Home Page                Le vicende storiche.

 

  Le vicende storiche in generale.

- Premessa.
- Gli errori italiani.
- Le prime foibe nel 1943.
- Le foibe del 1945.

 

  Approfondimenti (ampi stralci sono stati tratti dal libro "Foibe" di R. Pupo - R. Spazzali).

- L' 8 settembre 1943.
- I proclami di annessione.
- Gli arresti.
- Le uccisioni.
- Le conseguenze delle foibe.
- La primavera-estate del 1945.
- La sorte dei militari.
- La persecuzioni degli antifascisti italiani.
- L' "epurazione" della società giuliana.
- Il deragliamento della violenza.
- Le contraddizioni della repressione.
- Quante vittime?

 

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  Le vicende storiche in generale.

Premessa.

  Il dramma delle foibe istriane e triestine ha origini fin dal 1918 quando l'Italia riceve a seguito della vittoria nella guerra del '15-'18 tutta l'Istria con circa 500 mila slavi senza il loro consenso. Questo creerà negli anni seguenti un movimento irredentista slavo al quale l'Italia non saprà opporre un'intelligente politica di coinvolgimento.

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Gli errori italiani, in sintesi, sono i seguenti:

a) arrivo di una amministrazione pasticciona, con la nostra solita burocrazia di stampo borbonico-piemontese che sarà considerata una autentica iattura in quelle zone. Teniamo presente che eravamo stati preceduti da una amministrazione austro-ungarica efficiente, elastica ed onestissima, con una secolare tradizione di amministrazione su popoli diversi nel composito impero asburgico;

b) compressione degli usi e costumi slavi con ostacoli anche all'uso della stessa lingua: un fatto eclatante è quello narrato in un libro in cui si racconta che ai tempi dei bombardamenti alleati fu colpita Muggia e gli abitanti dovettero chiedere alle autorità della RSI il permesso di cantare, durante i funerali in chiesa, i canti religiosi in sloveno dato che tale lingua non era ammessa; in sostanza la nostra presenza dopo il 1918 fu vista dai locali piuttosto male.        

        

c) La situazione economica generale risentiva delle difficoltà dell'epoca (crisi del '29) sulle quali l'Italia aveva responsabilità relative. Non dimentichiamo che fino al 1918 alle spalle di Trieste e di Fiume c'era un grande impero di cui Trieste e Fiume erano i porti principali. L'arrivo dell'Italia coincise con la decadenza sopratutto di Trieste come del resto è noto.

Nel complesso gli istriani e giuliani di lingua slovena si sentirono degli occupati e rimpiangevano l'Austria-Ungheria. Non parliamo poi della toponomastica e dei nomi dei paesi e città dove le tradizioni locali vennero piuttosto ignorate. Gli eventi della Seconda Guerra Mondiale acuirono ancora la situazione specie con lo sviluppo delle resistenza armata degli slavi contro gli italiani ed tedeschi, con conseguenti rappresaglie. Da tenere presente che in sostanza gli slavi o almeno la parte preponderante dei loro combattenti era composta da comunisti, il che condizionò ancora di più le scelte degli italiani residenti colà. E' certamente vero che la fuga degli italiani avvenne proprio anche per non cadere sotto un regime comunista. Ne esce male anche il CLN italiano che, benché avvisato di quello che poteva succedere ed invitato dai tedeschi e dai fascisti a fare fronte comune contro il calare delle bande slave, non accettò, finendo così in parte nelle foibe, anche se i più scapparono a Venezia per sfuggire alla mattanza.

Di certo la politica italiana, tra il 1918 ed il 1945, non brillò certo per lungimiranza. Diversi sono gli episodi che videro i nostri militari autori di violenze, devastazioni e incendi (la foto sotto ritrae l'incendio di un villaggio). Per maggiori informazioni clicca qui, si aprirà la pagina contenente "il punto di vista dei partigiani".

 

 

Tra l'altro la quasi totalità delle condanne a morte comminate dal Tribunale Speciale negli anni '25-'41 in Italia, riguardò al 90% irredentisti slavi. Si tratta, in sostanza, di vicende disgraziate, frutto molto delle sistemazioni territoriali seguite alla Prima Guerra Mondiale, dove il nostro intervento a fianco degli alleati fu compensato regalandoci nient'altro che dei contenziosi con mezzo mondo mentre questi ultimi si prendevano le colonie tedesche e si spartivano il bottino.

- Aggiornamento del 18 marzo 2006 - Un ex ufficiale medico afferma: "Nell'orrore delle foibe nessuna responsabilità dei militari italiani" (articolo tratto da "Il Giorno" del 18/03/2006).

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Le prime foibe: autunno 1943.

Il fenomeno iniziò nell'autunno del '43, subito dopo l’armistizio, nei territori dell’Istria, abbandonati dai soldati italiani che li presidiavano e non ancora sotto il controllo dei tedeschi, quando i partigiani delle formazioni slave, ma anche gente comune, per lo più delle campagne, fucilarono o gettarono nelle foibe centinaia di cittadini italiani, bollati come "nemici del popolo". Il numero delle vittime non è quantificabile con precisione. Comunque dovrebbero essere un migliaio tra infoibati, caduti nelle zone costiere, dispersi in mare.

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Le foibe del 1945.

Le foibe, però, ebbero la loro massima intensità nei quaranta giorni dell'occupazione jugoslava di Trieste, Gorizia e dell'Istria, dall'aprile fino a metà giugno '45, quando gli anglo-americani rientrarono a Trieste occupata dalle milizie di Tito. Tra marzo e aprile, anglo-americani e jugoslavi si impegnarono nella corsa per arrivare primi a Trieste. Giunse per prima la IV armata di Tito che entrò in città il 1º maggio alle 9:30. Come scrive Gianni Oliva, gli ordini di Tito e del suo ministro degli esteri Kardelj non si prestavano a equivoci: «Epurare subito», «Punire con severità tutti i fomentatori dello sciovinismo e dell’odio nazionale». Era il preludio alla carneficina, che non risparmiò nemmeno gli antifascisti di chiara fede italiana, nemmeno membri del Comitato di liberazione nazionale. Ci fu una vera e propria caccia all'italiano, con esecuzioni sommarie, deportazioni, infoibamenti. In quel periodo solo a Trieste  furono deportate circa ottomila persone: solo una parte di esse potrà poi far ritorno a casa. I crimini ebbero per vittime militari e civili italiani, ma anche civili sloveni e croati, vittime di arresti, processi farsa, deportazioni, torture, fucilazioni. La mattanza si protrasse per alcune settimane, sebbene a Trieste e a Gorizia fra il 2 e il 3 maggio fosse arrivata anche la seconda divisione neozelandese del generale Bernard Freyberg, inquadrata nell’VIII armata britannica. Finì il 9 giugno quando Tito e il generale Alexander tracciarono la linea di demarcazione Morgan, che prevedeva due zone di occupazione – la A e la B – dei territori goriziano e triestino, confermate dal Memorandum di Londra del 1954. È la linea che ancora oggi definisce il confine orientale dell’Italia. La persecuzione degli italiani, però, durò almeno fino al '47, soprattutto nella parte dell'Istria più vicina al confine e sottoposta all'amministrazione provvisoria jugoslava.

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  Approfondimenti.

 

  L'8 settembre 1943.

Dopo l' 8 settembre, crollate le strutture dello stato italiano, l'Istria interna divenne per breve tempo terra di nessuno poiché i tedeschi occuparono subito i centri strategici di Trieste, Pola e Fiume, ma per carenza di forze trascurarono l'entroterra. A colmare il vuoto di potere si mossero gli antifascisti: con qualche titubanza quelli italiani - soprattutto, ma non esclusivamente, comunisti - che erano presenti nelle città costiere, e con maggior decisione e urgenza quelli sloveni e croati legati al Movimento di liberazione iugoslavo. "Pale movimento era già da tempo attivo sul territorio istriano, non però con unità combattenti, ma con una rete clandestina impegnata soprattutto nella raccolta di informazioni e nel reclutamento di giovani per le formazioni partigiane croate operanti nei dintorni di Fiume e sul massiccio dei Gorski Kotar. La fase confusa che seguì all' 8 settembre è stata correntemente qualificata come "insurrezione popolare", ma in effetti si tratta di una definizione che ha suscitato alcune perplessità, perché gli insorti non trovarono alcuna opposizione e si limitarono in genere a occupare le posizioni chiave sul territorio e a raccogliere le armi abbandonate dalle truppe italiane; essa tuttavia può essere accolta per indicare la vastità del moto che interessò buona parte della penisola, a patto però di aver ben presente che si trattò di un insieme di sollevazioni guidate da diverse forze scarsamente coordinate e non sempre concordi, che portarono all'insediamento di una miriade di organismi provvisori e talvolta reciprocamente concorrenziali. In ogni caso, a una prima fase spontaneista ne seguì un'altra, contrassegnata dal riuscito tentativo degli organi del Movimento popolare di liberazione jugoslavo di assumere il pieno controllo della situazione militare e politica, grazie anche all'arrivo in Istria di forze partigiane e di quadri dirigenti dei Partito comunista croato.

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  I proclami di annessione.

La preoccupazione politica prioritaria dei nuovi poteri instauratisi sul territorio istriano fu quella di decretare l'annessione della regione alla Jugoslavia. Ciò avvenne con una serie di proclami diffusi da diversi organismi partigiani: in prima istanza, la volontà dell'Istria a "essere annessa alla madrepatria croata" venne manifestata il 13 settembre del 1943 da parte del Comitato popolare di liberazione a Pisino, e subito dopo, il 20 settembre, lo ZAVNOH (il Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia) proclamò a Otocac l'annessione alla Croazia e, per il suo tramite, alla Jugoslavia, di tutti i territori ceduti all'Italia, vale a dire l'Istria, Fiume e Zara, oltre alla Dalmazia occupata dagli italiani nel 1941. Da parte sua, il 16 settembre il plenum del Fronte di liberazione nazionale della Slovenia assunse una decisione simile in merito all'annessione del litorale sloveno (con Trieste e Gorizia). Tali decreti sarebbero stati solennemente fatti propri il 30 novembre a Jajce dall'AVNOJ, l'organo supremo del Movimento di liberazione jugoslavo.
Sulla natura dei decreti di annessione vi fu all'epoca qualche fraintendimento che si è riflesso talvolta anche in sede di analisi storica e che ha portato alla sottovalutazione degli effetti politici di quegli atti, considerati poco più dell'espressione, per quanto solenne, di un pacchetto di rivendicazioni da conquistare con la lotta militare e politica. Al contrario, dai partigiani sloveni e croati essi vennero accolti come provvedimenti aventi forza di legge emanati dall'unico organo cui gli aderenti al Movimento di liberazione jugoslavo riconoscevano tale diritto, l'AVNOJ appunto. Come conseguenza di tali deliberazioni perciò, l'annessione veniva considerata una realtà già in atto, che andava ovviamente difesa con le armi e la diplomazia, ma che in Istria, così come per Fiume e per il litorale sloveno rendeva gli organi creati dal medesimo Movimento di liberazione gli unici legittimi detentori del potere. È solo a partire da tale fatto compiuto che possono essere pienamente comprese non solo la complessa pagina dei rapporti tra il Movimento di liberazione jugoslavo e quello italiano nei territori che le "autorità popolari" e il Partito comunista sloveno e quello croato consideravano già appartenenti al nuovo stato jugoslavo, ma anche le logiche sottostanti alla repressione che ben presto si abbatté sulla popolazione italiana dell'Istria.

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  Gli arresti.

Ben presto infatti nella regione cominciarono gli arresti, la cui tipologia risulta piuttosto ampia, ma non per questo meno significativa. Nelle località costiere, dove il potere era stato inizialmente assunto da elementi antifascisti italiani, a venir imprigionati furono prevalentemente squadristi e gerarchi locali. Accanto a essi però, nelle aree controllate dagli insorti croati, vennero fatti sparire i rappresentanti dello stato, come podestà, segretari e messi comunali, carabinieri, guardie campestri, esattori delle tasse e ufficiali postali: era questo un segno evidente della volontà diffusa fra i quadri del Movimento popolare di liberazione di spazzare via chiunque ricordasse l'amministrazione italiana, odiata dalla popolazione croata per il suo fiscalismo oltre che per le sue prevaricazioni nazionalistiche e poliziesche. Ma nell'insurrezione i connotati etnici e politici si saldavano inestricabilmente a quelli sociali, e così nelle campagne bersaglio prioritario delle retate divennero anche i possidenti italiani, che caddero vittime di quell'antagonismo di classe che da decenni li vedeva contrapposti a coloni e mezzadri croati. Si trattava di un antagonismo che risaliva all'epoca asburgica, ma che era stato ulteriormente esasperato dal brusco arresto che il fascismo aveva imposto alle aspirazioni di emancipazione sociale (lei coltivatori slavi. Sorte simile toccò a molti dirigenti, impiegati e capisquadra d'imprese industriali, cantieristiche e minerarie, specie nella zona di Albona, dove preesisteva una lunga tradizione di lotte operaie e dove nel primo dopoguerra c'era stato addirittura il tentativo di costituire una repubblica ispirata a quella dei soviet.
La repressione però si estese ulteriormente e scomparvero anche commercianti, insegnanti, farmacisti, veterinari, medici condotti e levatrici, vale a dire le figure più visibili delle comunità, come pure alcuni membri italiani dei neutri Comitati di salute pubblica che erano stati costituiti in alcune località subito dopo l'8 settembre; sembrava dunque che l'intera classe dirigente italiana fosse sotto tiro, ma arresti e uccisioni colpirono anche altri soggetti, sempre italiani, comprese alcune donne che furono oggetto di violenze, in uno sgorgate tragico e incontrollato d'antichi e recenti attriti paesani.
Riguardo alla larghezza dello spettro repressivo, fonti croate del tempo chiariscono come uno dei compiti affidati, ai nuovi "poteri popolari" fosse stato quello di "ripulire" il territorio dai nemici del popolo". È questa una formula che rimanda a precedenti ben precisi: quello della rivoluzione sovietica e quello della guerra civile spagnola, alle quali diversi attivisti politici locali avevano partecipato; nell'esperienza della lotta partigiana jugoslava tale espressione indicava tutti coloro che, per una varietà di ragioni, non collaboravano attivamente con il Movimento di liberazione guidato dai comunisti di Tito. Si trattava quindi di una definizione assai elastica, che lasciava amplissimi margini di discrezionalità e si prestava a giustificare politicamente l'eliminazione di chiunque, singolo o gruppo, venisse considerato di ostacolo all'affermazione del fronte di liberazione.

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  Le uccisioni.

La maggior parte degli arrestati venne concentrata in alcune località di raccolta e soprattutto a Pisino, città posta al centro della penisola istriana e tradizionalmente considerata dagli slavi la culla della croaticità istriana; qui si celebrarono i processi sommari, condotti senza particolare scrupolo per l'accertamento di responsabilità criminose e conclusi quasi sempre con la condanna a morte, l'esecuzione - in genere collettiva - e l'occultamento dei corpi nelle cavità ovvero, nelle località costiere, con la dispersione in mare delle spoglie. Sembra che le fucilazioni sull'orlo delle foibe venissero condotte in modo da precipitare nelle voragini anche condannati ancora vivi. Il ritmo delle eliminazioni si accelerò bruscamente agli inizi di ottobre quando, costrette ad abbandonare il campo di fronte all'offensiva generale delle truppe tedesche, le "autorità popolari" preferirono non lasciarsi dietro scomodi testimoni e procedettero alla liquidazione in massa dei prigionieri, con una decisione che si collocava tra la volontà di condurre una guerra a oltranza in cui non vi era posto per la pietà, e la criminalità politica vera e propria.
Diverse logiche si sommarono dunque nel dar vita agli eccidi. La distruzione dei catasti da parte dei contadini croati, i linciaggi, le violenze - anche di gruppo - a carico di ragazze e donne incinte, la stessa efferatezza delle esecuzioni, spesso accompagnate da sevizie, ci restituiscono infatti il clima di una selvaggia rivolta contadina, con i suoi improvvisi furori e la commistione di odi politici e personali, di rancori etnici, familiari e di interesse. Ciò non significa però che negli avvenimenti, certo confusi, di quei giorni non siano ravvisabili anche clementi significativi di organizzazione. Dietro il giustizialismo sommario e tumultuoso, i regolamenti di conti interni al mondo rurale istriano, il parossismo nazionalista, gli stessi aspetti di improvvisazione evidenti nella repressione, non è difficile insomma scorgere gli esiti di un progetto, per quanto disorganico e affrettato: un progetto rivolto alla distruzione del potere italiano sull'entroterra istriano e alla sua sostituzione con il contropotere partigiano, portatore di un disegno annessionistico della regione alla Croazia e, quindi, alla Jugoslavia. Si trattava in questo caso di un nuovo potere di natura rivoluzionaria, intenzionato a mostrare la propria capacità di vendicare i torti, individuali e storici, subiti dai croati dell'Istria, e al tempo stesso di coinvolgere e compromettere irrimediabilmente la popolazione slava in una guerra senza quartiere contro gli italiani, equiparati tout court ai fascisti, che veniva considerata la premessa indispensabile per il ribaltamento degli equilibri nazionali e sociali nella penisola.

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Le conseguenze delle foibe.

Rilevante fu il peso delle foibe istriane sia sul breve che sul lungo periodo. Gli episodi dell'autunno del 1943, la cui eco fu rilanciata dalla propaganda tedesca e della Repubblica sociale italiana, contribuirono a irrobustire diffidenze e timori dei giuliani di sentimenti italiani nei confronti di un movimento partigiano egemonizzato dai comunisti jugoslavi, rendendo più difficile per gli italiani la scelta della partecipazione alla Resistenza. Ma oltre a ciò, l'esperienza traumatica del 1943 diffuse in tutta la regione la preoccupazione per una nuova e forse definitiva ondata che avrebbe travolto gli italiani nel caso la Venezia Giulia fosse nuovamente caduta sotto il controllo jugoslavo. In questo senso, è legittimo parlare dei successivi avvenimenti citi 1945 come di una violenza annunciata, che venne intesa come la conferma dei tumori accumulativi negli anni precedenti.
Non vi è quindi da stupirsi se, nella percezione dei protagonisti dei tempo, il ripetersi delle stragi venisse poi avvertito come la testimonianza sanguinosa di un disegno di eliminazione della componente italiana dai territori rivendicati dalla Jugoslavia. II discorso non si ferma qui. Negli anni del dopoguerra non si ebbero pila episodi di violenza di massa paragonabili ai due picchi del 1943 e del 1945, ma nell'Istria, a diverso titolo sottoposta al controllo jugoslavo, continuo fu lo stillicidio di violenze a danno degli italiani, non escluse le uccisioni e le sparizioni: episodi tutti che gli italiani dell'Istria collegarono a quelli, in qualche modo esemplari, del tempo di guerra. traendone la convinzione di una continuità di comportamenti terroristici nei loro confronti da parte dei nuovi poteri instauratisi sul territorio. E tale consapevolezza paurosa, all'interno della quale si prestava a venir compreso facilmente ogni atteggiamento persecutorio sviluppato da parte delle autorità, offri un contributo tutt'altro che marginale alla scelta dell'esodo che nel dopoguerra avrebbe svuotato l'Istria dalla quasi totalità della popolazione italiana.

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  La primavera-estate del 1945.

La disponibilità delle fonti relative al 1945 e decisamente maggiore rispetto a quella per il 1943: non si tratta di un mero dato quantitativo, perché ciò che veramente conta è la possibilità di incrociare il cospicuo materiale raccolto da parte italiana con quello proveniente dagli archivi inglesi e americani e, da ultimo, anche da quelli sloveni. Mancano ancora all'appello fondi importanti, custoditi presso gli archivi di Belgrado, come per esempio quelli relativi al comportamento della IV armata jugoslava, ma nel complesso la documentazione oggi accessibile consente di farsi un'idea abbastanza precisa sia degli avvenimenti che elci meccanismi che vi presiedettero.

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  La sorte dei militari.

Nei primi giorni di maggio del 1945 le truppe jugoslave (partigiani dei IX corpo d'armata e unità regolari della IV armata) occuparono tutto il territorio della Venezia Giulia, accolsero la resa dei reparti tedeschi e della Repubblica di Salò e, secondo una prassi correntemente messa in atto da un esercito vittorioso nei confronti degli avversari in anni, procedettero all'internamento di tutti i militari catturati. Durissimo peraltro fu il trattamento inflitto ai prigionieri, molti dei quali perirono di stenti o furono liquidati nei campi di concentramento - particolarmente famigerato fu quello di Borovnica - e durante le marce di trasferimento, che si trasformarono sovente in marce della morte.
Non tutti i militari però vennero deportati. Specialmente nella prima decade del mese numerose. presumibilmente alcune centinaia, furono le esecuzioni sommarie, compiute in genere subito dopo la cattura e decise non solo senza previo accertamento, mia talvolta anche. senza vero interesse per la ricerca di effettive responsabilità personali in atti criminosi; ciò che contava, infatti, nel caso dei militari, non era tanto il riconoscimento individuale di responsabilità, quanto la colpa collettiva, che veniva fatta automaticamente derivare dall'appartenenza alle forze armate naziste e repubblichine. La medesima linea di condotta venne applicata anche agli appartenenti alle forze di polizia, per i quali la presunzione di colpevolezza discendeva direttamente dall'inserimento nell'apparato repressivo nazifascista, tanto che i procedimenti nei loro confronti assunsero una valenza più simbolico-politica che giudiziaria.
Tutto ciò non implica, naturalmente, che fra gli uccisi non vi fossero effettivamente anche professionisti della violenza, protagonisti di rappresaglie e sevizie, spie - anche slovene e croate - e aguzzini del famigerato Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia, il cui sistematico ricorso alla tortura era già stato oggetto di forti denunce, anche da parte del vescovo di Trieste, e ciò fin dalla primavera 1943. In quest'ultimo caso si trattava di soggetti che avrebbero probabilmente fatto la medesima fine anche se ad assumere il controllo del territorio non fossero state le truppe jugoslave ma i partigiani italiani: difatti, il più efferato dei responsabili dell'Ispettorato, il vicecommissario Gaetano Collotti, fuggito per tempo da Trieste, venne fermato a Treviso, identificato dall'avvocato triestino Pietro Slocovich e fucilato sul posto.
In linea di massima però il criterio di fondo degli arresti, e in parte anche delle liquidazioni, si fondava più sulla categoria che sull'individuo, sulla responsabilità collettiva piuttosto che su quella individuale, e a essere travolti dalla repressione furono in maggior misura i quadri intermedi che non i vertici della Questura di Trieste; parzialmente diversa fu la situazione a Gorizia, dove, assieme a carabinieri e agenti di polizia, scomparve anche il questore.
Sempre nella logica dell'eliminazione delle forze armate esistenti sul territorio, rientra anche la deportazione delle unità della Guardia di finanza, che non avevano partecipato ad azioni antipartigiane, e di molti membri della Guardia civica di Trieste, che certamente era stata dipendente dai comandi tedeschi, ma non era stata impiegata in attività repressive, con l'eccezione di un reparto che venne adibito alla scorta di deportati in Germania, forse lo stesso che venne utilizzato in appoggio a un rastrellamento in un quartiere operaio della città a pochi giorni dalla fine della guerra. Per di più, entrambe le formazioni erano state largamente infiltrate dall'organizzazione militare dei Comitato di Liberazione nazionale (CLN) e avevano partecipato sotto i suoi comandi all'insurrezione contro i tedeschi. Si trattava quindi, quantomeno, di "nemici" assai particolari.
Ma se nei loro riguardi si potrebbe pensare a una sorta di diffidenza verso gli antifascisti dell'ultima ora, tale ipotesi non regge di fronte all'arresto anche di alcuni membri delle brigate partigiane italiane dipendenti dal (IN di Trieste, i cui combattenti furono spesso considerati alla stessa stregua dei militari germanici e della Repubblica sociale. La circostanza però è meno incomprensibile di quanto non sembri a prima vista perché, in effetti, le fonti ci rivelano in maniera assai esplicita come i dirigenti comunisti sloveni non intendessero in alcun modo tollerare l'esistenza di strutture politiche e forze militari, quelle appunto facenti capo al CLN, che non solo non erano disponibili ad accettare la guida politica e la subordinazione pratica al Movimento di liberazione jugoslavo, ma che, per di più, si erano impegnate a cercare, mediante l'insurrezione armata, un'autonoma legittimazione antifascista agli occhi della popolazione e degli angloamericani.

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  La persecuzioni degli antifascisti italiani.

Che all'origine della repressione vi fosse anche la preoccupazione per l'esistenza di possibili nuclei di contropotere o, quantomeno, di contestazione alle pretese egemoniche dei "poteri popolari", è confermato dal fatto che a Trieste e Gorizia le autorità jugoslave perseguitarono gli stessi membri dei rispettivi CLN, alcuni dei quali trovarono così la morte. Lo stesso accadde anche a Fiume, dove arresti e uccisioni colpirono non solo gli aderenti al Comitato di liberazione nazionale, ma anche quel movimento autonomista fiumano che si rifaceva alla lotta per lo Stato libero di Fiume combattuta nel primo dopoguerra contro D'Annunzio e il suo progetto d'annessione della città all'Italia, e che godeva di largo seguito fra la popolazione. All'interno dei medesimo disegno sembra collocarsi anche la scomparsa di quegli esponenti della Resistenza italiana che nell'estate-autunno del 1944, quando era sembrato profilarsi uno sbarco anglo-americano nell'Adriatico settentrionale, avevano avuto contatti con emissari dei Movimenti di liberazione sloveno e croato.

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  L' "epurazione" della società giuliana.

Dell'internamento, come pure delle liquidazioni, dei militari italiani si occupò direttamente la IV armata jugoslava, mentre la protagonista delle retate di civili fu l'OZNA, la polizia politica e di sicurezza, col concorso della Difesa popolare, una milizia paramilitare agli ordini del Consiglio di liberazione. Parteciparono agli arresti anche forze armate jugoslave, e pure qualche piccolo reparto della divisione "Garibaldi-Trieste". L'OZNA agiva in base al mandato conferitole nell'autunno del 1944 dai vertici del Partito comunista sloveno e poteva servirsi di una vasta rete di confidenti, italiani e sloveni, già da mesi impegnati a stendere lunghe, anche se non sempre precise, liste di presunti "nemici del popolo". Come si è già detto a proposito della crisi dell'autunno 1943, era questa una categoria dai contorni indefiniti nella quale, nella primavera del 1945, finì per confluire un gran numero di soggetti.
Ovviamente, bersagli della repressione furono gli esponenti del fascismo e del collaborazionismo locale, anche se in realtà i leader del PFR avevano preso in genere per tempo la fuga, mentre i vertici delle amministrazioni insediate dai tedeschi vennero arrestati e fatti sparire a Gorizia, ma non a Trieste; rispetto ai personaggi di rilievo, con maggior accanimento vennero ricercati i "pesci piccoli", gli ex squadristi in genere ben conosciuti dalla popolazione. La persecuzione si abbatté largamente sui dirigenti delle forze politiche italiane e slovene diverse dal Partito comunista, e su di un gran numero di soggetti ritenuti per i più diversi motivi "pericolosi" nell'ottica dei nuovi poteri. Poteva trattarsi di persone che si erano in qualche modo rese invise al Movimento di liberazione jugoslavo, rifiutandosi per esempio di collaborare con esso o semplicemente esprimendo la propria disapprovazione nei confronti dei suoi obiettivi e metodi, o che avevano compiuto in passato scelte politiche di stampo patriottico quando non esplicitamente fascista (per le autorità jugoslave ciò non faceva molta differenza), dalla partecipazione come volontario irredento alla Grande guerra o a quelle di Spagna e d'Abissinia; oppure, ancora, che si erano rifiutate di esporsi in favore del nuovo regime, per esempio negando la loro firma alle petizioni in favore della Jugoslavia promosse dai "poteri popolari". Allo stesso modo vennero colpiti clementi che detenevano posizioni importanti nell'economia e nella società triestina, o, più frequentemente, che avevano ricoperto qualche incarico in una delle tante organizzazioni di massa del regime fascista. In ogni caso, si trattava di individui dai quali il nuovo regime poteva attendersi un atteggiamento d'opposizione o anche soltanto di sicuro dissenso nei confronti dell'annessione alla Jugoslavia e della costruzione di uno stato comunista, e ciò non sembrava in alcun modo tollerabile.
Anche i civili che sopravvissero alle uccisioni concentrate soprattutto nelle due prime settimane di maggio, furono deportati nei campi di prigionia, diversi rispetto a quelli in cui venivano convogliati i militari ma non certo migliori in quanto fame e malattie decimarono i detenuti, alcuni dei quali furono successivamente processati subendo condanne, anche capitali, comminate dai tribunali jugoslavi fino al 1947. Non sempre alla gravità delle accuse mosse agli arrestati (squadrismo, collaborazionismo, persecuzione degli slavi, delazioni a carico di partigiani, ostilità manifesta nei confronti del Movimento di liberazione jugoslavo, spionaggio a favore dell'Italia, ecc.) corrispose un reale impegno delle autorità nella ricerca di prove a carico dei detenuti e nemmeno, in numerosissimi casi, un effettivo interesse a verificare la loro posizione; una circostanza, questa, che suggerisce come l'obiettivo principale della repressione non fosse tanto di ordine giudiziario, e cioè la punizione di colpevoli, quanto politico, vale a dire l'eliminazione di individui e gruppi ritenuti pericolosi.

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  Il deragliamento della violenza.

In ogni caso, comunque, non tutto quello che accadde a Trieste e Gorizia nelle settimane del maggio-giugno 1945 può essere immediatamente ricondotto a un'assoluta linearità di scelte politiche e di comportamenti conseguenti. Altri elementi concorsero infatti a dilatare l'ampiezza della repressione. In primo luogo, il clima di "resa dei conti" nei confronti degli avversari etnici e politici alimentato dal ricordo delle sopraffazioni del regime e dalle esperienze ancora brucianti della lotta partigiana. Assieme a questo, l'uso onnicomprensivo del termine "fascista" da parte dei quadri del Movimento di liberazione jugoslavo per qualificare tutti gli oppositori al nuovo progetto politico che si stava affermando con le armi: si trattava di un'equivalenza, tra "Italia" e "fascismo", che appariva certo dei tutto strumentale alle esigenze del momento, ma che si era potuta facilmente radicare anche grazie all'impegno nel saldare i due termini sciaguratamente profuso nel corso del precedente ventennio dal regime di Mussolini. Infine, lo spazio di discrezionalità esistente nella compilazione delle liste, redatte da persone che portavano nell'operazione da cui dipendeva la vita di altri esseri umani non solo il loro radicalismo nazionale e politico, ma anche i loro rancori e interessi.
Tutto ciò spiega largamente come nelle pieghe della repressione mirata si inserirono facilmente anche altre spinte, fra le quali è possibile individuare gli esiti di regolamenti di conti in cui le motivazioni politiche sfumavano in quelle personali, gli effetti delle numerose delazioni, piaga già diffusasi durante l'occupazione nazista e poi proseguita senza soluzione di continuità, l'esigenza di far scomparire possibili testimoni di precedenti atti di violenza, come quelli avvenuti in Istria nel 1943, i comportamenti delittuosi di gruppi che, nel generale sommovimento, varcarono la soglia fra violenza politica e criminalità comune, come la cosiddetta "squadra volante", operante a "Trieste, composta da italiani e insediatasi a Villa Segrè, ai cui delitti venne posto fine da parte delle stesse autorità jugoslave. D'altra parte, la stessa autonomia operativa di cui poteva godere, sia nella definizione dei sospetti che nella gestione dei prigionieri, un organo come l'OZNA, forte del ruolo affidatogli in sede politica e per sua natura portato ad applicare nel nodo più radicale e più spiccio le direttive impartitegli, accrebbe ulteriormente il numero delle liquidazioni immediate.

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  Le contraddizioni della repressione.

Complessivamente si ritiene che fra Trieste e il goriziano vennero arrestate in poche settimane circa diecimila persone; si trattava di una cifra elevata e le dimensioni delle retate, unite all'incertezza sulla sorte degli arrestati, che alla luce della precedente esperienza delle foibe istriane era intesa nel modo più tragico, seminò il panico fra la popolazione italiana. Ciò finì per allarmare le stesse autorità civili jugoslave, che compresero come l'ondata di terrore scatenata nelle città giuliane avrebbe scavato un solco incolmabile fra i nuovi poteri e la maggioranza della popolazione, e si attivarono perciò al fine di contenere gli arresti e di ottenere informazioni sulla sorte dei prigionieri. Nel far questo, peraltro, esse non esprimevano una strategia alternativa rispetto a quella della repressione preventiva, bensì soltanto una preoccupazione di natura tattica, destinata a rimanere inascoltata (salvo il buon esito di qualche singolo intervento a favore di noti antifascisti italiani) di fronte all'assoluta priorità che i vertici del Partito comunista sloveno e di quello croato conferirono in ogni circostanza alle esigenze di controllo totale del territorio, a qualsiasi costo, rispetto alla ricerca del consenso. Come scrisse il leader comunista sloveno Edvard Kardelj ai dirigenti impegnati a costruire il nuovo potere a Trieste e Gorizia, era meglio non concedere subito troppa democrazia, perché poi sarebbe stato difficile fare marcia indietro.

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  Quante vittime?

Quanti sono gli infoibati? Quanti i deportati, gli uccisi in prigionia? Quanti complessivamente gli scomparsi per mano jugoslava nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945 nella Venezia Giulia? A queste domande sono state date nel corso degli anni molte risposte, ma spesso insoddisfacenti. Eppure, per decenni il dibattito sulle cifre ha suscitato più interesse di quello sulle cause, le responsabilità e le dinamiche delle stragi, anche perché in genere alle cifre è stato attribuito il grave compito di spiegare il senso della persecuzione inflitta da parte jugoslava alla fine della seconda guerra mondiale e nell'immediato dopoguerra alla popolazione italiana della Venezia Giulia, fino a provocarne l'esodo dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia.
Diversi studiosi hanno proposto unità di grandezza degli eccidi molto diverse tra di loro: da poche centinaia a migliaia, a decine di migliaia di vittime. Spesso tutti gli scomparsi, anche per cause diverse e in momenti diversi, sono stati genericamente compresi nella categoria degli "infoibati", che in senso stretto riguarda soltanto coloro che sono stati trucidati subito dopo l'arresto, spesso senza nemmeno un procedimento sommario, e scaraventati nei profondi pozzi naturali che si aprono nel suolo carsico della Venezia Giulia. Di volta in volta, per cercare di spiegare l'accaduto e per attirare l'attenzione della pubblica opinione italiana sulla drammatica storia della Venezia Giulia, sono stati adottati termini quali "olocausto", "genocidio", "pulizia etnica", che evocano altre tragedie europee, altre persecuzioni e altri stermini. Spesso però tali confronti, l'uso troppo elastico dei numeri delle vittime di una guerra atroce e senza quartiere, ma anche le semplificazioni interpretative, hanno finito col generare confusione e si sono rivelati come un distorto e debole tentativo di mantenere viva la memoria dell'evento.
Nel secondo dopoguerra sono stati compilati, e anche pubblicati, diversi elenchi di persone scomparse dalla Venezia Giulia; sono lavori d'origine diversa che si avvalgono di ricerche condotte da enti e istituzioni, come la Croce rossa, e di segnalazioni di privati cittadini; schedari analoghi sono stati predisposti dalle associazioni di ex combattenti e di profughi dai territori ceduti alla Jugoslavia. Studi più recenti, condotti dall'istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, hanno utilizzato gli archivi degli uffici anagrafici di tutte le località del Friuli-Venezia Giulia e quelli dei tribunali dove sono custodite le specifiche dichiarazioni di morte e di morte presunta, ma per quanto sia possibile ora avere un quadro abbastanza completo delle dinamiche politiche che presiedettero alle stragi, resta ancora aperto l'interrogativo sul numero delle persone effettivamente scomparse e quindi decedute in seguito all'arresto da parte delle autorità jugoslave e dei suoi fiancheggiatori. Nessuna indagine in materia è stata condotta sui registri anagrafici delle località cedute all'ex Jugoslavia.
Per comprendere le difficoltà della quantificazione bisogna d'altronde considerare la particolare condizione demografica della regione, che vedeva la presenza di molti militari provenienti da altre province italiane, di civili sfollati non solo dalla Dalmazia ma anche dalle province meridionali italiane, di popolazione che aveva abbandonato le proprie residenze in seguito alle operazioni militari, ai rastrellamenti, alle evacuazioni, ai bombardamenti; tutti eventi a seguito dei quali lo stesso quadro degli abitanti, residenti, domiciliati o solo stanziali non è ricostruibile su un corretto piano statistico. Inoltre, è ragionevole ritenere che la scomparsa di molti militari o civili provenienti da altre province italiane sia stata registrata, per omissione di informazioni o per tacito interesse dei familiari, presso le località di residenza con indicazioni approssimative o che non sempre mettevano in luce il ruolo assunto dalle vittime durante l'occupazione nazista della regione e nelle formazioni militari collaborazioniste. Tutto questo è facilmente comprensibile sul piano umano, ma è ciò che certamente complica il lavoro di chi vorrebbe ricostruire i profili sociali delle vittime e non sempre può utilizzare come fonti attendibili gli elenchi nominativi delle imputazioni raccolte dalle autorità jugoslave a carico degli arrestati e deportati, perché spesso viziate, per ammissione delle medesime autorità, da denunce e segnalazioni non verificate.

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