posto e ci hanno detto: "Fermatevi. La liberazione è vicina". Dentro di me ho mandato un pensiero al Cielo. Ho guardato dentro alla foiba, ma non vedevo niente, perché era mattina presto. Giù in fondo si scorgeva solo un piccolo riflesso chiaro. Si sono tirati indietro e quando ho sentito il loro urlaccio di guerra mi sono buttato subito dentro come se questa foiba rappresentasse per me un'ancora di salvezza. Dopo un volo di 15-20 metri, non lo so, sono piombato dentro l'acqua. Venivo trascinato sempre più giù e mi dimenavo con tutta la poca forza rimasta in corpo. Ad un certo momento, non so perché, sono riuscito a liberarmi una mano. Ho immediatamente nuotato verso l'alto e ho toccato una zolla con dell'erba, era in realtà una testa con dei capelli. L' ho afferrata e tirata in modo spasmodico verso di me e sono riuscito a risalire, ringraziando Iddio. Ho salvato un fratello". Questa persona dov'è ora? "E’ andata in Australia, e purtroppo è morta, però ha lasciato la sua testimonianza. Ha lasciato l'Italia, non trovava lavoro, non trovava più pace. Ha sofferto per la lontananza dalla sua terra e per la tortura subita". 

 

L' approfondimento: il racconto del tenente Udovisi.

Il racconto che segue è di Graziano Udovisi. Narra ciò che ha subito dopo essere stato torturato assieme ai suoi compagni di sventura. "C'è un movimento intorno, devo piegare di molto all'indietro la testa per vedere qualcosa e scorgo corpi, anzi delle masse informi alterate come maschere, dipinte d'un colore rossastro. Per quanto posso, punto meglio il mio sguardo sul corpo più vicino e noto un lento, continuo sgorgare di sangue dalle tante ferite che rendono la sua schiena una poltiglia informe. Pure un altro si guarda intorno. Un occhio diventato una massa nera, gonfia, chiusa, mostruosa, si erge sul volto rigato di sangue, che cola dal capo e dall'irriconoscibile fronte ...Con uno sforzo cerco di alzarmi, traballo, cado sui ginocchi vorrei stendere le mani …le mani no, non posso aiutarmi sono legate dietro la schiena col filo di ferro "Presto bastardi, traditori, presto! Mettevi in fila!" comanda il grosso, alto caporione calciando il corpo steso per terra e strattonandomi per i capelli...
[Ha inizio il calvario verso là Foiba. Il capo] ... mi si avvicina e sferza ripetutamente il mio corpo rabbiosamente. Mi fa avanzare, estrae lentamente la pistola dalla fondina, la impugna per la canna e picchia con forza il calcio dell'arma all'altezza del mio orecchio già precedentemente leso. Sento la mascella staccarsi, cedere. Al momento non sento dolore. La lunga tortura mi ha reso insensibile..."Avànti, avanti!" Il filo di ferro preme là dove si è fossato, nell'incavo interno del gomito, sul tendine del muscolo, e il dolore si manifesta gradualmente con il tremito di tutto il corpo ....Cado... Fulminea arriva la pesante vigliacca botta ... Vengo sospinto sul terreno in pendenza ... c'è una roccia ai miei piedi, bianca, che scende in verticale e si perde in una grande fossa scura, voragine già conosciuta in altra parte, non lontano da qui. Madonna, Madonna mia! E' la foiba !
"Siamo pronti, il masso è legato al collo" dicono alcune voci ... Il mortale crepitio delle armi é assordante, vedo la fiamma uscire da uno dei mitragliatori puntato su di noi. Mi sento spingere, non attendo oltre, mi butto ....Cado su di un ramo sporgente che sembra trattenermi, ma subito si strappa e rovina con me. Precipito in quella gola nera. Un tonfo, più tonfi e l'acqua si chiude su di noi. Mi sento trascinare giù verso il fondo. L'istinto di conservazione mi fa muovere ritmicamente gambe e braccia indolenzite per giungere in superficie. Tocco una grossa zolla erbosa, no è una testa e tra le mie dita ci sono i capelli. Afferro e tiro spasmodicamente verso di me quel corpo quasi inerte. Risaliamo insieme, sono a pelo d'acqua, emergo con la testa e respiro a pieni polmoni."
Gli assassini sono rimasti sul posto, hanno sentito fruscii sospetti provenienti dal fondo e per chiudere definitivamente l'impresa eroica lanciano una bomba a mano, poi ancora una seconda. I due infoibati, dopo un po' si rendono conto che tutto sembra finito."L'amico - racconta Udovisi - mi fa notare una rientranza che ci può accogliere. Ascoltiamo se giunge qualche suono di voce o rumore di passi ...Con fatica ci arrampichiamo e ci rannicchiamo in quel breve spazio".

Il sottotenente Graziano Udovisi non è stato riconosciuto invalido di guerra, non gli è stato riconosciuto il grado né il servizio militare prestato, non ha potuto ottenere quindi la pensione di guerra e non percepisce alcunché. In compenso lo Stato italiano elargisce la pensione ai suoi infoibatori, con puntualità e continuità. In dollari. E con reversibilità al 100%, secondo la proposta fatta anni addietro da Tina Anselmi. Altrettanto è avvenuto per Giovanni Radeticchio, costretto ad emigrare in Australia.

Clicca qui per scaricare la video-testimonianza di Udovisi.

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- Marisa Brugna: "Mio padre salvo grazie ad un suo cugino". 

"Ricordo mamma vestita di nero che piangeva e papà che non era rientrato a casa. Ad un certo punto abbiamo visto rientrare a casa il carretto trainato da due muli e di papà nessuna traccia. Abbiamo saputo poi che papà era stato prelevato per essere infoibato. Fu salvato ad un passo dalla foiba da un cugino schieratosi con i partigiani di Tito".

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- Renzo De Vidocich  "Venivano nelle case, prelevavano ed infoibavano". 

Scarica (in formato mp3) la sua breve dichiarazione rilasciata ai giornalisti Mediaset cliccando qui. (File di 246 kb - durata: 31'').

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- Annamaria Muiesan  "Mio padre prelevato e mai più rivisto".

Scarica (in formato mp3) la sua breve dichiarazione rilasciata ai giornalisti Mediaset cliccando qui. (File di 392 Kb - durata: 49''). "Ricordo perfettamente quella notte...  si sono presentati sulla porta...  ricordo la sua serenità... diceva...   io non ho nulla sulla coscienza, tornerò... non l'abbiamo mai più rivisto". 

 

 - 8 febbraio 2006: la Repubblica Italiana ricorda Domenico Muiesan.

Giornata del Ricordo – 10 febbraio 2006 – Politeama Rossetti - Trieste

Ora non sarà più consentito alla Storia di smarrire l’altra metà della Memoria. I nostri deportati, infoibati, fucilati, annegati o lasciati morire di stenti e malattie nei campi di concentramento jugoslavi, non sono più morti di serie B. Ieri l’altro, 8 febbraio, al Quirinale, nel corso di una cerimonia vibrante e commovente, il Presidente della Repubblica ha conferito a noi familiari delle vittime una decorazione alla loro memoria . “ La Repubblica Italiana ricorda Domenico Muiesan 1945” è inciso sulla mia medaglia, piccola nella forma, grande nel significato. La Patria comincia a prendere coscienza di una realtà che per oltre sessant’anni è stata dimenticata, stravolta o silenziata. Manca ancora uno sforzo condiviso per stabilire le responsabilità di quel dramma dovuto certo alla ferocia dei titini jugoslavi, ma nel quale i comunisti italiani locali hanno svolto una parte non marginale. Oggi, in occasione della “Giornata del Ricordo” ci viene chiesta una testimonianza per non dimenticare. Vivessi cent’anni non potrei mai liberarmi da quei ricordi dolorosi. Sto ancora male al ricordo della notte del sequestro di mio padre, delle accuse tremende che gli gridano in faccia i gappisti piranesi, fazzoletto rosso e mitra spianato. Sto male al ricordo del breve ritorno con mia madre a Pirano nell’inutile tentativo d’incontrarlo , dei manifesti infamanti affissi per le strade, delle parole del parroco Don Malusà: “No signora xe mejo che no la lo veda”, a sottolineare, lui che i prigionieri li può visitare, Dio sa quali conseguenze per i maltrattamenti subiti. Sto male al pensiero del fabbro che forza la porta del nostro appartamento, a Pirano; degli uomini armati che profanano quelle amate stanze, quelle amate vecchie cose razziate e caricate su un carro già in attesa in contrada. Sto male al ricordo delle lunghe notti insonni di Trieste nell’alloggio di via Guido Reni devastato dalle bombe nelle brande fradice dell’ECA, della pioggia che gocciola nei barattoli sistemati qua e là. Sto male al pensiero di mamma che incurante del pericolo , testardamente percorre con altre la sterminata Jugoslavia nella speranza, nascosta nell’erba alta o fra le stoppie, di riconoscere tra i tanti volti emaciati e barbuti dei prigionieri dei campi, quello del suo caro. 44 furono i cittadini di Pirano e dintorni fatti scomparire dalla faccia della terra. La maggior parte fra il maggio e il giugno ’45. e questo quando a Pirano comandavano non i titini, come ancora oggi si vorrebbe fare credere, ma i comunisti del posto che alla fine delle ostilità s’erano insediati al Comune e s’imponevano sul C.L.N. E comunisti italiani erano i gappisti che non aveva riconsegnato le armi per continuare la loro rivoluzione, mandati di notte di casa in casa a sequestrare i “nemici del popolo”. Comunisti italiani quelli che dileggiavano i prigionieri in piazza, quelli che sorvegliavano le carceri, quelli che sovrintendevano agli interrogatori, finché finirono nelle mani dei titini che ne fecero scempio. Di mio padre, dunque, quasi tutto si sa sul sequestro, sulla prigionia, sulle sevizie, sui dileggi diurni e sugli interrogatori notturni, e sono anche noti i nomi degli aguzzini. Ma a quasi sessantun anni da quei dolorosi eventi, sul come e dove egli abbia immolato la sua vita, nonostante le tante ipotesi e congetture sollevate, ancora nulla si sa di preciso. Ed è d’altra parte inutile che in tanti si affannino a correre a Lubiana a spulciare negli archivi aperti da poco: tutti sanno che negli archivi si trova quello che si vuol far trovare. Mio padre dunque resterà per sempre senza sepolcro. E senza un fiore. Esiste una sola, unica e incontrovertibile certezza: se nei nostri paesi non ci fossero stati quei piccoli comunisti italiani assetati di potere e animati di odio ideologico e di spirito di vendetta, e non avessero messo in atto una caccia spietata ai loro nemici storici, indifferente se buoni o cattivi, oggi noi tutti piangeremmo un numero assai meno elevato di scomparsi. Ed è questo che nella Giornata del Ricordo si deve dire a chi ancora non sa.

 

 

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