L'ALTRA
AVANGUARDIA
PICCOLA STORIA DELLA MUSICA CONTEMPORANEA A NAPOLI
Girolamo
De Simone
Questo testo è stato pubblicato
nel numero 1/96 di Konsequenz,
Napoli 1996, Edizioni Scientifiche Italiane
Prologo
Questo non è un lavoro sui "giovani" compositori napoletani. Nella storia recente della città l'etichetta più fastidiosa è stata proprio quella della cosiddetta giovane età dei musicisti da promuovere. E non è mancata l'esterofilia, visto che per molti è stato necessario emigrare per trionfare, e solo più tardi poter tornare. Qualcun altro, poi, ha scelto soluzioni definitive e prive d'esito. La morte è l'emigrazione più radicale.
Ancora etichette sono state affibbiate a musicisti, attori o registi che avrebbero dovuto svolgere il ruolo di 'promoter' della città. Una lucida volontà politica, formatasi attorno a un tavolo ad una precisa ora, deliberò che il tale o il talaltro potesse 'funzionare' bene in un determinato ruolo. La politica ha sempre discriminato, ed è stato divertente, negli anni, registrare e riconoscere sui giornali o nei tiggì regionali i volti e i nomi sponsorizzati dalle varie amministrazioni. Qui molti sanno, e non dimenticano, aldilà del generale clima assolutorio del dopotangentopoli.
I "giovani compositori", nel frattempo, invecchiavano a cavallo di quelle amministrazioni, senza sbocciare o permutarsi in artisti affermati economicamente e culturalmente all'interno del circuito nazionale. Il fallimento della Grande Promessa Partenopea ha provocato deflagrazioni, assorbimenti, tacitazioni, ri/velazioni: e gli artisti hanno cominciato a defluire lentamente in crepe, intercapedini, interstizi, ad attecchire come muffe, a frantumare il selciato come radici d'alberi possenti, ad abitare scantinati e colorare appartamenti d'affitto, a riempire con cori cappelle sconsacrate, o a far musica nelle stamberghe dei vicoli di Santa Teresella, su pavimenti traballanti sopravvissuti a terremoti e a disastrosi progetti urbanistici (chi ricorda l'aberrante Neonapoli?).
Una Napoli sotterranea c'è stata davvero, una città d'artisti importantissimi anche se ignoti, o noti ovunque tranne che all'interno delle mura. Concerti per pochi intimi, idee meravigliose naufragate per l'indifferenza dei politici (e vabbé, la cosa non stupisce più nessuno, ormai) ma soprattutto per la tendenziosità e la presunzione, ormai insopportabile, degli organi di stampa, di chi avrebbe dovuto informare e, in tal modo, formare tutta la collettività.
Dentro e fuori di qui
Per tutte queste ragioni mi pare necessario scrivere la storia vera della città sonora: una città ineffabile e invisibile (come in fin dei conti resta ogni suono). La storia sarà parziale, perché andare per rizomi non è facile, la terra è molta, e grotte di tufo s'aprono inaspettate sotto i piedi e dentro ai cortili. Inoltre, questa è una storia tracciata da un musicista che di tanto in tanto si occupò di critica; ma proprio per questo è ancora più sentita e vera. Del resto non conosco critici imparziali.
La visibilità che intendo rappresentare è quella che ho registrato conoscendo di persona molti compositori, non tutti amici o compagni di percorso. Ed è un quadro di quello che sulla scena della musica non di repertorio è passato per la città: dunque non soltanto opere di napoletani, qui o fuori di qui, ma anche eventi che la storia napoletana hanno contribuito a creare, a movimentare. E, soprattutto, uno spaccato sulla deformazione delle notizie da parte della stampa che certo incide sulla qualità della proposta musicale.
Pertanto, se riuscirò nell'intento, il testo esploderà e imploderà di continuo, in una pluralità di riferimenti intrecciati. Vettori di senso non privi di documentazione: si troverà alla fine una ampia mappatura densa di avvenimenti e notizie: una ricostruzione del mio personale archivio, che diventa da questo momento pubblico.
L'incipit
La
storia, per quanto mi riguarda, comincia il 20 aprile del 1979, ad opera di un
originale pianista-compositore. I motivi per i quali scelgo proprio questa data
e questa figura appariranno chiari più avanti, ma anticipo che sono sia di
natura storica che estetica. Eugenio
Fels nasce a Torino, ma si trasferisce ben presto a Napoli, dove studia con una
straordinaria didatta, Antonietta Webb-James, allieva di Beniamino Cesi. [1]
Amici comuni presentano
il giovane concertista a Luciano Cilio, una delle personalità emergenti dello
stagnante mondo musicale cittadino. Luciano ha già pubblicato un disco che non
esiterei oggi a definire mitico, perché del mito conserva impalpabilità (oggi
è un oggetto irreperibile) ed efficacia (continua ad essere evocato da critici
e musicisti di aree differenti); ma di questo dirò più avanti.
Eugenio
'commissiona' a Luciano un pezzo per pianoforte, quello che poi diventerà la IV
Sonata. Il compositore del Vomero vecchio si mette al lavoro, ma segue un
percorso particolare: fortemente impressionato dall'interpretazione di Eugenio
del Notturno op. postuma di Chopin in do diesis minore, comincia ad improvvisare
nella stessa tonalità per definire il materiale del brano. La radice romantica
della IV Sonata , così, non è
affatto casuale: Luciano, in un'intervista concessa a Gino Castaldo, dirà che
in effetti i numeri d'opus precedenti, le sonate numero uno, due e tre non erano
mai esistite, trattandosi di semplici esperimenti. Oggi posso affermare, dopo le
ricerche svolte, che la derivazione romantica è diretta. Eugenio ha
riconosciuto su un nastro fortunosamente ritrovato,
una improvvisazione di Cilio
al pianoforte: si tratta evidentemente, vista la tonalità, di una delle
versioni intermedie, il che ci consente di affermare con sicurezza che il
materiale iniziale era fortemente tonale, salvo poi disgregarsi pian piano
seguendo le operazioni di ripulitura, ricerca di essenzialità e cancellazione
progressiva che caratterizzavano il lavoro compositivo di Luciano. La
disgregazione, la svaporizzazione delle armonie si spinge tanto avanti da
sorprendere e profondamente turbare Eugenio, che nel ricevere la Sonata
non ritrova le improvvisazioni che conosceva.
Il
pezzo che non c'è
Fels
è ad otto giorni dal suo concerto, organizzato ad Ascoli Piceno da Luigi
Petrucci; comprende, come è sua prassi abituale, pezzi di repertorio e brani più
rari o contemporanei. Suonerà nella prima parte opere di Chopin, Schumann e
Liszt e nella seconda tre brani di Debussy, sette preludi dall'op. 11 di
Skryabin (1,2,6,8,10, 13, 14), e, di Cilio, Due
pezzi per pianoforte in prima esecuzione assoluta.
Il
programma era stato stilato in febbraio, poco
dopo aver conosciuto il compositore, e col consueto anticipo che caratterizza le
stantie programmazioni classiche. Ma nonostante tutte le sollecitazioni, la
consegna delle parti avviene soltanto il 20 aprile; Eugenio sarà costretto ad
una variazione, ed interpreterà una funambolica versione pianistica del suo
concerto per pianoforte, la Fantasia da
concerto (talvolta indicata
anche come Adagio e Allegro da concerto).
Ma
ora i due pezzi di Luciano sono in buone mani: si tratta del Terzo
Quadro tratto dal disco[2],
che tanto aveva entusiasmato il pianista al primo ascolto, e della IV
Sonata. Nel '79 Fels eseguirà
Cilio per sei volte, dando inizio ad una collaborazione interrotta soltanto
dalla morte del compositore, nell' '83. I brani verranno suonati, tra l'altro,
al Teatro in Trastevere a Roma, all'Arena Civica e alla Sala Verdi di Milano, e,
cosa importantissima, alla Galleria di Lucio Amelio. Dopo tanti anni, ed il
breve film-documentario di Martone sulla figura del gallerista, possiamo
definire significativo e tellurico l'incontro Cilio/Amelio, produttivo di
reazioni a catena per entrambi. Inoltre, come già accennato, una esecuzione
radiofonica in diretta verrà ospitata dal programma Rai di Castaldo.
E'
andata, si sta finalmente scrivendo una nuova pagina per la storia della musica
contemporanea a Napoli.
Ma
quanto grande?
Quanto
è 'grande', in senso sostanziale, la vicenda che comincia proprio nel '79? E'
importante precisarlo subito, perché qui nessuno ha intenti nostalgici: degli
eventi narrati si mantengono impressioni di tutti i tipi, ma non certo di
bonaria e conciliata memoria. Anche a
Napoli, ma soprattutto a Napoli,
c'era qualcuno che aveva intuito gli stilemi della musica del futuro, e fin dai
lontani anni settanta. In un articolo
molto tormentato (ancora oggi il
coinvolgimento affettivo è grande), capovolgevo il titolo dell'unico disco di
Luciano, stigmatizzando tutto il suo percorso musicale. I Dialoghi dal futuro non uscirono mai dal suo verticalino, o dalla
chitarra: non ne ebbe il tempo. Ma la sua esigua produzione parla ancora oggi, e
può certamente consegnare lezioni al futuro.
Cilio
iniziò il suo percorso studiando architettura, e chiunque abbia frequentato
quella facoltà impara presto a fare i conti con molti dei nonsense di questa
città. Da subito è centro d'interesse per molti musicisti di
derivazione "leggera" (le virgolette,
quando si parla di generi, non sono casuali, perché non credo a partizioni di
valore o di opportunità), si occupa di scenografia e di teatro. Una sua foto,
opera di Fabio Donato, lo ritrae in un momento scenico di grande effetto ed
impatto. Partecipa al Prometeo legato
da Eschilo, scrivendo le musiche di scena, rappresentato a Firenze nel
'72, e poi sempre citato nei suoi curriculum. Incrocia così la sua attività a
quella del teatroesse di Napoli. In quel periodo incontra Alan Sorrenti, che sta
per pubblicare Aria, un disco straordinario il cui ascolto apre spiragli anche
sulla musica del musicista architetto.
La
nuova aria d'Alan Sorrenti
Avendo
nelle orecchie l'ultima produzione di Sorrenti si sarebbe inizialmente tentati
di chiedersi cosa mai c'entra la sua vicenda con quella di Luciano. E tuttavia
il collegamento, messo in luce da un critico jazz, esiste, anche se
dissento dal far pendere la bilancia dalla parte dell'autore di Aria.
Questo disco, ora riversato su CD sempre per la EMI (codice 724347947124), si
compone di soli quattro pezzi, cantati e strumentali, ma con una sproporzione
notevole di durata tra la titletrack e le altre tracce. Vorrei
incontrarti, La mia mente, Un fiume tranquillo, mi paiono ugualmente significative, ma quasi emanazioni di Aria.
Quindi, dal punto di vista della modernità, funzionano senz'altro meglio,
perché più immediate e concentrate. Da quello dello sperimentalismo, invece, e
cioè delle tecniche messe in mostra, Aria
resta insuperata. Il personale del disco consiste nelle percussioni di
Antonio Esposito, nel basso e chitarra solistica classica di Vittorio Nazzaro,
nell'hammond (ma anche sint, fisarmonica, mellotron e harp) di Albert Prince.
Altri collaboratori sono Tony Bonfils (basso con arco), Jean Costa (trombone) e
Andrè Lajdli (tromba). In Aria, inoltre,
c'è anche Jean Luc Ponty[3],
il che dovrebbe già indicare quale seme fosse iniettato nella musica di
Sorrenti e di Cilio. L'incipit, dunque, è la lunga favola, il grande esercizio
vocale di Sorrenti, condotto tra falsetto, esperimenti, uso strumentale della
voce, ed effetti pitch che arricchiscono di infratoni la linea melodica. Si
ascolti, ad esempio, la serie di glissati che si realizza intorno ai
13'30", a chiusura di uno degli episodi e,
ai 15'20" (dopo la "penetrazione virtuale"), il gioco di
sovrapposizione con la chitarra elettrica. L'organo hammond viene utilizzato
sovente per creare zone di tranquillità quasi estatica. La voce si spegne e
restano solo hammond, batteria, piccoli suoni in lontananza. Verso i 17'57"
comincia l'ultimo episodio, con un uso di voce e
percussioni che ricorda quello quasi sciamanico del tremolo. Il brano si
chiude con le parole "io ti sto perdendo". C'è ancora Oriente nel pezzo seguente, con l'incipit
"Vorrei incontrarti sulle strade dell'India". Molto più melodico,
il parlato si fa chiaro, l'arrangiamento semplice, ma con modulazioni
ardite e belle. La ripresa è un po' alla Morricone, con un fischio
isolato che si ostina per qualche secondo in chiusura. Voci femminili
sovrapposte, forse per troppo poco, aprono il terzo brano, che mi pare
importante perché è il più 'napoletano', soprattutto per la linea melodica,
che si fa apertamente citazionistica di luoghi comuni della scuola classica
partenopea (ma la cosa funziona benissimo, se lo fa Stravinskij non vedo perché
non potrebbero farlo gli indigeni). Pochi accenni di tromba jazz contrappuntano
la voce e il basso nel finale.
La
chiave di volta di questo brano mi pare essere la fascinosa discesa di semitono
lungo, che dà un senso di spiazzamento e di fascinoso mistero. Glissati finali,
una chiusa da gran maestro, sono realizzati per ritrovarsi in ambito atonale, ed
il bello è che ci si arriva attraverso il jazz: non è il free, quanto
piuttosto l'intellettualismo bianco che sconfina nell'eleganza. Suoni
d'ambiente, un organo da cattedrale, ed effetti di ance orientali riempiono
l'ultimo minuto di tutto il disco. Un minuto che da solo basterebbe ad iscrivere
Sorrenti tra "quelli che guardavano lontano" già nel '72, e che anche
dal retrivo punto di vista degli storici del mero avanguardismo rende il
musicista inattaccabile[4].
Shawn
Phillips, l'uomo chitarra
In
quegli anni, Cilio dovette conoscere anche Shawn Phillips, lo straordinario
chitarrista texano trasferitosi nel '67 a Positano dove creerà un
attrezzatissimo studio di registrazione. Nato a Fort Wort nel '44, dopo
collaborazioni/suggestioni con
Hardin, Donovan e Shankar (imparerà a suonare il sitar, altro dato in comune
con Luciano) produce diversi album interessanti assieme a Paul Buckmaster. Oltre
all'incidenza sul territorio dovuta all'esistenza di quello studio, Shawn si
esibisce spesso nel napoletano, ad esempio a Pianura, al teatro Tenda (per
l'Hard Rock Cafè e Radio Spazio Uno), dimostrando una abilità sconcertante
nell'uso delle differenti chitarre. Con un pedale comanda un sintetizzatore,
riuscendo a mescolare vena melodica e impasto armonico.
Nel
1971 Luciano, ben prima dell'uscita del suo unico disco, registra nello studio
di Shawn quattro brani per sitar ed altri strumenti tradizionali, conservandoli
su bobina. Nell' '83, quando Cilio scompare, questa risultava smarrita e solo di
recente, su mia congettura, la si ritrova in possesso della figlia di Cesarini.
Ma, al momento dell'ascolto, grandissima delusione: una mano incauta ha
sovrainciso canzonette popolari napoletane. Una disdetta, perché avremmo potuto
conoscere i brani di un periodo estremamente creativo, e
farci un'idea della vera formazione del compositore.
Dialoghi
del presente
Nel
'77, dopo una serie di incredibili peripezie, Cilio riesce a pubblicare il suo
disco con la Emi[5].
L'incipit
del primo quadro, "Della conoscenza", è affidato alla chitarra, che
si muove intorno ad accordi tematizzati, con melanconia, una certa incertezza,
dolcissima, nel procedere; respiri molto vasti. Un piccolo glissato conduce ad
una prima variazione, con ingresso del pianoforte e del violoncello: ecco i tre
strumenti privilegiati dal compositore partenopeo. Dopo pochi minuti, ecco che
con la chitarra che fa da sfondo, gli archi tessono sovrapposizioni magiche,
anche infratoniche. Dopo una esposizione, le voci femminili si sostituiscono
agli archi. Qui c'è una prima osservazione da fare: il senso timbrico
vocale-strumentale nell'ingresso del violoncello e in quello della voce si
smarrisce! Luciano gioca sull'ambiguità timbrica di entrambi per generare un
moto estraniante, che si definisce soltanto alla fine dell'episodio, con il
repentino smorzamento vocale, alla fine di un crescendo. L'effetto è
straordinario, perché il dialogo tende a generare una continuità/discontinuità
tra maschile e femminile, giocando sull'inversione dei riferimenti. La tenerezza
è del violoncello, l'implacabilità, dovuta al fatto stesso della ripetizione,
è della voce femminile. L'intreccio è comunque doloroso.
Ma
si tratta di un episodio, ecco che riprende la narrazione con la chitarra, e
conduce ad un altro scorcio, solo pianistico[6].
E' uno sfogo liberatorio, parzialmente improvvisato (non che debba esserlo
necessariamente, ma ne ha la freschezza e l'ariosità). E' bella l'esecuzione,
con quel basso che anticipa spesso il tema della destra (come segnarlo?), ma un
po' brusca e semplicistica la conclusione.
Entriamo
nel bosco
Appena,
ascoltando oggi il disco, si sta pensando di aver inquadrato il genere (ma
certo, è new age!), ci si ritrova nel miscuglio etnico, indiano, percussivo,
misterico, del secondo quadro. E' l'oscurità che avanza, con le percussioni che
vengono condotte liberamente da Luciano, e che sembrano cadere in modo quasi
casuale, eppure magicamente al posto giusto. Su queste i fiati, che procedono
lentamente, per suoni tenuti, respirati sovente fino in fondo, per fasce
sovrapposte e talora su altezze ripetute. Ed ecco, dopo molti ascolti, si riesce
a individuare il bandolo della matassa: piccoli incisi melodici tradizionali
(della nostra tradizione melodica) sono stati allargati ('aumentati' è il
termine tecnico), affidati a diverse linee
per creare una polifonia reale, che però è in grado di rimandare, alludere ad
un ricordo pregresso, ancestrale, arcaico.
E'
Luciano stesso che suona il terzo quadro: che differenza dalle sue
improvvisazioni, in cui il pedale andava a farsi benedire! si tratta di un breve
pezzo per pianoforte, quello di cui s'è già parlato. Sarebbe ora troppo facile
trovare assonanze con autori che hanno grande successo: i pianisti della Windham
Hill, i preziosismi pianistici di Arvo Part, le peregrinazioni di Kostia e via
di seguito. Sta di fatto che l' atmosfera
di questo quadretto aforistico non è dovuta soltanto alle note. Non è un atto
semplicemente compositivo. O meglio, l'atto compositivo risiede in
"quella" esecuzione. Questa caratteristica, che accomuna molti grandi
strumentisti compositori, ha fatto a torto parlare di limitata capacità di
scrittura. E invece manifesta la grandezza dell'interprete, che allude cose
grandi anche con poche note distribuite sul pentagramma. Ma questo è un altro
discorso.
Dell'universo
assente
E'
il titolo del quarto ed ultimo quadro, cui segue un Interludio.
E' quello più ardito, perché la melodia va disintegrandosi ancor più, e in
sottofondo procede un ritmo ripetuto ossessivamente. Poi l'ingresso di un arco,
e la sovrapposizione tra tutti, in attesa di uno spiraglio. Ogni tanto c'è
l'emissione di un suono che sembra dover condurre in qualche luogo, e invece
niente, si torna alla reiterazione. Peppino Romito dà un doppio colpo, una
sorta di segnale che lascia sole le percussioni, sempre più rarefatte e infine
svanenti, davvero assenti.
L'Interludio
riprende le atmosfere più rilassate dell'incipit, con tanto oriente e molta
napoletanità (mandola). Ma chi pensasse di trovare la pace si sbaglia, perché
lo sviluppo è affidato ancora ai fiati, con l'ostinato della chitarra che
richiama le atmosfere del quarto quadro, e gli archi pronti a creare
sovrapposizioni cromatiche dissonanti ma "risolvibili", per così dire
(il richiamo è al primo quadro). Anche l'Interludio ripropone nel suo piccolo
la struttura triadica, e si conclude così com'era iniziato.
Un'opera
di grande espressività, di grande "atmosfera".
La
magia del missaggio
L'atmosfera
viene sempre tirata in ballo quando si descrive la musica di Luciano. Ma,
tenendo conto che lui non scriveva nulla, se non appunti "visivi", e
che preferiva lavorare con l'interprete tirandogli fuori quello che voleva,
descrivendogli minutamente il tipo di "suono" desiderato, l'emissione,
il timbro, le agogiche, le durate, eccetera... bisognerà pure riconoscere che
l'atmosfera da lui magicamente creata sia nel disco che nelle performance e
nelle esecuzioni dal vivo doveva corrispondere ad una straordinaria ed onirica
lucidità mentale. Si tratta di una dicotomia capace di generare opere. A forme
indefinite corrisponde un'intuizione certa, ed alla fine non si sa se sia il
marmo che va via da solo o esista una tecnica di supporto che produce la statua.
Ma aldilà di teorizzazioni estetiche, certo è che alla capacità di immaginare
con chiarezza l'impasto conclusivo, faceva pendant la capacità tecnica di
rappresentare ad ogni esecutore la sua parte, e di metterlo in condizione di
riprodurla. Questa lettura mi pare supportata dal confronto tra un missaggio
differente (ma non escludo che esistano anche differenze di registrazione in
alcuni punti) del primo quadro, fortunosamente ritrovato, che dura circa un
minuto in più, a causa della ripetizione dell'incipit con l'ingresso del
pianoforte, e che strabilia perché mostra con chiarezza la struttura del brano. Contemporaneamente ci apre gli occhi sulla
tecnica di missaggio: senza nulla togliere agli esecutori, l'impasto che rende
incredibile il disco è opera del geniale lavoro al mix.
Mediterraneo?
No grazie.
Un
luogo comune da sfatare, e francamente un po' ripetitivo, è quello della
mediterraneità di questa musica (l'immagine
del mare, delle culture differenziate, della culla della civiltà
mescolata). Inizialmente carino come tutte le invenzioni estetiche, ci è infine
venuto a noia. Il motivo è quello stesso che dovrebbe spingere l'intera civiltà
musicale napoletana a guardare oltre le mura, o, come diceva Luciano, a farsi
europea in senso sostanziale, senza verbosità eccessive: quel che in parte e
solo oggi la giunta di sinistra sta realizzando, con l'immagine,
ma ancora
poco companatico.
L'amicizia di Luciano con Gianni Cesarini[7],
il critico militante del Mattino, gli
aprì la possibilità di esprimere direttamente idee su questioni fondamentali,
come appunto lo scontro, allora sentito molto fortemente, tra la musica colta
d'avanguardia (quella che oggi si può definire, semplificando,
"sperimentale") e quella popolare, nelle fattispecie leggera e folk.
Si può intuire chiaramente come i due punti di riferimento non fossero altri
che Pino Daniele e Roberto De Simone, ed è curioso che l'asse si sia spostato
ancora di più, e che oggi la querelle sia tra Daniele e Arbore. A quell'epoca,
Luciano se la prese fortemente anche con la musica etnica, quando questa assunse
colori e connotati di mera spettacolarità e grande (quindi sospetto, secondo le
categorie dell'avanguardia colta) successo di pubblico.
Fatto
sta che adottando lo stereotipo del mediterraneo, s'è troppo spesso
interpretata l'opera dei napoletani come oscillante tra due opposti: da un lato
la solarità (pizza, taralli e mandolini) come spinta propulsiva; dall'altro
l'oscurità: la protesta ed il lamento come deterrente allo sviluppo (traffico,
camorra, arte d'arrangiarsi, perché basta
che ci sta 'o mare). La napoletanità è stata troppo spesso riferita ad un
andamento binario , ad una lettura orizzontale. E' una fortuna che la musica penetri negli interstizi e
produca vertigini.
Un'onda,
molte onde
Partendo
dalla musica si potrebbe restituire alla città una visibilità prospettica.
O andare oltre la semplice
acquisizione (foucaultiana/delueziana/guattariana...) della prospettiva, perché
la storia si svolge seguendo percorsi infinitesimali, d'impervio racconto. Basta
far propria la tecnica, certo più profonda, più empirica, meno sperimentabile,
dei moti ondosi. Come descrivere un'onda? Eppure le tracce della metropoli col
susseguirsi di movimenti successivi, le curve di particelle che ne aggregano
vitalità e riposo, sembrano impresse dall'impeto frattale dell'acqua, o dalle
sue blande peregrinazioni. Se devo spiegarmi la musica di Luciano (qualsiasi
musica) pensando ad una opposizione luce/ombra allora non vedo cosa ci sia di
difficile nell'interpretarla, nel cercarne una ragione.
E invece la ricchezza di un'opera (qualunque opera), risiede nella capacità di
intrecciare discorsi, alcuni visibili, altri sommersi,
di travolgere gli argini e le strutture che limitano, di sorprenderci con
spruzzi e sberleffi inaspettati ed inspiegabili, che evidentemente rimandano ad altro [8].
Lyotard ha parlato del gioco del discorso, Levinas delle strategie del rinvio,
ma aldilà degli strati, degli andamenti carsici, che possono costituire il
metodo, un senso personale va pure rivalutato.
La
comprensione di un autore non può limitarsi all'analisi, all'ascolto guidato,
alla ricostruzione documentale. C'è qualcosa di più che deve parlare, non
necessariamente accendersi alla disponibilità di ognuno, non necessariamente
riscoprirsi a portata di mano, dietro l'angolo. Come se il silenzio potesse
talora conquistarsi un'eloquenza in grado di muovere e sfidare le intelligenze.
I
suoni sconsacrati
A
parte le esecuzioni pianistiche sempre più numerose di Eugenio Fels, la prima
importante rassegna napoletana affidata alla direzione artistica di Cilio, col
patrocinio del Comune e degli assessorati allo Spettacolo e ai Problemi della
gioventù, fu "Aspetti della musica a Napoli", tenuta nella Chiesa
sconsacrata di Donnaregina Vecchia, il 24 maggio del 1980. Il bravissimo Emery
Cardas, al violoncello, ed Eugenio al pianoforte presentano la Suiff,
incorniciata (tra l'altro) dalla Suite dai
tempi d'Holberg e dalla Sonata op.
36 in la minore di Grieg. Il brano è circolare, vale a dire che ha una
possibilità di ripetibilità infinita, a doppio anello per la presenza dei due
strumentisti. Parlandone, ed analizzandolo con accuratezza ne Le
parole sospese (ESI, 1988), ne segnalai la maggiore rarefazione ed
essenzialità rispetto a composizioni precedenti. Si ricordi, inoltre,
che della IV Sonata esisterono
molteplici versioni, sempre più tagliate, ripulite, raggelanti[9].
L'aspetto che oggi mi pare importante ricordare è quell'aporia tra legato e
portato semipercussivo della frasetta affidata al pianoforte. In realtà la
ricerca era già timbrica, già indirizzata all'utopica melodia di timbri,
contraddizione in termini ma reale possibilità della mente e del suono. In Suiff,
considerando la strada ad imbuto che Luciano aveva imboccato, questa
predilezione per la timbrica mi pare di evidenza palmare.
Sempre
nell' '80, a cura di Luciano si tenne il "Long Concert", che però
poco aveva a che fare con la musica contemporanea se non per il coinvolgimento
degli stessi interpreti: oltre ad Eugenio ed Emery, Pavel Cardas al violino,
Antonino Averna al pianoforte, e l'Ensemble "Nuova Musica da Camera"
con il flauto di Luciano Carotenuto (è primo esecutore di molte composizioni
flautistiche, come si vedrà) e Daniele Sepe (ancora semplice flautista...), il
violino di Ivano Caiazza (si è poi dedicato con successo alla direzione), la
viola di Patrick Cardas e il contrabasso di Paolo De Simone.
La
ricerca
Ed
eccoci arrivati ad uno dei nodi fondamentali. Cosa rappresentava la ricerca in
quegli anni? E' certo cosa difficile da raccontare, visto che la battaglia per
il nuovo, di cui parla anche Bortolotto in un suo libro, col tempo era diventata
estenuante per tutti, critici, pubblico, esecutori e compositori compresi
(ciascuno reggeva soltanto i propri pezzi). La verità è che i luoghi comuni
della sperimentazione, come oggi è noto a tutti meno che ai depositari eburnei
di quel vangelo, avevano azzerato la necessità di senso, dove la parola ha
proprio il connotato di 'direzione'. Si era smarrito il percorso, un percorso
qualunque. Vigeva soltanto la noia, l'elite, le rigide e frigide categorie
adorniane. L'accademia, che forse ha la vera colpa della morte di Luciano,
esercitò, come in altri campi in Italia, un effetto devastante. Il luogo della
cultura, semplicemente, si mosse dalla sua sede naturale, istituzionale, e lo
spostamento finì col propiziare percorsi individuali, gruppi ideologici non
allineati, alternativi, talvolta 'anarchici'. Chi restò inchiodato alla sedia
dovette invece consolidare metodi e strategie 'scientifiche', certo in grado di
soffocare i già deboli afflati culturali. Gli effetti di quel processo, allora
appena in vitro, sono oggi sotto gli occhi di tutti, con la tangentopoli
universitaria appena scoppiata, con le dimissioni eclatanti di chi la cultura
vuole farla davvero, e per riuscirci è costretto ad andarsene. Tutto ciò era
ben noto a Luciano, che in un'intervista rilasciata a Lucio Seneca, per Paese
Sera (22 ottobre 1979), lanciava una accusa precisa e dettagliata: "Il
rischio, da parte dei musicisti, è quello di impegnarsi a capofitto nella
ricerca senza una coscienza storica". E affondava la lama: "a questo
punto, la ricerca diventa gratuita, pretestuosa (...). E' un'avanguardia
accademica, di maniera, che non svolge alcun ruolo storico ed è origine di
confusioni e di ambiguità"[10].
Una
rassegna storica
Se
nel '79 questi erano i pensieri di Luciano, ecco svolgersi nell' '81 il più
importante avvenimento legato alle esperienze contemporanee partenopee di quel
decennio: la rassegna "Avanguardia e ricerca a Napoli negli anni '70".
Il progetto, forse, è in una frase di Cilio stralciata dal programma: "la
musica, al di là della costruzione di un 'oggetto sonoro', è in fondo proprio
la volontà di materializzazione di un universo alternativo, un habitat 'altro
da sé', dove la coscienza del tempo reale possa essere addirittura nullificata,
di essa possa essere operata un'idea di trasmutazione, alterata dalle sue stesse
compressioni/dilatazioni". Sarà necessario sottolineare l'aspetto
orientale, quello filosofico dell'uscita da sé rivolta però ancora alla
dimensione temporale, quello alchemico della trasmutazione, quello
tecnico/musicale che individua l'espressione agogica nel respiro?
Fatto
sta che i quattro compositori promotori (oltre a Luciano, Carmelo Columbro,
Antonio De Santis e Renato Piemontese) si muovono con grande attenzione
strategica, utilizzando una vera e propria struttura per l'organizzazione della
quattro giorni (si va dal fotografo Fabio Donato, che in sostanza creerà
l'immagine di Cilio, all'architetto Fabrizio Ciancaleoni, allo scenografo Mario
Di Pace) e coinvolgendo Visca, l'assessore alla cultura di allora, e molti
giornalisti, da Elio Cadelo a Gianni Cesarini e Giovanna Ferrara. Si avvalgono,
inoltre, di uno strumento espositivo molto appropriato e ben studiato: un
libretto che presenta la rassegna, con interviste ai compositori, fotografie,
illustrazioni dei brani, esempi musicali e semiografici. Sarebbe stato bello
riprodurre per intero la guida, ma
naturalmente non è possibile. E tuttavia occorre dare un'idea della dimensione
di quell'evento. Di Luciano si suoneranno la Sonata
n. 4, il Trio per strumenti a fiato[11],
la Suiff
ed il Terzo Quadro da 'Dialoghi del
presente'. Compaiono anche Due studi per soprano e
pianoforte di cui si dirà più avanti[12].
Di Carmelo Columbro i dieci studi per voce e percussione Ombre, il brano Egocentrismo
per contrabbasso solo, un Vocalizzo
del '71, Introspezione, del '74, per
flauto, fagotto e pianoforte, Assolvenze
per flauto solo, e Appunti, ancora per
contrabbasso solo. Di Antonio De Santis, che all'epoca aveva già incontrato
Giuseppe di Giugno e costituito a Napoli il gruppo di Acustica ed Elettronica in
seno all'Istituto di Fisica Sperimentale dell'Università, allora direttore
scientifico dell'IRCAM, verrà eseguita una selezione di composizioni di musica
elettronica: Fast 1-2 (1977); T-Bach
(1978); Feedback (1972); Escalation
(1978); Musica notturna (1970); Landscape
(1975); Canone (1976); Seriale 1-2
(1973); Tre pezzi brevi (Finale
dal 'Rondò dei gattini', Something in
the night, Moresca, 1970); Sinfonico 1-2 (1979); Missione
13 (1973); Machine Code (1976). Di
Renato Piemontese si suoneranno il Commento
alla Epigrafe per i Caduti di Marzabotto, scritto dopo il 1975 con evidenti
motivazioni ricognitive, su liriche di Salvatore Quasimodo, per voce recitante,
nastro magnetico, percussione; Methempsis
(1975) per quattro percussionisti; Quattro
Liriche di S. Quasimodo, del 1974, per soprano, clarinetto e pianoforte; Cronache
del 1979 per tre fiati (clarinetto, tromba, fagotto); Hypobrikium
2° (1977) per flauto solo, Asse,
del '78, per due clarinetti. Dal programma risulta anche l'esecuzione di Spazio
Zero, ricerca per corde vocali e percussione, di Antonio Buonomo. E ci sarà
l'apporto coreografico di Marianna Troisi con Indiscreto
per Luciano, per tre danzatrici su musica di Cilio. Negli appunti
coreografici, pubblicati nel librino, si legge la seguente Annotazione
per Elena e Cynthia: "Sintonizzare la respirazione ai fiati, poi
abbandonarsi, lasciando la respirazione fluida. Rientrare nel suono, tenerlo,
tenerlo... poi lasciarlo andare... Usiamo il suono come materia d'appoggio,
passiamogli accanto, sfioriamo, tocchiamo, poniamo in accento - evitiamo -
Costruiamo (per noi) piani sensibili"[13].
Il
dibattito sulla musica elettronica
Si
era appena conclusa la rassegna, ed ecco scatenarsi uno dei dibattiti 'estivi'
che accompagnano l'ozio degli intellettuali napoletani (intendo di quelli stesi
al sole in panciolle), ospitato sulle pagine del quotidiano locale, col titolo,
già tutto un programma, "Se la fantasia alza bandiera bianca". La
musica elettronica li aveva toccati, eccome! A tutta pagina, in cultura,
il 10 agosto interviene Giovanni Amedeo (A
tutta macchina). Lo scrittore si concede lunghe riflessioni sulla natura
dell'astrattismo, considera come Cilio avesse ragione valutandone la portata, e
tuttavia si chiede se l'aver posto un rilievo simile fosse sufficiente ad
orientare la ricerca: "il punto chiave è qui: in quale rapporto col
contingente o, se si vuole, con l'evoluzione (o l'involuzione) storica si pone
l'arte. Cilio dimostra di non avere alcun dubbio in proposito e semplifica anche
troppo la questione sostenendo che Bosch e Paolo Uccello sono grandi artisti con
propensioni all'astratto".
Si
dilunga poi sulla distinzione di Vico tra forma e congettura, per approdare ad
una definizione della fantasia che parte dalla memoria dilatata (è sempre
Vico). Nel caso della 'forma', viene scomodato anche il materialismo dialettico
di Marx, per concludere che sono le forme ad essere richiamate a nuove
variazioni o a nuovi significati ogniqualvolta si sia compiutamente e
felicemente artisti. Per Amedeo "la cultura moderna, intrisa di scientismo,
è nata e si è sviluppata in diretta antitesi con l'arte"; questa
considerazione prelude all'attacco allo sperimentalismo, alle "specifiche
propensioni di De Santis" nelle quali non scorge nulla di nuovo (!!), fatto
salvo l'interesse per il calcolatore (!!!). La conclusione vorrebbe essere una
stroncatura: "sia Cilio sia De Santis si sentono rivoluzionari. Peccato che
la loro rivoluzione non è quella di cui si sente più bisogno: una rivoluzione
che bandisca il chimerico e restauri la vera razionalità".
Il
14 agosto è la volta di Luigi Compagnone, che ancora si chiede cosa sia la
fantasia, e racconta della bruciante risposta ricevuta un giorno da Bruno
Maderna e Luciano Berio, all'inizio degli anni '70, a Milano: "ma lei crede
ancora a queste cose?". Compagnone cita Adorno (stranamente) che se la
prende con la tecnizzazione, e conclude un pezzo peraltro stilisticamente molto
bello con la considerazione che "è vecchia la rivoluzione degli artisti
che hanno nel naso soltanto odori diciamo elettronici". Finalmente, il 29
agosto, interviene Maffettone:
"Si tratta di vedere se la natura 'complicata' e controintuitiva dell'arte
cosiddetta moderna consente di dare libero sfogo alla fantasia dell'artista e
del fruitore". La domanda è retorica: la fantasia sopravvive, anche se si
pensa alla teorizzazione di 'arte allucinogena' di Nelson Goodman che permette
una critica radicale alla nozione di realismo estetico. Maffettone
significativamente conclude: "la fantasia e la libertà non ce la tolgono né
i calcolatori né l'arte moderna. Ce la tolgono Hitler e Stalin".
A
settembre, il due e il ventuno, le repliche di Compagnone e Amedeo. Il primo si
scopre di più; le sue osservazioni intendevano solo cogliere la 'qualità'
delle stanche e ripetitive contraffazioni e di "quelle sperimentazioni del
linguaggio effettuate a base di calcolatori, cervelli elettronici, computers, li
si chiami come meglio si vuole". Gli strumenti usati sono ancora
francofortesi, la critica è quella all'industria culturale, la conclusione tira
in ballo il creativo spirito d'immaginazione di Coleridge... Anche Amedeo usa un
procedimento analogo, cita Horkheimer, ed afferma testualmente che "non c'è operazione del computer che non si possa
eseguire con carta e penna. Il solo vantaggio offerto dalla macchina consiste
nel poter eseguire le operazioni con grandissima rapidità". Il che,
naturalmente, dimostra solo che lo scrittore non considerasse la possibilità di
generare col computer suoni mai ascoltati prima.
Opera-Idra
Al
di là delle argomentazioni, col senno di poi facilmente attaccabili, non si può
che prendere atto della grande mobilitazione di intellettuali di grosso calibro,
e del notevole spazio giornalistico conquistato da una 'semplice' rassegna
concertistica. Ciò avveniva con uno spostamento d'asse rispetto alle intenzioni
dei promotori, perché l'aspetto elettronico non riguardava che una piccola
parte dei brani ascoltati, e la ricerca restava prevalentemente ancora di tipo
strumentale e vocale.
Ma
la elettronica avrebbe meritato una trattazione più lungimirante, visto che
oggi l'home computer è nelle case di ogni compositore. La presenza di
quell'elettrodomestico, comunque la si consideri, ha già cambiato le abitudini
dei musicisti: per un verso diminuisce lo scarto tra immaginazione e
realizzazione (sia che si pensi a suoni e assemblaggi tradizionali che a
cambiare temperamenti e proporzioni intervallari), per l'altro si propone (ed è
il caso della elettronica vera e propria) come sconfinata estensione creativa di
suoni, ritmi, sovrapposizioni. In entrambi i casi, l'acquisizione dei fonemi
della macchina (e la costituzione di silicei linguaggi autonomi, alla Blade
Runner) mi pare il minimo di quel che potrebbe accadere; l'uomo interagisce col
computer estendendosi a sua volta, confrontandosi con pensieri sempre meno
mediati. E' nello scambio di alterità il massimo interesse del virtuale.
Dal
punto di vista estetico, inoltre, la
possibilità di veicolare suoni senza barriere attraverso medium diversificati
ci pone di fronte ad una acquisizione fondamentale, densa di sviluppi futuri: la
scomparsa della figura dell'autore/compositore. I midi-file circoleranno via
cavo con la possibilità di essere modificati da ciascuno; a quel punto conterà
più chi ha dato il primo input o l'opera tentacolare e multiforme,
un'opera-idra, che si potrà
ascoltare con un clic?
La
musica infiltrata
Sempre
per Estate a Napoli, si era tenuta a San Martino, tra il 24 e il 25 luglio,
l'azione musicale Suite per un
Castello di Pasquale Scialò e Aldo Sisillo, presentata dalla Scuola
Popolare di musica di Montesanto, con Giancarlo Cardini, i nastri con le
composizioni elettroniche di De Santis, i laboratori di coro, clarinetti e
flauti dolci, e la Banda "Città di Bacoli" diretta da Antonio Salemme.
Come
mai la presenza della elettronica non aveva scandalizzato più di tanto in
quella occasione? Certamente si trattava di una cosa differente, perché in quel
caso l'intero luogo aveva cominciato a risuonare, e s'era intuito che ciascuna
musica può avere una direzione di senso divaricata dalle abitudini
convenzionali d'ascolto. Se c'entra la 'musica d'arredamento', c'entra pure
quella infiltrata, capace di scivolare nelle connessioni tra roccia e roccia, di
alloggiare anche provvisoriamente negli stucchi appena discostati. Una musica
che come un parassita attecchisca sulle mura, per svaporare appena diluita nello
spazio, perché fondamentalmente nomade. Il suo valore risiede propriamente
nell' uso diversificato, nella sua adattabilità. Se una critica andava
posta alla elettronica (che all'epoca era comunque ancora terribilmente
sperimentale) avrebbe dovuto esser formulata in termini di inadeguatezza
d'esecuzione. Una musica così non può morire in una sala da concerto
tradizionale, va arricchita di vettori, deve conservare il suo respiro, la sua
vacanza semantica. Può così essere ricollocata in ambiti diversi, sortire i
suoi effetti, veramente infiltrarsi.
Suite
per il Castello di San Martino
Dal
programma, Giuliano Scabia: "Colloquio di musiche. Armonizzazione di sfere
sonore diverse. Esplorazione di uno spazio, dei suoi ricettacoli fonici. Una
città è una cassa sonora: il corpo di uno strumento un tempo suonato da voci,
passi, cavalli, carri, oggi da motori, voci, passi, clacson, rombi".
L'evento nasce dall'esperienza mutuata dai laboratori dell'estate precedente.
L'azione prende il via fuori dal Museo, con la Banda di Salemme su trascrizioni
di Scialò e Sisillo. Poi l'ingresso in un primo spazio, sonorizzato con suoni e
silenzi. Ecco, nella chiesa, il Satie di Cardini, con la versione pianistica di Le
piége de Méduse, gli Embryons desséches,
ed altro. Si va nel chiostro, seguono gli interventi dei laboratori di
clarinetto e flauto. Il coro altera la prima Gymnopedie di Satie, scomposta e
ricomposta in modi originali. Anche qui si gioca con armonie 'disturbate' da
vocalizzi e giaculatorie, e ogni tanto si ripiomba nel silenzio del castello.
Infine, la seconda parte del concerto di Cardini, con Cage, Howard Skempton, il Bodypiano (1972), Una sera
d'autunno (1979) di Cardini, ed il celebre Solfeggio parlante per Voce sola di Castaldi: un brano
che attua il programma della due giorni: "un incontro tra il teatro
e la musica, amplificando la teatralità presente nella musica e la musicalità
del teatro, attraverso linguaggi e pratiche musicali diverse".[14]
Liebesleid
Torniamo
a Luciano, la cui esplorazione riguardava prevalentemente gli strumenti
tradizionali. Gà nella tanto discussa "Avanguardia e ricerca" aveva
provato in pubblico, senza illustrarli nelle note, i Due
studi [15]
eseguiti da Donella Del Monaco ed Eugenio Fels. Nella nuova, ed ultima,
rassegna, curata insieme a Columbro per Estate a Napoli '82, i Due
studi, parzialmente rimaneggiati, diventano Liebesleid,
un titolo preso in prestito da Kreisler. Fels, dopo aver confrontato le parti,
afferma in un'intervista che quella pianistica resta immutata, ci sono dei segni
in più in quella per voce, vengono eliminate delle ripetizioni. Solo chi ha
suonato sia Suiff che Liebesleid
può vedere, inoltre, che all'elemento della circolarità del primo si va a
sostituire una sezione improvvisativa nel secondo. Lo spartito/canovaccio segna
soltanto le altezze d'arrivo per la voce, e alcune semibrevi con un simbolo di
tremolo, la cui esecuzione, nel ricordo di Fels, corrispondeva a "grappoli
di note vicinissime, che creassero un'onda, un rombo, doveva muoversi una massa
di suoni dalla parte bassa dello strumento fino a quella alta, e viceversa: un
gioco di timbri". In Liebesleid vi
è un uso ardito degli intervalli
della parte vocale, che mette a dura prova qualsiasi soprano, e l'uso, per la
seconda volta nella sua produzione nota, dell'improvvisazione[16].
Questo
brano è l'ultimo composto ufficialmente da Luciano: porta una bellezza
sconvolgente, restando tuttavia agghiacciante nella rarefazione, nelle
sottrazioni a cui forse fu sottoposto. Ascoltandolo, noi compositori avremmo
dovuto capire che parole ulteriori non sarebbero venute dalla sensibilità di
quell'artista. S'era verificata una congestione tra la emergenza vulcanica e
sentimentale delle prime sonorità (iDialoghi
) e le successive soppressioni, irriducibilità, essenzialità. L' afonia di Liebesleid
è paradossale; è davvero un canto di morte.
Un
gran calderone
A
distanza di anni, e benché gli "Incontri nazionali della Nuova
Musica", tenuti l'anno dopo (è l' '82)[17],
avessero consentito a me di esordire come pianista in una manifestazione
napoletana importante, e avuto il merito di ospitare l'Improvvisazione
per violoncello e pianoforte di Fels, non posso fare a meno di considerare
l'aspetto calante della nuova rassegna rispetto a quella dell'anno precedente, e
del resto la cosa non mi pare sorprendente, sapendo quel che stava accadendo.
Innanzitutto,
troppe concessioni all'accademia, con nomi di compositori legati ad ambienti e
scuole ben precise ed individuabili. Gli incontri volevano tentare di portare
Napoli nel logorroico e ristretto circuito della musica contemporanea
sperimentale; per chi aveva tanto criticato l'esterofilia della città non era
una concessione da poco. Il punto è che Cilio era ormai entrato in contatto con
forze istituzionali e accademiche che non si sposavano bene con la sua natura,
costipandone la personalità e schiacciandone la creatività. Era davvero
impensabile per i discepoli della sperimentazione colta aver a che fare con un
"dilettante autodidatta", per quanto geniale fosse. Luciano dovette
vivere con difficoltà questa situazione, visto che la sua ambizione restava
comunque legata allo storicismo, le sue aspettative soprattutto rivolte alla
musica 'colta', i suoi desiderata indirizzati ad una esecuzione al San Carlo. Ma
nell'incontrare questi compositori, specie fuori di Napoli, paradossalmente finì
col ricevere 'consigli' su quali maestri contattare e prendere come riferimento.
Questi suggerimenti 'disinteressati' provenivano da chi era perfettamente
allineato proprio con l'avanguardia deteriore tanto aspramente criticata: scuole
che ben presto avrebbero esaurito il loro compito, e che a distanza di anni
fanno sorridere per l'aspra irriducibilità darmstadtiana. Oggi la vera musica
contemporanea (ma preferirei usare più plurali), fatte salve poche roccaforti
(gente che abita al di là del tempo ed incapace di sentire l'isolamento), si
attesta saldamente in una direzione che Cilio aveva precorso e percorso
trent'anni fa. Eppoi, perfino i brani più 'sperimentali' nel senso deteriore
del termine, vale a dire il Trio di fiati,
che qui diventa "8° quadro" ,
hanno una magia espressiva unica, che si lascia dietro le spalle più di un
compositoruncolo accademico.
Gli
errori della critica
Di
quelle serate mantengo un ricordo già descritto e pubblicato[18],
legato soprattutto all'incomprensione del pubblico, che perlopiù disertò i
concerti. Anche i critici, forse perché non coinvolti direttamente, si mossero
con disattenzione o disinteresse. Ancora mi chiedo, con rabbia profonda, per
quali ragioni un certo giornalismo dovesse incorrere in errori molteplici e
reiterati, come ad esempio nell'esclusione di certi nomi dal novero dei
compositori partecipanti alla rassegna, in sbagli sulle età dei musicisti
coinvolti[19],
nel pressappochismo giustizialista di alcuni[20],
nell'incomprensione (dimostrata fino all'altroieri) di altri[21].
Per fortuna Gino Castaldo e Lucio Seneca furono più oggettivi, maggiormente
consapevoli della validità dell'opera compositiva, dell'importanza storica e sociale della vicenda di Cilio. Di
Gianni Cesarini, anche amico del compositore, s'è già detto: in qualcosa riuscì,
forse avrebbe potuto fare anche di più finché Luciano era in vita.
Certo è che non fece nulla per lui (per la sua musica) dopo la sua scomparsa, e
dispiace che a tanti anni di distanza qualche critico, il quale evidentemente
non ebbe dei fatti una conoscenza diretta,
ancora ne sopravvaluti l'azione[22].
Le
uniche commemorazioni od esecuzioni di brani sono state tenute e volute quasi
esclusivamente da me o da Eugenio Fels[23];
ne chiediamo e pretendiamo il merito, perché il silenzio e l'inerzia di tutti
gli altri operatori o musicisti, ancorché sollecitati ed invitati più volte a
muoversi, è stato e resta scandaloso e gravissimo.
Se
muore un amico
E'
difficile evitare la retorica. Quando Luciano scompare ci ritroviamo tutti
smarriti, a fare i conti sulle ragioni per le quali un compositore come lui
avesse scelto (ma è mai una scelta?) di morire in quel modo. Le risposte
sarebbero arrivate dopo molto tempo, anche rivivendo sulla nostra pelle gli
stessi scontri e le stesse disillusioni che aveva vissuto lui. Ma subito capiamo
che quell'avvenimento non ha soltanto un valore personale. Tutto avrebbe seguito
un corso differente, se Luciano fosse sopravvissuto. Stava diventando un punto
di riferimento sostanziale per molti giovani, e, soprattutto, si manteneva raggiungibile,
disponibile come può soltanto chi ha tanto da dare, e non teme impoverimenti.
Ma non basta fermarsi qui. Cilio aveva anticipato anche qualcosa d'altro; era
stato il più radicale, il più coerente fra noi. Aveva portato alle estreme
conseguenze una afonia creativa. Aveva dimostrato come i decenni della
sperimentazione stessero collassando. Altri hanno scelto di non comporre più, o
di fare del silenzio un'estetica. O di dedicarsi ad attività paramusicali. Ma
nessuno si è reso così simbolicamente definitivo.
Con
il mero sperimentalismo un intenso e ricco patrimonio di talenti veniva
dissipato. Chi non ebbe la forza di cambiare si piegò in solitudine, e cadde.
Una generazione di soccombenti.
La
giusta collera
L'impeto
da 'giusta collera' che era appartenuto al Cilio degli inizi viene ereditato in
parte da Fels[24],
il quale, benché docente di conservatorio, mantiene una autonomia creativa che
gli impedisce di confluire in scuole già consolidate. L'abitudine di vivere in
una full immersion musicale lo preserva da frequentazioni politiche dannose. Il
motto romantico "libero ma solitario" viene opportunamente scremato:
molti compagni di percorso, tanti allievi, ma capacità di allontanarsi dalle
pastoie burocratiche.
Come
interprete Eugenio non ha esitato, fin dagli esordi, a mescolare come si faceva
prima che la nozione di 'repertorio' si attestasse, brani originali con altri già
acquisiti. Se si pone l'accento su questa abitudine, vi si troverà il seme del
cross-over, il principio della commistione; e non è un caso che lui mostri
grande attitudine alla trascrizione, presto divenuta reinvenzione, e infine
composizione su suggestioni.
Si
è già detto che all'ultima rassegna voluta da Luciano nell' '82 avevo eseguito
in prima assoluta l' Improvvisazione
per pianoforte e violoncello, una delle prime composizioni non 'ripudiate'. Ma
altri brani notevolissimi la precedono, sia dal punto di vista
tecnico-strumentale, sia per il fatto che già mostrano una felicissima vena
tematica (parliamo dunque di pezzi tonali, dallo sviluppo formale classico) sono
il Preludio-fantasia, per pianoforte, del 1969[25];
l'Adagio e Allegro, per pianoforte,
del 1970; il romantico Concerto per pianoforte e orchestra (1971); il Concerto per violoncello e orchestra del 1972; la Toccata
per organo del 1974.
Già
altrove mi ci sono riferito, rilevandone le costanti: uso della modalità,
ripetizione di Leitmotiv, capacità di escogitare melodie che echeggiassero per
atmosfera lontananze medievali e barocche (specie per il gusto polifonico,
sempre esibito in modo appropriato), ma per conduzione fasti e scoppiettii
romantici. Già quei lavori presentano elementi ritmici originali, talvolta
vicini al jazz; e da subito, quindi, l'opera di Fels appare contraddistinta da
una sorta di sospensione temporale, che mi ha sempre fatto pensare alla
"lontananza nel tempo", intesa in senso goethiano.
Le
composizioni rigettate
Non
mi pare inopportuno soffermarmi ad analizzare anche dettagliatamente quei
lavori, perché è il solo modo che conosco per dar loro visibilità: se fossi
un produttore non starei qui a cianciare. Ed è forse il caso di precisare
subito che quasi tutte le musiche che abitano queste pagine sono inedite, non
pubblicate, spesso poco eseguite. Le racconto per evitare che svaporino come
quelle di Luciano[26].
Il
Concerto in Si minore per violoncello
e orchestra (Vacciago,12 settembre 1971, concluso a Napoli il 3 settembre del
'73; credo oggi di essere il solo a possedere una copia del manoscritto
inedito), essendo scritto ai limiti delle possibilità classiche dello
strumento, arriva sì alla tonalità, ma lo fa attraverso un vorticoso
susseguirsi di dissonanze. Il primo movimento comincia con un Allegro
prevalentemente cadenzato; dopo una breve preparazione dell'orchestra, il
violoncello attacca con una serie di arpeggi con trilli, avviandosi ad una lunga
cadenza, con l'orchestra che accompagna o s'interpone per progressioni (il
movimento dell'oboe è estremamente romantico). Notevolissimo l'inserimento e
l'uso del basso elettrico. Cambi di tempo repentini e numerosi: il Presto segue
velocissimo con il violoncello che arpeggia, si scatena in scale e figure
irregolari. Viene fuori la caratteristica forte, cioè l'incrocio tra ritmi
differenti, quasi rock, che spiega l'inclusione del basso elettrico. Anche
l'organo fa la sua parte. Il Secondo movimento, Adagio, comincia con
l'esposizione del tema da parte del violoncello, subito ripreso dall'orchestra.
E' malinconico e tardoromantico, struggente e bellissimo. Durante lo sviluppo
non mancano elementi connettivi col primo tempo. Il Terzo movimento, un po' più
scolastico, voglio menzionarlo soprattutto per la presenza di una sezione in
stile improvvisativo.
Il
Concerto in do minore per
pianoforte e orchestra, iniziato nel gennaio del '70 e concluso a Napoli
l'undici aprile del 1974 (la Fantasia da
concerto eseguita sovente dal vivo e talvolta indicata come Adagio
e Allegro è la versione pianistica del secondo e terzo tempo) è inedito e
mai eseguito con l'orchestra. L'incipit è misterico, ispirato, capace di
catturare immediatamente l'attenzione; la scrittura pianistica è estremamente
virtuosistica, e mescola differenti luoghi della tradizione strumentale. Il Lento
con molta espressione espone il
tema tra flauto e oboe, ma lo affida presto al solista: il movimento è
malinconico, la scrittura tradizionale. Il terzo tempo, Vivace
(alla russa) non viene separato
dal secondo: è un'infuocato sfogo pianistico, e chi ne abbia sentito in concerto la versione solo strumentale ne
resta profondamente coinvolto.
Tra
i brani solo strumentali di questo periodo merita menzione anche la Toccata
per organo, cominciata nel giugno del '73 e conclusa nell'aprile dell'anno dopo.
Essenzialmente tripartita, con una ripresa variata, comincia con una suggestiva
introduzione in do diesis minore, affidata alla pedaliera. Il tema è subito
inseparabile dalla sua distensione accordale, viene sviluppato fino alla
sovrapposizione con l'introduzione, capace di creare più di un brivido armonico
per la sovrapposizione tra un fa doppio diesis (sol naturale) e l'accordo la-do
diesis-mi-sol diesis.
Un
"notturno" importante
Il
vero spartiacque è nel Notturno,
un brano molto particolare del 1975, scritto per la concertista anglo-tedesca
Antonietta Webb-James, maestra del nostro. La Webb-James, ormai piuttosto
anziana, aveva subito una paralisi alla mano destra, che era riuscita tuttavia a
rieducare, rinunciando solo in parte all'estensione. Ecco che Eugenio immagina
questo pezzo dolcissimo, che esige dalla sinistra doti particolari di velocità,
adattabilità alle posizioni, distribuzione del peso, e chiede invece alla
destra 'soltanto' poche note, che possono essere legate, oppure accarezzate
(ovvero slegate) ma fuse insieme con l'uso di un particolare tipo di pedale;
insomma, è un vero esercizio di tocco. Il Notturno possiede un'atmosfera malinconica che sarebbe errato
definire tardoromantica, perché essa resta invece collegata in modo omogeneo,
attraverso lo studio e la soluzione di problemi tecnici pianistici, grazie
quindi all'estrema congruenza tra l'atto compositivo e quello esecutivo, alla
produzione di grandi pianisti/compositori appartenenti al passato di quello
strumento; e naturalmente mi riferisco ai più originali.
Improvvisando
a cavallo del tempo
L'Improvvisazione
è stata scritta per pianoforte e violoncello (ma vi si può sostituire
il contrabbasso: in questa versione non è mai stata eseguita,
ma la immagino sicuramente molto originale , con il cb che arranca per
stare dietro al pianoforte) e non il contrario. A qualsiasi esecutore capiti per
le mani lo spartito, apparirà lampante la predilezione per il piano: basta
confrontare la lunghezza e l'incidenza delle due cadenze, e l'espansione estrema
della scrittura pianistica nel finale, che giunge dopo una serie di
protagonistici accordi dissonanti; una battuta di sette/mezzi fa allargare le
braccia al pianista, dal centro verso l'esterno, ed il gesto esplode con
acciaccature al basso (Fels è generoso nel concedere licenze: spesso eseguo il
brano con ottave) e la ripresa finale del tema. Le cose notevoli dell'Improvvisazione
mi sembrano, oltre alla richiesta di una interpretazione consapevole e capace di
tensioni/distensioni (anche se i pianisti in possesso di tale capacità non mi
sembrano poi tanti), il tentativo di codificare l'improvvisazione, un po' come
fa Stravinskij, anche se qui il jazz c'entra poco. Il nesso tra le due
particolarità risiede nell'uso del tempo rubato, che è il vero ponte tra
scrittura, assenza di ritmo ed improvvisazione. Va detto, per completezza, che
la versione oggi 'autorizzata' da Eugenio è diversa da quella definita il 16
giugno '79, perché la parte per violoncello è molto più piena. Le linee di
sviluppo, tuttavia, restano le stesse.
Antica
Monodia, scritta nel 1982, riesce a condensare e riassumere la scrittura in
due semplici linee melodiche; è un brano che appartiene a un filone fortunato,
alla "musica per cinque dita" con la quale prima o poi i pianisti
compositori si cimentano. E' come se fosse una purificazione (mentale e
spirituale) dal virtuosismo esecutivo, che consente di calarsi poi in quello
compositivo: voglio dire che non è affatto facile scrivere cose interessanti
utilizzando pochissime note, in pagine accessibili anche ad un bambino.
Quando
nell' '85 ho eseguito in prima assoluta sia il Notturno
che Antica Monodia c'è stata una
notevole risposta del pubblico. Da allora, abbino spesso il piccolo brano ad
altri di maggiore difficoltà, perché situa l'ascoltatore in un non-tempo in
grado di propiziare e decollocare qualsiasi ascolto successivo.
Il
Gruppo Ricerca e Sperimentazione
Risale
al 1982, e quindi all'anno che precedette la morte di Cilio, la nascita (o la
concretizzazione, se si vuole) del "Gruppo Ricerca e Sperimentazione",
che unì le esperienze di diversi esecutori e compositori. Ricordo con
precisione il momento in cui decidemmo di fare qualcosa che assomigliasse alle
rassegne napoletane, naturalmente differenziandole e personalizzandole. Eravamo
ad una stazione della "Vesuviana": c'è un trenino che collega tutti
gli aggregati periferici. Quel trenino aveva una sorte simile alla nostra:
passeggia su un tratto ferroviario famoso per essere stato il primo realizzato
in Italia. E tuttavia sferraglia in zone di confine, o se si preferisce resta al
confino. Con Montagano si pensa di coprire quei paesi attraverso una attività-corridoio
condensata nel gruppo. Col nostro progetto avremmo scovato forze e talenti di
quelle parti, valorizzato le attività nascoste, anche quelle legate al
patrimonio di memorie tradizionali. Il tutto senza disdegnare
il potenziale sperimentale che avrebbe potuto vivificare anche le afasie
della metropoli. Quella consapevolezza non era da sottovalutare: oggi si sa che
sono proprio le realtà laterali, le voci delle culture del disagio, i ghetti
dentro e fuori dalle metropoli, che rispondono in modo energico e sinergico alla
sterilità, soprattutto di talenti, della città. Recentemente, per sintetizzare
tutto questo in un titolo, ho scelto un'allusione ad Asimov, e ho scritto della
"Provincia dell'Impero"[27].
E non è un mistero che le origini del rap, o l'emergenza straordinaria della
musica nera (d'Africa, intendo), stiano portando linfa vitale ad un linguaggio
altrimenti incapace di rinnovarsi. Anche la cultura della guerra, purtroppo
assieme alle devastazioni, o quella della persecuzione (si pensi al rai
algerino), producono canti di rivolta e di dolore che dicono
nuovamente qualcosa. L'estetica non può nascondersi una nuova forte evenienza
di senso.
Il
gruppo esordisce nel Giugno Popolare Vesuviano organizzato dall'Arci-Villaggio
Vesuvio nella ricca e provinciale S. Giuseppe Vesuviano, nella apparente
tranquillità di Ottaviano, e nella piccola Terzigno. Il 10 Giugno si terrà un
concerto che presenta, tra l'altro, musiche mie, di Gabriele Montagano,
di Giusto Pappacena.
La
seconda rassegna si terrà nel
marzo dell' '83 a Sant'Anastasia, paesone alle pendici del Monte Somma; una due
giorni dedicata alla musica contemporanea. E' qui che assume maggiore leggibilità
la presenza di un manipolo di 'dissidenti' dall'accademia. Assieme alla Suiff
di Cilio e all'Improvvisazione di Fels,
verranno eseguite una Invenzione di
Mario Vitale, un giovane e sensibile compositore che presto abbandonerà il
conservatorio, Les sons dans la nuit
(per due flauti, con Luciano Carotenuto e Raffaele Di Donna) di Montagano. Io
suonerò Agonia, uno dei tempi di Metafore,
importante trittico pianistico di Montagano, ed il mio Basso
Ostinato. Segnalo che quella di Suiff
fu l'ultima esecuzione prima della morte di Luciano; la ricordo con dolcezza,
perché fu il periodo in cui lo frequentai con maggiore assiduità,
intervistandolo o discutendo con lui delle difficoltà della musica a Napoli.
Il
gruppo andrà man mano disgregandosi nell' '84, ma produrrà ancora, rispetto ai
contenuti, gli importanti "Incontri di Musica Contemporanea" nel
Chiostro di San Francesco per l'Estate Sorrentina, a cura di Gabriele Montagano.
Lì ci sarà l'unica esecuzione congiunta dei tre brani, in qualche modo
correlati, per violoncello e pianoforte: a Suiff
e Improvvisazione si aggiungerà il
mio IV Quadro tratto dall'operina in
cinque scene Libido. Gli interpreti:
il bravissimo Petric Drummond al violoncello e Domenico Schiattarella al
pianoforte. Si eseguirà, inoltre, l'intero trittico di Metafore di Gabriele e le sue Itineranze,
appena composte (al piano però suona Natale Garufi), Il terribile cappuccetto rosso di Giusto Pappacena. C'è anche la
presenza di un accademico napoletano, Bruno Mazzotta, con il Dittico
infantile. Tra i non napoletani, nomi di prima grandezza della scuola
sperimentale: Manzoni, Gentilucci, Bussotti, Porena, Clementi, Rendine. Due voci
originali, quella di Castaldi e quella del trombonista romano Alessandro
Vecchiotti. Tra i pianisti c'è anche Rosario Musino, un delicato pianista
compositore sul quale tornerò più avanti.
La
porta del sole
Quello
che in genere indico come l'ultimo atto del "Gruppo Ricerca e
Sperimentazione", che non compariva più ufficialmente sui programmi, fu la
divertente rassegna "Musica, Performance ed altre storie", voluta
dall'Arci per l'undicesimo giugno popolare, e organizzata soprattutto da Giusto
Pappacena. Una trasformazione era avvenuta nel marzo dell' '84, con la
costituzione di una associazione, "La Porta del Sole", il cui nome fu
suggerito da Eugenio Fels. La nuova associazione partiva con bei presupposti,
perché riuscivo a pubblicarne il manifesto sul quotidiano (poi diventato
settimanale) Napolinotte, del quale ero collaboratore. Ogni sabato facevamo
uscire un 'paginone' centrale monografico su temi di rilevante interesse per la
città, e quello del tre marzo 1984 lo dedicammo a "La porta del sole: spunti per un'estetica
dell'improbabile". L'occhiello recitava, in corpo sedici e senza possibilità
di confusione: "La musica contemporanea a Napoli è da sempre considerata
un prodotto sottoculturale, se non addirittura antiartistico. L'alternativa a
questa idea è offerta da un gruppo di compositori, già riunito nel Gruppo di
Ricerca e Sperimentazione, ora presenti sul territorio partenopeo come
associazione. Si tratta de 'La Porta del Sole' che raccoglie molti degli artisti
napoletani che avevano trovato finora i maggiori spazi all'estero e al Nord
Italia". Il paginone assemblava L'alchimia
del suono e L'antiestetica, a mia
firma, e Il soggetto, la memoria e il
disincanto, un lungo e erudito articolo di Montagano. Partendo da
un'epigrafe di Rilke ("Canta all'angelo il mondo, non l'indicibile") e
di Nietzsche ("Ma l'indicibile afferrò un lembo della sua veste e
ricominciò a gorgogliare e a cercar parole"), Montagano compie una
ricognizione della possibilità di parole ulteriori, partendo dal Tractatus
di Wittgenstein, e passando naturalmente attraverso l'opera di Franco Rella e
citazioni da Benjamin. La conclusione ruota attorno alla nozione di disincanto:
"La visione messianica è il
riscatto di una memoria disincantata - che non ha nostalgia perché non ha nulla
da recuperare: vive nelle ali dell'angelo che riprende a volare senza
l'inquietudine del corpo. La redenzione ci è donata dal passato che reca con sé
il segreto di una debole forza messianica. Sarà questa forza disincantata a
portare a compimento il passato e a redimerlo. La redenzione e il disincanto
sono i nuovi paradigmi del sapere".
Più
eversivo, apparentemente antiavanguardistico, ma sostanzialmente agguerrito
contro gli esiti castranti del periodo sperimentale, il mio intervento: "è
tempo di andar oltre la Nuova Musica,
per non argomentare solo l'inseguirsi di fasi, per non dover considerare l'arte
'a perfetta dissimiglianza da Dio'[28],
per lavorare sui sacrosanti criteri di tradizione, reinvenzione, ricerca e
produzione, tutti possibili". [29]
I
nomi e i brani della rassegna "Musica, performances ed altre storie"
sono pressappoco quelli già presenti a Sorrento. Ma Rosario Musino eseguirà,
assieme alla soprano Margherita Pucillo, una serie di brani vocali: la sua Voce e pianoforte, il
mio Lied, il Vocalizzo di Montagano, e il Primo
Stasimo di Pappacena, su versi del poeta Lello Giordano. Inoltre, Eugenio
Fels terrà una memorabile esecuzione della sua monumentale Vent qui chante, Vent qui danse - Sonata, ancora nella versione
comprendente il Take-five Time. La
precedono le Itineranze di
Montagano ed il mio Basso Ostinato.
Diversioni
I
quattro compositori che animano "La Porta del Sole" e che prima
avevano formato il "Gruppo Ricerca e Sperimentazione" prendono strade
differenti. Fels è sconvolto dalla morte di Luciano, ma lavora attorno alla sua
Vent qui chante, Vent qui danse - Sonata, provandone in concerto
varie versioni. Io mi dedico al giornalismo, conducendo una serie di interviste
sulla musica contemporanea a Napoli, e al concertismo, portando direttamente al
pubblico le mie composizioni. Gabriele Montagano si rivolge alla ricerca
(prevalentemente sperimentale) delle possibilità vocali, tenendo un laboratorio
che lo condurrà, nel 1986, alla registrazione dell'opera Evento, un rondeau in un atto per quattro voci, sax tenore,
violoncello e trombone. Giusto Pappacena si dedica soprattutto alla carriera
accademica, ma anche alla computer music (non alla musica elettronica: volgerà
le sue opere in accurate e fedeli versioni per computer, facendo però uso di
stilemi piuttosto accademici e riproducendo le sonorità di strumenti
tradizionali).
E'
la fine dell'esperienza associativa, anche se si manterranno sporadiche
collaborazioni. Soltanto io e Fels continueremo ad operare insieme, fondando nel
1985 l'Associazione Musicale Ferenc Liszt, oggi ancora attiva.
Spinte
centrifughe e centripete
Una
fondamentale divergenza era intercorsa tra me e Gabriele, forse visibile anche
leggendo trasversalmente i programmi delle rassegne rispettivamente curate. Il
mio tentativo era sempre stato quello di valorizzare i percorsi dei compositori
locali, attraverso formule associative che consentissero esecuzioni pubbliche,
ma che presto avrebbero dovuto sfociare in dischi e pubblicazioni. Si trattava
di una spinta centrifuga, che sognava di mostrare all'esterno le acquisizioni, le idee precorritrici, tutto quanto di buono
avessimo potuto forgiare nei nostri laboratori meridionali. Il mio intervento
era anche distruttivo, e polemico, sulla scorta dell'esperienza di Luciano, il
cui percorso mi pareva debole
soltanto per l' 'apertura' al circolo dei compositori accademici. Viceversa,
Montagano viveva in modo pieno la stagione sperimentale, certo con una coerenza
ferrea, tale da spingerlo ad abbandonare il corso di composizione di Bruno
Mazzotta. La sua intransigenza sperimentale aveva la forza di trasformarlo in un
autodidatta antiaccademico, allineato però alle sorti dell'avanguardia storica,
quella stessa che Cilio aveva tanto aspramente criticato, pur ospitandone
nell'ultima rassegna illustri nomi. Così, Gabriele, anche volendo
sostanzialmente dare visibilità al suo percorso, come in fondo ciascuno
desidera, intraprese una marcia solitaria, fortemente individualistica, che lo
spinse a raggiungere i migliori risultati, rispetto a tutti noi, nel campo della
musica sperimentale (non è un caso, infatti, che
consideri il Trio di fiati come
il miglior pezzo di Luciano Cilio). Di quella musica contattò i principali
esponenti nazionali, alcuni ospitandoli nelle rassegne che curò. Conobbe
Giacinto Scelsi, il quale gli attribuì il merito di scrivere musica che
gli ricordava la sua gioventù, Boris Porena, e molti altri. Dopo aver scritto Evento,
che lui chiama "operina", tra l' '86 e l' '87 lavora a Trieb,
e a musiche di scena. Il 1987 sarà un anno di grande produttività, con E-Lang-A+
4'30" per orchestra; Music for
Match[30],
per voci e strumenti; Rotte di migrazione,
musiche per teatro; Arset, per percussioni; Dune,
per flauto amplificato; Dissolvenze,
per pianoforte o per archi.
Pian
piano, però, spinto da scelte personali molto sofferte, e dall'esigenza di
essere creativo anche in altri settori, dalla
filosofia alla comunicazione, dall'organizzazione di eventi allo studio degli
scenari del terzo millennio, produce alcune installazioni sonore, tra cui Camera
d'ascolto, ed Ecoulements (1991,
Museo Bolzano). Si dedica alla produzione saggistica, lavorando fianco a fianco
con Alberto Abruzzese, uno dei maggiori esperti di televisione e comunicazioni.
Pubblica come curatore o coautore diversi saggi, di cui menziono solo Estetiche
del walkman, la Scena Immateriale,
e il Dizionario della pubblicità.
Molti suoi lavori sono ospitati un po' ovunque. Ma come musicista, nulla: c'è
un volontario ritrarsi, una vera e propria sparizione. Se si esclude un
mirabolante e abbastanza recente brano per orchestra, in cui una sequenza gira
vorticosamente, ripetuta da ogni strumento in modo da creare un rutilante
cluster perpetuo, il resto è silenzio. Un silenzio, però, solo apparente,
perché si potrebbe più adeguatamente parlare di una messa in parentesi.
Metafore
all'avanguardia
L'abilità
principale di Gabriele mi è sempre sembrata quella di assemblare, spostare
oggetti sonori, collocare oppure tagliare, adeguare, il materiale a percorsi
mentali spesso di forte valenza aporetica, ai limiti dell'utopia musicale. Le
opere pensate per strumenti tradizionali sono geniali, al punto da condurre a
buon esito, forse con maggiore spregiudicatezza, quella singolare capacità
mostrata da Cilio di con/fondere strumenti e voci, in modo tale da simularne la
totale contiguità in frasi cominciate dagli uni e terminate dagli altri.
Situare e desituare, per questo autore, non ha un significato soltanto spaziale,
perché il tempo gioca un ruolo importantissimo. L'abilità cageana di collocare
nel tempo di uno spettacolo di
Cunningham rumori estratti da microfoni grattati, sfregati, incartati[31],
appartiene anche a Montagano. I suoni ci sono, al punto giusto, in un tempo che
una volta scandito mostra il segnale della irreparabilità del reale,
dell'accaduto imprevedibile e ingestibile. La capacità del porre insieme,
propriamente del com/porre, la si trova latente nelle molteplici improvvisazioni
pianistiche, esistenti in residue registrazioni in possesso dell'autore. Anche lì,
nella capacità improvvisativa, specie in quella esaltata dall'incontro con
altri pianisti, c'è un gusto dell'incontro musicale a sorpresa, reattivo, che
dimostra curiosità e capacità di gioco. Ma si parla di tempi lontanissimi, in
cui le frequentazioni della tastiera erano appena frenate dai problemi a un
polso. Le prime opere compiute, Metafore
ed Itineranze (e tuttavia
Montagano non cita un Preludio,
abbastanza romantico, ma con pedali numerosi riconducibile ad una influenza
debussiana, da me presentato in prima assoluta) svolgono aspetti legati al
virtuosismo esecutivo e strumentale dello sperimentalismo pianistico, con rapide
volatine atonali, spesso svolte su aspri accordi dissonanti. Metafore
non è il meglio che abbia prodotto, sia per l'indugio in tecniche non
riconoscibili, non riportabili cioè ad una specificità linguistica[32],
sia per il desiderio, abbastanza evidente, di sentirsiall'avanguardia..
Di Metafore , scritte nel giugno
dell'83, ho tenuto a battesimo soltanto il primo tempo, Agonia, nonostante il trittico fosse dedicato a me. Un'epigrafe
posta in calce allo spartito dice: "La musica è l'oggetto puro della
mente. E' l'idea praticabile della coscienza. E' il luogo della memoria che si
diffonde nel tempo riconciliato del vissuto". Agonia è un brano che alterna violente sferzate (sestine di
semicrome) a mistici accordi, a irreali, lentissime, crome ripetute, segno di
una implacabilità cerebrale notevole, e tuttavia momento di riposo dagli sbotti
accordali/improvvisativi e dalle volatine reiterate. Nella mia interpretazione
(l'assemblaggio di alcune sezioni era personale, come i coloriti prescelti, ed i
segni di legato) enucleavo momenti di lucidità a parossismi agogici, sempre ai
limiti delle possibilità esecutive. Un aspetto notevole mi pare ancora oggi la
capacità del compositore di gestire il riposo
di quelle volatine, trattenute con legature in accordi bitonali capaci di
risuonare a lungo, ed infine svanenti nel silenzio di una pausa. La particolarità
del secondo tempo mi pare consistere soprattutto nell'ultima sezione, quando
suoni appena accarezzati vengono trattenuti
a lungo nel tempo, lasciati risuonare, e trovano infine riposo in
clusters. Il terzo movimento, una toccata, assegna alla mano sinistra la
reiterazione di accordi dissonanti, una sorta di tormentone per crome, e concede
al finale l'uso di rapide passeggiate sulla tastiera, con i pugni chiusi che
disegnano volute.
Itineranze
è del 14 marzo del 1984; si tratta di una pagina costruita sul nome e cognome
di Fels (undici suoni più una variabile che segue certe regole), e al pianista
dedicata. E' talmente centrata (e preoccupata) di sperimentare le possibilità
dello strumento da avere bisogno di un'intera altra pagina per spiegare il
simbolismo grafico usato. Tuttavia, Eugenio l'ha suonata interpretandola a modo
suo (grazie alla previsione di un'improvvisazione), e devo dire che il fine,
soprattutto timbrico, appare raggiunto.
L'operina
Il
lavoro più importante di Montagano è di certo l'operina, quell'Evento,
rondeau in un atto per quattro voci e tre strumenti, a cui s'è già accennato.
Il testo è in parte del compositore e in parte estrapolato da opere di Peter
Handke. Evento è stato eseguito in
prima assoluta per una settimana al Teatro Spazio Libero, ricevendo un'ottima
accoglienza, nel febbraio del 1986[33].
E' stato poi replicato per il Forum degli scambi artistici tra Francia e Italia
Meridionale all'Istituto francese di Napoli[34].
Dell'opera esiste inoltre una registrazione accurata, una inedita e bellissima
incisione con le voci di un laboratorio vocale, Milena Di Vicino, Daniela Boffa,
Mariarosaria Visco e Titti Mautone. I tre strumentisti (ma sembrano
moltiplicarsi come per incanto grazie alla scrittura di Gabriele) sono Drummond
Petrie al violoncello, Enzo De Carolis al sax e Alessandro Vecchiotti al
trombone. Il risultato è un lavoro di densità sconcertante, in cui è
palpabile l'ansia e l'impellenza creativa del compositore, ma anche la
partecipazione espressiva degli interpreti. Il tempo reale dell'esecuzione è di
quarantotto minuti, suddivisi in due tempi di trentuno e diciassette, ma quello
emozionale è infinitamente più breve, denso come un amplesso sonoro. E un
amplesso sicuramente è simulato da alcuni stratagemmi vocali, laddove i suoni
vengono retrocessi a grida, invocazioni, pure emissioni. L'incipit sembra la
continuazione del Trio di fiati di Cilio, del quale ultimo, come ho già detto,
Montagano eredita l'aspetto più legato alla ricerca. Ma presto, dal tessuto in
pianissimo imbastito dai fiati, emergono primi sommessi vagiti, brevissimi,
puri, accaduti nella narrazione quasi per caso, come se un respiro si
condensasse in parole. Quando la durata di questi vocalizzi si espande a cavallo
dell'altra onda, quella descritta dai fiati e dal violoncello, il timbro vocale
si smarrisce per incanto, e va a confondersi con quello strumentale. Altre voci,
in sottofondo impalpabile, si mescolano come quelle di anime smarrite nel buio,
e pian piano si avvicinano, descrivendo e modulando l'unico suono fino a quel
momento ripetuto dalla prima solista. Questa atmosfera è contigua a sé, non vi
sono interruzioni o fragori tipici della musica sperimentale deteriore; ma è
richiesto un ascolto attento, disponibile al turbamento, in grado di tollerare
le parole e i suoni del profondo. Il testo parte; ma è decostruito, si
percepiscono solo sillabe, a lungo tenute, una sorta di lamentazione, di pianto
di donne perduto nelle radici stesse della storia. E nel frattempo tutto cresce,
in modo impercettibile, procedendo per onde. Poi le voci. Raggiunto un suono,
rapidamente seguono un pitch discendente, si desituano oltre un tipo, rimandano
a dinamiche insolite, perché usate più frequentemente dagli archi. E' qui che
la confusione di timbri si fa caratteristica pregiata, grazie ancora, ne sono
certo, alla magia del mixer. Alcuni sovracuti spengono la sezione.
Comincia
una sillabazione dei testi piuttosto irritante, perché stavolta più vicina ai
moduli della ricerca fine a sé stessa. L'ossessività della ripetizione
sillabica si scontra con il principio della sua stessa variabilità. Vale a dire
che si percepisce la consequenzialità (sic, con la 'q') di un testo che rompe
con la ripetizione. Su questa base, che già discuterei, si mostrano tronfie
esibizioni vocali, naturalmente non di belcanto, ma di tecniche teatral/musicali,
e cioè risate, urla, grida, che mi
sono sempre parse eccessive, per quanto efficaci e realizzate in modo
straordinario. Ma il periodo era quel che era, ed è naturale che anche l'operina
pagasse il suo tributo all'avanguardia. I diciassette minuti della seconda parte
(ma parlerei di una terza sezione) cominciano con fiati che giocano con archi,
perché l'esiguità della tenuta dei suoni nei primi è tale da simulare lo
stridio in pianissimo dell'archetto sulla corda, e viceversa. Non mi meraviglia
che quest'opera piacesse a Scelsi, perché certi suoni/respiro sono davvero
orientali. Quello che oggi mi pare estremamente affascinante è proprio il magma
indistinto che consente alle voci di irrompere come variabile impazzita. Con
l'intensificarsi delle piccole onde descritte da sax e trombone, subentra una
voce che simula un coito in modo palese, e l'espressività è consegnata a
questo risvegliarsi dell'attenzione per movimenti di vita e di morte, che solo
un atto così passionale e profondo può generare.
In
definitiva, l'operina riesce ad essere il racconto delle emozioni allo stato
puro. Sentimenti primordiali come la paura, il gioco, l'amore, la morte, si
fanno suono, e solo l'articolazione della parola mi disturba. "La verità
diventerà verità", e tutte le altre frasi tautologiche, pur affascinando
per il rinvio di senso, costringono l'ascoltatore a definire una soglia (minima)
del linguaggio. Per questo preferisco la prima sezione, che mi pare un
capolavoro nel capolavoro: tutto accade e nulla accade. Ma se quanto descritto
nel finale era stato già realizzato all'inizio, forse l'opera va letta proprio
attraverso l'inversione del suo procedere. Almeno questo suggerirebbe l'ultimo
respiro, che gioca a rimpiattino con il primo.
Trieb
Sempre
giocato sul singhiozzo, sul respiro (per i fiati), o sulla gestualità concitata
(per gli archi), è Trieb, cominciato
nel giugno dell' '86 e concluso nel gennaio dell' '87.
Il brano è suddiviso in due sezioni, o paginoni; nella prima si mantiene
una scrittura più convenzionale, nel senso che le altezze sono definite entro
una sequenza di otto note, permutata dopo due esposizioni e mezzo. Quasta pagina
può essere eseguita anche dai singoli strumentisti, e infatti lo è stata,
soprattutto dal flautista Luciano Carotenuto. Anche in Trieb le note
esplicative sono indispensabili per capire cosa esattamente abbia voluto il
compositore: "il suono che si deve ottenere è un impulso incontrollato
generato da movimenti addominali. E' il corpo che deve suonare nella maniera più
rigorosa". Il tempo, gli andamenti e le dinamiche non sono indicati, perché
bisogna procedere dal lento/piano al veloce/forte, secondo le possibilità di
ogni fascia di strumenti. Se resta fissa l'altezza dei suoni, non lo è
l'ottava, perché si presume che ogni strumento debba usare la più alta. Un
certo grado di aleatorietà viene così fissato (ogni alea, secondo Evangelisti,
ha il proprio limite nelle previsioni del compositore; per Cage ne ha un altro
più serio nelle capacità dell'esecutore) in relazione al 'respiro' di ogni
interprete, nel duplice senso di respiro 'agogico' e respiro 'fisico'. Un trait
d'union è affidato all'ottavino, che ripete la parte quando gli altri strumenti
passano al secondo paginone, il cui incipit vede un gran glissato di tutta
l'orchestra che parte dal sol periodico della sequenza e conduce al suono più
alto possibile di ciascuno strumento (il glissato sarà evidentemente breve,
visto che ognuno è già alla sua ottava più acuta), e in tutta evidenza quel
che si vuole raggiungere è un effetto 'urlato', cioè dinamico, visto che la
'scena' successiva (lo spartito è organizzato come una delle partiture visive
di Bussotti o di Lombardi) prevede un diminuendo progressivo che conduce allo
svanimento (ritengo soffio per i fiati e fruscio d'archetto per gli archi).
L'ultimo quadro, rappresentato graficamente come una sorta di 'aquilone',
è interessante per la 'coda', visto che gli strumenti giocano con glissati
d'armonici (flauti e ottoni), armonici medi e naturali, e infine un sax tenore
che chiude tenendo la sua nota più bassa in modo solo parzialmente intonato
(oscillando leggermente sopra e sotto un suono).
Non
ho mai ascoltato Trieb nella sua esecuzione orchestrale, ma soltanto in quella per
flauto: la ricerca interessante resta quella rivolta agli impulsi che lo
strumentista deve catturare, facendo in modo di evitare quelli meramente binari,
e cadendo sempre un po' fuori dal tempo[35].
Dissolvenze
Dissolvenze
, scritto tra l' '87 e l' '88, chiude il cerchio: si tratta di un pezzo
aforistico, esistente in due versioni che differiscono per dilatazioni
successive. La prima, pianistica, consta di diciannove battute con valori
larghi, che si lasciano risuonare a lungo, anche oltre la durata dei quattro
movimenti, in pianissimo. Si tratta di accordi il cui legame è armonico
soltanto per il senso di vibrazione che si instaura tra le parti. I movimenti di
quest'ultime sono perlopiù 'proibiti' secondo i canoni limitativi
dell'accademia, tanto che 'risolvono' a modo loro, frantumando le abitudini
consolidate (in definitiva il titolo Dissolvenze mi fa pensare proprio a "risolvenze"
improprie). Ma la dilatazione del tempo, il prolungamento dei suoni attraverso
il pedale, l'evanescenza del pianissimo, l'uso prevalente di registri medio-alti,
fanno sì che non si verifichi uno spiazzamento che risulta sgradevole al
consumo. Nel suonare questo brano ho potuto verificare, inoltre, che l'uso di
una diteggiatura non convenzionale (tale da consentire una posizione della mano
che nell'attacco indirizzi il peso verso certi suoni dell'accordo) apre
all'ascolto linee trasversali di significato. La versione pianistica, inoltre,
presenta due piccoli incisi melodici, cromatismi lati, che nella zona centrale
della pagina offrono un barlume di memoria formale; una specificazione ritmica,
purché l'esecutore ricordi di considerare l'ampiezza del tempo virtuale che sta
alla base del pezzo, segue immediatamente, richiamando il procedimento logico
della progressione.
Nella
versione per archi i suoni vengono ulteriormente spaziati, tanto che le battute
diventano ventidue; il valore degli incisi procede per 'aumentazione', sparisce
anche l'individuazione ritmica immediatamente seguente. Tutte le durate si
appiattiscono, linee di senso finiscono sommerse, lasciando al direttore la
possibilità di rintracciarne e recuperarne traccia. Ma se un singolo esecutore
può recuperare ed amplificare empaticamente suoni/chiave, tutta l'orchestra
andrebbe forse indirizzata prevedendo e segnando i piani sonori desiderati (con
'ossia', o molteplici varianti...).
Dissolvenze
rende ancor più essenziale il gesto compositivo di Gabriele; ne condensa
lo sforzo attraverso una realizzazione "minima" (come riferisce lo
stesso autore).
Al
silenzio alcuni compositori sono giunti attraverso l'uso di pause, la fugace
apparizione di suoni sottilissimi. Montagano è consapevole della necessità di
tagliare, rendere agile ed essenziale la comunicazione, ma sceglie la strada
intensa del suono lungo.
Come
se chiudendo una porta nessuno potesse mai dimenticare che nell'altra stanza c'è
un intero universo di suoni e colori.
Quel
terribile cappuccetto rosso
Di
Giusto Pappacena, l'altro compositore vicino al Gruppo Ricerca e
Sperimentazione, devo segnalare in primo luogo la straordinaria capacità
improvvisativa. Seduto davanti alla tastiera del pianoforte, Giusto era capace
di modulare per ore, cambiando continuamente genere senza interrompere la
narrazione. Una grandissima musicalità fluiva libera, e forse non ho mai
più provato una tale sensazione di arresto del tempo reale come quando queste
'sedute' avevano corso. Al suo confronto, io e Gabriele, che non ce la caviamo
male con l'improvvisazione, sembravamo bambini con difficoltà d'articolazione.
Eppure (specie in duo con Montagano, che si dimostrava il più adattabile)
procedevamo ad esperimenti che sarebbe stato bello e importante far confluire in
qualche registrazione, cosa che non avvenne mai.
Ad
un certo punto Giusto cominciò dapprima ad occuparsi in modo
serrato della sua preparazione scolastica, e poi della carriera
accademica. Il dono d'attingere a istantanee sublimità venne pian piano messo
da parte, forse perché, letteralmente, troppo "a portata di mani"
(nel senso che poco doveva essere lo scarto tra pensiero e gesto musicale). La
sua maggiore attenzione, oggi che insegna in conservatorio, è rivolta agli
impegni didattici, ed agli strumenti originali e raffinati che predispone per i
suoi allievi.
Pappacena,
dottore in filosofia dal '78, è allievo, come Fels, di Aladino Di Martino, con
il quale fa in tempo a conseguire il compimento inferiore di composizione. Il
dato non è casuale, perché specialmente nei primi lavori è presente una vena
melodica abbastanza ironica, simile a quella del maestro. Con la sua Sonatina vince il concorso Maleventum, e l'Improvviso n. 4 viene trasmesso (è l'otto aprile 1985) dalla
trasmissione radiofonica "Un certo discorso". Oltre che all'interno
delle rassegne già citate, io ed Eugenio eseguiremo
alcuni suoi brani nei concerti inaugurali della Associazione Liszt. Si tratta
ancora della Sonatina Tragicomica, del
Preludio quasi un blues, e del fluido Quel
terribile cappuccetto rosso (tratto dall'omonima fiaba di Rodari "C'era
una volta un povero lupacchiotto, che portava alla nonna la cena in un
fagotto..."). Sono
brani in cui prevale l'elemento improvvisativo, e non so quanto oggi
vengano accettati dall'autore. Certo è che specie il Preludio
quasi un blues richiama fortemente i momenti più ispirati delle
performances libere del compositore vesuviano, ed è pagina molto ispirata. Su
decime affidate ad un' ampia sinistra, si muove un fraseggio perlopiù monodico,
molto cromatico, affidato alla destra, che conduce un monologo della durata di
appena venticinque battute, non senza sbuffi e palpiti irregolari. Bello anche
il Primo stasimo, una lirica per
soprano e pianoforte su testo di Lello Giordano ("Un asfittico palpito di
morte, diluizione nel mare del silenzio, perdermi, e perdere. Soffrire
sradicando le lacrime e le colpe..."): di stampo neoimpressionistico, non
gli mancano tuttavia la pienezza di certe armonie jazz (la curiosa sensazione è
che nel Primo stasimo l'autore si sia
volutamente contenuto, irregimentandosi nelle regole...).
Ho notizia di una suite per archi, e di molti altri brani pianistici
consegnati al nastro, che risalgono all'incirca al 1985. Dell' '86-'87 è Disincanto,
una improvvisazione mossa sul tracciato del Preludio,
in cui mi pare notevolissimo l'humus accordale, prevalentemente armonico, che fa
da sfondo alla performance di una tromba solista (o altro fiato, visto che la
registrazione è sintetica). Molto carino e sfavillante Friends, del 1991, concepito per banda; il Concerto per tre del 1992 è gradevole, anche se un po' incline a
certe prolissità scolastiche (romantiche, per quanto riguarda il pianoforte).
Più recentemente ho avuto modo di ascoltare alcune registrazioni di prova per
due Song: la prima esiste in due
versioni, per solo pianoforte e per quartetto d'archi, estremamente romantica,
evoca, un po' per gioco, aloni alla Rachmaninoff. La seconda, più interessante
limitatamente all'incipit, è per pianoforte ed archi, ma ci avrei visto bene il
bandoneon, perché allude a modalità usate da Piazzolla. Ma è chiarissimo che
in entrambe Giusto sta facendo esercizio di stile.
In
generale devo considerare che se questo straordinario musicista/strumentista
tornasse alla sua antica vocazione potrebbe stracciare parecchi autori di musica
da film (che a parer mio, lo ripeto, ha medesima
se non maggior dignità di quella d'altro tipo), e fare cose non lontane da
quelle dello Jarrett performer solista. Il paragone mi viene anche meglio dopo
aver ascoltato la produzione, per così dire, 'colta' del famoso jazzista: anche
lì il senso della forma soffoca l'ispirazione melodica; eppure nelle
improvvisazioni restano notevoli le acquisizioni sperimentali, le sognanti
melodie, impossibili da riprodurre su carta o da suonarsi identiche, come
ammette lo stesso autore[36].
Le
interviste: un quadro desolante
Tra
l' '82 e l' '84, oltre a dedicarmi all' attività solistica e compositiva[37],
mi muovo come giornalista per sentire le ragioni di operatori e
compositori napoletani. Parto naturalmente dall'ondata di interesse suscitata da
"Avanguardia e ricerca musicale" e sento tra i primi Carmelo Columbro,
che mi conferma la difficoltà a lavorare nella città (è il giugno dell' '82).
"Per essere compositore a Napoli devi pensare di non essere a Napoli: la
città non ti stimola, le strutture mancano, gli enti sono tardivi e, spesso,
completamente immobili. Fare musica è quasi impossibile: esistono soltanto
delle élites, al di fuori delle quali il nulla, l'affossamento totale di certi
processi culturali". Per questa ragione Carmelo afferma di lavorare senza
pensare al pubblico, ma solo per la voglia di farlo. "Parto da 'ombre' che
vado man mano a definire attraverso momenti quasi artigianali di costruzione ed
elaborazione. Il 'fare espressivo' aumenta col definirsi di queste ombre. Il
momento creativo si esaurisce quando la composizione è terminata".
Nello
stesso periodo, pubblico le interviste e le analisi di brani di Fels e Cilio.
Nel febbraio dell' '84 ascolto un didatta locale, Carmine Pagliuca, e gli chiedo
provocatoriamente quale sia la situazione del conservatorio di Napoli; questa la
risposta: "Napoli, pur avendo la scuola più celebre, a livello mondiale,
ha oggi numerose carenze: non abbiamo nemmeno il corso di musica elettronica.
Esiste una maggiore arretratezza, il conservatorio viene considerato
provinciale, perché inquadrato in una realtà cittadina purtroppo decadente e
avvilente (...). Comunque abbiamo tuttora delle forze vive, per porci
all'avanguardia del movimento musicale internazionale: in quanto a tecniche,
fantasia e modernità di linguaggio i nostri compositori sono sempre fra i
primi, anche se, purtroppo, la mancanza di strumenti idonei li costringe a non
aggiornarsi sufficientemente. Vi è la latitanza più completa dello
Stato".
Dopo
pochi giorni incontro Franco Di Lorenzo, che ricopre la carica di responsabile
della struttura orchestra e coro della sede regionale Rai. Mi è stato
presentato da Enzo Marone, un universitario sensibile e colto e tuttavia di
ironia raffinata. Di Lorenzo, gentile e disponibile, si mantiene però sul filo
del rasoio; concede e recede, dice e tace. Cavilla sul termine
"contemporaneo" ("essere un artista contemporaneo non vuol dire
porsi all'avanguardia"), ma poi ammette: "a Napoli non vi è spazio
per la composizione, c'è poca avanguardia, anche per la scarsa presenza di
artisti specializzati. La musica non è un'arte autonoma: l'autore deve
affidarsi a un esecutore: e purtroppo non esistono strutture che mettano a
disposizione solisti, orchestre, organici vari per eseguire le nuove
musiche". Tutte cose vere,
naturalmente, e sarebbe appena il caso di chiedersi dove diavolo avrebbero
dovuto essere queste orchestre se non alla Rai... Certo, la responsabilità era
dei vari direttori artistici lì presenti, da sempre più preoccupati di crearsi
un'immagine nazionale: a chi poteva interessare promuovere la musica dei
compositori locali?
Tuttavia
Di Lorenzo, di tanto in tanto, riuscì ad essere eseguito dall'orchestra Rai e
ad utilizzare quelle esecuzioni per incisioni discografiche. Extra
ecclesiam nulla salus.
La
difficoltà di essere musicisti a Napoli
Per
Renato Piemontese (l'intervista è del marzo '84), "Napoli è una strana
città: se può sembrare l'eterna addormentata all'ombra degli eventi, opera poi
costantemente in una fitta rete di cultura che sovente esplode o primeggia nelle
occasioni offertele. Una gran quantità di talenti produce arte come il pane
quotidiano, ma è costretta a usufruire di
circuiti extralocali o, se vuole operare in loco, di quei rari spazi
consentitigli dalle strutture esistenti. Il guaio è che questi spazi sono
creati non certo per sete di conoscenza o per interesse diretto, ma perché 'la
serata contemporanea dà lustro' ". Con grande lucidità, Piemontese
aggiunge che "Napoli non offre alcuno spazio alla musica contemporanea, se
non sporadiche occasioni pressoché riservate a quei nomi che fanno parte dei
circuiti nazionali di arte contemporanea. Tutti dovremmo raggiungere la
consapevolezza che l'avanguardia non è più dei vari Sciarrino, ma di coloro
che giorno per giorno continuano la ricerca e la sperimentano
nell'atto della creazione".
Il
problema è che sono passati oltre dieci anni da quella intervista, e l'unico
omaggio a un vivente che si pensa di organizzare nei dintorni della
città è proprio dedicato a Sciarrino, un compositore che, con tutto il
rispetto, appare lontano anni luce da tutto quanto sta accadendo nel panorama
delle musiche vive[38].
Piemontese
descrive con precisione e minuziosità il suo procedimento creativo:
"Partendo dalla ricerca di definizione immaginale, attraverso processi di
articolazione, ti trovi a modificare e spesso a moltiplicare le immagini stesse,
ti trovi in mondi diversi da quelli iniziali, ad analizzare sfere emotive
scaturite dalle tue elaborazioni, dalle tue immagini. Rispetto ai mezzi
espressivi, non disdegno di usare, se necessario, forme di linguaggio anche
tradizionali. Un compositore di oggi ha a sua disposizione una enorme quantità
di materiale timbrico, armonico e gestuale, anche perché coadiuvato da mezzi
tecnici impensabili fino a pochi anni fa. Con questo intendo dire che non
soltanto perché si è usato il rumore di un vetro rotto si debba negare
l'utilizzazione dei semplici accordi perfetti maggiori e minori".
Il
suono e la parola
Nel
marzo dell' '84, stimolato dalle inchieste condotte, e per muovere qualcosa in
acque altrimenti stagnanti, promuovo e curo nelle sale della libreria dehoniana
di Via Depretis un convegno dal titolo "Il Suono e la parola", in tre
pomeriggi di "annotazioni e ascolto sulla/della Nuova Musica". Il 23
marzo leggo gli "Spunti per una estetica improbabile", già pubblicati
dal quotidiano Napolinotte, e faccio ascoltare su nastro le musiche di Cilio,
Fels, Montagano e mie. E' previsto un intervento di Enrico Renna, di cui Ciro
Scarponi aveva eseguito Tief durante
gli "Incontri nazionali della Nuova Musica". Sia io che Fels abbiamo
appena detto la nostra, soprattutto mostrando l'apertura a musiche di
provenienza differente da quella 'colta'. Renna reagisce duramente, prendendo in
giro alcuni gruppi rock e cercando lo scontro frontale anche sul problema della
formazione (servono le scuole di composizione? in che rapporto sono genialità e
autodidattica?). Eugenio non sopporta la provocazione, s'alza e va via.
Al
secondo incontro, proprio sul tema della creatività,
benché fosse prevista la presenza di Columbro, Piemontese, e
naturalmente la nostra, ci si ritrova in pochi: evidentemente non a tutti le
sorti della musica contemporanea sono care come era parso nelle interviste.
Conclude il ciclo l'unica commemorazione a Salvatore di Giacomo, il 5 aprile,
con un "Omaggio" di Franco De Lorenzo che ne ha musicato e pubblicato
su ellepì una lirica[39].
Posso
dire retrospettivamente che il convegno ha avuto una duplice funzione. I
contenuti, innanzitutto: materiali sommersi son venuti alla luce, riacquistati
all'ascolto benché soltanto da nastri. Ma anche tesi a confronto:
l'irriducibilità tra l'avanguardia 'colta', 'sperimentale', e quella vera, che
avrebbe preso il sopravvento: quella che incontra di nuovo il pubblico perché
utilizza la contaminazione, un linguaggio accessibile ed espressivo (non
necessariamente semplice), che rompe con l'estetica oppressiva e snob della
seconda scuola di Vienna. Simbolicamente, le due posizioni s'erano scontrate, e
quasi schiaffeggiate, per usare una metafora 'postuma' suggerita da Fels.
Nemmeno
mi pare casuale l'assenza di alcuni, e l'egotismo di altri (i tg segnalarono
soltanto la terza conferenza...): mentre in altre città, per esempio Roma o
Firenze, i compositori riuscivano a federarsi e a trovare nuove opportunità
d'esecuzione, a Napoli, scomparso Cilio (avrebbe potuto essere l'Amelio della
musica), non si reperiva una figura capace di aggregare e amplificare le diverse
solitudini.
Se
non c'era l'emergenza di un contropotere (né io né Montagano riuscimmo a
costruirne uno sufficientemente forte), mancò pure un interlocutore
istituzionale che potesse per autorità o competenza costituirsi come referente.
Andiamo
a verificare...
In
effetti, se si tenta una ricognizione delle possibilità concrete offerte dalla
istituzioni cittadine in quegli anni, guardando anche ai loro direttori, si vedrà
che queste si potevano quasi contare sulla punta delle dita e che quelli
s'infischiavano della valorizzazione delle nostre risorse. Ed è quasi superfluo
precisare che non si sta parlando genericamente della musica
che altri portavano qui, ma
delle occasioni che gli artisti partenopei avevano per dare visibilità al loro
lavoro.
Tutto
questo va dimostrato, per evitare che si parli della solita lamentazione o del
consueto piagnisteo meridionale. Qui deve essere visibile che la compressione di
certi percorsi fu questione di scelte relative a precise politiche culturali. Le
nostre terre di frontiera furono prese per terre oleografiche, e rese
disponibili alla conquista. Capire questo, e dirlo a tutte lettere, potrebbe
servire ad evitare errori futuri, e il messaggio mi pare sufficientemente
chiaro. Devo anche legittimare l'indignazione con documenti, date, citazioni,
che sono qui solo esemplari (né potrebbe essere diversamente: il panlogismo è
una pretesa eccessiva). E pazienza per l'appesantimento del testo.
I
nomi che già sporadicamente passano al San Carlo sono quelli di Satie,
Hindemith, Berg, Webern. Il nostro teatro viene appena sfiorato da opere di
Henze, Tosatti, Barber, Mannino. Nell' '86 si commemora il quindicesimo
anniversario della morte di Antonio Cece (Passacaglia).
Nel '93 ci sono Cece e Morricone. Poche e sporadiche le altre presenze. La
musica contemporanea ha invece una via d'accesso facilitata per quanto riguarda
i balletti. A parte una fantasmatica commissione che già Cilio dovette
ricevere, il Caledoscopio di Cece, Lucia!
di Sergio Rendine, e poche altre cose, ho notizia di un ottimo successo
riportato da Nino Panariello con Immago.
Alla
Rai, quando ancora la sede era attiva con una programmazione indipendente e con
l'orchestra, l'apparente gran movimento sotto la direzione artistica di Mario
Bortolotto, soprattutto grazie al Festival d'autunno consacrato alla musica
contemporanea, si riduceva alla passarella dei soliti nomi dell'avanguardia
nazionale che ci gratificavano con le loro opere sperimentali.
Nell' '84, ad esempio, veniva eseguito l'Arioso
mobile di Francesco Pennisi (e nello stesso concerto opere stagionate di
Ghedini e Bossi). Bortolotto riteneva molto importante dare spazio ad un
concerto monografico dedicato alla "Scuola di Donatoni" col milanese
Ruggero Laganà (Concerto per arpa e
orchestra), Alessandro Solbiati,
classe 1956, di Busto Arsizio (...Più
sopra le stelle..., per soprano e orchestra), Pippo Molino, sempre milanese (Il canto ritrovato, per orchestra da camera), col romano Matteo
D'Amico (Ariel, per orchestra) e
naturalmente Franco Donatoni (Orts
per 14 strumenti). Una certa compensazione la troverei nella scelta di Enrico
Renna come direttore, se non sapessi che quel concerto dette origine ad una
serie di problemi e recriminazioni. Nel 1985, Bortolotto programmava Bettinelli
(Omaggio a Strawinsky e Concerto
per violino e orchestra), Pennisi (Due
canzoni natalizie etnee), Short (Slow
Drag and Gallop; Scott Joplin and
Friends, per quintetto d'ottoni e orchestra), riteneva importante
commemorare i dieci anni dalla morte di Dallapiccola (e passi), ma anche il
sessantesimo compleanno di Aldo Clementi (O
du Heilige) con musiche di Gentile (Criptografia),
Togni (Lyrusches Intermezzo), ancora
Pennisi (L'arrivo dell'Unicorno,
giusto per una postilla "per Aldo"), Arcà (A
Splendid Tear), Mann e Sciarrino (Due
canzoni del XX Secolo). Ospitava il Terzo
concerto per pianoforte e orchestra op.25 di Mosca (uno dei pochi brani
memorabili), ed il "veneziano" concerto per pianoforte, clavicembalo e
orchestra di Ambrosini. Sempre nell' '85 c'erano due prime assolute di Claudio
Cojaniz (Memories 1 e 3), con la
direzione di Dennis Stanko e di Sandro Gorli[40].
Nel 1987 (ancora una festa di compleanno!), per il 60° anno di Hans Werner
Henze si eseguono la Sinfonia
n. 1, per orchestra da camera; la Fantasia
per archi e leFunf neapolitanische
Lieder (e cioè "Canzoni 'e copp' 'o tammurro") per mezzosoprano e
orchestra.
In
realtà, il vero pensiero di Bortolotto sulla musica napoletana era contenuto in
una epigrafe consegnata al già citato disco di Franco Di Lorenzo. Tra altre
amenità, riteneva che il lavoro di Di Lorenzo non si potesse "ricondurre
ad una matrice napoletana, vera o immaginaria che sia"; e adduceva le
seguenti motivazioni "storiche": "si sa come, dopo la grande età
dei Borboni, fino al direttorio e al regno di Murat, non si possa più parlare,
per la composizione, di una vera e propria scuola di Napoli: lo stesso
insegnamento di Zingarelli (mi permetto di far notare che sta parlando di Nicola Antonio Zingarelli,
nato a Napoli nel 1752, e morto a Torre del Greco nel 1837!! nda), e
d'altri, ebbe gli esiti migliori con musicisti non napoletani, Bellini in prima
fila. La ripresa importantissima di Martucci non trova continuatori: dopo
Martucci, si tratta in ogni modo di casi sporadici, da considerare, chi ne fosse
interessato, ciascuno per sé, autonomamente". Non c'è che dire, una
ricostruzione davvero aggiornata! Il lavoro di Franco Di Lorenzo sembra aver
avuto valore soprattutto per il fatto che "quali che siano i suoi rapporti
con gli altri musicisti del Sud, la sua linea se ne discosta senza mezzi
termini. Non rinunzia a nulla del colore che è tradizionale nella musica del
Mezzogiorno, e men che mai della sua tendenza a risolvere tutto in valori
lirici, nel predominio del canto (...)".
Come
ci si poteva illudere che questa linea critica concedesse spazi alla nostra
musica?
Tutto
cambia, nulla cambia
Con
l'avvento di Fargnoli alla direzione artistica della Rai, c'è l'apparenza di
qualche concessione in più ai compositori locali. Nell'Autunno Musicale dell'
'88 viene programmata la Suite Dominicana
di Antonio Braga, che fa seguito alla sua Hispaniola,
già eseguita alla Rai. Ci sarà una serata di prime assolute, con il
Capriccio per clarinetto e archi di
Aladino Di Martino (un brano atonale e virtuosistico), l'omaggio a Proust Recherche di Franco Di Lorenzo (certo non descrittivo nel senso
tradizionale, ma rivisitazione atonale e quasi dodecafonica - ma non seriale),
il Concerto per archi di Cece, il
modesto Concerto per clarinetto e archi
di Enzo De Bellis [41],
la Suite per pianoforte e archi di
Mario Pilati (nel 50° della morte)[42].
Il concerto del 9 dicembre vede quattro prime esecuzioni assolute, di Galdi (Concerto
per archi), Vandor (il manniano Paesaggio
con figure), Scogna (Fluxus,
immagino dal nome del mitico e omonimo movimento) e Lombardi (è il Concerto
per pianoforte e orchestra)[43].
Il 16 dicembre c'è la prima di Gentile (Concerto
per chitarra e orchestra) e di Ravinale (Elegia
del silenzio, e meglio sarebbe stato tacere). Non mancano cenni di continuità
con la gestione di Bortolotto, come si vede, non foss'altro per il perpetuarsi
dell'intento celebrativo (l' 80° compleanno di Carter...). Nella stagione
"istituzionale" dell' '89, su diciannove concerti, l'unico
'contemporaneo' sarà Petrassi. Pian pianino anche l'"Autunno
Musicale", tradizionalmente dedicato alla musica d'oggi, si impoverirà di
esecuzioni: nel '90 l'autore più vicino a noi sarà Hindemith. E non è
napoletano.
Le
altre istituzioni, la cattedra universitaria di Storia della Musica e il
Conservatorio statale, hanno avuto un ruolo trascurabile per la promozione di
musica contemporanea. La prima pare quasi specializzata in musica medievale (non
è una battuta: Ziino è un esperto di quel settore), e il secondo, oltre ad
ospitare periodicamente un concerto di
qualche gruppuscolo, mi pare, fino ad oggi (si è appena insediato Roberto De
Simone), paralizzato come la sua biblioteca[44].
Le
ragioni del silenzio
A
questo punto le ragioni che mi spingono a qualificare la nostra come
un'avanguardia 'altra' dovrebbero essere evidenti. Avevamo contemporaneamente
qualcosa in più e qualcosa in meno rispetto a città come Roma o Firenze.
I
politici che ci rappresentavano venivano eletti per ragioni di opportunità. Le
Piedigrotte erano sempre servite a
consolidare i tarallucci, di cui ci restava naturalmente soltanto il buco (altro
che brioches!). E' naturale che si facesse di tutto affinché le cose
rimanessero come erano. Non si poteva mica consentire a qualcuno di ripensare la
cultura, di anticipare i percorsi dell'arte, di riformulare quelli della musica.
L'omertà è calata anche attraverso i giornali; quando s'è soltanto svilito e
sminuito quello che qui si produceva bisognava ritenersi fortunati.
L'acquisizione estetica del silenzio è stata quantomeno 'indotta', per dir così,
attraverso quella mancanza di parole.
L'omertà
produceva altri effetti indesiderati: eravamo incapaci di federarci; il
sospetto, l'opportunismo, il menefreghismo e il tira
a campà tutto partenopeo, appartenevano alla sfera delle scelte, o erano
anch'essi 'indotti'?
Così,
ognuno fece per sé; qualcuno riuscì, come Roberto De Simone (che per la verità
ha anche dato spazio a molti giovani). Molti altri non furono, all'interno
dell'atollo, che una miriade di monadi perlopiù isolate, spesso in lotta feroce
l'una con l'altra.
Questo
individualismo esasperato non ci impedì di anticipare talvolta i percorsi
estetici nazionali, e in qualche caso internazionali, un po' come era avvenuto
al trenino della "Vesuviana". Non ho bisogno di fornirne prove
ulteriori: il solo caso di Cilio è sintomatico, e taccio, per pudore, dei
viventi.
Ma
occorre tener presente che con la velocità ipermediale l'unicità del genio è
andata scomparendo; la sensibilità collettiva appartiene ad una coscienza
globale sempre più sviluppata. Insomma, ci si muove in tanti verso la medesima
meta. Una cosa accade quando la vediamo in
rete; non possiamo nulla contro
questa illusione, se non almeno mantenerci consapevoli degli effettivi mille
piani quando ricostruiamo o raccontiamo i fatti.
Magari
conservando quella personale conoscenza, la quale infine supera la prospettiva,
e si tramuta, col tempo, in silenziosa
e saggia capienza.
L'armonia
e l'invenzione
Molte
monadi, dunque, si formano pian piano. Associazioni come "L'Armonia e
l'invenzione", "Liszt", "Aliseo", gruppi come "AC.EL.", "Virus", "Colin
Muset": tutti esempi che documentano la vita musicale dell'ultimo decennio.
Realtà non prive di valore, di intuizioni importanti. Forse uniche occasioni
per veicolarsi.
L'attività
de "L'Armonia e l'invenzione" sembrò inizialmente incoraggiata più
da "Paese Sera" che dal "Mattino". Ma anche il maggior
quotidiano locale dette spazio a quei concerti/analisi, come ad esempio alla
performance di Shivkumar Sharma. Naturalmente ciò avveniva entro i limiti e le
possibilità che già abbiamo attribuito ai critici di quel giornale. Il merito
generalmente riconosciuto all'associazione (che organizzò incontri di rilievo
con Berio, Nono, Schiaffini, etc.) è attribuito al tentativo di 'formare' il pubblico napoletano, che però a me pare un
tentativo che palesa una vecchia malattia degli operatori, forse inoculata dalla
formazione neoadorniana. Infatti mi pare chiaro che il vero problema per i
botteghini fosse più nella qualità dei compositori che riuscivano ad arrivare
ai teatri che nei limiti di fruibilità degli ascoltatori: i curriculum e le
cassette demo venivano accolte all'estero e rifiutate a Napoli.
Un
colloquio di informatica musicale
Il
gruppo AC.EL. (e cioè il gruppo di Elettroacustica del Dipartimento di Scienze
Fisiche dell'Università di Napoli), invece,
svolse prevalentemente attività di ricerca fin dalla
fondazione nel '76 ad opera di Giuseppe Di Giugno e Antonio De Santis.
Coinvolse soprattutto scienziati interessati al discorso musicale, più che
musicisti veri e propri: ma questa è un po' la pecca di tutta
la musica elettronica (solo in parte, e con evidente minor capienza di mezzi,
l'insorgenza della computer music consentirà anche a compositori non
specialisti di ampliare certe facoltà grazie all'uso delle macchine, sempre
nell'ambito di possibilità previste da software già predisposti). Una storia
essenziale del gruppo è stata formulata da Giancarlo Sica, sensibile e
disponibile compositore, in un saggio ospitato da KOnSEQUENZ (n.
2/94). Tuttavia mi pare importante ripetere qui, almeno, i nomi di Sergio
Cavaliere, Aldo Piccialli e Imma Ortosecco (1980). Nell' '81/'82, Cavaliere e
Sossio Vergara realizzano un elaboratore in tempo reale per la sintesi del suono
(TROLL). Con Lorenzo Papadia, Cavaliere studia, inoltre, un sistema che consenta
l'interazione automatica tra musica e movimento, poi presentato al Festival dei
Due Mondi di Spoleto. Il sistema PSO-TROLL, che approderà a Parigi, sarà
invece opera di Piccialli, Cavaliere ed Evangelista.
Ma
l'esito più importante dell' AC.EL. per la città, visto il numero di prime
esecuzioni che vi si realizzarono, fu il "VI colloquio di Informatica
Musicale", tenuto a Villa Pignatelli nell'ottobre del 1985. Oltre
all'esecuzione di tre lavori di Giancarlo Sica (Cantata
(ex machina) per soprano e computer; Arcana;
Timesteps) non mancarono prime assolute di Sergio Cappucci (Traslazione e...), Enrico Cocco (Istinti verso...), Michelangelo Lupone (Mira); brani di Fausto
Razzi ed altri.
Il
lavoro di Giancarlo Sica
Pur
svolgendo un'intensa attività di ricerca nell'ambito del gruppo AC.EL., Sica
non rinuncia per questo all'attività compositiva. Le sue opere strumentali Sonata per pianoforte e marimba, e Quartetto d'archi, adottano un sistema compositivo che rimanda
implicitamente alle permutazioni matematiche utilizzate anche nella produzione
elettronica. Lo stratagemma tecnico consiste nell'individuazione di piccole
sequenze ripetute attraverso un loop, un circolo virtuoso/vizioso di
reiterazioni, pur sempre modificabili, sulle quali si inscena la variazione
tematica o l'invenzione ritmica di una parte superiore. Mi pare, in particolare,
di poter connettere le due composizioni già citate almeno alla Cantata
(ex machina) e a Kane
no Koe. Un discorso a parte
merita invece Ancestralia, per
pianoforte, alla quale abbinerei Il
cerchio del Tonal, ambiziosa e bellissima suite per voci ed orchestra
ispirata alle opere di Castaneda ed eseguita in prima a Napoli nel 1991[45].
Si tratta di opere legate a linguaggi più semplici, tonali o atonali, che
restano pur sempre espressive e raffinate. Anche la Fantasia
per flauto e orchestra da camera (ma ne esiste anche una versione per flauto
e quintetto d'archi) può riconnettersi a questa seconda anima di Giancarlo,
visto che alcune cellule rimandano alla medesima propensione india. Qui la
tensione resta legata più al
percorso iniziatico/musicale che a un "in sé" dedito alla ricerca di
suoni e formulazioni inedite. L'anima elettronica di Sica non si esime dall'uso
di seduttive voci femminili, le quali muovono melodie atonali e voluttuose, al
di sopra di un sostrato elettronico denso e inaccaduto, per indisponibilità
delle sue particelle ad un riconoscimento strutturale. Ad esempio, la Cantata
utilizza un testo liberamente estrapolato dalla lirica Laughing
Gas di Allen Ginsberg ("un'occhiata/dalla quale l'intero/processo
svolge questo/universo.../lo disfà nel suo esatto/contrario finché si ritorna
da/fino al Nulla/nel quale a caso/una nota venne in origine/sfiorata (...) e
l'intera/struttura si svolge/inevitabilmente e/torna a riavvolgersi/nel
Nulla..."), gestisce la voce umana come nona super partes (le altre otto
sono affidate al computer, che conduce il movimento di un cluster suddiviso in
due sezioni in modo da ottenere spettri leggermente disarmonici). Anche Kane
no Koe ("Il suono della campana") utilizza la voce femminile che
recita un testo giapponese ("Gli orgogliosi sono effimeri, simili solo al
sogno di una notte di primavera; e i forti, anch'essi, saranno alla fine
travolti, a nient'altro simili che a polvere dinanzi al vento"). Invece, un
lavoro decisamente all'avanguardia, e quindi all'estremo 'elettronico' di
Giancarlo Sica, mi pare Particles che
utilizza il linguaggio per macchine virtuali Csound, del quale Giancarlo ha
fornito un'esemplare trattazione nel n. 1/95 di KOnSEQUENZ.
L'autore così la definisce: "la composizione è nata dall'idea di 'fasci
di particelle' musicali (i grani della sintesi granulare asincrona) propagantisi
ovunque, che di volta in volta si aggregano a formare strutture sonore dotate di
confini ben definiti o nebulosi, e con distribuzioni spaziali dinamiche nel
tempo".
Pur
riconoscendo l'elevato specialismo elettronico di Particles
, confesso di preferire la produzione intermedia, quella che mescola l'umano e
l'elettronico, anche perché lì il linguaggio mi pare più riconoscibile.
A
meno che anche quello della riconoscibilità non diventi un luogo comune, e non
si verifichi davvero la scomparsa della figura dell' autore. Finora, all'alba
del terzo millennio, non è che un'ipotesi giocosa, a metà strada tra
fantapolitica ed estetica, ma la diffusione di tecniche sofisticatissime ne sta
accelerando la realizzazione.
Nasce
la Ferenc Liszt
Nel
febbraio dell' '85, per iniziativa di Fels e mia, nasce l'"Associazione
Musicale Ferenc Liszt": la nostra monade. Il primo atto è esecutivo e
strumentale, ci qualifica immediatamente come pianisti-compositori: nelle sale
adiacenti al chiostro maiolicato di Santa Chiara, si tengono due long
concert solistici.
Eugenio
suona nella prima parte uno dei suoi mitici Bach-Fels (ovvero una
trascrizione/reinvenzione da Bach), e tre pezzi forti
di Mozart, Franck e Liszt. Nella seconda parte tre composizioni di Dino
Messina: Réverie d'été (1983), Sortilèges
d'une courte èvasion (1985) e Improptus
(1982), la IV Sonata di Cilio
nella prima versione del 1975, la Sonatina
di Pappacena, le mie Variazioni sul
Vento (1985) e la sua Vent qui chante,
vent qui danse - Sonata, nella versione del 1983. Io dedico la prima parte
ad Erik Satie, ma cambio i testi, improvvisando sugli ostinati in Avant-derniéres
penseès, modificando con variazioni ritmiche Je te veux,
giocando sulle dinamiche delle sei Gnossiennes
e delle tre Gymnopédies. Nella
seconda parte presento Les chants de la
mi-mort di Alberto Savinio, musiche di Stravinskij, Schoenberg, due brani di
Fels, due di Giusto Pappacena, il Preludio
per pianoforte di Franco Di Lorenzo[46],
i miei Fantasia, Preludi, Basso ostinato. In calce al programma è indicata
una "improvvisazione", che fu tenuta e registrata: l' esperimento di
un pianista 'colto' al quale stava stretto quel ruolo. L'inaugurazione
dell'Associazione smuove un po' le acque, anche per la straordinaria affluenza e
il notevolissimo successo di pubblico che accompagnano entrambi i concerti. La
Liszt inizia un'attività che la porterà nel giro di dieci anni a diventare
Ente di rilievo regionale, e alla pubblicazione di KOnSEQUENZ. Poco dopo la sua fondazione, gemma una filiale calabrese,
presieduta da Jonny Polito, e una romana grazie al pianista Claudio Bonechi.
Negli anni promuove una serie di rassegne pianistiche in cui si dà spazio
soprattutto a interpreti e compositori locali; patrocina lo spettacolo teatrale
e musicale "Satie Opera" di Ugo Fanina ed Eugenio Fels che fa il giro
d'Europa; produce concerti per coro o vario organico. Dal 1990 al 1994 cura la
parte musicale della Mostra meridionale del libro "Galassia
Gutenberg", inventandosi ogni anno un tema differente, con iniziative
seguitissime dalla stampa locale e nazionale ("...fino alla Nuova
Musica", 1991; "Nonsolomozart", 1992; "Gershwin &
dintorni", 1993)[47].
E' grazie al lavoro dell'Associazione che sarà possibile, nel maggio del 1993,
tenere presso le Edizioni Scientifiche Italiane il "Ricordo di Luciano
Cilio", capace di scatenare una nuova ondata di interesse sul
percorso musicale dell'artista scomparso.
Scoppia
un Virus
Parallelamente
all'attività della Liszt si attesta anche quella di un gruppo di pittori in
grado di portare aria nuova anche alla musica, con performances e happenings che
coinvolgono strumentisti e compositori, cittadini e non. Il progetto di
Giancarlo Savino, Carla Viparelli e Dino Izzo è a tutto raggio, e può
condensarsi nella frase "l'arte è un modo". La matrice del
virus-pensiero può essere studiata leggendo il Progetto
per un nuovo almanacco (il riferimento è a Kandiski) rilasciato dai tre
artisti il 30 novembre 1987. Sia Adorno che Arnheim col suo l'Entropia
e l'arte influenzano l'estetica del gruppo, e tuttavia il Virus si muove e
promuove verso/con sviluppi inediti e realizzazioni estetiche originali.
"Il superamento che l'artista può esprimere nel suo lavoro è il
superamento di se stesso: l'avanguardia è un'officina interiore": il
gruppo aprirà il suo atelier ad altri artisti, a visitatori e curiosi. Ampi
stanzoni con sorprese sempre nuove: lì qualcuno dorme e mangia,
eppure produce
(alla faccia di Adorno!). La sensazione del movimento estetico svolto
attorno e dentro quella casa/museo colpisce tutti, e sempre più gente affolla
le serate programmate dal gruppo. Ad ogni "Evento", una sorta di
memorandum: un ciclostilato con frasi, dichiarazioni, disegni. Un genio
trasversale, la cui vita è arte, accompagna il lavoro di Virus: si tratta di
Isacco, sempre presente nel museo, come un custode d'oggetti svaniti (da un
quadernino: "Confusa armonia delle forme, nubi son parole che un sogno
scrive"). In uno dei memorandum ci sono scritti di Oreste Bilotti, fantasie
vulcaniche di Carla Viparelli (usa
materiali raccolti pazientemente sul vulcano, e sul vicino Monte Somma, poi
mescolati, mescolati...), poesie di Marco Manchisi, affabulazioni di Izzo e
Savino. Su di loro andrebbe scritto un libro apposito, ma qui si può segnalare
almeno la "Esposizione di macchine inutili" di Puccio Savioli e Michèle
Kramers, perché lì si raggiunse un grande coinvolgimento tra scultura, musica
(improvvisata/segnata) e teatro. L'arte, in queste forme, comincia a risuonare
con gli spazi della metropoli, come era accaduto con "Suite per un
castello". Ma qui la città è più vicina, perché non vi si sovrappone
l'ingombro del monumento. Il corteo di macchine terrestri e volanti si forma in
una piazza, quella del Gesù Nuovo, e procede verso lo studio di Via Benedetto
Croce, sosta in un cortile, lungo le scale rovinate, e ad ogni pianerottolo di
un palazzo, storico quanto malandato. Tra la folla si finisce col toccare mura e
gradini, sentire ringhiere arrugginite e osservare intonaci cadenti. Eppure
tutto ciò è più vero e più
sentitamente artistico dei concerti al
San Carlo e alla Rai. La storia di Virus è importante proprio per questo: se un
artista non riesce a trovare "canali", allora apra la propria bottega,
e si faccia egli stesso vicolo, rione, città[48].
Se i luoghi istituzionali sono vuoti di cultura, perché il circuito soffoca,
allora riempiamo le case vive di una metropoli morente, respiriamo con gusto
l'atmosfera decaduta, accendiamo candele che rendano visibile un'altra
e una vera avanguardia, che è sentire
interiore. A Napoli è mancato chi fosse in grado di portare un contrabbasso, un
pianoforte, un violoncello, in una piazza. La cosa avrebbe avuto un senso
profondo allora. E non ne ha alcuno oggi,
quando il mercato si è in qualche modo riconciliato con l'arte, perché l'arte
ha trovato una strada, è uscita dall'impasse
in cui era precipitata.
Le
ribollenti Temperature Flegree
Vittorio
Palumbo[49]
fonda l'Associazione Aliseo e dall' '85 som/muove i territori flegrei attivando
un fantastico contenitore di musica, pittura, danza, editoria. L'inizio, nell'
'85, alle terme di Baia, non sarà privo di deflagrazioni, visto che l'idea
straordinaria di accostare arti visive (decine di mostre dislocate lungo un
percorso), musica 'classica' (ma con il trasgressivo concerto di Fels, che
programma opere di Corea, Wakeman, Brubeck, etc.) e musica rock viene rovinata
da slittamenti che dividono i desiderata dei rispettivi pubblici (ecco il punto
debole: il pubblico è unico). Ma, aldilà della mia defezione (avrei dovuto
intervenire in due concerti), la rassegna decollerà benissimo soprattuto per la
presenza dei Panoramics, dei Walhalla, dei Little Italy e dei Bisca. Sempre alle
Terme, si terrà l'edizione dell' '87, dedicata alla danza. Parteciperanno
Movimento Danza, Every Day Company (al pianoforte c'è Antonello Salis), Koros,
e Teatrodanza Contemporanea. La rassegna dell' '88 ha la grave pecca di essere
presentata da politici campani (i processi sono in corso...), ma il programma è
denso, anche perché approfitta del (quasi) mezzo millennio della nascita del
vulcano flegreo Monte Nuovo. In collaborazione con lo Studio Morra, luoghi
dell'area flegrea s'accendono di musica, poesia e teatro. Alla Solfatara,
all'Acropoli di Cuma, nella Casina Vanvitelliana del Fusaro, si alternano nomi
d'artisti e studiosi: Corrado Costa, Arrigo Lora-Totino, Eugenio Miccini,
Lamberto Pignotti, Marcello Aitani, Albert Mayr. La quarta edizione di
"Temperature Flegree" vede inaugurarsi l'attività editoriale di
Aliseo, con la produzione di I miti e la
storia nei campi flegrei e il videodanza dedicato a Properzio, alla Piscina
Mirabilis: "Cynthia, forma potens, Cynthia, verba levis"
Il
Colin Muset
Una
sintonia molto particolare con quello che accade nel resto del mondo conosciuto,
cosa piuttosto infrequente nella città in cui viviamo, è stata dimostrata dal
"Colin Muset", una formazione capace di gareggiare, per inventiva, con
quelle che oggi riescono a sbancare nei festival e nei negozi di dischi.
Altrove, infatti, anche gli imprenditori ed i produttori hanno capito che si
stava affievolendo l'auctoritas legata alla tradizionale immagine del
"compositore di musica", e che anche i brani di repertorio, ancorché
il giro d'affari crescesse,
risultavano alquanto difficili da piazzare sul mercato discografico per l'enorme
costo delle produzioni. Così, va
da sé che diventava economicamente molto conveniente promuovere gli esperimenti
creativi, inizialmente soprattutto trascrizioni, poi subito reinvenzioni e
creazioni originali, di piccoli ensemble da camera dall'organico raro o
ricercato. Qualche esempio? il "Marimolin" con Sharan Leventhal al
violino e Nancy Zeltsman alla marimba; gli "Icebreaker"
(spaccaghiaccio), fondati da James Poke e John Godfrey nell' '89, una decina di
strumentisti che usano anche tastiere, basso e chitarra elettrica, percussioni;
il brass quintet "Meridian Arts Ensemble"; Brett Dean e Simon Hunt
("FrameCutFrame"); il "New Century Saxophone Quartet" con
Stephenson, Boatman, Pollock, Hubbard; e l'italiano "New Art
Ensemble", che però al posto di Canino avrebbe bisogno di un pianista alla
Moritz Eggert. Non ho volutamente citato ensemble più famosi, come quelli
legati ai compositori Bryars, Glass, Adams, Nyman, o i quartetti rivoluzionari
Kronos e Balanescu, e gli straordinari Madredeus. Il "Colin Muset" è
in grado di gareggiare e vincere con più di uno di questi gruppi, eppure, benché
anch'io non mi esima dal citarne le gesta ad esempio su una rivista
specialistica della portata di CDclassica, è entrato in crisi dopo aver
registrato un disco rimasto sullo scaffale dei crediti che la musica napoletana
vanta verso la politica culturale cittadina[50].
I cinque strumentisti eccezionali sono (all'origine, ma le collaborazioni si
moltiplicherranno nel tempo) Antonello Paliotti (chitarra, mandola e mandolino),
Maurizio Chiantone (contrabasso) Nicolò Casu (tromba, flicorno sopr.), Luciano
Russo (clarinetto, sax ten.) e Roberto Natullo (flauto e ottavino). Si tratta di
musicisti di estrazione classica, ma con differenti percorsi
artistico-culturali. Il loro progetto è sintetizzato nella ricerca di un suono
particolare, 'nuovo' grazie all'originalità dell'organico, e nella scelta di un
repertorio che è come minimo trascritto e adattato alle esigenze della
compagine. Loro si sentono un po' vicini alle esperienze del Novecento ( opere
jazz o da music-hall, autori dell'altro Novecento: Weill, Stravinskij,
Piazzolla, Gismonti, etc.) e un po' orchestrina da Café Chantant o Cabaret
berlinese anni '20. Si occupano anche dei contemporanei, soprattutto quando si
tratta di utilizzare brani scritti per organico indeterminato. Ma quello che mi
piace di più dei loro 'intenti programmatici' è la seguente frase:
"Infine la musica contemporanea: impossibile la trascrizione di opere
scritte nel dopoguerra, non solo perché esse risultano legate alla tecnica
degli strumenti per cui sono state pensate, ma anche perché contengono già in
nuce tutto il significato strumentale; ciò che rende non trascrivibile la Terza
Sonata di Boulez, per esempio!".
Bob
Ashley, Peter Gordon...
Gabriele
Montagano non si dà per vinto, e tra il 1986 e il 1988, si sbatte parecchio per
inventarsi un ruolo d'artista manager che gli consenta di programmare e
realizzare eventi d'elevato valore estetico. Invece di tentare la via delle
associazioni, che abbiamo visto in fondo restare monadi (magari effervescenti,
ma monadi), intraprende quella dell'impresa. La sua abilità manageriale la
spunta in diverse occasioni, ma più spesso capitola di fronte all'incapacità
di realizzare idee che si spingono troppo avanti. L'accensione di piazze e
strade, la possibilità di far cantare, per davvero, tutta la città; la
proliferazione non convenzionale di materiali anche effimeri (altro che
resistenti), di istallazioni evanescenti, si scontra con la coriacea diffidenza
partenopea, con quel modo di pensarsi e sentirsi fieramente isolati. La vera
ragione di quell'identità falsata era ancora politica, e di certo legata alla
capienza di un serbatoio di voti che una gestione differente, progressista,
della cultura avrebbe potuto drasticamente ridurre.
Muovendosi
tra mille difficoltà, Gabriele organizza la mostra "Immagini di città"
a Villa Campolieto; il duplice concerto, a Santa Chiara e all'Istituto francese,
del coro Bela Bartòk diretto da Kertész; diverse mostre (tra cui l'incontro
con la fotografia di Antonio Gaeta al Museo del Sannio); promuove a Nola la
rivista "Match" diretta assieme a Camillo Capolongo. Nel 1988 assume
la direzione artistica dell'importantissima "Jazzology", rassegna
antologica del jazz italiano[51],
e quella del "Settembre a Napoli", riuscendo a portare in città Bob
Ashley, con la prima europea di El
Aficionado, e il newyorkese Peter Gordon. E tuttavia, conoscendo l'estrema
ricchezza del progetto originario di Montagano si ha la misura dello scarto
esistente tra le sue idee avanzate e le concrete possibilità offerte dalle
istituzioni cittadine.
Vento
che canta, vento che danza
Eugenio
Fels, intanto, si ritrova in una nuova felice stagione creativa. Il suo
autocontrollo è forte, e la capacità di entusiasmarsi per la musica in
sé gli conservano una intensa vitalità.
Scrive Aztlán
(tromba, trombone e pianoforte), Ixtlán
(clarinetto e pianoforte) e l' Intermezzo
per chitarra, tutti nell' '88. Harzenlied
(viola e pianoforte) e Atitlán (pianoforte)
nell' '89; il Preludio Dorico e l' Arabesques,
sempre per pianoforte, nel '90; completa l'ultima versione, ormai definitiva,
della Vent qui Chante, Vent qui Danse - Sonata nel 1992; compone il Canto
Notturno (pianoforte) e le musiche di scena, per organo e strumenti, Lustratio
ad iter Averni nel '93; la Threnodia,
per voce e strumenti, nel '94, assieme ad un monumentale lavoro di trascrizione
(ed incisione) della colonna sonora del film Fade Out. Recentissimo è l'Hommage
à Bartòk, che consta di due pezzi facili per due pianoforti, un Ostinato
e una Marcia, rispettivamente
del gennaio e maggio '95.
Cominciamo
dalla Sonata, che accompagna il percorso del pianista-compositore per
lungo tempo. Il primo movimento consiste nell'esposizione del tema, mutuato da
una canzoncina francese e affidato al registro medioalto del pianoforte. Nella
(mai) celata tonalità di do minore, il Tema esplora l'universo di poche note
presente già nell'Antica Monodia
tuttavia aprendosi subito a più voci, e consegnando la melodia ad una parte
interna, in modo da esigere dall'esecutore notevole magistero di tocco.
Suddiviso in due sezioni, Andante e Più veloce (legatissimo), prende in
quest'ultimo un carattere 'improvvisativo' di ricercando, grazie al do basso in
ottava sul quale si muove, non esente da cromatismi e variazioni, la frase che
contrappunta il tema. L'Adagio
comincia con un mi naturale basso, e con misteriose volatine modali che
approdano ad appoggiature sostenute dall'ultimo suono legato dell'arpeggio. La
sensazione di spaesamento è garantita. Gli intervalli (per quel che può
servire dare gli intervalli in musica di atmosfera come questa) sono di quarta
eccedente/quinta; seconda eccedente/terza (forma la terza minore di do...);
quinta eccedente/sesta. Tutto questo già porta alla 'lontananza nel tempo' di
cui s'è parlato. Un
"cadenzando" prelude alla prima esplosione fortissima, e poi ad un
"lasciare vibrare": col pedale tutti i suoni eseguiti. La libertà
agogica dell'Adagio è ancora
segnalata dallo "stentato precipitando" e dal vorticoso Presto
("martellato") che sfrutta la zona più bassa della tastiera
(frammenti del tema e del controsoggetto mescolati) per ottenere un rombo appena
sfumato dal pedale: questo 'effetto', molto usato da Fels e da me, raggiunge una
sorta di clamore metallico non casuale né caotico, ma in grado di evocare
tonalità o temi lunghi attraverso tecniche particolari di esecuzione.
Gli accordi che riportano al tempo primo rappresentano il punto cruciale,
l'apertura del movimento. Non c'è interruzione, ma un lungo pedale che
introduce l'Interludio, "Lento, molto libero", con la sordina e
l'alternanza di mf e pp che crea un effetto eco. Una sorpresa: la cellula
misteriosa che viene prima esposta solitaria, poi arricchita con accordi
(decime, naturalmente) della sinistra, in tutto otto battute, diventa elemento
minimale, ma di un minimalismo che guarda alla sacra triade Glass/Reich/Riley
solo da lontano, e proprio dal vecchio continente. In questo brano (che è
quello che più avvicina le nostre produzioni) Fels va verso un minimalismo
europeo che non è cerebrale come quello di Adams, o estroverso come quello di
Nyman, sembrando piuttosto vicino alla delicatezza del Bryars di Vita
Nova, come ho già avuto modo di osservare in un articolo. In più, la vena
melodica (e non si dimentichi che la Sonata
produce in fondo continue variazioni del tema), che si inserisce perfettamente
nell'insieme dei movimenti, è così pronunciata fin dall'essenza della cellula
iniziale, da farci immaginare quali potrebbero essere gli esiti di un
minimalismo italiano; ma questo accenno è quasi unico nell'intera produzione di
Fels. La Fuga palesa la dimestichezza dell'autore col trattamento della
polifonia: è forse il brano più complesso ed esauriente che ha scritto, o più
semplicemente quello che io amo di più per equa disposizione degli elementi
cerebrali ed esplosioni ritmiche e dissonanti: ma andrebbe ascoltato... Segnalo
che alla fine della Fuga è prevista
una cadenza improvvisata, di cui Eugenio fornisce un possibile canovaccio. O
sarebbe meglio dire che segna la sua
improvvisazione: si vadano a ripescare i frammenti di soggetti e controsoggetti
presentati con grande abilità fuori dal loro contesto ritmico, ovvero
spostando gli accenti. La sua esecuzione della pagina (mi pare importante
segnalarlo) è tipicamente jazz: usa un tocco non legato, ma accentato, senza
pedale. Il Corale finale (concluso a Pozzuli nell'ottobre del '92) ripresenta
con variazioni armoniche il tema, nella tonalità di si minore (ancora uno
spaesamento, una delocalizzazione...), e propone una figurazione di semicrome
puntate, piccoli clusters e bicordi dissonanti, una intuizione importante nel
percorso compositivo perché, pur nella profonda dissonanza, è uno stratagemma
che permette di muovere le armonie millimetricamente, generando una sorta di alone
armonico.
Resta,
nella Sonata, la più importante qualità che noi assegniamo, in tempi di
accaduta postmodernità, all'opera d'arte: la capacità del rinvio ad altro.
Fels la raggiunge attraverso lo
spostamento di tecniche, armoniche e ritmiche, di tutti i tipi.
L'antica
trilogia: Aztlán
Ixtlán Atitlán
Aztlán
e
Ixtlán , finiti di comporre rispettivamente nel giugno e nel dicembre dell'
'88, sono stati eseguiti in prima assoluta nell'edizione '92 di Galassia
Gutenberg.
In
Aztlán
tromba e trombone tessono un dialogo che procede per larghi
intervalli, non certo di facile esecuzione. Entrambi gli strumenti tengono
lunghe note sull'entrata del pianoforte, che non manca di ricamare qualche
arpeggio minimale alla maniera dell'Adagio della Sonata. Del
brano mi spiace soltanto il dialogo un po' percussivo tra il pianoforte e i due
strumenti (come segnalai a Eugenio alla prima assoluta), ma trovo interessante
la presenza di cadenze della tromba prima e del trombone poi, perché
reminiscenze di improvvisazioni. In una successiva versione, l'autore ha
eliminato il dialogo tra i due fiati, inserendo una cadenza pianistica sulla
quale viene innestato, in parti interne e ravvicinate, l'intervento di tromba e
trombone.
Ixtlán
comincia con un nostalgico e misterioso tema affidato al clarinetto,
non privo di asperità tecniche per
la presenza di due glissati: l'esecutore deve essere in grado di improvvisare e
cadenzare con un respiro appropriato. Il tema viene subito ripreso dal pianista,
con accordi quasi alla Rachmaninoff, fino all'esposizione
("Larghetto") di un malinconico tema. Gli episodi si susseguono come
in una improvvisazione a due, in cui ogni tanto spunta una melodia o
un'invenzione ritmica (lo staccato improvviso del pianoforte "un po' più
allegro", poi sviluppato e ripreso anche oltre). La pagina raggiunge la
maggiore rarefazione in un punto affidato al solo pianoforte, nel Largo
: un luogo in cui la scrittura di Fels è uguale a sé stessa, riconoscibile,
struggente. Di Ixtlán
devo segnalare un continuo cambio di temi e atmosfere, che mi pare
indebolire il brano, a meno di reinventarlo esecutivamente volta per volta con
grande flessibilità agogica, del resto prevista dal compositore.
L'Intermezzo
per chitarra, finito anch'esso nel dicembre dell' '88, ancora inedito e
ineseguito, conosce almeno due rielaborazioni, e credo sia una delle
migliori pagine pensate per uno strumento differente dal pianoforte. Se in Aztlán
e Ixtlán
si sente una certa difficoltà di quadratura formale, l'Intermezzo
trova una migliore disposizione tra intuizione melodica e
sviluppo.
Atitlán
è un brano pianistico che ha avuto un certo successo di esecuzioni, sia
perché nel '90 è stato pubblicato in una collana che dirigevo per un editore
napoletano[52],
sia per l'oggettiva bellezza, tutta strumentale, di certi passaggi. L'epigrafe
recita: "Insieme ad Aztlán e ad Ixtlán , Atitlán forma
un'ideale trilogia evocativa di remoti misteri: Aztlán era l'Olimpo
degli Incas, Ixtlán un
luogo di potere degli sciamani messicani, ed Atitlán un lago vulcanico a tremila metri di altitudine, scenario
di antichi riti pagani, considerato oggi dai guatemaltechi una delle meraviglie
naturali del mondo".
La
prima sezione mostra una mano sinistra che arpeggia da posizioni impervie,
sfruttando i cromatismi in modo da far 'esplodere' l'accompagnamento; la seconda
echeggia frammenti minimali, questa volta assegnati alla destra; un terzo
episodio, su una figurazione di quartine di semicrome ripetuta, gioca con un
ritmo di tre/tre/due non mancando di utilizzare cluster sulla tastiera e sulle
corde. Atitlán resta di
notevole difficoltà, e tuttavia è uno di quei brani che dà soddisfazione al
pianista, perché fa bene alle dita.
Harzenlied,
finito di comporre a Roma nell'aprile dell' '89, sia per lunghezza che nella
modalità del dialogo tra pianoforte e viola è più bilanciato di Aztlán
e Ixtlán . Vi si fa un uso
armonicamente ambiguo, e perciò gustoso, di bicordi di quarte[53].
Lustratio
ad iter Averni
Sbaglierò,
ma il Preludio Dorico del maggio 1990 fa da spartiacque fra il Corale
di cui s'è già detto (1992), ed il Canto
Notturno, terminato nel '93. Dico subito che l'apice dei tre momenti è
naturalmente rappresentato dal brano più maturo: è lì che l'intuizione di
con/fondere e mescolare clusters 'armonici', per così dire, alla vena melodica
di cui Fels già aveva fatto bella mostra fino al '79, viene portata a buon
esito. Il Preludio Dorico, invece, può essere accostato senza difficoltà
allo studio del trattamento di melodie 'arcaiche' che culminerà soprattutto
nella Lustratio ad iter Averni.
Nel brano pianistico si esplorano tipi e caratteri della modalità, e
questo naturalmente finisce con attenuare la tensione cromatica, restaurando
tuttavia il clima presente nella lontana Improvvisazione
(me la ricordano anche alcune formule cadenzali).
Quella
di Lustratio è una musica commissionata dall'associazione
"Progetto Flegreo"[54],
per lo spettacolo omonimo svoltosi all'interno della Grotta della Sibilla, in
occasione del "Viaggio nel Mito"[55].
Il nome indica la purificazione lungo la strada dell'Averno, un rito realmente
esistente e recuperato dal lavoro dell'autore e regista Ugo Fanina. Piccoli
gruppi di persone, guidati dalla flebile luce di fiaccole, si inoltrano nella
galleria della Sibilla. Lungo il percorso appaiono ninfe velate, figure
magiche, che recitano solo con sguardi e gestualità, indicando anfratti e
cunicoli dispersi nel sottosuolo. La musica accompagna il pubblico itinerante,
che replica inconsapevolmente la catarsi. Alla fine, nell'antro delle vasche,
suoni di arpe su melodie antichissime: si tratta degli unici frammenti musicali
dell' "Oreste" di Euripide e degli "Inni delfici", trattati
da Eugenio con naturalezza ed efficacia. Lo spettacolo, restato memorabile in
quella versione, è poi stato replicato da altri, che ne hanno imitato
l'idea originale ma non di certo la raffinatezza o la qualità dovuta
alle intuizioni di Fanina e Fels[56].
La musica, semplice e rarefatta, è magica, tanto da non sembrare opera di un
occidentale. Andrebbe registrata e pubblicata su compact.
Fade
Out
Nel
settembre del '93 il regista Mario Chiari chiede ad Eugenio di occuparsi della
colonna sonora del suo film Fade Out
(che tecnicamente indica la dissolvenza). Eugenio pensa a musica trascritta da
classici, e a qualcosa di nuovo composto per l'occasione. L'idea è quella di
confrontarsi con le variazioni da Paganini. Inizia un monumentale lavoro di
trascrizione e rielaborazione[57]
della Variazione n. 1, del Tema, della seconda, dodicesima e diciottesima
variazione della Rapsodia su un tema di Paganini op. 43 di Rachmaninov. A queste
verranno aggiunte alcune della Brahms-Paganini (la seconda, quarta, decima e
dodicesima) ed alcune delle Variazioni di Liszt. Per una scena cruciale, Fels
immagina una melodia affidata ad un contraltista (si tratta di Maurizio Rippa),
appena sostenuta da un bordone, poi sviluppata con variazioni strumentali. Nasce
la Threnodia, un brano di bellezza
sconvolgente, fortemente espressivo e di grande densità metatemporale. In quel
periodo, Fels sta assistendo la madre gravemente ammalata, che non riuscirà a
vedere la realizzazione di Fade Out .
Di tutti i pezzi, eseguiti nel film dal pianista compositore, esiste una
registrazione in studio, realizzata in tre differenti sedute, a Roma e a Napoli[58].
Sarà forse superfluo aggiungere che, ascoltando il nastro inedito, o vedendo il
film, si nota un pianista ancora eccezionale, per nulla opacizzato dall'attività
compositiva. "Dissolvenze" verrà scelto e proiettato in prima
assoluta alla Mostra del Cinema di Venezia (1994), con ottimo successo di
critica.
Alkèmia
Seguendo
un percorso che lo allontana dai concerti tradizionali, Fels continua ad usare
il pianoforte, ma in lavori che lo coinvolgono in modo nuovo e originale, Fels
riprende "Satie Opera", e poi si dedica alla scrittura di uno
spettacolo particolare, tutto fondato sull'improvvisazione. Si tratta
di"Alkèmia"[59],
una performance che nasce da quella che Enrico Grieco[60],
suo ideatore assieme ad Eugenio, chiama "una idea fissa": una
mescolanza tra immagini, musica e danza nella quale nessuna disciplina prevale
sull'altra, dal momento che appaiono così capillarmente "confuse",
nel senso postmoderno del termine, da essere effettivamente, e costantemente,
l'una il prodotto dell'altra. Quando, in occasione di un mio articolo, ho
chiesto ad Enrico di parlarmene, lui
ha alluso con estrema lucidità al "potere di tre arti poste sullo stesso
livello, sullo stesso piano: non somma, non semplice raccolta, ma
moltiplicazione, incremento quasi esponenziale di tutte". Ognuno dei tre
operatori (c'è anche una danzatrice), e questo è il dato fondamentale,
improvvisa interagendo con l'altro, così come è tipico della pratica esecutiva
jazz. Eugenio parla di "una rappresentazione che tende al raggiungimento di
un risultato unitario; non si tratta di una scenografia per immagini, o di
musica pensata per una scenografia: ci si muove per appunti minimi, seguendo un
percorso comune e prestabilito. Enrico: "per godere del nuovo messaggio
multimediale di Alkèmia, ciascun gesto della ballerina, ciascun suono prodotto
da Eugenio, e ognuna delle mie diapitture proiettate su di loro, a loro
adattate, vien fuso e confuso insieme. A tal punto che il prodotto finale sembra
vivere di vita propria, proprio come una cosa che sia lì da sempre, e che è
toccato a noi riscoprire".
Ho
ascoltato la musica, specie quella del primo quadro, parzialmente annotata su
canovaccio: si tratta in assoluto della miglior cosa scritta da Eugenio. Sfrutta
i suoni della cordiera, percossa con varie tecniche, ma in modo espressivo. Il
che vuol dire conserva la capacità di parlare al pubblico riuscendo
contemporaneamente ad utilizzare le tecniche maturate durante la fase
dell'avanguardia (è l'acquisizione estetica di chi non ha mai smesso di cercare
la comunicazione). Gli esiti successivi del lavoro di Fels dovranno passare
necessariamente attraverso una testimonianza discografica.
Il
"Centro di Cultura Musicale"
Non
sono poi molte le vicende che scorrono nell'ultimo
lustro. Posso cronologicamente individuarle nell'attività di Pezzullo, nel
corso napoletano di Donatoni (che mi dà modo di conoscere alcuni suoi allievi
locali), nelle rassegne "Musical Networks" e "Dissonanzen",
nelle sporadiche proposte dell'Istituto Francese o della mostra tecnologica di
"Futuro Remoto".
Cominciamo
dal "Centro di Cultura Musicale" di Franco Pezzullo e Maria Regina de
Vasconcellos, la cui attività si condensò attorno ad un Festival annuale di
musica contemporanea, intitolato "'900 Musicale Europeo", che
affiancava alle esecuzioni (spesso
prime assolute) le conferenze/analisi esplicative dei maggiori critici nazionali
ed europei. Passarono per il Festival le prime di Daniele Bertotto (...Con
libere ali per violino, violoncello e pianoforte), Alfredo Cece (Sonata
per clarinetto e pianoforte), Chiti (Arion
per chitarra), Silvana Di Lotti (Aura
per pianoforte a quattro mani; Trio
per violino, violoncello e pianoforte), Giorgio Ferrari (IV
Quartetto per archi; Gesta per
quintetto di fiati), Flavio Testi (Tempo,
per quartetto d'archi), Italo Vescovo (Sonatina
per Aldo per pianoforte), Daniele Zanettovich (Aube per voce femminile e flauto). Il poderoso programma della VII
edizione ospita opere di Scelsi (Kho-Lo
e più tardi i Quattro pezzi per corno in fa), Berio (Sequenza per voce sola), Sciarrino, Bortolotti e soprattuto dei
nostri Mario Cesa (My Musical per
clarinetto e pianoforte) e Patrizio Marrone (Due fantasie per clarinetto e pianoforte). Il Festival accoglie, fra
l'altro, nel 1990, l'importante performance Brise Glace, con musiche di David Jisse e Luc Ferrari, vincitrice
del Prix Italia dell' '87.
I
critici, considerando a parte i giornalisti locali dei quali Pezzullo diceva
apertamente un gran male, furono Enrico Fubini, Paolo Gallarati, Enzo Restagno,
Imre Foldes, Dominique Jameux, Jean Roy, Hansjorg Pauli, Estevan Lines, Volker
Scherliess, Mario Vieira de Carvallo, e molti altri. Sul tipo di formula
adottato da questa e da altre rassegne ho già espresso i miei dubbi: più che
essere formato, il pubblico sembra volersi godere musica gradevole, e se la
qualità lo convince non esita a sbancare il più vicino emporio musicale.
Ciononostante, il "'900 Musicale Europeo" è stato una presenza
importante per la città, almeno fino a quando nella città è rimasto, ospite
dell'Istituto francese di Via Crispi. Negli ultimi anni, stufo di combattere
contro i mulini a vento e di mercanteggiare spazi coi giornalisti, Pezzullo lo
esportò a Ischia. Il destino migratorio degli operatori e dei musicisti si
compiva ancora una volta.
In
una recente intervista mi confidava di volersi 'aprire' ancor più ai
napoletani, e so del suo interesse per il lavoro di Gaetano Panariello e di
Giacomo Vitale, che definì "musicisti con belle qualità, ma che possono
certamente trovare ulteriori possibilità per giungere ad un 'loro'
linguaggio". Dei giovani in generale rilevava la difficoltà ad
"allontanarsi dall'accademismo contemporaneo" e a "districarsi
all'interno della matassa dei linguaggi".
In
un mio articolo per un quotidiano, pur rilevando il valore degli strumentisti
impegnati (primo tra tutti il cornista Guido Corti), e l'attenzione rivolta a
Giacinto Scelsi, un autore che ha dovuto patire una non piccola e non breve
persecuzione critica (solo di recente c'è stata una sorta di 'riabilitazione')[61],
bacchettavo pesantemente (ma bonariamente) Pezzullo. Ciò avveniva nonostante
fossi stato ospitato come unico relatore napoletano di quella edizione[62].
Più precisamente, esprimevo il desiderio di ascoltare anche i brani di altri
napoletani, e facevo i nomi di Paliotti, Musino, Mormile, Fels.
Ma
Franco era abituato a rapporti tempestosi con la critica, e non me ne volle:
qualche tempo dopo mi regalò un suo importante disco con la Kammermusik di
Napoli (pubblicato dalla francese MGA, con opere di Dvorak, Strauss e del
contemporaneo Jacques Bondon).
La
profonda umanità di questo didatta (operatore e trascrittore, esperto di fiati)
mi colpì subito, al di là dei suoi meriti e demeriti. L'ultima volta che l'ho
sentito, prima dell' inaspettata scomparsa, era felice come un bambino perché
il San Carlo gli aveva affidato un concerto. Purtroppo il male gli impedì di
tenerlo.
Oltre
Donatoni
Sempre
nel '90 il corso partenopeo[63]
di Donatoni mi dà modo di conoscere Gaetano Panariello, Carlo Mormile ed
Enrico Massa. Questi musicisti devono al veronese l'amore per l'avanguardia e,
in fondo, anche il suo superamento. Lo stesso cerebralismo strutturalistico del
primo Donatoni, capace di attirare in epoca di aureo culto della contemporanea
'colta' frotte di nuovi aspiranti adepti, una volta sfociato nella sottile
ironia degli ultimi anni, nel diatonalismo che da più parti gli rimproverano,
ha poi allontanato (o definitivamente 'formato') molti degli allievi di una
volta. Non so come potrebbe reagire un giovane al vedersi valutare il proprio
elaborato con il pendolino da rabdomante, come è uso fare di recente Donatoni.
O alla vista del suo maestro/vate che si presenta al Maurizio Costanzo Show in
tenuta da messicano con tanto di sombrero. Negli interminabili pomeriggi dei
suoi corsi, l'autore di Antecedente X,
Questo, e del Sigaro di Armando 'metteva su' una cassetta con un brano di sua
composizione; disponeva caramelle, sigari, fiammiferi e quant'altro sul tavolo,
e placidamente si addormentava, boforchiando di tanto in tanto qualche risposta
esoterica alle rade domande degli allievi. Ma ad un genio (matematico,
beninteso) si perdona questo ed altro.
Sta
di fatto che alcuni dei partenopei storicamente allievi di Donatoni, pur
restando in qualche modo legati affettivamente al maestro, se ne sono
distaccati progressivamente dal punto di vista degli esiti compositivi.
Finalmente
Topolino
Panariello
s'è diplomato con Aladino Di Martino, per poi perfezionarsi all'Accademia di
Santa Cecilia con Donatoni. Conta parecchie esecuzioni, anche radiofoniche, ed
è edito da Pucci e Simeoli. Nel '90 la sua produzione comincia a discostarsi da
quella di Donatoni; quella è anche l'epoca in cui cominciano le commissioni di
Gorli, Pezzullo etc. Collabora intensamente con il San Carlo, ma soprattuto
attraverso balletti. Oltre al già menzionato Immago
(rappresentato nel giugno del '92, per flauto, clarinetto, violino, viola,
violoncello, vibrafono e percussioni), c'è La
scena del ragno per il balletto Agostino
(realizzato però al Teatro di Corte nel marzo dell' '85), e la suite Nel magico mondo di Disney (soprano solo e grande orchestra, portato
in scena nell'aprile del '95), che
naturalmente rielabora temi ed esprime sintonie col mondo dei fumetti.
Dalla
nota di presentazione di Immago,
un'epigrafe cara al compositore: "le sue composizioni nascono da una
costruzione artigianale intesa come espressione di felicità e di vitalismo
positivo: sviluppi imprevedibili vanno oltre lo sguardo acquoso del postmoderno
per tuffarsi nella concretezza del fare, senza nutrire più il minimo dubbio
sulla possibilità della comunicazione" (Gallarati). Non posso,
naturalmente, condividere la lontananza dal postmoderno, ché altrimenti
troverei noiosa l'opera di Nino. Un effetto del postmoderno (di cui mi pare
possa prendersi a vangelo l'opera di Lyotard, La
condizione postmoderna, che è del '79), è la naturale combinazione e
confusione che caratterizza il tempo presente, e dal quale non mi pare affatto
essenziale distaccarsi. Anzi, la possibilità che fonda una estetica del futuro,
a cui non posso dedicare qui più che un rapido accenno, è proprio nell'uscita
dal sistema rappresentata dalla contaminazione, la quale può condurre alla
qualità (possibile) dell'opera e alla sua comunicabilità. Ciò equivarrebbe
alla riscoperta di un senso dopo l'epoca di conclamata crisi della parola e
della creatività.
Per
tornare all'opera di Nino, troverei singolare che fosse distaccata dal
postomoderno e poi indulgesse in una scrittura che dimostra d'essere molto
varia, e quindi certamente attuale. Oltre ai balletti, Panariello è autore di
una maestosa e concentrata Sacra
Rappresentazione su testo di Ferrara (non Franco Ferrara, il voluttuoso e
funambolico poeta), nella quale è possibile percepire il gran gusto per la pura
e non cerebrale invenzione (forse questo intende Gallarati per 'vitalismo'),
eseguita alla Curia di Salerno nell'aprile '91; ha scritto Ajone,
gradevole, melodica, descrittiva opera incisa per Leep Records nell'ottobre '91
(devo soltanto sanzionarne la declamazione della voce, troppo accentuata), e il
recentissimo, ancora tonale, La scuola di
Musica di Brema, per voce recitante e orchestra. Ha in catalogo molte musica
di scena, composizioni vocali e miste, brani per strumento solo ed ensemble. Mi
pare notevole il suo Quartetto, del
'90, forse ancor troppo legato alla stringente logica donatoniana; Grock, del '91, è già più lontano, perché pur mantenendo una serrata
trama sotterranea, e incorrendo in qualche giochetto di troppo (cioè
riconoscibile e riconducibile ad un ambito sperimentale), mostra qualche
indulgenza per la melodia in un intermezzo armonico, principiato da accordi ben
individuabili. Immago, del '92, è un
nuovo passo avanti, e di strutture severe conserva poche tracce solo nel finale
(preferisco sviluppi per note lunghe e tenute). Il suo lavoro più notevole
resta per me Concerto per quattro
corni, commissionato, come s'è detto, da Pezzullo, scritto velocissimamente da
Nino, ed eseguito infine a Lacco Ameno nel settembre '93. Col solo inizio
strutturalistico segue un secondo movimento dai toni intimi e delicati, solo a
tratti interrotti dall'intervento del terzo corno, che crea un ponte
logico/connettivo tra i movimenti (per la ritmica che propone). Il terzo tempo
offre qualche seduzione mahleriana. Insomma, una giusta misura tra la voglia di
dire qualcosa d'espressivo e l'utilizzazione di tecniche e segnature
sofisticate.
Rag
Birds
Dopo
essersi diplomato, Carlo Mormile s'è perfezionato
all'Accademia di Roma e alla Chigiana di Siena con Donatoni. Ma alla
Chigiana incontrava Prati, Barriere, Morriconi... e consolidava i suoi interessi
per la musica elettronica e per quella da film (con buona pace di Umberto Eco).
Del conservatorio non pensa un gran bene; in una intervista inedita mi dice:
"La sua situazione negli anni '80 creò problemi a molti, ad esempio a
Gabriele Montagano, ma anche a Mario Vitale, che ora fa l'informatico. Io ho
resistito, ma qui non ho mai partecipato a un saggio. Cercavamo risposte che a
Napoli mancavano. Gli insegnati erano Mazzotta, Ravinale, D'avalos (il quale
dice che la composizione è morta nel 1950). Tomei è sulla stessa lunghezza
d'onda. Poi qui c'è anche questa faccenda della scuola napoletana, di cui siamo
discendenti. Anche Calbi, con tutto il bene che gli ho voluto, era in sostanza
una persona essenzialmente retrò. E' stata una generazione che non ha fatto
nessuno sforzo per accostarsi alle problematiche italiane ed europee".
Non
è che Mormile sia più tenero con Donatoni: " Era attento ed era anche
despota. Di qualsiasi frammento voleva sapere origine e collocazione, e se c'era
qualcosa che non funzionava secondo una certa concatenazone tecnica o logica ne
voleva spiegazione. Questo ha creato la famosa generazione dei 'donatonini',
dovuta proprio al fatto che lui era così presente. 'Donatonini' di spicco
furono, ad esempio, Gorli, Cardi, Gentilucci, ed altri: l'Italia ne è piena,
anche se oggi scrivono in modo molto diverso. Poi è finita l'avanguardia, e con
la sua morte certi atteggiamenti sono stati abbandonati. L'anno scorso gli ho
chiesto come si trovasse oggi, lui che ne era stato uno dei baluardi. Mi ha
risposto di aver già svoltato negli anni ottanta; oggi ha scritto anche
qualcosa di diatonico. Dice di essere stato contagiato da Solbiati, all'epoca
suo allievo".
Nonostante
tutto, dopo il diploma, Carlo ha avuto parecchie esecuzioni radiofoniche,
commissioni, pubblicazioni. Di lui m'interessa la disponibilità alla critica,
la versatilità e trasversalità del lavoro, la capacità di teorizzarne gli
esiti. Mormile, considerando la consacrazione della serialità integrale sia al
problema delle durate che a quello delle altezze, finisce col dedicarsi
soprattutto al ritmo ("se si riproduce su uno strumento a suoni
indeterminati il ritmo di un brano famoso, questo sarà riconosciuto nella
maggior parte dei casi sia da ascoltatori musicisti che semplici amatori").
Isolate alcune cellule ritmiche elementari ma discontinue, procede alla loro
ripetizione e permutazione, escludendo con meticolosità tutte quelle che
potrebbero ascriversi all'intervento dell'esecutore. L'alea, decisamente, non
gli interessa, e gli esiti di rigida scansione ritmica non possono che rimandare
ad analoghe preoccupazioni del suo maestro (quando vide Silenzi,
la prima frase di Donatoni fu: "anch'io all'inizio usavo molte pause,
perché non sapevo scrivere").
La
scelta delle altezze viene invece consegnata al momento compositivo in sé, nel
senso che si tende ad utilizzare serie difettive sovrapposte alla scelta delle
durate, secondo l'unica discriminante dell'impatto d'ascolto.
Tutto ciò, naturalmente, vale soprattutto per la produzione 'accademica'
o 'di scuola', nella quale includerei senz'altro Specchi (per pianoforte, maggio '89)[64],
Cadenze (fl. cl. tr. md. cb., agosto
'91), Three Two Time (trio d'archi,
maggio '92), Sweet Blue Night
(pianoforte, sax contralto e tenore, aprile '93), Abba
(fl. ob. cl. cr. mb., giugno '93), Figuranti (fl. ob. cl. cr. mb.), ed altri brani per strumento solo,
come Silenzi, unico definito
dall'autore 'cageano' (ciò avviene per la presenza di pause ed il tentativo di
lavorare sul silenzio: cosa che per la verità mi pare avvicinarlo più a Webern
che a Cage) e Permutazioni per
clarinetto solo. Fra questi, Sibilando,
di cui posseggo una versione per macintosh, pur utilizzando qualche rete
strutturale donatoniana, mi pare ottimamente riuscito. Negli altri brani, la
componente sperimentale è notevolmente pronunciata, e certo non posso dire di
condividerne gli esiti. Molto interessante la lista delle proibizioni estetiche
che Carlo adotta come progetto del suo lavoro a venire: innanzitutto l'adozione
del furto come metodo di lavoro[65];
poi, l'abolizione dell'estetica adorniana, e del riferimento alla seconda scuola
viennese, dell'avanguardia e della novità per la novità, di
"pregiudiziali fideistiche nei confronti dei movimenti artistici
'commerciali' ". Nel programma di Carlo c'è, inoltre, oltre alla già
menzionata attenzione verso lo sviluppo delle durate, anche la ricerca verso
stili e forme del dire musicale non esenti da contaminazioni.
Infatti
altre opere, soprattutto per teatro, sono notevolmente più liriche e meno
preoccupate di proclami estetici restando,
a mio avviso, le migliori[66].
Anche la collettanea Mare Nostrum Citreum,
di cui si dirà più avanti, ha meriti legati alla confusione con elementi
gestuali e teatrali. Infine non mancherò di segnalare che quando Carlo decide
di divertirsi e divertirci, al di là delle preoccupazioni sperimentali (con Rag
Birds per orchestra di flauti), ci riesce benissimo[67].
E non è un caso che quest'ultima sia forse l'opera più eseguita.
Il
pozzo e il pendolo
Dopo
gli studi napoletani, Enrico Massa si è perfezionato con Donatoni e Clementi.
La sua ricerca, rigorosissima, s'è indirizzata verso lo studio di parametri
costanti, invarianti o 'eterni'. Ben presto ha preso le distanze dai suoi
maestri, lamentando soprattutto la loro indifferenza alla dimensione verticale;
ha così cercato inedite relazioni strutturali tra accordi, nuove 'armonie'[68]
possibili, pur senza tornare alla tonalità. Ha rilievo pure la rivalutazione
della tensione melodica (come ad esempio in Ditirambo).
Massa
certamente caratterizza il suo lavoro attraverso una forte carica
intellettualistica, che si esprime, ad esempio, nell' interesse per la memoria,
indispensabile per l'individuazione della forma di un brano. Per lui, la
riconoscibilità di fatti accaduti nel tempo (ha funzione simile a quella dello
spazio nell'arte figurativa) assicura la continuità tra atti fondamentali e
loro impercettibile mutazione (variazione). "Ogni frammento di musica è
formato da singole unità sonore che stabiliscono con l'unità precedente e con
quella seguente rapporti di altezze, durata e omo/disomogeneità timbrica":
l'aggregarsi di queste particelle crea strutture più complesse. Ciò fa sì che
Enrico privilegi la forma chiusa, proprio a causa della presenza di una finalità
connessa con l'esercizio della memoria: anche Weininger lega quella facoltà
all'espansione volitiva.
Così,
giustizia è fatta della serialità integrale, che Massa dichiara morta e
defunta proprio come la tonalità; e del suo distaccarsi dall'opera aperta s'è
detto. Oggi, l'attenzione va soprattutto al tempo, e subisce la suggestione
proustiana: "un tempo in cui passato e presente si intreccino e si
confondano, in cui non sempre sia possibile distinguere con chiarezza il prima
dal dopo".
Questa
ricerca sul tempo e sulla memoria sortisce esiti differenti nella sua
produzione. A parte i Cinque pezzi per pianoforte (1986),
eseguiti in Italia e Grecia da Roberto Melini, la sua prima produzione è
perlopiù inedita e non ancora eseguita. Si tratta di Collage
e Sonatina per vibrafono e pianoforte (1986); Presentia per quartetto d'archi (1988); Il segreto di Arianna per violino e percussioni (1988). Invece Cheter
(1989), per due pianoforti, vede diverse esecuzioni, anche radiofoniche, grazie
ad Oreste De Tommaso e Carlo Mormile. Vi si esibisce un pianismo vigoroso,
esuberante, energico e poderoso, non esente da deteriori tensioni
virtuosistiche, e tuttavia d'effetto. Dei Quattro
Studi per flauto (1989-90) uno
soltanto è stato eseguito più volte da Daniela Cima e anche da Sandro Carbone,
ma lo trovo una sorta di esplorazione di tecniche sperimentali, e non di grande
interesse.
Complesso,
solidamente costruito, insomma nello stile di Massa, è The
Pit and the Pendulum (1990)[69],
per chitarra, che più di altri pezzi si fa esemplare del progetto compositivo.
Brano rarefatto, suddiviso in 'aree', ambiti o segmenti riconoscibili, ancorato
probabilmente a stilemi sperimentali, è tuttavia non privo di esiti espressivi,
soprattutto quando rinuncia ad effetti di 'rottura' trasversale. Una sezione
echeggia consapevolezza di musiche diverse, addirittura anche jazz (in senso
molto lato). In altra sezione, quella che più adotta il metodo donatoniano,
presenta attimi (note), punti d'appoggio timbricamente riconoscibili. L'ultima
parte torna al lento risonare, stavolta di accordi, appena 'disturbati' da
interventi strumentali ad effetto.
Il
successivo Studio per Arianna (1991) è tratto da Il segreto di Arianna quasi integralmente. Non è il brano che
preferisco, ma devo dire di averlo ascoltato (sia dal vivo che su nastro)
soltanto nell'esecuzione di Enzo Porta, forse troppo 'specialistica'. Il Preludio
per chitarra, sempre del '91, è tutt'altra cosa, e condensa l'esperienza de Il
Pozzo e il pendolo in una aforistica e gradevole piece che presenta qualche citazione (di atmosfere), qualche
ostinato, qualche bell'effetto tipicamente strumentale. Si chiude con il
susseguirsi di note lunghe (forse si ricollega al pozzo che ospita memorie), e
con accordi arpeggiati non privi di tensione armonica. Non conosco la Serenata
per quintetto d'archi, e mi delude
un po' il Preludio, duetto e rondò per due sax e pianoforte, scritti entrambi
nel '92. Invece trovo molto belli Saffo
('93) che gioca per sovrapposizioni variate tra la voce femminile ed un
contrabbasso in tessiture anomale, e Ditirambo
(1995) per sax alto. L'ho ascoltato nell'esecuzione di Nicola Cassese: è un
pezzo molto concentrato ed espressivo. Espone il moto solitario, quasi modale,
di un solista, cantore dell'universo. Ha preparazione del materiale, sviluppo,
apice agogico e coda con virtuosismi, tutti convincenti.
Assieme
ai brani per chitarra mi pare tra le cose migliori di Enrico.
Altra
musica al "Grenoble"
Monade
con l'obbligo di produrre cultura con gli indigeni è stato l'Istituto francese
di Napoli. Quando non occupato a predisporre meravigliose locandine (salvo poi
abbandonare gli artisti a se stessi), propose anche concerti notevoli, sia con
Digne che con Schifano. Grazie al primo, diversi artisti partenopei trovavano
comunque uno spazio (ed uno sgangherato Steinway che è ancora lì): Eugenio vi
rappresentava con Ugo Fanina "Opera Satie", Montagano l'operina Evento, ed io uno spettacolo assieme al gruppo"Virus".
Grazie a Schifano, invece, un pezzo d'Africa, col concerto di Francis Bebey,
approdava a Napoli. Ma per la prima volta non si trattava di una manifestazione
di colore, di quelle che mandavano in bestia Luciano Cilio, ma della
performance, perfino un po' snob, di un interprete che gira il mondo per far
capire a tutti di quale musica l'Africa si sia riappropriata, e quanto sia
disposta a condividerla se sollecitata dal miraggio del villaggio globale.
Il
concerto (è il 1993) inizia coi suoni di un piccolo flauto usato dai pigmei. E'
un'emissione prima solitaria, ma ben presto capace di articolarsi in varianti
profonde o lievi, come accade con la voce umana. C'è vera Africa, col suo
diritto a vivere senza guerre postcoloniali, senza egemonia di gruppi
commerciali stranieri, nel grido modulato che Bebey lancia al soffitto (e in
fondo al resto del mondo) come nelle cantilene
su cellule e moduli strumentali ripetuti. Ma c'è Africa e Francia, e
quindi contaminazione, nei pezzi più riusciti, come nel Poema.
Qui si congiungono la canzonetta francese ed i timbri ancestrali della
"sanza" e dello "n'dehou"; anche la chitarra viene percossa
in ogni punto come un tamburo, ed il testo, francese, ci parla
di voli oltre il mare, di morte come a noi è ignota (bambini per strada,
mucchi di giovani e vecchi in fosse comuni, massacri di intere tribù...), di
colori intensi, di paesaggi al di là
dello sguardo.
Questi
stessi elementi, la continuità dolciastra delle melodie, l'amalgama suadente
tessuto dalla voce, la poliritmicità sincopata delle percussioni, li ritrovavo
qualche tempo dopo nella performance dei figli di Bebey. E tuttavia restavo
scontento dell'inserimento un po' casuale di una chitarra elettrica, e di non
convinte modulazioni infratoniche della voce, tanto da scrivere di questo
secondo concerto come di una grottesca esibizione, capace solo di fare il verso
a quella di Bebey padre.
Musical
Networks
Muovendosi
in controtendenza rispetto a tutte le scelte precedenti, forse presagendo
l'imminente crisi, la Rai nostrana, morente monade autoritaria, decide nel '92
di programmare una serie di concerti dedicati esclusivamente alla musica
contemporanea. Tra novembre e dicembre si terrà infatti una sfortunata
rassegna, dal titolo "Musical Networks", spinta dalla sinergia tra
RAI, AMN, Università Federico II e Conservatorio. Il progetto, ideato da
Giancarlo Sica, è affascinante, perché si basa su un'ipotesi connessionistica
ad interazione completa ("Una rete a connessione totale può rappresentare,
al di là della sua rigorosa applicabilità nel campo scientifico, un modello di
riferimento per collegare molteplici aspetti di un medesimo ambito
culturale"), il che presume una conduzione 'aperta' all'intervento del
pubblico, dei critici, dei compositori e degli interpreti. Nell'idea iniziale,
questa interazione, assieme alla connessione tra alcune tematiche evidenziate
come portanti, doveva condurre ad uno spettacolo veloce, di tipo televisivo, con
la presenza di linguaggi multimediali (diapositive, filmati, suoni registrati e
live), la cui fusione restava affidata tuttavia alle persone invitate e sedere
in una sorta di 'salotto' allestito sul palcoscenico. Più di una volta sono
intervenuto a quei concerti, dicendo la mia dalla platea, e questo m'ha
consentito di capire la ragione del fallimento (di pubblico, ma anche di
programmazione, visto ad esempio l'eclatante forfait di Stockhausen). In una
struttura realmente aperta, tutte le interazioni avvengono
sullo stesso livello, non esiste, cioè, una gerarchia che ponga gli
'utenti' ad un livello di accesso mediocre. Viceversa, si riprodurrà il solito
dibattito privo di risvolti culturali. In ogni caso, un merito di "Musical
Networks" è sicuramente l'aver portato i pochi presenti all'ascolto di
opere di rara programmazione. Ma a parte Berio, Petrassi, Clementi, Donatoni, ed
i soliti Cage, Boulez, e via di seguito, anche qui su quattordici concerti viene
inserito un solo compositore napoletano. Gli altri autori non sono nemmeno
tenuti in considerazione, nonostante io ed altri, pubblicamente e per iscritto,
continuassimo a chiederlo. La risposta, quella solita, beffarda e provocatoria:
"ma dove sono i compositori napoletani?".
Si
può perdonare l'ignoranza, ma non lo strategismo vigliacco.
L'esterofilia
della Scarlatti
Benché
nella formulazione dei programmi la "Scarlatti" si sia recentemente un
po' aperta, la più grande associazione musicale napoletana continua a
caratterizzarsi per la sua evidente esterofilia. Le sue iniziative non
sono sommerse, perché essendo rimaste quasi uniche raccolgono grande
attenzione dalla stampa; eppure, certi contenuti della vera (altra) avanguardia
non sono stati ignorati. Alcune idee, lanciate in incontri pubblici, come ad
esempio invitare il quartetto Balanescu, sono state accolte. Ma quando ho
provato a proporre, sempre pubblicamente, lavori o nomi di compositori locali
che probabilmente valeva la pena di ascoltare per svecchiare ancor più
l'aristocratica stagione concertistica, non ho ricevuto in risposta altro che
silenzi.
In
ogni caso mi pare opportuno segnalare che, se non altro, dal punto di vista
della programmazione, s'è capito che bisogna puntare ad un nuovo pubblico, più
giovane e sveglio. E che per conquistarlo occorre mettere in cartellone musica viva.
Così,
è accaduto che pian piano stiano venendo a Napoli il Kronos Quartet, il
Balanescu, DD Bridgewater, le Voci Bulgare, le percussioni di Ondekoza. Quello
che invece non s'è compreso ancora è che va ricostruito il legame con la vita
musicale reale della città, e che per farlo bisogna chiamare a raccolta i
migliori compositori ed esecutori.
Futuro
Remoto
Al
di là delle implicazioni politico/tecnologiche, va detto che la fortunata
mostra a metà strada tra scienza e fantascienza ha talvolta ospitato, nel
settore musica, opere ed interventi di compositori ed operatori cittadini. Nel
'92, sul tema un po' scontato del "mare", tre compositori, Rosario
Musino, Carlo Mormile ed Enzo Amato, si federavano anche creativamente nel
produrre un'opera a sei mani dal titolo Mare
Nostrum Citreum, un "viaggio sonoro attraverso gli strumenti etnici dei
popoli del Mediterraneo".
Il
progetto si svolge seguendo tre direttive: sintesi tra l'uso di una
strumentazione tecnologicamente agguerrita (ma si tratta sempre di computer
music: al lettore dovrebbe essere ormai chiara la differenza che c'è tra questa
e la musica elettronica, pur senza discriminazioni) e la presenza dell'elemento
etnico; riferimento alla cultura
della Magna Grecia "intesa nel suo concetto di mediterraneità" (ancor
sempre Mediterraneo: uno spot per la musica nostrana); ed infine
ricerca su timbri, campionati, sintetizzati o realizzati dal vivo (gli
strumenti impiegati dal vivo sono la tammorra di Alfio Antico, le launeddas di
Enzo Stera e la voce di Daniela Del Monaco; quelli campionati: Naqqarat,
Echeion, Zansa, Sistro, Ud, Fidula, Cromorno, Ciaramella, Buccine, ed altri). I
software utilizzati sono Macintosh (immagino un "Finale"), ed i suoni
sintetici quelli delle macchine Roland. Del brano ricordo il vivo contrasto
espresso dal 'calore'
improvvisativo di quel fenomeno delle percussioni che è Alfio Antico, dalle
modulazioni a suono unico di Enzo Stera, e la freddezza tecnica, un po'
sperimentale della Del Monaco. Il computer, ancorché privo di agogica, faceva
la sua parte, ma in modo forse semplicistico. Notevole mi pare, ancora oggi,
riascoltando il brano, il presupposto etnico, che varrebbe la pena di riprendere
e approfondire. L'edizione del '93 presentava di importante uno dei due concerti
napoletani del Kronos Quartet (decentrato al Teatro Delle Palme, nel corso della
stagione Scarlatti), e la serata affidata a Francesco D'Errico e Daniele Sepe,
sui quali mi pare opportuno soffermarmi.
L'ironia
di Daniele Sepe
Si
potrebbero dire molte cose su Daniele Sepe, un musicista completo che trova una
strada originale e particolarissima tra il jazz, la musica etnica ed alcune
suggestioni di natura 'colta', come direbbe qualche illuminato critico della
vecchia scuola.
Ma
è più divertente dare uno sguardo
al curriculum semiserio (cioè decisamente ironico) che Daniele consegna ai suoi
più fedeli estimatori: "Dopo il diploma, stanco di preparare estenuanti
concerti da presentare alle vecchie nobildonne, immancabili al circolo degli
artisti, e non possedendo un frac, comincia a lavorare in studio e qualche volta
dal vivo, con un sacco di gente (Nino Bonocore, Mia Martini, Teresa De Sio,
Roberto De Simone, Gino Paoli, etc) di cui gli risultano simpatici solo Peppino
Gagliardi, Eduardo de Crescenzo, Roberto Murolo e Nino D'Angelo. (...)
Pericolosamente inizia a scrivere musica propria, ed i nomi che dà alle diverse
formazioni danno solo una vaga idea di quello che attende l'ignavo spettatore
dei suoi concerti: Art Ensemble of Soccavo, Luchisto luchiddu e i suoi
Abbracalabria, Orchestra dell'On. Trombetta, ... Paradossalmente tutto ciò
piace alla gente e più incredibilmente ancora alla critica (con la doverosa
esclusione di quella jazzistica). Comincia a documentare il suo lavoro dapprima
sugli inevitabili demotape 'senza speranza' e poi con un disco autoprodotto nel
1989 dal suggestivo titolo 'Malamusica (non è tutto)'. Qualcuno lo ignora del
tutto e qualcuno grida al miracolo: così va la vita. Fortunatamente, il disco
si vende cosicché, non pago, ne registra un altro a cui dà il titolo più che
qualunquista di 'Uscita di gladiatori'. Lo rifila con rara mancanza di scrupoli
ai Soluzionisti Virgin. Scappa a Timbuctù con i milioni di miliardi ricavati
dalle vendite".
Dopo
varie peripezie, impossibili da riportare qui per intero, il nostro eroe
conclude sconsolato che "non riesce ancora a passare dalla monocamera al
bivani con balcone".
Tutto
ciò per raccontare come questo compositore/esecutore sia versatile, ed
autoironico come pochi (ad esempio il già citato Alessandro Vecchiotti esibiva
un analogo curriculum, nel quale affermava testualmente d'essersi diplomato col
minimo dei voti per gettare il suo pubblico nel massimo dello sconforto). Ma al
di là delle boutade, sarà più che opportuno segnalare la godibilità e qualità
del penultimo disco (solista) di Daniele, Vite
Perdite che ha avuto fior di recensioni anche sulla stampa specializzata in
jazz, checché ne dica lui, e intere pagine su quotidiani a tiratura nazionale.
Il fatto è che il suo linguaggio riesce ad essere espressione di un genere che,
altrove, abbiamo definito come world globale: una musica che pur affondando le
radici in alcune, diverse, tradizioni etniche, riesce poi a parlare al mondo
intero.[70]
Il
suo ultimo lavoro, Spiritus Mundi va
colorandosi sempre più di rosso, come i più recenti spettacoli, ed appare come
un pot-pourri delle collaborazioni molteplici e mutevoli del geniale
strumentista. La voce di Auli Kokko, che dal vivo m'era parsa straordinariamente
evocativa e potente[71],
risulta in studio un po' attutita, e questo certo la danneggia. Del compact, e
in generale dell'opera, di Daniele, stimo l'autonomia espressiva, l'energia, la
capacità di contaminazione. E tuttavia mi secca
che si consideri il disco come un 'contenitore di cose', nel quale si può
mettere di tutto senza disturbare l'ascoltatore/compratore. Manca, in Daniele,
l'utilizzazione strategica del supporto, la cognizione estetica di autonomia
dell'oggetto che veicola, l'umiltà che fa scegliere, selezionare e pubblicare
solo il meglio del meglio. Resta la sensazione di una grandeur tutta partenopea,
veramente nostrana. Un po' come se si fosse al mercato della carne e del pesce.
La
raffinatezza di Francesco D'Errico
Francesco
è un musicista che abbisognerebbe di un saggio intero, perché la sua musica,
prevalentemente jazzistica, è fatta di sfumature, colori tenui, evanescenze
delicatissime e rarefatte. Chi scrive ha collocato il suo compact Tartana, in una zona che comprende Byablue di Keith Jarrett (un lp
prima maniera, con Paul Motian, Charlie Haden, Dewey Redman) ed il più delicato
Chet Baker, vale a dire quello strafamoso di Let's Get Lost, e quello italiano di Chet on Poetry (recentemente ho collocato sullo stesso scaffale
anche lo Chet Baker in Italy che
raccoglie perle tratte dalle numerose ondivaghe peregrinazioni italiane). Mi
pare quasi inutile precisare che i riferimenti stilistici vanno ad un
antesignano comune a molti tra i pianisti jazz oggi in gran voga, e cioè a Bill
Evans (ma questo è minerale naturale come l'acqua). Francesco D'Errico ha
lavorato più volte con Daniele Sepe, nei brani più vicini al jazz, ma ha
collezionato anche tante altre collaborazioni, come quelle con Condorelli,
Onorato, Sannini, D'Argenzio, De Vito, Casu, eccetera eccetera. Ha scritto
musica d'accompagnamento per film, partecipato a trasmissioni Rai e non Rai,
risultato in ottimi piazzamenti nei referendum di "miglior esecutore"
annuali proposti da una testata come "Musica Jazz". Esplica anche una
notevole attività didattica e culturale con corsi, seminari e concerti tenuti
all' Andj, Associazione Napoletana Diffusione Jazz[72].
Il suo campo d'azione ultimamente comprende anche la critica teorica, visto che
è laureando in filosofia e si occupa di molteplici tematiche che riguardano le
estetiche contemporanee.
I
colori del piano
Ho
già fatto cenno in più luoghi all'abilità e sensibilità di Rosario Musino
("Futuro Remoto" non è che una parentesi nella sua rutilante attività
esecutiva e compositiva). Il fatto che si tratti di un pianista,
per giunta di scuola napolentana[73],
non fa che accrescere la mia considerazione, soprattutto per una morbidezza
esecutiva ed una raffinatezza tecnico/musicale davvero notevoli. Queste doti,
assieme a quelle di compositore e direttore, non sono sfuggite nel passato a
Roberto De Simone, che se ne è servito in più di un lavoro (come del resto era
accaduto per Antonello Paliotti, anima del Colin Muset). Ha lavorato nella
celeberrima Gatta Cenerentola come
maestro sostituto, clavicembalista e organista, e all' Histoire du Soldat di Stravinskij nella versione di De Simone. Ha
vinto concorsi come pianista e come direttore, e suona un po' in tutta Europa
eseguendo, appena possibile, la sua produzione pianistica. Ma non è un
pianista/compositore, come me e Fels; in lui la scrittura assume un rilievo e
un'indipendenza maggiore. Tra le sue opere, un Allegro Agitato per pianoforte (1983), Quattro pezzi per pianoforte (1984), in cui prevale un forte
cromatismo oscillante tra l'ultimo Mahler, il seduttivo primo Schoenberg e il
melodismo dodecafonico di Berg. C'è un Adagio
per quartetto d'archi (agosto 1984), una
Introduzione ed Allegro per quartetto
d'archi, che resta una delle sue opere più notevoli. Nell' '85 c'è grande
efflorescenza creativa: Dittico dei miei
fantasmi, per pianoforte, due Frammenti
per violino solo e flauto solo, la Fantasia
per flauto e pianoforte, il Concertino
per pianoforte e orchestra. Notevole
il suo interesse per Jacopo Sannazzaro, sui cui testi scriverà due cantate
(della prima, Giorni mal spesi e
tempestose notti farà due versioni, che differiscono per la presenza di una
cadenza pianistica, per la parte centrale e per l'inserimento del violoncello):
si tratta di lavori in cui il linguaggio si fa più sperimentale, e che per
questo motivo amo di meno. Nell' '86 compone
Per quattro clarinetti un po' strani e il Duetto per due clarinetti. Del '92 il primo tempo di Mare
Nostrum Citreum, di cui s'è già detto, e un Preludio
per pianoforte. L'ultimo lavoro di cui ho conoscenza è Colori,
del 1994. E' un mirabile, sognante, raffinato brano pianistico, in cui si
avvicendano rapidamente momenti di
lirismo per l'uso di stratagemmi tipicamente strumentali (l'una corda, l'uso del
pedale di risonanza) ed invenzioni ritmico/timbriche. I "colori" sono
quelli disponibili sulla tavolozza della tastiera, e non ho difficoltà ad
azzardare che l'uso di armonici prodotto dall'abbassamento di tasti vuoti
rappresenti l'evanescenza estrema delle dinamiche. Ritengo che l'opera di Musino
possa fornire esiti inusitati, specie se tra i due aspetti, quello più
tipicamente teso alla ricerca (che corre il rischio di svilire l'immenso
patrimonio espressivo), e quello rarefatto e delicato, dovesse prevalere, come
auspico, il secondo.
'ndacalàmacalì
Non
posso chiudere questo libro senza fare cenno all'attività di Mario Cesa, un
compositore irpino di cui ammiro l'opera e l'attività di promozione culturale (è
da anni il direttore artistico di un Festival delle Orchestre molto conosciuto
all'estero e snobbato dai giornali locali). Essenzialmente autodidatta per la
composizione, la sua attività non fu risucchiata che occasionalmente dai miasmi
napoletani. E' infatti stato eseguito a Cuba, in Germania, Polonia, Francia,
Ungheria ad opera di interpreti 'storici': Canino, Ballista, Fumo, Mondelci,
Fabbriciani, Scarponi. Ha pubblicato dischi con Edipan, Leep Records, Musical
Dorica. Tra le sue opere più rappresentative ci sono i Cinque
esercizi sulle feste popolari irpine, eseguito in prima da Bruno Canino (a
lui dedicato, e pubblicato dalla Edipan nel 1983), il quale lo ha riproposto in
un recente concerto capace ancora di scandalizzare qualche critico. La parte
presenta cinque 'tracce' che utilizzano soltanto i righi (in violino e basso)
necessari, e poi sviluppa gli esercizi utilizzando un grafismo essenziale, non
pittorico come in altri lavori, con l'uso di clusters e semiclusters. Bella
l'idea percussiva che scaturisce dalla realizzazione della "spirale"
visivo/esecutiva nel quarto esercizio. Varianti ('ossia') sono possibili a
scelta dell'interprete.
Notevoli
anche le Feste Paesane dell' '83 per dodici strumenti a fiato e timpani. La
parte vi si dipana come un'intabulatura per liuto, la ricerca del segno grafico
si fa più sofisticata, meno essenziale, più ardita. Lo spartito si trasforma
in una descrizione scritta del brano (a sua volta trasposizione di una oralità
scomparsa). Qui lo sperimentalismo aleatorio si fa strada pericolosamente, ma
l'ambito di casualità è meno ampio di quel che si potrebbe immaginare.
Non
meno importante mi pare il Modulo
pianistico pubblicato dal mensile "Piano Time"; è uno studio delle
possibilità armoniche liberate da una linea tematica di suoni a tasto vuoto (o
'morto', come indica Cesa) che reagisce alla percussione ripetuta di un accordo
in fortissimo. E' inutile sottolineare che la melodia è 'popolare', come spesso
in questo autore, attento studioso del
folclore dei luoghi. Mi sembrano rappresentative anche le Ritualità
antiche (per pianoforte a quattro mani), Repercussio (clarinetti e ensemble), Città viva, Città morta, città... ( sax e ensemble), Strade
(flauto e ensemble), Il Paese della festa (clarinetto
e ensemble). Notevole il concerto per violino e orchestra Sciaugscenesce, col suo
tentativo di smontare il predominio gerarchico del violino in una programmatica
inversione di ruolo tra il primo e il secondo movimento. Nel terzo, sulla base
della melodia popolare La canzone di Zeza,
che viene utilizzata solo per quel che riguarda la successione delle altezze, si
sperimentano suoni staccati, glissati del violino ma anche dei clarinetti,
tromboni, arpa e timpani.
I
nove minuti di Synph, per ventuno violini e orchestra, sono un gioco di rincorsa
speculare tra i solisti che entrano in successione, e poi retrocedono fino al
silenzio.
L'ultimo
lavoro discografico di Cesa comprende la Sinfonia
degli Inni e dei Canti, e il Concerto
per pianoforte e orchestra (Bella Musica). Il compositore mescola qui il
folclore locale alla ritualità metropolitana, cimentandosi con
due delle forme legate alla più aurea tradizione colta. Il nesso ritmico
del Concerto
è in una frasetta da hits di musica leggera : "ndacalàmacalì",
che certo funziona meglio di complessi calcoli algoritmico/seriali. La sinfonia,
dal canto suo, è eseguita con grande vigore e convinzione
dall'orchestra "Mihail Jora" di Bacau, tra glissandi e
sovrapposizioni di temi. E' un' opera di complessità e densità sconcertanti.
Dissonanzen
Il
capitolo aperto da "Dissonanzen" alla Galleria Toledo è senz'altro
importantissimo per la storia della città. Marco Vitali e Aldo De Vero sono gli
ideatori della rassegna, che si avvia sotto i migliori auspici, pur restando
monade tra monadi. La formula è un po' quella usata e abusata dei concerti de
"L'armonia e l'invenzione", di cui s'è detto: si tenta di 'parlare'
di musica contemporanea, 'iniziare' il pubblico alla comprensione dell'arcano
segreto che si cela dietro alla tecniche più complesse, procedere ad ascolti
che prevedono il religioso silenzio (vengono banditi gli applausi tra un pezzo e
l'altro). Insomma si cerca, forse anacronisticamente, di fare del teatro una
chiesa, e della 'colta' per eccellenza una religione. Mancava una bibbia, ed
ecco quindi che i curatori pensano di produrre una newsletter mensile, che viene
inviata gratis a chi dà il proprio indirizzo o mostra interesse per
l'iniziativa. Nella lettera si racchiudono notizie sui brani, generalmente
tendenti a ricostruire la storia dell'avanguardia, e sugli esecutori che li
presenteranno a Napoli.
Inizialmente
anch'io vengo sedotto dal progetto, perché Vitali promette "poche parole
di introduzione" ai concerti, e mi pare che intuisca che il discorso sulla
musica contemporanea non può prescindere dalla "qualità inventiva".
Credevo che questo andasse nel senso di Chiari (che si preoccupa più dei
musicisti che della musica, a ragione), ma mi sbagliavo, perché già nella
prima newsletter le domande sulla qualità dell'opera vengono risolte nel
"tempismo con il quale un'idea si è presentata" e nella
"novità" già insita in essa. "Dissonanzen" parte
scontando ancora la pesante eredità adorniana, e Vitali non intende affatto
sottrarsene (Vitali: "consapevoli del rischio connesso con l'uso di
categorie dialettiche come quelle di progresso
e reazione di
adorniana memoria, riteniamo nondimeno che, usate criticamente -come punto di
partenza e non di arrivo-, esse possano avere ancora oggi una loro utilità")[74];
ma alcune di quelle 'verità' vengono tramandate un po' frettolosamente
agli adepti dell'erigenda chiesa, come segnalavo in alcune recensioni[75].
E' così che soprattutto brani di autori già storicizzati vengono programmati
ed eseguiti nella rassegna del '93 (la sacra triade viennese; Ives, Cage,
Stockhausen, Brown, Feldman, Kagel...). Le cose non cambiano molto nel '94: ci
sono Maderna, Gentilucci, Guarnieri, Manzoni, Donatoni, il solito Cage col
solito Bussotti che legge brani interminabili, e via di seguito. L'unico
napoletano presente in cartellone, benché avessi in un incontro (e sulle
colonne di un quotidiano) proposto a Marco di programmare un concerto dedicato a
Cilio[76],
è Enrico Massa (con Arianna per
violino solo, eseguito da Enzo Porta). Dopo quella edizione, forse
per lo scarso successo di pubblico, o più probabilmente per una distonia
tra gli organizzatori, anche "Dissonanzen" è precipitata
irrimediabilmente nel limbo delle promesse mancate.
La
Festa della Musica
Il
21 giugno dell'era Nicolini, in sintonia con altre città europee, anche Napoli
ha avuto "La festa della Musica". Contemporaneamente, e non solo per
quella giornata, s'è suonato a San Martino, al Maschio Angioino, nelle piazze
Bellini, Santa Maria la Nova, S. Domenico Maggiore. Unico limite, una sorta di
divisione tra generi, che però è solo pretesto per orientare la scelta del
pubblico (e il suo percorso). La 'classica' viene ospitata nel cortile e nelle
sale Maschio Angioino, che del resto ne è luogo deputato fin dai tempi di
Luciano Cilio. Il coordinatore di quella manifestazione è il compositore Enzo
Amato, che mi telefona per invitarmi a far eseguire le mie Variazioni
sul Vento.
In
una delle sale adiacenti c'è invece l' "Incontro con i compositori
napoletani", che chiude il ciclo "La parola alla musica"
organizzato da una associazione[77].
I compositori che appaiono sono, nell'ordine del programma (diverso da quello
d'esecuzione), Roberto Altieri (Cadenza
sul nome Bach); Massimo Coen (Mon coer
qui bat ; Improvvisazione ; c'è
inoltre un fuoriprogramma: sono brani in cui si esibisce una certa abilità
strumentale che manifesta un percorso originale, ma un po' neoclassico e
citazionistico); Luigi Fortunato (Variazione;
Luce : pezzi atonali, che cedono
spesso a suggestioni meramente sperimentali); Enzo Galdi (Erleben per pianoforte e violino, dal linguaggio sperimentale,
aforistico e conciso. Recitativo); Gabriele Montagano (Trieb , nella versione per flauto solo); Carlo Mormile (Cadenze);
Rosario Musino (Giorni mal spesi e
tempestose notti); Federico Odling (è uno degli animatori di
"Dissonanzen"; la sua musica è severa e rigorosa, forse troppo
concettuale)[78];
Sergio Pagliarulo (vari brani); Vincenzo Palermo (Notturni,
Canzonette, Frammenti nel tempo: usa un linguaggio prevalentemente tonale, di
stampo neoromantico; ma Palermo mi ha contestato questa opinione, espressa in
una recensione: lui preferisce riferirsi ad armonie che procedono ad anello).
Il
lungo concerto è chiuso da opere di Renna, che è tra gli organizzatori
dell'evento. Il compositore (pluridiplomato in flauto, pianoforte, composizione
e direzione d'orchestra) s'è formato con Di Martino e Rotondi. Ha scritto
parecchia musica da camera, opere teatrali, alcuni brani per piccola orchestra.
Numeri importanti della sua produzione sono apparsi in un compact Edipan, con la
Serenata del 1984 per due chitarre, Aiolos
del 1987 per arpa, Albumblatter dell'
'87 per flauto e arpa e 27 Romanze senza
parole del 1988 per pianoforte. Nonostante il peso del linguaggio, ancorato
ai tipi del periodo sperimentale, devo dire che sento poco di gratuito, e che la
ricerca di Renna appare improntata al più severo rigore e a una certa coerenza.
Anche in brani di cui non posso condividere né forma né linguaggio (ad esempio
quelli per pianoforte), c'è il senso dell'attesa, del riposo, del lento
risuonare. Il suo Aiolos, che
finalmente si concede di indagare l'universo greco e l'arpa eolia, è la
composizione che più mi convince, nonostante l'evidente prolissità. Ed è
forse l'unica in cui mi pare ritrovare alcune suggestioni dei Dialoghi del presente di Cilio.
Immagine
e companatico
La
"Festa" si chiude con uno strascico polemico dei jazzisti, che emanano
un comunicato in cui si denuncia la grave abitudine di richiedere prestazioni
gratuite ai musicisti. "Se in fondo la nostra produzione non interessa, o
non la si conosce affatto, non chiamateci solo quando serve musica, appunto,
gratis. Se non altro per una questione di buon gusto". I firmatari, tra gli
altri, sono Vittorio Pepe, Giulio Martino, Stefano Tatafiore, Giancarlo Penna,
Francesco D'Errico, Sergio Di Natale, Pietro Condorelli, Marco Zurzolo.
I
malumori li raccogliamo anche nelle altre 'categorie'. I chitarristi suonano
praticamente da soli in uno stanzone che ospita pure una mostra; alcuni gruppi
rifiutano di esibirsi sul palco centrale, perché l'acustica è pessima e
non ci sono microfoni. Altri confessano di aver partecipato solo perché
"in queste cose è meglio esserci".
Ed
il punto è proprio questo: è meglio prestarsi soltanto per l'immagine, o
piuttosto dare forfait, guardare
verso altri lidi?
Quale
musicista non ne ha parlato almeno una volta, di questo desiderio bruciante:
andar via di qui, come altri hanno fatto, e magari dirigere orchestre in Canada.
Ciascuno ci ha creduto, almeno all'inizio, alla faccenda dell'immagine. Luciano
Cilio conservava ogni trafiletto che lo riguardasse anche indirettamente. E
quanti di noi posseggono un archivio più o meno segreto, la famosa 'rassegna'
che dovrebbe motivare la sofferenza degli scontri, incentivare la successiva
scrittura, pagare goccia a goccia il sudore versato per conquistarsi spazi e
professionalità...
Può
la levità dell'immagine compensare tutto questo? può bastarci la
consapevolezza di aver comunque prodotto cultura, generato mode, cambiato i fonemi e le
ragioni dell'avanguardia? Siamo ancora abbastanza forti per combattere e
vincere?
Cultura
dei confini
Tra
le musiche 'collaterali', 'sommerse', 'di confine', ci sono state anche quelle
dei gruppi vicini ai centri sociali, anche perché, almeno all'inizio, la loro
risposta ai silenzi delle istituzioni è stata forte e dirompente; tanto che la
loro attività, ancorché frattale, ha poi rotto i margini dell'omertà
giornalistica. Non pochi gruppi sono stati capaci di procurarsi un buon livello
nazionale di fruizione e (paradossalmente) di 'consumo'.
Una
analisi sociologica su questa evenienza sarebbe qui improponibile. E tuttavia
non posso fare a meno di notare come in luoghi apparentemente desituati e
decollocati rispetto agli abituali aggregati urbani sia stato possibile produrre
opere di larga fruibilità.
Inizialmente
scollegati dalla logica di mercato delle major, la proliferazione di gruppi e
concerti ha fatto sì che la pratica dell'autoproduzione diventasse una concreta
realtà capace di innestarsi nelle nicchie del mercato. Il primo passo è stato
senz'altro quello della diffusione di nastri amatoriali, spesso pirata, un po'
come avveniva per il rap americano, e come ancora oggi accade in alcuni paesi
africani. Arrivati al compact, lo si distribuisce ai concerti, e poi lo si vende
attraverso piccole messaggerie (luoghi dall'aspetto 'amatoriale'), che tuttavia
raggiungono i loro clienti in tutta la penisola attraverso il medium della
spedizione postale. Come può immaginarsi, la possibilità di attivare una rete
distributiva estremamente mirata la dice lunga sull'illusione di sottrarsi al
'mercato'. Si riesce ad evitare, semmai, lo sfruttamento dei grossi colossi
dell'editoria e della distribuzione (ed è già gran risultato), ma non mi pare
che questa soluzione eviti la logica dello scambio. Evidentemente, la domanda
fondamentale resta la seguente: l'opera può essere venduta senza danno
estetico? La nostra risposta è affermativa, ed è ricca di implicazioni, che
però devono per il momento essere lasciate da parte.
Rispetto,
poi, alla cosiddetta collocazione 'di confine', ripeto che essa mi è sembrata
senz'altro effettiva all'inizio, soprattutto per i motivi urbanistici di cui s'è
detto. Ma se i Centri sono stati, via via, suburbani, desituati, legati alla
cultura del 'degrado' (un recente convegno romano verteva proprio su questo
aspetto), essi alla fine non si sono sottratti alla veicolarizzazione dei media,
anche di quelli più odiati e combattuti. Ad una marginalità urbanistica s'è
sostituita la centralità medialica, non esente da notevolissime implicazioni
politiche.
E'
per la visibilità dell'operato dei centri sociali, per le molteplici occasioni
di far circolare idee e produzioni attraverso giornali e tv,
che questo libro ne sfiora appena le attività. Non senza rilevare, però,
che la musica emanata dai centri ha una potenza legata soprattutto alla certezza
dell'ideologia (e il termine conserva tutte le sue implicazioni filosofiche),
alla radicalizzazione dei singoli percorsi, alla creazione di steccati
protettivi attorno a strutture che ne fanno luogo di spaventosa ubiquità/ambiguità,
contemporaneamente ai margini e al centro della metropoli. E' facile prevedere
che i centri sociali, mancando un'inversione di tendenza, finiranno con
l'estinguere l'effettivo, deflagrante, impatto sociale. E che i loro gruppi
musicali saranno sempre più simili a quelli dei 'professionisti'.
Già
il loro messaggio, missato a musiche del mondo, diventa meno esplosivo, meno
eversivo. E, nondimeno, esteticamente valido (perciò disposto/disponibile allo
scambio), perché frutto di impasti e contaminazioni[79].
Rispetto
ai casi particolari, va detto che la musica di gruppi come Almamegretta e 99
Posse (ma tanti 'minori' suonano nelle sale dei centri) appare legata allo
spazio più che al tempo, vale a dire al territorio che si rappresenta con le
sue espansioni e contrazioni. Le stesse commistioni non impediscono la presenza
di un serrato dialetto, non sempre di facile comprensione anche per la frequenza
della distorsione. Tecnicamente si tratta di un misto di reggae, rap,
ragamuffin..., tuttavia già consolidato in uno stile riconoscibile (vesuwave?[80]),
che viene scelto e acquisito con inesorabilità logica.
La
città sta utilizzando il successo di questi gruppi per darsi un'immagine
particolare, un po' rude, ma che simbolizza bene il crogiolo di razze e stili
che la costituisce. Almeno, in questo caso il companatico è stato meritato.
Epilogo
Nel
racconto degli ultimi vent'anni sono sfilati nomi e date in gran quantità; di
certo si è data visibilità ai percorsi di molti compositori operanti a Napoli,
senza tuttavia volerne congelare la storia. Posso prevedere l'obiezione di aver
auspicato fino all'eccesso un maggiore spazio per i nostri
autori, ma si dovrà riconoscere per forza, con i dati alla mano, che non ci è
stato concesso molto.
Credo
si sia anche dimostrato che molti musicisti, a dispetto di mille difficoltà,
sono stati attivissimi, magari autoproducendosi e autoesportandosi.
Nello
svolgersi del tempo, alcune intuizioni estetiche, legate
ai nomi di pochi emergenti ma soprattutto ai percorsi sommersi degli
altri, si sono consolidate, e possono darsi per acquisite. Alcune etichette,
specie di musica leggera, si sono create un grosso mercato. Alcuni
amministratori sembrano (sembrano) meno ciechi dei precedenti.
C'è
poi anche qualcosa in meno: grazie all'effetto tangentopoli, molti dei 'vecchi'
potenti hanno dovuto cedere il passo ad altri, o franare nel nulla
(probabilmente ancora tramano nell'ombra, cercando nuovi amici a Roma).
Certe strutture, perse per sempre, non hanno lasciato alcun vuoto nelle
convinzioni di chi ama la musica viva. Certe associazioni hanno azzerato la loro
attività perché i finanziamenti sono di colpo cessati (e forse è in gioco
anche una grossa battaglia per la suddivisione dei fondi residui). Certi
giornali hanno chiuso o hanno dovuto procurarsi collaboratori migliori.
Di
sicuro il destino della città, almeno per quanto riguarda la musica, appare
tutt'altro che definito. Cosa accadrà? Verrà fuori la solita associazione nata
l'altroieri e ansiosa di monopolizzare la scena? Appariranno nuovi faccendieri
travestiti da esperti del settore, nuovi critici musicali capaci di fare il
bello e il cattivo tempo? Tornerà qualcuna delle vecchie mummie?
L'esperienza
di questi anni ci ha abituati al peggio, eppure registriamo blandi segnali di
cambiamento. Forse tra vent'anni li racconteremo in un libro diverso, che parli
di aperture, avventure, tanta musica al plurale.
Un
po' ci speriamo davvero.
[1]In
uno dei quadernetti ricchi di note e appunti che la Webb-James aveva
l'abitudine di compilare, ho reperito alcuni programmi dei primi del secolo,
svolti in duo con la violinista Maria Teresa Canettoli (o, per dirla più
elegantemente, "col suo concorso"). Assieme agli elenchi di opere
da far eseguire ai giovani allievi, ad uno dei primi cataloghi dell'opera di
Debussy, alle molte composizioni di Longo (Giga, Romanza op. 17, etc.) c'è
poi un interessante libretto. Si tratta della "Quinta rassegna
interprovinciale di musica contemporanea da camera", svolta
naturalmente per l'"Unione fascista dei professionisti e degli
artisti" (21 marzo 1939): la Webb-James, che non figura tra gli
interpreti, ha conservato con
cura tutto il materiale illustrativo, compresi i testi delle composizioni,
una Sonata per violino e piano di Enzo De Bellis (nato nel 1907- ma nel
programma si indica il 1910- allievo
di Daniele Napoletano e Gennaro Napoli), Tre
liriche per canto e piano di Mariano Cinque (classe 1909, allievo di
Carlo Iachino), e altri brani di Vincenzo Perrotta (Napoli, 1913), Attilio
Staffelli (Napoli, 1894), Adolfo Apreda (Sorrento, 1906) e Italo Lippolis
(Bari, 1910).
[2]
Le versioni scritte di questo brano, tratte dal disco,
forse furono stilate da Carmelo Columbro.
[3]Ponty,
violinista di formazione classica, si avvicina ben presto al jazz e al rock.
Conosce Frank Zappa, suona negli Experience, Mothers of Invention, Mahavisnu
Orchestra. Non è alieno da frequentazioni elettroniche (soprattutto
sequencer ed harmonizer) e da suggestioni etniche.
[4]In
una intervista di Michele Esposito a Gennaro Tesone e Rino Della Volpe degli
Alma Megretta pubblicata sulla rivista di Goffredo Fofi "La terra vista
dalla luna", vi è un accenno a Sorrenti "A Licola, al festival
del proletariato giovanile, fischiarono Alan Sorrenti che faceva una musica
un po' sperimentale per l'epoca e applaudirono Giorgio Gaslini,
sperimentatore di professione che però aveva furbescamente esordito con l' Internazionale.
[5]
codice 064-18253. Di seguito riporto tutte
le notizie relative al disco.
LUCIANO
CILIO, Dialoghi del presente.
Primo quadro "della conoscenza". Secondo quadro. Terzo quadro.
Quarto quadro "dell'universo assente". Interludio. Tutte le
composizioni sono scritte, orchestrate e dirette dall'autore. SOLISTI:
Luciano Cilio piano (terzo
quadro), chitarra, flauto, basso, mandola; Maurizio Pastore piano (primo quadro); Toni Esposito percussioni; Roberto Fix
sassofono soprano; Patrizia Lopez
coro; Peppino Romito oboe,
corno inglese; Elio Lupi violoncello;
Paolo De Simone contrabbasso;
Pippo Cerciello violino.
Produzione Renato Marengo.
Maurizio Roselli tecnico di
registrazione. Nicola Muccillo collaborazione
tecnica. Luciano Cilio missaggi.
Bruna Malasoma tecnico del
missaggio.
Cilio
riproduce anche questa frase di Adorno: "Se l'individualità ha una
posizione critica nei confronti dell'opera musicale, questa è altrettanto
critica nei confronti dell'individualità. Se la casualità individuale
protesta contro la legge sociale rigettata, da cui essa stessa proviene,
l'opera costruisce schemi per far propria quella casualità. Essa
rappresenta quanto c'è di vero nella società contro l'individuo: questi
riconosce quanto v'è di non vero, ed è egli stesso questa non verità".
[6]E'
quello trascritto dal disco da Giuseppe Cassaro, da me arrangiato ed
eseguito spessissimo in concerto.
[7]Ho
conosciuto Gianni Cesarini, incontrandolo spesso ai recital che entrambi
frequentavamo per trarne critiche da giornale (un concerto è la pallida
evanescenza di una recensione). Benché ci avessero presentati da anni,
pareva sempre vedermi per la prima volta (io scrivevo per un giornale
minore). Ad un concerto tenuto da Sergio Fiorentino ad Ischia, in occasione
di una storica incomprensione tra l'eccellente solista e il direttore (vuoto
di memoria, sbaglio di tempi, o altro), Gianni decise di non fare alcun
articolo. "Cosa potrei scrivere?", mi disse. Non ricordo se poi
mantenne il proposito. Cesarini stimava Fiorentino come uno dei pochi
pianisti napoletani degni di questo nome, e aveva ragione, perché in realtà polemizzava con gli iceberg della scuola
egemone. Non si accorgeva, tuttavia, o non voleva farlo, della presenza di
tanti altri. Anche per la musica contemporanea quel giornale spesso mantenne
(e mantiene tuttora) un atteggiamento di grande superficialità e snobismo.
Un quotidiano locale, appunto. Un bel giorno Cesarini scomparve nel nulla, e
pochi posseggono il numero di telefono di un'isola lontana dove qualcuno si
offre di portargli un messaggio. Un'ultima scelta coerente, l'abbandono del
campo.
[8]Percorsi
ben lontani dal peso della 'novità' e della 'adeguatezza storica'.
[9]Non
è un caso che Luciano abbia definito questo pezzo uno "studio sul
silenzio".
[10]
In una intervista rilasciatami, Luciano si sofferma anche sul contenuto
della ricerca, riferendosi a "metodi atipici di semiografia musicale
come colori, inchiostri, diagrammi, figure geometriche e addirittura
collage, che ponessero l'esecutore in un rapporto di incidenza aleatoria con
la partitura". A questo lavoro giovanile esa seguito lo studio di un
"metodo di integrazione della grafia nuova con quella classica ove
questa sia limitante, cercando un po' da me nuove possibilità semiografiche
laddove la complessità di un pezzo da eseguire lo richieda".
[11]Il
Trio è un brano fortemente
sperimentale, capace di conservare una fortissima carica espressiva, grazie
alla simulazione di lunghi e lenti respiri successivi. Luciano lo
considerava uno studio sull'emissione di fiato, basato sull'espediente di
regolare "la pressione della colonna d'aria in modo che le vibrazioni
si frazionino in più parti con l'incidenza di quest'ultima sulla
generazione degli armonici".
[12]Il
problema della probabile retrodatazione di queste opere (per il Terzo
Quadro è addirittura indicato il 1969) è stato affrontato da me e Fels
in una intervista pubblicata sul primo numero di KOnSEQUENZ.
[13]Per
avere un'idea della mole di musicisti e artisti coinvolti nel progetto,
eccone un elenco sommario: Stanislao Angeli (contrabbasso); Angela Cantiello
(soprano); Donella Del Monaco (soprano); Emery Cardas (violoncello);
Ensemble Nuova Musica con Luciano Nini (clarinetto), Beniamino Esposito
(clarinetto) ed Enzo De Carolis (sassofono contralto e tenore, performer);
Tempo di Percussione, diretto da Antonio Buonuomo, con Clara Perra, Walter
Scotti, Vittorio Buonomo, Cuono Correra, Romano Molinaro, Gianni Nicotra;
Raffaele Evangelista (clarinetto); Luigi Farina (tromba) Eugenio Fels
(pianoforte); Pino Finizio (fagotto); Mario Giannotti (flauto); Claudio
Leonardi (fagotto); Robleto Merolla (tenore); Gaetano Russo (clarinetto);
Marianna Troise (coreografie); Cynthia Fiumanò (danzatrice); Elena Papulino
(danzatrice).
[14]Nella
seconda serata, Cardini eseguirà ancora pezzi di Satie, brani di Cage per
pianoforte preparato, il Piano Piece (1963) di Morton Feldman, e la Novelletta di Bussotti/Cardini. I laboratori sulla voce furono
firmati da Aldo Sisillo e Benito Nisticò, quelli per flauti dolci e
clarinetti, da Pasquale Scialò ed Agostino Noviello.
[15]Che
non sia azzardato ritenere la data di composizione molto più recente del
'78 sembrerebbe provato dal fatto che i Due
studi dagli Inni alla notte di Novalis vengono presentati nel comunicato stampa
come "Due liriche": Cilio cambiò il nome nel giro di pochi
giorni, e questo mi fa pensare che il brano non fosse poi così lontano nel
tempo.
[16]Una
'prima volta' c'era stata nella Sonata,
lasciata all'immaginazione del pianista; ma Cilio, tra le altre
'epurazioni', tagliò via la sezione a causa di una sinistra arpeggiata
eccessivamente tonale.
[17]
Questi i compositori eseguiti la sera del 28 luglio, nell'ordine: N.
Castiglioni, L. Berio, P. Renosto, F. Carluccio, S. Sciarrino, E. Renna, E.
Fels, A. De Santis, L. Cilio. Questi i compositori eseguiti la sera del 29
luglio: C. Columbro, G. Testoni, A. De Santis, F. Carluccio, M. Tutino, L.
Cilio, C. Galante. Tra gli
interpreti: M. Damerini, C. Scarponi, G. De Simone, E. Galante, M. Pedron, C. Chailly, Donella Del Monaco, E.
Fels, P. Cardas, C. Liccardi, E. Cardas, A. Colonna ed altri.
[18]In
Manuale del mancato virtuoso, ESI,
1993.
[19]
Ad esempio nella prima rassegna di Donnaregina, in un articolo a firma
Giovanna Ferrara.
[20]
Ad esempio Aurelio Musi solo dopo anni ha corretto il tiro.
[21]Mi
riferisco ad un giornalista, tale Paolo Animato, che in un dibattito
pubblico a dieci anni della morte di Cilio ancora mi chiedeva ironicamente
quale fosse l'importanza della sua opera.
[22]Alludo
a un articolo, a firma Pietro Mazzone,
comparso nel primo numero della nuova rivista "Dove sta Zazà",
diretta da Goffredo Fofi.
[23]
Ho notizia anche di un pezzo di De Santis dedicato a Luciano, e di
un'esecuzione di Suiff voluta da
Montagano, il quale gli ha anche dedicato l'opera Evento.
[24]Riferisco
questa 'eredità' a Fels specie per riguarda
l'aspetto pratico ed esecutivo. Le invettive teoriche, e
giornalistiche, invece, sento di condividerle con lui non senza angoscia.
[25]Tutte
le date relative alla produzione di Fels fanno riferimento alla stesura
definitiva del manoscritto. In alcuni casi, il compositore ha eseguito in
concerto le sue musiche con manoscritti provvisori, canovacci, etc.
[26]Desidero
anche ripetere che spazi e attenzione differenti per i vari compositori sono
dovuti alle mie scelte, parzialissime, di musicista.
[27]Si
tratta dell'editoriale del n. 2/94 di KOnSEQUENZ.
[28]La
mia polemica è già rivolta all'autore di Fase
Seconda (Mario Bortolotto), che riporta, tra le altre, quella epigrafe.
[29]Molte
di quelle tematiche sarebbero state oggetto del volume Le
parole sospese , ESI 1988.
[30]"Match"
era la rivista/oggetto d'arte 'fabbricata' da Montagano e da Camillo
Capolongo nell' '87. Compare, tra le altre immagini, qualche annotazione
("La gnosi come tiro a zero. come un tiro a zero") e qualche
simbolo musicale. Nel numero otto è riprodotta una pagina della partitura
visiva, piena di grafismi, con la data del 25 ottobre 1987. C'è un
intervento di Albert Mayr: "Il mio lavoro parte dall'indagine sulle
possibilità di isolare i parametri temporali, sensorialmente non definiti a
priori, e di porli alla centralità di operazioni estetiche. Questo
presuppone che si cominci con l'esaminare l'esperibilità del tempo e le
possibili relazioni tra qualità temporali misurate, esperite e comunicate.
Ciò oggi avviene sullo sfondo della sempre più ineluttabile eteronomia dei
nostri ritmi giornalieri, settimanali, annuali; della deformazione
-raramente avvertita come tale- delle caratteristiche temporali di
accadimenti nei mezzi di comunicazione; della scomparsa di antiche unità di
misura definite in termini temporali in favore di altre definite in termini
spaziali". Nel numero successivo (il nono), ad un certo punto compare a
margine del foglio un triplice rigo per sax, trombone e violoncello, la
stessa strumentazione utilizzata da Montagano per l'operina. Gabriele mi ha
poi fatto notare che "dissemina i materiali creativi in luoghi
impropri". Ma è un peccatto che questa dispersione sia diventata prima
evanescente e rarefatta, e poi precipitata in silenzi, implosioni, progetti
così ariosi da diventare impalpabili.
[31]Conobbi
Cage dopo uno spettacolo partenopeo. Aveva fatto largo uso di suoni prodotti
all'impronta con microfoni ed oggetti vari. La sua espressione era quella di
un santone, davvero in possesso di qualche misteriosa verità. Era quasi
inevitabile che si scatenasse una certa empatia tra lui ed il suo pubblico.
[32]Non
che la riconoscibilità del linguaggio sia un carattere che attribuisco
all'estetica attuale: qui ci si limita alla descrizione del brano, alla
lettura storica e sociologica.
[33]Lo
spettacolo fu ben recensito da Livio Aragona per Paese Sera, specificando la
dedica a Luciano Cilio.
[34]Alcune
parti dell'operina sono poi state trasferite nello spettacolo "Rotte di
Migrazione", rappresentato al Tetaro Rossini di Pesaro e al festival di
teatro contemporaneo di Polverigi. Altre sezioni di Evento
sono state eseguite staccate, come ad esempio alla terza edizione della
rassegna "Ricerca Musicale e Mezzogiorno", organizzata ad Avellino
da Mario Cesa per l'Arci.
[35]Montagano
completa così la mia osservazione: "prendersi - sorprendersi in
controtempo".
[36]Nella
trascrizione del famoso concerto di Koln.
[37]Lavoravo
alle Variazioni sul Vento, in cui
uso un tema e un controsoggetto della Vent
qui Chante, Vent qui Danse -
Sonata di Fels.
[38]L'
"Omaggio a Sciarrino" si è tenuto il 12 novembre 1994 nella
Chiesa S. Maria delle Grazie di San Leucio. Ho avuto modo, in quella
occasione, di intervistare il compositore, che mi è parso ferocemente
inchiavardato sulle sue convinzioni, mostrando tuttavia una sorta di
superiore disponibilità al colloquio, non esente dal fiero cipiglio degli
aristocratici che consentono al villano di recarsi in pellegrinaggio nella
torre più alta del loro castello. Naturalmente solo per onorarli e
inchinarsi ai meriti acquisiti in battaglia...
[39]Il
disco (edizione ABICI srl, Napoli, fuori commercio) contiene un Concertante
per cinque fiati e orchestra d'archi (solisti Masi, Sisillo, Martini,
Panebianco, Marini; direttore Franco Caracciolo), un Concerto per orchestra (diretto da Luciano Rosada); e Pianefforte
'e notte per voce recitante e orchestra (voce di Stefano Sattaflores,
direttore Ugo Rapalo). Indovinate quale orchestra suona?
[40]Gorli
è uno dei pochi allievi di Donatoni ad interessarmi, soprattutto per un
breve e rarefatto Requiem; nel 1991, dopo averlo contattato, consigliai l'inserimento
della sua terza Novelletta, suonata
da Alexander Lonquich in un compact collettaneo pubblicato da Pagano.
Gorli, purtroppo, mandò come registrazione definitiva tutte e tre le
Novellette nell'esecuzione di
Maria Grazia Bellocchio.
[41]Si
tratta della generazione precedente: De Bellis, da noi già citato, nacque
nel 1907 e morì nell' '82; fu allievo di Daniele Napolitano a Napoli, e
scrisse soprattutto opere teatrali.
[42]Mario
Pilati (1903-1938) pur essendo nato a Napoli orbitò nell'area di Pizzetti
per aver insegnato a lungo a Milano, dove quest'ultimo era direttore.
Cominciò a scrivere intorno al 1921; la Suite
eseguita a Napoli è del 1923, anno in cui compose anche un Notturno
per orchestra. E' invece del 1926 la Sonata
per flauto e piano (recentemente incisa per Nuova Era da Mario Carbotta
e Roberto Cognazzo), che vinse il concorso Coolidge bandito
dall'Associazione Scarlatti. Fu eseguita anche al Conservatorio nel 1931, da
Marcel Moyse e Alfredo Casella. La scrittura di Pilati resta un po' di
maniera, ridondante nelle invenzioni melodiche e simmetrica in eccesso.
[43]Nella
stagione 1986-'87, per l'Accademia Musicale Napoletana, si era già eseguito
il Pròteo di Lombardi per quattro
pianoforti, voce di Joice, altra voce recitante e video-tape. Oltre a
Daniele Lombardi ci sono al pianoforte Stefano Fiuzzi, Riccardo Risaliti e
Giancarlo Simonacci. Dalle note del programma: "Ho realizzato
quest'opera senza incatenare Proteo, nella speranza di rivelazioni, ho
tentato invece di introdurmi nell'attimo della metamorfosi, metafora
dell'impercettibile trapasso tra coscienza del presente e ricordo, realtà e
immaginazione, così compenetrati nel proprio mondo interno".
[44]Ad
esempio nel '90, in collaborazione con l'Associazione Chopin, il Movimento
Artistico Napoletano proporrà nella sala Martucci del Conservatorio tre
serate dedicate ai compositori napoletani, dove appaiono un po' mescolati
per età e tendenze. Questi i nomi: Di Martino, Castaldo, Pagliuca, Napoli,
Sandelli, Mormile, Evangelista, Schiavo, A.Vitale, Calbi, Anastasi,
Panariello, Baccile, G. Vitale, Cece.
Devo
segnalare anche la Missa 'Deus Meus' di
Franco Nocerino, dell' '89, eseguita nel giugno del 1990 alla Sala Martucci
del Conservatorio, in uno dei saggi di composizione, ma soprattutto
accettata alla Grawemeyer Music Award Comitee di Louisville.
Altre
prime esecuzioni di quegli anni (tra il 1985 e il 1987), sporadiche rispetto
a quelle di Torino, Roma, Milano..., non
tutte cittadine, e per varie associazioni minori, sono quelle che riporto di
seguito: Miniature di Elisabetta Brusa; Aria
e Berceuse di Otello Calbi; Entrebois
e Solo di Gabriella Cecchi; Liebeslied
di Raffaele Cecconi; Tre pagine da
Amor Vacui di Ettore Contini; Concerto
per pianoforte solo di Aurelio Giordano; 3X2+2
di Vincenzo Liguori; Sonata di
Giuseppe Manzino; Dream I di Carlo
Alberto Neri; Divertimento di
Eraclio Sallustio; Le ragioni delle
Conchiglie di Sciarrino; Kleine
Musik di Gerardo Tristano; Poemetto
Lirico di Raffaele Sergio Venticinque. Altre esecuzioni, naturalmente,
potrebbero sfuggirmi.
E'
invece del 1988 il "I Festival Italiano di Ragtime", svoltosi
all'Auditorium del castel Sant' Elmo. Lo cito perché in programma figurano
tre concerti, di Marco Fumo (presenta anche una composizione di Mario Cesa, Moduli
Rag), Cesare Poggi e Antonio Ballista. Il 16 novembre del '90, allo
Studio Morra, Daniele Lombardi presenterà Palindromi,
Tredici Preludi, Quattro studi alla memoria di Chopin, Metamorfosi.
[45]Chi
ha dimestichezza con i libri di Carlos Castaneda, metà antropologo, metà
narratore, riconoscerà nei titoli de Il
cerchio del Tonal, le
suggestioni mescaliniche di quell'autore.
[46]E'
un brano scritto nel 1964 che gioca molto con le dinamiche, con valori e
tempi irregolari. Gli stratagemmi tecnici e strumentali richiamano molto
l'Hindemith del Ludus Tonalis
(Interludio IV), con qualche allusione schoenberghiana. Il Preludio
resta tuttavia confinato in ambito 'sperimentale'.
[47]Non
posso fare a meno di menzionare, almeno, una serata dedicata a Bastianelli e
Savinio, con l'intervento artistico di Davide Carnevale (Davic).
[48]Questa
intuizione culminerà nella manifestazione epocale "Napoli - Studi
aperti", con la partecipazione di quasi cinquanta artisti che apriranno
i loro atelier di pittura (è il 30 novembre 1987).
[49]
Vittorio aveva studiato pianoforte con Fels e per un breve periodo anche con
me.
[50]Antonello
Paliotti mi ha regalato copia della registrazione inedita: è un lavoro
bellissimo, che presenta rivisitazioni, sempre gradevolissime, di brani noti
o ignoti (Stravinskij, Gismonti, Satie, Paliotti, etc). Il titolo, forse non
indovinatissimo, è Ma tu, se venisse un signore e ti desse diecimila lire, lo faresti il
bagno? Si tratta di tredici tracce, interpolate con frasi celebri o
inedite di grandi uomini e donne della cultura internazionale (Grazia
Deledda: "Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi mandalo per
la strada dei monti; se lo trovi nella poesia per la seconda volta puniscilo
ancora. Se va per la terza volta, lascialo in pace, perché è un
poeta"). E con le previsioni dei moti ondosi scandite alla radio con
lentezza inesorabile (altro che Cage!).
[51]Di
quella rassegna, ospitata dal Teatro Diana tra Maggio e Giugno 1988, resta
un meraviglioso catalogo (riproduce anche alcune partiture). Questi gli
artisti coinvolti: Roberto Gatto, Rita Marcotulli, Massimo Bottini, Battista
Lena, Franco D'Andrea, Tino Tracanna, Attilio Zanchi, Gianni Cazzola, Luis
Agudo, Riccardo Bianchi, Marco Micheli, Christian Meyer, Maria Pia De Vito,
Enrico Pieranunzi, Enzo Pietropaoli, Fabrizio Sferra, Franco De Crescenzo,
Aldo Farias, Umberto Guarino, Daniele Sepe, Dario Franco, Giancarlo Perna,
Riccardo Zinna, Piero De Asmundis, Pietro Iodia, Enzo Nini, Pietro e Pino
Iodice, Pietro Condorelli, Ares Tavolazzi, Glauco Leandri, Marco Sannini,
Lello Panico, Pietro De Asmundis, Pippo Matino, Claudio Romano, Guglielmo
Guglielmi, Gianni D'Argenzio, Vittorio Pepe, Gino Izzo.
[52]In
quella stessa collana ("Nugae", edita da Pagano) erano pubblicati
brani di Claudio José Boncompagni (Presenze
per clarinetto e pianoforte), Antonello Cannavale (Fragments
per voce e pianoforte), Nicola Schiavo (Tema
e Variazione per flauto solo), Glauco Cataldo (Vestigia Flammae, per pianoforte), Pietro Cece (Insomnia,
per percussioni), Alessandro Abbate (Preludio
per pianoforte), e naturalmente miei (Variazioni
sul Vento per pianoforte; V.I.T.R.I.O.L.U.M.,
per pianoforte). Ben presto, tuttavia, appena mi resi conto di non avere
alcuna reale possibilità di indirizzo, abbandonai la direzione di questa e
di altre collane e smisi di collaborare con quell'editore.
[53]Come
è noto, ciascun accordo di quarta di tre suoni può 'risolvere' almeno in
tre modi diversi. Altre caratteristiche interessanti, reperibili peraltro in
qualsiasi manuale, fanno sì che essi, pur essendo meno dissonanti, se usati
in successione mantengano
meglio la sospensione armonica. Quando invece vengono 'risolti' (visto che
comunque è possibile ricondurli entro un'area' armonica), vanno a finire su
accordi che conservano una certa apertura tra le voci. Anche Schoenberg, pur
assegnando la stessa funzione ad accordi che potremmo definire convenzionali
(triadi aumentate, settime diminuite in successione, etc.) riconosce alle
quarte il carattere di "armonia vagante".
[54]"Progetto
Flegreo" si è costituita nel marzo del '93 e da allora opera con
grande efficacia per la valorizzazione culturale, territoriale ed ecologica
della zona flegrea.
[55]La
manifestazione fu voluta dalle Sovrintendenze e dal "Mattino", che
però tacque o fu impreciso su molte delle manifestazioni.
[56]Le
'apparizioni' erano realizzate da Pina Testa, Carla Savastano, Marialuisa
Camaioni e Rossella Pollice. Fanina e Fels riproporranno con successo, il 16
aprile del '94, e sempre per "Progetto Flegreo", lo spettacolo
"Satie Opera" che aveva avuto la prima assoluta al Café Einstein
di Berlino.
[57]Fels
è un ottimo trascrittore, tanto da essere contattato più volte dal
musicologo Artuh Schanz. In catalogo ha, tra l'altro: da Bach, l'ultimo
contrappunto dall' Arte della fuga,
naturalmente completato (1974); il Preludio-corale BWV 742 (1973); e inoltre: BourrèeBWV 1002 (1973); Fantasia
cromatica e fuga BWV 903 (1974); Preludio
e fuga BWV 549 (1984); Passacaglia
BWV 582 (1990); Sarabanda e double
BWV 1002 (1990); Toccata e fuga
BWV 565, in duplice versione, libera rielaborazione (1969-1987) e libera
trascrizione (1987). Da Haendel: Passacaglia
in Sol minore (1969). Da Rachmaninov le già citate trascrizioni usate in Fade
Out. Non so se Fels accetti o meno ancora una sua trascrizione da
Tschaikowsky: l'Andantino in
modo di canzone dalla Sinfonia n. 4 in fa minore.
[58]Il
28-1-'94; il 19 e 20 febbraio 1994.
[59]Il
termine è per metà inventato. Dalle note di presentazione: "Alkèmia
vuole portarti in un luogo particolare dove leggende e miti si mescolano ad
una realtà ancora più misteriosa e magica. In un luogo dove la natura ha
ammaliato i Cimmeri, i Greci, i Romani, le sibille, i poeti di tutti i
tempi. Là dove nell'aria ci sono ancora gli odori dello zolfo, e se si
guarda attentamente il mare, pare quasi scorgervi delle sirene. E' tra
queste sensazioni che nasce la suite, accompagnando lo spettatore attraverso
le tenebre degli inferi (terra), i misteri della magia dei miti e dei
responsi della Sibilla (aria), attraverso il fuoco, vulcanico e metaforico
(fuoco), fino a giungere alla fine di un percorso iniziatico, al mare ch'è
il nostro mare, il Mediterraneo (acqua)".
[60]
Enrico Grieco, come artista multimediale, si interessa al rapporto tra
immagine e suono, cercando di "improvvisare" con le immagini così
come un jazzista farebbe coi suoni. I primi esperimenti risalgono
al 1970, ma la storia è proseguita con diverse sperimentazioni:
"Katia" (1984-86, solo immagini), "Vesuvio Suite"
(1989-91, con chitarra e batteria), "Jam Session" (1992, con
tamburo e sculture), "Senza titolo" (1992, con chitarra e
percussioni), "Ploff visivo" (con suoni di Luc Ferrari),
"Incongruenze" (1993, con pianoforte). Più recentemente ha
utilizzato musica dei Pink Floyd e di Keith Jarret. Con "A suddd di
Paperone" è intervenuto con immagini miscelate a dialogo, musica,
movimento.
[61]Come
indica anche Harry Halbreich, Giacinto Scelsi aveva l'abitudine di
improvvisare al pianoforte le sue composizioni, chiedendo soltanto in un
secondo momento ad un copista-compositore di trascriverle per gli organici
da lui prescelti, e poi lavorandole a lungo con i singoli esecutori, come
testimonia anche il contrabbassista Stefano Scodanibbio ("Una
volta lui desiderava da me un suono rotondo, io passai mesi a scervellarmi
per dare un'idea, per dare corpo a questo suono rotondo, non lineare, ma
sferico, che quindi ritorna su se stesso"; inoltre, dice Halbreich, che
per Scelsi "ogni nota è un suono, e cioè non semplicemente un punto,
ma una sfera dotata di dimensione, profondità, volume"). Questa
abitudine fece in modo che alla sua morte diversi copisti si facessero
avanti dichiarando la paternità di opere. Il suo lavoro, tuttavia, oltre ad
essere stato riabilitato in sede mondiale con un autorevole intervento di
Zoltan Pesko sulla rivista dell'IRCAM, risulta essere di una tale unitarietà
poetica e formale da escludere un'improvvisa convergenza,
ai limiti del paranormale, tra compositori diversi.
[62]
Naturalmente partecipai senza percepire alcun compenso, e soggiornando
sull'isola a mie spese.
[63]Il
corso culminava in una deprecabile rassegna al Denza. Si trattava dei
"Concerti finali" dell'anno accademico 1990, per i corsi tenuti
dall'Associazione Musica Insieme (presidenza di Giovanna Peduto, direzione
artistica di Carmelo Columbro, coordinamento didattico di Enrico Massa).
Svolti nel teatro dell'Istituto Denza l'otto e il nove dicembre del '90,
ospitavano i seguenti compositori, in ordine di esecuzione: Pierfrancesco
Forlenza (Thunderball per pf.);
Luigi D'Arienzo (Schizzo per
clarinetto e clarinetto basso); Dario Candela (Endecaritmo,
per pf); Enzo Amato (Colors, per
chitarra); Pietro Piscitelli (Jubal,
per ensemble); Girolamo De Simone (Lamentatio
Doctoris Fausti, per pf.: il
mio brano scandalizzò i presenti perché niente affatto 'donatoniano');
Carlo Mormile (Specchi, per pf; A
Due per fl. e cl.); Giacomo Vitale (Puk,
per fl.).
[64]"Il
primo pezzo compiuto con Donatoni è Specchi.
E' stato nell' '89. Eravamo a Salerno con Nino Panariello ed altri, e
disse: 'ah, finalmente è venuta primavera'. Finalmente avevamo preso una
strada nostra. Così, quello è un mio pezzo chiave.".
[65]
Si veda, per la portata estetica del plagio, la sua validità e importanza
per la musica contemporanea, il mio saggio Estetiche
del plagio, pubblicato su KOnSEQUENZ
n1/1995
[66]"Ho
vissuto una vita artistica piuttosto varia: ho suonato musica popolare, ho
fatto l'attore, eccetera. Il primo atto ufficiale da compositore è
l'arrangiamento di un intero spettacolo fatto per un gruppo popolare. Ci
sono cose scritte per i filodrammatici, con Franco Pennasilico, e altro
ancora...".
[67]Anche
Carlo ritiene che questo brano sia particolarmente riuscito. In una
intervista, inedita, dice: "feci il ragtime in modo tradizionale.
Scritto senza nessuna pretesa, è
diventato uno dei miei pezzi più rappresentativi"
[68]Tutto
sommato, 'armonia' vuol dire 'connessione'. Se una connessione è stata
data, storicamente, anche dalla sequenza (finalizzata) di accordi, o
addirittura di semplici suoni, è poi prevalso il principio della
'verticalità' o, per dire meglio, della 'simultaneità' dei suoni. Ora, c'è
da chiedersi se qualsiasi
simultaneità (anche se una effettiva simultaneità può essere solo
simulata in esecuzioni umane) possa definirsi 'armonia', o se il termine non
si carichi di ulteriori significati. Dal punto di vista filosofico, per
armonia s'è intesa una combinazione di elementi diversi; combinazione, però,
'organica' e 'felice', ovvero portata a buon esito, ad un 'medesimo effetto
d'insieme' (le espressioni sono mutuate dal Lalande). Pertanto, può
parlarsi di armonia laddove nell'accordo siano presenti suoni simultanei che
contengano una qualità, i quali ad uno stadio minimo deve generare almeno
un 'medesimo' effetto. I singoli suoni di un accordo non
contengono questa
direzionalità, a meno che essi non vengano iscritti in un sistema di
memorie consolidato, come la modalità o la tonalità (e nel caso di musiche
con differenti suddivisioni dell'ottava assumano la direzionalità loro
propria). Più accordi possono acquisire certo una direzione, una relazione
tra diversi suoni o interconnessione reciproca creando relazioni strutturate
o organizzate fra di loro. Ma si può dire che quando i suoni simultanei
assumono 'qualsiasi' direzione,
seguendo 'qualunque'
organizzazione, essi esprimano un'armonia? Per un ben noto principio di
logica, se qualsiasi organizzazione è armonia, nessuna lo è davvero. In tutta evidenza, quindi, per semplificare
il discorso e non depistare il lettore, per 'armonia' intenderò la scienza
codificata degli accordi, che nel nostro sistema è tonale. Naturalmente
resta possibile riferirsi ad 'armonie' codificate anche in assenza del
riconoscimento di una specifica tonalità, come ad esempio nel caso delle
'armonie' di quarte sovrapposte. In conclusione, 'armonia' implicherà
connessione non nel senso più elementare di 'simultaneità' verticale, ma
in quello stratigrafato di 'predisposizione di senso' di ciascun suono, dove
'senso' esprime sempre un carattere di movimento, direzione.
[69]Da
alcune annotazioni di Massa: "Il pendolo è la misura del tempo, il
pozzo è il serbatoio della memoria. Il moto del pendolo definisce lo spazio
di un vissuto sonoro primo; il suo moto è accelerato verso il centro e
lento agli estremi, armonicamente e gestualmente speculare al centro
temporale, e ciò è graficamente evidente; il tempo-spazio iniziale
definito dal pendolo viene sezionato dalla memoria in cinque ricordi che,
rivissuti, subiscono l'inevitabile trasfigurazione".
[70]Una
trattazione più dettagliata sulle musiche del mondo può essere reperita in
un mio lungo articolo pubblicato su CDclassica, febbraio '95.
[71]Mi
riferisco ad un concerto per "Mediterraneomusica" tenuto l'anno
scorso a Ravello, e che ho avuto occasione di ascoltare e recensire. Si
andava dalle altezze arcaiche di un Epitaffio greco a Gesualdo Da Venosa
(naturalmente contaminato con un'Ave Maria Sarda del tredicesimo secolo e
una lettera ai feudatari del millesettecento), da Tacito al rap, dalle
manfredine agli sfottò berlusconiani. Grande efficacia scenica e
spettacolare.
[72]Tuttavia,
la sua Al Piano, raccolta di
ventinove pezzi (cinque Improvvisi, quattro Preludi,
sei Danze, quattordici Fogli
d'album), opera prevalentemente didattica, è ostentatamente
sperimentale, lontana anni luce dai lavori discografici. La tecnica esibita
è alquanto semplicistica, e quasi tutti i pezzi mi sembrano lavori un po'
casuali, non troppo meditati.
[73]E'
stato allievo, per il pianoforte, di Luigi Averna, ed ha partecipato alle
"vacanze musicali" dell' '81 con Vincenzo Vitale: è nota la mia
idiosincrasia per le modalità esecutive di quella scuola.
[74]Contra,
si legga l'utilissimo volume di Middleton Studiare
la Popular Music (Feltrinelli, 1994), e specialmente il capitolo in cui
si dimostra la necessità di allontanarsi da Adorno. Anch'io ho espresso
questa opportunità in diversi luoghi della mia produzione, e specialmente
nell'editoriale del primo numero di KOnSEQUENZ.
[75]Riferendomi
ad una conferenza tenuta per Dissonanzen da Arturo Martone,
davo il seguente resoconto: "
Martone si è ricondotto all'opposizione adorniana tra ordine e caos,
e al significato, all' 'invenzione
di senso', che è possibile conferire ad un'opera scritta in un momento
storico di alienazione.
Infatti, in Minima moralia, i
riferimenti all'entropia ed al caos sono continui, e nell'incompiuta
Teoria estetica
la trattazione dell' 'ideale del nero' trova spazi considerevoli.
Quindi in Adorno sembrano convivere due esigenze diverse; da un lato, la
consapevolezza che l'unico contenuto ancora possibile per l'arte è
nell'istante negativo (nel senso di una dialettica negativa): essa rifiuta
una definizione, è parzialmente svelata dalla sua legge di movimento, ed il
suo contenuto è identico alla sua legge formale. Ma per Adorno è anche
possibile un superamento della hegeliana morte dell'arte nel fatto che
nell'opera esiste una 'qualità',
che risiede nell'arte quando essa diventa spirito attraverso le sue
configurazioni. In questo
senso, allora, l'idea di
un'opera che sia tale soltanto
per ciò che di nuovo riesce a dire, non ci sembra riconducibile a
Schoenberg. Infatti, nel Manuale di
armonia campeggia la frase:
'Al suo più alto livello l'arte si occupa solo di riprodurre la natura
interiore'. La 'novità' resterebbe anche per l'inventore della dodecafonia
un semplice corollario: e ciò ci sembra importante per cercare altrove quel
'senso' in fondo auspicato da Martone e dai curatori di 'Dissonanzen'".
Questo
'senso' veniva poi riduttivamente riscoperto, come detto, in categorie
superate.
[76]Vitali
rifiutò sdegnosamente: troppo lontana la musica viva dalla rigidità
assiomatica dei neoviennesi.
[77]Con
meraviglia, leggendo il programma, scopro che la rassegna è curata
"(...) con la partecipazione di Girolamo De Simone". Per la verità
io mi ero limitato a rispondere all'invito per una conferenza, e a fornire
dati e nomi di autori agli organizzatori, senza poi saperne più nulla per
mesi. Ho trovato molto scorretto anche un trafiletto pubblicato sul
quotidiano locale che parla dei musicisti coinvolti nel progetto come dei
"giovani compositori che fanno capo a ...". Riecco apparire il
luogo comune dell'età (hanno partecipato anche musicisti di sessant'anni),
e la simulazione di un'appartenenza inimmaginabile: ci sono artisti che
lottano e pagano amaramente pur di non figurare sotto alcuna bandiera.
[78]Federico
è nato a Genova nel '61, anche se opera a Napoli da parecchio tempo. E'
stato fondamentale, per la sua formazione, l'incontro con Mengelberg. Ha
fondato "L'Ottetto", gruppo di improvvisazione, e
"Contrarco", ensemble specializzato in musica contemporanea. Ha
scritto molto per il teatro.
[79]Mi
pare evidente ed acquisito che l'aspetto sociologico e politico non debba più
essere mescolato con il giudizio di valore estetico.
[80]Quello
della vesuwave è un problema complesso; vorrei però almeno segnalare che
qualora se ne scrivesse la storia non sarebbe possibile
ignorare la densissima attività (sociale ed estetica) dei gruppi
operai.