L'ALTRA AVANGUARDIA
PICCOLA STORIA DELLA MUSICA CONTEMPORANEA A NAPOLI

Girolamo De Simone

Questo testo è stato pubblicato nel numero 1/96 di Konsequenz,
Napoli 1996, Edizioni Scientifiche Italiane

 

Prologo

Questo non è un lavoro sui "giovani" compositori napoletani. Nella storia recente della città l'etichetta più fastidiosa è stata proprio quella della cosiddetta giovane età dei musicisti da promuovere. E non è mancata l'esterofilia, visto che per molti è stato necessario emigrare per trionfare, e solo più tardi poter tornare. Qualcun altro, poi, ha scelto soluzioni definitive e prive d'esito. La morte è l'emigrazione più radicale.

Ancora etichette sono state affibbiate a musicisti, attori o registi che avrebbero dovuto svolgere il ruolo di 'promoter' della città. Una lucida volontà politica, formatasi attorno a un tavolo ad una precisa ora, deliberò che il tale o il talaltro potesse 'funzionare' bene in un determinato ruolo. La politica ha sempre discriminato, ed è stato divertente, negli anni, registrare e riconoscere sui giornali o nei tiggì regionali i volti e i nomi sponsorizzati dalle varie amministrazioni. Qui molti sanno, e non dimenticano, aldilà del generale clima assolutorio del dopotangentopoli.

I "giovani compositori", nel frattempo, invecchiavano a cavallo di quelle amministrazioni, senza sbocciare o permutarsi in artisti affermati economicamente e culturalmente all'interno del circuito nazionale. Il fallimento della Grande Promessa Partenopea ha provocato deflagrazioni, assorbimenti, tacitazioni, ri/velazioni: e gli artisti hanno cominciato a defluire lentamente in crepe, intercapedini, interstizi, ad attecchire come muffe, a frantumare il selciato come radici d'alberi possenti, ad abitare scantinati e colorare appartamenti d'affitto, a riempire con cori cappelle sconsacrate, o a far musica nelle stamberghe dei vicoli di Santa Teresella, su pavimenti traballanti sopravvissuti a terremoti e a disastrosi progetti urbanistici (chi ricorda l'aberrante Neonapoli?).

Una Napoli sotterranea c'è stata davvero, una città d'artisti importantissimi anche se ignoti, o noti ovunque tranne che all'interno delle mura. Concerti per pochi intimi, idee meravigliose naufragate per l'indifferenza dei politici (e vabbé, la cosa non stupisce più nessuno, ormai) ma soprattutto per la tendenziosità e la presunzione, ormai insopportabile, degli organi di stampa, di chi avrebbe dovuto informare e, in tal modo, formare tutta la collettività.

Dentro e fuori di qui

Per tutte queste ragioni mi pare necessario scrivere la storia vera della città sonora: una città ineffabile e invisibile (come in fin dei conti resta ogni suono). La storia sarà parziale, perché andare per rizomi non è facile, la terra è molta, e grotte di tufo s'aprono inaspettate sotto i piedi e dentro ai cortili. Inoltre, questa è una storia tracciata da un musicista che di tanto in tanto si occupò di critica; ma proprio per questo è ancora più sentita e vera. Del resto non conosco critici imparziali.

La visibilità che intendo rappresentare è quella che ho registrato conoscendo di persona molti compositori, non tutti amici o compagni di percorso. Ed è un quadro di quello che sulla scena della musica non di repertorio è passato per la città: dunque non soltanto opere di napoletani, qui o fuori di qui, ma anche eventi che la storia napoletana hanno contribuito a creare, a movimentare. E, soprattutto, uno spaccato sulla deformazione delle notizie da parte della stampa che certo incide sulla qualità della proposta musicale.

Pertanto, se riuscirò nell'intento, il testo esploderà e imploderà di continuo, in una pluralità di riferimenti intrecciati. Vettori di senso non privi di documentazione: si troverà alla fine una ampia mappatura densa di avvenimenti e notizie: una ricostruzione del mio personale archivio, che diventa da questo momento pubblico.

L'incipit

La storia, per quanto mi riguarda, comincia il 20 aprile del 1979, ad opera di un originale pianista-compositore. I motivi per i quali scelgo proprio questa data e questa figura appariranno chiari più avanti, ma anticipo che sono sia di natura storica che estetica.  Eugenio Fels nasce a Torino, ma si trasferisce ben presto a Napoli, dove studia con una straordinaria didatta, Antonietta Webb-James, allieva di Beniamino Cesi. [1]  Amici comuni   presentano il giovane concertista a Luciano Cilio, una delle personalità emergenti dello stagnante mondo musicale cittadino. Luciano ha già pubblicato un disco che non esiterei oggi a definire mitico, perché del mito conserva impalpabilità (oggi è un oggetto irreperibile) ed efficacia (continua ad essere evocato da critici e musicisti di aree differenti); ma di questo dirò più avanti.

Eugenio 'commissiona' a Luciano un pezzo per pianoforte, quello che poi diventerà la IV Sonata. Il compositore del Vomero vecchio si mette al lavoro, ma segue un percorso particolare: fortemente impressionato dall'interpretazione di Eugenio del Notturno op. postuma di Chopin in do diesis minore, comincia ad improvvisare nella stessa tonalità per definire il materiale del brano. La radice romantica della IV Sonata , così, non è affatto casuale: Luciano, in un'intervista concessa a Gino Castaldo, dirà che in effetti i numeri d'opus precedenti, le sonate numero uno, due e tre non erano mai esistite, trattandosi di semplici esperimenti. Oggi posso affermare, dopo le ricerche svolte, che la derivazione romantica è diretta. Eugenio ha riconosciuto su un nastro fortunosamente ritrovato,  una  improvvisazione di Cilio al pianoforte: si tratta evidentemente, vista la tonalità, di una delle versioni intermedie, il che ci consente di affermare con sicurezza che il materiale iniziale era fortemente tonale, salvo poi disgregarsi pian piano seguendo le operazioni di ripulitura, ricerca di essenzialità e cancellazione progressiva che caratterizzavano il lavoro compositivo di Luciano. La disgregazione, la svaporizzazione delle armonie si spinge tanto avanti da sorprendere e profondamente turbare Eugenio, che nel ricevere la Sonata  non ritrova le improvvisazioni che conosceva.

 

Il pezzo che non c'è

Fels è ad otto giorni dal suo concerto, organizzato ad Ascoli Piceno da Luigi Petrucci; comprende, come è sua prassi abituale, pezzi di repertorio e brani più rari o contemporanei. Suonerà nella prima parte opere di Chopin, Schumann e Liszt e nella seconda tre brani di Debussy, sette preludi dall'op. 11 di Skryabin (1,2,6,8,10, 13, 14), e, di Cilio, Due pezzi per pianoforte in prima esecuzione assoluta.

Il programma era stato stilato in febbraio,  poco dopo aver conosciuto il compositore, e col consueto anticipo che caratterizza le stantie programmazioni classiche. Ma nonostante tutte le sollecitazioni, la consegna delle parti avviene soltanto il 20 aprile; Eugenio sarà costretto ad una variazione, ed interpreterà una funambolica versione pianistica del suo concerto per pianoforte, la Fantasia da concerto  (talvolta indicata anche come Adagio e Allegro da concerto).  Ma ora i due pezzi di Luciano sono in buone mani: si tratta del Terzo Quadro tratto dal disco[2], che tanto aveva entusiasmato il pianista al primo ascolto, e della IV Sonata.  Nel '79 Fels eseguirà Cilio per sei volte, dando inizio ad una collaborazione interrotta soltanto dalla morte del compositore, nell' '83. I brani verranno suonati, tra l'altro, al Teatro in Trastevere a Roma, all'Arena Civica e alla Sala Verdi di Milano, e, cosa importantissima, alla Galleria di Lucio Amelio. Dopo tanti anni, ed il breve film-documentario di Martone sulla figura del gallerista, possiamo definire significativo e tellurico l'incontro Cilio/Amelio, produttivo di reazioni a catena per entrambi. Inoltre, come già accennato, una esecuzione radiofonica in diretta verrà ospitata dal programma Rai di Castaldo.

E' andata, si sta finalmente scrivendo una nuova pagina per la storia della musica contemporanea a Napoli.

 

Ma quanto grande?

Quanto è 'grande', in senso sostanziale, la vicenda che comincia proprio nel '79? E' importante precisarlo subito, perché qui nessuno ha intenti nostalgici: degli eventi narrati si mantengono impressioni di tutti i tipi, ma non certo di bonaria e conciliata memoria. Anche a Napoli, ma soprattutto  a Napoli, c'era qualcuno che aveva intuito gli stilemi della musica del futuro, e fin dai lontani anni settanta. In un  articolo molto tormentato (ancora oggi  il coinvolgimento affettivo è grande), capovolgevo il titolo dell'unico disco di Luciano, stigmatizzando tutto il suo percorso musicale. I Dialoghi dal futuro non uscirono mai dal suo verticalino, o dalla chitarra: non ne ebbe il tempo. Ma la sua esigua produzione parla ancora oggi, e può certamente consegnare lezioni al futuro.

Cilio iniziò il suo percorso studiando architettura, e chiunque abbia frequentato quella facoltà impara presto a fare i conti con molti dei nonsense di questa città.  Da subito è centro d'interesse per molti musicisti di derivazione "leggera" (le  virgolette, quando si parla di generi, non sono casuali, perché non credo a partizioni di valore o di opportunità), si occupa di scenografia e di teatro. Una sua foto, opera di Fabio Donato, lo ritrae in un momento scenico di grande effetto ed impatto. Partecipa al Prometeo legato  da Eschilo, scrivendo le musiche di scena, rappresentato a Firenze nel '72, e poi sempre citato nei suoi curriculum. Incrocia così la sua attività a quella del teatroesse di Napoli. In quel periodo incontra Alan Sorrenti, che sta per pubblicare Aria, un disco straordinario il cui ascolto apre spiragli anche sulla musica del musicista architetto.

 

La nuova aria d'Alan Sorrenti

Avendo nelle orecchie l'ultima produzione di Sorrenti si sarebbe inizialmente tentati di chiedersi cosa mai c'entra la sua vicenda con quella di Luciano. E tuttavia il collegamento, messo in luce da un critico jazz, esiste, anche se  dissento dal far pendere la bilancia dalla parte dell'autore di Aria. Questo disco, ora riversato su CD sempre per la EMI (codice 724347947124), si compone di soli quattro pezzi, cantati e strumentali, ma con una sproporzione notevole di durata tra la titletrack e le altre tracce. Vorrei incontrarti, La mia mente, Un fiume tranquillo,  mi paiono ugualmente significative, ma quasi emanazioni di Aria. Quindi, dal punto di vista della modernità, funzionano senz'altro meglio, perché più immediate e concentrate. Da quello dello sperimentalismo, invece, e cioè delle tecniche messe in mostra, Aria  resta insuperata. Il personale del disco consiste nelle percussioni di Antonio Esposito, nel basso e chitarra solistica classica di Vittorio Nazzaro, nell'hammond (ma anche sint, fisarmonica, mellotron e harp) di Albert Prince. Altri collaboratori sono Tony Bonfils (basso con arco), Jean Costa (trombone) e Andrè Lajdli (tromba). In Aria, inoltre, c'è anche Jean Luc Ponty[3], il che dovrebbe già indicare quale seme fosse iniettato nella musica di Sorrenti e di Cilio.  L'incipit, dunque, è la lunga favola, il grande esercizio vocale di Sorrenti, condotto tra falsetto, esperimenti, uso strumentale della voce, ed effetti pitch che arricchiscono di infratoni la linea melodica. Si ascolti, ad esempio, la serie di glissati che si realizza intorno ai 13'30", a chiusura di uno degli episodi e,  ai 15'20" (dopo la "penetrazione virtuale"), il gioco di sovrapposizione con la chitarra elettrica. L'organo hammond viene utilizzato sovente per creare zone di tranquillità quasi estatica. La voce si spegne e restano solo hammond, batteria, piccoli suoni in lontananza. Verso i 17'57" comincia l'ultimo episodio, con un uso di voce e  percussioni che ricorda quello quasi sciamanico del tremolo. Il brano si chiude con le parole "io ti sto perdendo".  C'è ancora Oriente nel pezzo seguente, con l'incipit "Vorrei incontrarti sulle strade dell'India". Molto più melodico,  il parlato si fa  chiaro, l'arrangiamento semplice, ma con modulazioni  ardite e belle. La ripresa è un po' alla Morricone, con un fischio isolato che si ostina per qualche secondo in chiusura. Voci femminili sovrapposte, forse per troppo poco, aprono il terzo brano, che mi pare importante perché è il più 'napoletano', soprattutto per la linea melodica, che si fa apertamente citazionistica di luoghi comuni della scuola classica partenopea (ma la cosa funziona benissimo, se lo fa Stravinskij non vedo perché non potrebbero farlo gli indigeni). Pochi accenni di tromba jazz contrappuntano la voce e il basso nel finale.

La chiave di volta di questo brano mi pare essere la fascinosa discesa di semitono lungo, che dà un senso di spiazzamento e di fascinoso mistero. Glissati finali, una chiusa da gran maestro, sono realizzati per ritrovarsi in ambito atonale, ed il bello è che ci si arriva attraverso il jazz: non è il free, quanto piuttosto l'intellettualismo bianco che sconfina nell'eleganza. Suoni d'ambiente, un organo da cattedrale, ed effetti di ance orientali riempiono l'ultimo minuto di tutto il disco. Un minuto che da solo basterebbe ad iscrivere Sorrenti tra "quelli che guardavano lontano" già nel '72, e che anche dal retrivo punto di vista degli storici del mero avanguardismo rende il musicista inattaccabile[4].

 

Shawn Phillips, l'uomo chitarra

In quegli anni, Cilio dovette conoscere anche Shawn Phillips, lo straordinario chitarrista texano trasferitosi nel '67 a Positano dove creerà un attrezzatissimo studio di registrazione. Nato a Fort Wort nel '44, dopo collaborazioni/suggestioni  con Hardin, Donovan e Shankar (imparerà a suonare il sitar, altro dato in comune con Luciano) produce diversi album interessanti assieme a Paul Buckmaster. Oltre all'incidenza sul territorio dovuta all'esistenza di quello studio, Shawn si esibisce spesso nel napoletano, ad esempio a Pianura, al teatro Tenda (per l'Hard Rock Cafè e Radio Spazio Uno), dimostrando una abilità sconcertante nell'uso delle differenti chitarre. Con un pedale comanda un sintetizzatore, riuscendo a mescolare vena melodica e impasto armonico.

Nel 1971 Luciano, ben prima dell'uscita del suo unico disco, registra nello studio di Shawn quattro brani per sitar ed altri strumenti tradizionali, conservandoli su bobina. Nell' '83, quando Cilio scompare, questa risultava smarrita e solo di recente, su mia congettura, la si ritrova in possesso della figlia di Cesarini. Ma, al momento dell'ascolto, grandissima delusione: una mano incauta ha sovrainciso canzonette popolari napoletane. Una disdetta, perché avremmo potuto conoscere i brani di un periodo estremamente creativo, e  farci un'idea della vera formazione del compositore.

 

Dialoghi del presente

Nel '77, dopo una serie di incredibili peripezie, Cilio riesce a pubblicare il suo disco con la Emi[5].

L'incipit del primo quadro, "Della conoscenza", è affidato alla chitarra, che si muove intorno ad accordi tematizzati, con melanconia, una certa incertezza, dolcissima, nel procedere; respiri molto vasti. Un piccolo glissato conduce ad una prima variazione, con ingresso del pianoforte e del violoncello: ecco i tre strumenti privilegiati dal compositore partenopeo. Dopo pochi minuti, ecco che con la chitarra che fa da sfondo, gli archi tessono sovrapposizioni magiche, anche infratoniche. Dopo una esposizione, le voci femminili si sostituiscono agli archi. Qui c'è una prima osservazione da fare: il senso timbrico vocale-strumentale nell'ingresso del violoncello e in quello della voce si smarrisce! Luciano gioca sull'ambiguità timbrica di entrambi per generare un moto estraniante, che si definisce soltanto alla fine dell'episodio, con il repentino smorzamento vocale, alla fine di un crescendo. L'effetto è straordinario, perché il dialogo tende a generare una continuità/discontinuità tra maschile e femminile, giocando sull'inversione dei riferimenti. La tenerezza è del violoncello, l'implacabilità, dovuta al fatto stesso della ripetizione, è della voce femminile. L'intreccio è comunque doloroso.

Ma si tratta di un episodio, ecco che riprende la narrazione con la chitarra, e conduce ad un altro scorcio, solo pianistico[6]. E' uno sfogo liberatorio, parzialmente improvvisato (non che debba esserlo necessariamente, ma ne ha la freschezza e l'ariosità). E' bella l'esecuzione, con quel basso che anticipa spesso il tema della destra (come segnarlo?), ma un po' brusca e semplicistica la conclusione.

 

Entriamo nel bosco

Appena, ascoltando oggi il disco, si sta pensando di aver inquadrato il genere (ma certo, è new age!), ci si ritrova nel miscuglio etnico, indiano, percussivo, misterico, del secondo quadro. E' l'oscurità che avanza, con le percussioni che vengono condotte liberamente da Luciano, e che sembrano cadere in modo quasi casuale, eppure magicamente al posto giusto. Su queste i fiati, che procedono lentamente, per suoni tenuti, respirati sovente fino in fondo, per fasce sovrapposte e talora su altezze ripetute. Ed ecco, dopo molti ascolti, si riesce a individuare il bandolo della matassa: piccoli incisi melodici tradizionali (della nostra tradizione melodica) sono stati allargati ('aumentati' è il termine tecnico), affidati a diverse linee per creare una polifonia reale, che però è in grado di rimandare, alludere ad un ricordo pregresso, ancestrale, arcaico.

E' Luciano stesso che suona il terzo quadro: che differenza dalle sue improvvisazioni, in cui il pedale andava a farsi benedire! si tratta di un breve pezzo per pianoforte, quello di cui s'è già parlato. Sarebbe ora troppo facile trovare assonanze con autori che hanno grande successo: i pianisti della Windham Hill, i preziosismi pianistici di Arvo Part, le peregrinazioni di Kostia e via di seguito. Sta di fatto che l' atmosfera di questo quadretto aforistico non è dovuta soltanto alle note. Non è un atto semplicemente compositivo. O meglio, l'atto compositivo risiede in "quella" esecuzione. Questa caratteristica, che accomuna molti grandi strumentisti compositori, ha fatto a torto parlare di limitata capacità di scrittura. E invece manifesta la grandezza dell'interprete, che allude cose grandi anche con poche note distribuite sul pentagramma. Ma questo è un altro discorso.

 

Dell'universo assente

E' il titolo del quarto ed ultimo quadro, cui segue un Interludio. E' quello più ardito, perché la melodia va disintegrandosi ancor più, e in sottofondo procede un ritmo ripetuto ossessivamente. Poi l'ingresso di un arco, e la sovrapposizione tra tutti, in attesa di uno spiraglio. Ogni tanto c'è l'emissione di un suono che sembra dover condurre in qualche luogo, e invece niente, si torna alla reiterazione. Peppino Romito dà un doppio colpo, una sorta di segnale che lascia sole le percussioni, sempre più rarefatte e infine svanenti, davvero assenti.

L'Interludio riprende le atmosfere più rilassate dell'incipit, con tanto oriente e molta napoletanità (mandola). Ma chi pensasse di trovare la pace si sbaglia, perché lo sviluppo è affidato ancora ai fiati, con l'ostinato della chitarra che richiama le atmosfere del quarto quadro, e gli archi pronti a creare sovrapposizioni cromatiche dissonanti ma "risolvibili", per così dire (il richiamo è al primo quadro). Anche l'Interludio ripropone nel suo piccolo la struttura triadica, e si conclude così com'era iniziato.

Un'opera di grande espressività, di grande "atmosfera".

 

La magia del missaggio

L'atmosfera viene sempre tirata in ballo quando si descrive la musica di Luciano. Ma, tenendo conto che lui non scriveva nulla, se non appunti "visivi", e che preferiva lavorare con l'interprete tirandogli fuori quello che voleva, descrivendogli minutamente il tipo di "suono" desiderato, l'emissione, il timbro, le agogiche, le durate, eccetera... bisognerà pure riconoscere che l'atmosfera da lui magicamente creata sia nel disco che nelle performance e nelle esecuzioni dal vivo doveva corrispondere ad una straordinaria ed onirica lucidità mentale. Si tratta di una dicotomia capace di generare opere. A forme indefinite corrisponde un'intuizione certa, ed alla fine non si sa se sia il marmo che va via da solo o esista una tecnica di supporto che produce la statua. Ma aldilà di teorizzazioni estetiche, certo è che alla capacità di immaginare con chiarezza l'impasto conclusivo, faceva pendant la capacità tecnica di rappresentare ad ogni esecutore la sua parte, e di metterlo in condizione di riprodurla. Questa lettura mi pare supportata dal confronto tra un missaggio differente (ma non escludo che esistano anche differenze di registrazione in alcuni punti) del primo quadro, fortunosamente ritrovato, che dura circa un minuto in più, a causa della ripetizione dell'incipit con l'ingresso del pianoforte, e che strabilia perché mostra con chiarezza la struttura del brano. Contemporaneamente ci apre gli occhi sulla tecnica di missaggio: senza nulla togliere agli esecutori, l'impasto che rende incredibile il disco è opera del geniale lavoro al mix. 

 

Mediterraneo? No grazie.

Un luogo comune da sfatare, e francamente un po' ripetitivo, è quello della mediterraneità di questa musica (l'immagine  del mare, delle culture differenziate, della culla della civiltà mescolata). Inizialmente carino come tutte le invenzioni estetiche, ci è infine venuto a noia. Il motivo è quello stesso che dovrebbe spingere l'intera civiltà musicale napoletana a guardare oltre le mura, o, come diceva Luciano, a farsi europea in senso sostanziale, senza verbosità eccessive: quel che in parte e solo oggi la giunta di sinistra sta realizzando, con l'immagine,           ma     ancora     poco    companatico.      L'amicizia di Luciano con Gianni Cesarini[7], il critico militante del Mattino, gli aprì la possibilità di esprimere direttamente idee su questioni fondamentali, come appunto lo scontro, allora sentito molto fortemente, tra la musica colta d'avanguardia (quella che oggi si può definire, semplificando, "sperimentale") e quella popolare, nelle fattispecie leggera e folk. Si può intuire chiaramente come i due punti di riferimento non fossero altri che Pino Daniele e Roberto De Simone, ed è curioso che l'asse si sia spostato ancora di più, e che oggi la querelle sia tra Daniele e Arbore. A quell'epoca, Luciano se la prese fortemente anche con la musica etnica, quando questa assunse colori e connotati di mera spettacolarità e grande (quindi sospetto, secondo le categorie dell'avanguardia colta) successo di pubblico.

Fatto sta che adottando lo stereotipo del mediterraneo, s'è troppo spesso interpretata l'opera dei napoletani come oscillante tra due opposti: da un lato la solarità (pizza, taralli e mandolini) come spinta propulsiva; dall'altro l'oscurità: la protesta ed il lamento come deterrente allo sviluppo (traffico, camorra, arte d'arrangiarsi, perché basta che ci sta 'o mare). La napoletanità è stata troppo spesso riferita ad un andamento binario , ad una lettura orizzontale.  E' una fortuna che la musica penetri negli interstizi e produca vertigini.

 

Un'onda, molte onde

Partendo dalla musica si potrebbe restituire alla città una visibilità prospettica.  O andare  oltre la semplice acquisizione (foucaultiana/delueziana/guattariana...) della prospettiva, perché la storia si svolge seguendo percorsi infinitesimali, d'impervio racconto. Basta far propria la tecnica, certo più profonda, più empirica, meno sperimentabile, dei moti ondosi. Come descrivere un'onda? Eppure le tracce della metropoli col susseguirsi di movimenti successivi, le curve di particelle che ne aggregano vitalità e riposo, sembrano impresse dall'impeto frattale dell'acqua, o dalle sue blande peregrinazioni. Se devo spiegarmi la musica di Luciano (qualsiasi musica) pensando ad una opposizione luce/ombra allora non vedo cosa ci sia di difficile nell'interpretarla, nel cercarne una ragione. E invece la ricchezza di un'opera (qualunque opera), risiede nella capacità di intrecciare discorsi, alcuni visibili, altri sommersi,  di travolgere gli argini e le strutture che limitano, di sorprenderci con spruzzi e sberleffi inaspettati ed inspiegabili, che evidentemente rimandano ad altro [8]. Lyotard ha parlato del gioco del discorso, Levinas delle strategie del rinvio, ma aldilà degli strati, degli andamenti carsici, che possono costituire il metodo, un senso personale va pure rivalutato.

La comprensione di un autore non può limitarsi all'analisi, all'ascolto guidato, alla ricostruzione documentale. C'è qualcosa di più che deve parlare, non necessariamente accendersi alla disponibilità di ognuno, non necessariamente riscoprirsi a portata di mano, dietro l'angolo. Come se il silenzio potesse talora conquistarsi un'eloquenza in grado di muovere e sfidare le intelligenze.

 

I suoni sconsacrati

A parte le esecuzioni pianistiche sempre più numerose di Eugenio Fels, la prima importante rassegna napoletana affidata alla direzione artistica di Cilio, col patrocinio del Comune e degli assessorati allo Spettacolo e ai Problemi della gioventù, fu "Aspetti della musica a Napoli", tenuta nella Chiesa sconsacrata di Donnaregina Vecchia, il 24 maggio del 1980. Il bravissimo Emery Cardas, al violoncello, ed Eugenio al pianoforte presentano la Suiff, incorniciata (tra l'altro) dalla Suite dai tempi d'Holberg e dalla Sonata op. 36 in la minore di Grieg. Il brano è circolare, vale a dire che ha una possibilità di ripetibilità infinita, a doppio anello per la presenza dei due strumentisti. Parlandone, ed analizzandolo con accuratezza ne Le parole sospese (ESI, 1988), ne segnalai la maggiore rarefazione ed essenzialità rispetto a composizioni precedenti. Si ricordi, inoltre,  che della IV Sonata esisterono molteplici versioni, sempre più tagliate, ripulite, raggelanti[9]. L'aspetto che oggi mi pare importante ricordare è quell'aporia tra legato e portato semipercussivo della frasetta affidata al pianoforte. In realtà la ricerca era già timbrica, già indirizzata all'utopica melodia di timbri, contraddizione in termini ma reale possibilità della mente e del suono. In Suiff, considerando la strada ad imbuto che Luciano aveva imboccato, questa predilezione per la timbrica mi pare di evidenza palmare.

Sempre nell' '80, a cura di Luciano si tenne il "Long Concert", che però poco aveva a che fare con la musica contemporanea se non per il coinvolgimento degli stessi interpreti: oltre ad Eugenio ed Emery, Pavel Cardas al violino, Antonino Averna al pianoforte, e l'Ensemble "Nuova Musica da Camera" con il flauto di Luciano Carotenuto (è primo esecutore di molte composizioni flautistiche, come si vedrà) e Daniele Sepe (ancora semplice flautista...), il violino di Ivano Caiazza (si è poi dedicato con successo alla direzione), la viola di Patrick Cardas e il contrabasso di Paolo De Simone.

 

La ricerca

Ed eccoci arrivati ad uno dei nodi fondamentali. Cosa rappresentava la ricerca in quegli anni? E' certo cosa difficile da raccontare, visto che la battaglia per il nuovo, di cui parla anche Bortolotto in un suo libro, col tempo era diventata estenuante per tutti, critici, pubblico, esecutori e compositori compresi (ciascuno reggeva soltanto i propri pezzi). La verità è che i luoghi comuni della sperimentazione, come oggi è noto a tutti meno che ai depositari eburnei di quel vangelo, avevano azzerato la necessità di senso, dove la parola ha proprio il connotato di 'direzione'. Si era smarrito il percorso, un percorso qualunque. Vigeva soltanto la noia, l'elite, le rigide e frigide categorie adorniane. L'accademia, che forse ha la vera colpa della morte di Luciano, esercitò, come in altri campi in Italia, un effetto devastante. Il luogo della cultura, semplicemente, si mosse dalla sua sede naturale, istituzionale, e lo spostamento finì col propiziare percorsi individuali, gruppi ideologici non allineati, alternativi, talvolta 'anarchici'. Chi restò inchiodato alla sedia dovette invece consolidare metodi e strategie 'scientifiche', certo in grado di soffocare i già deboli afflati culturali. Gli effetti di quel processo, allora appena in vitro, sono oggi sotto gli occhi di tutti, con la tangentopoli universitaria appena scoppiata, con le dimissioni eclatanti di chi la cultura vuole farla davvero, e per riuscirci è costretto ad andarsene. Tutto ciò era ben noto a Luciano, che in un'intervista rilasciata a Lucio Seneca, per Paese Sera (22 ottobre 1979), lanciava una accusa precisa e dettagliata: "Il rischio, da parte dei musicisti, è quello di impegnarsi a capofitto nella ricerca senza una coscienza storica". E affondava la lama: "a questo punto, la ricerca diventa gratuita, pretestuosa (...). E' un'avanguardia accademica, di maniera, che non svolge alcun ruolo storico ed è origine di confusioni e di ambiguità"[10].

 

Una rassegna storica  

Se nel '79 questi erano i pensieri di Luciano, ecco svolgersi nell' '81 il più importante avvenimento legato alle esperienze contemporanee partenopee di quel decennio: la rassegna "Avanguardia e ricerca a Napoli negli anni '70". Il progetto, forse, è in una frase di Cilio stralciata dal programma: "la musica, al di là della costruzione di un 'oggetto sonoro', è in fondo proprio la volontà di materializzazione di un universo alternativo, un habitat 'altro da sé', dove la coscienza del tempo reale possa essere addirittura nullificata, di essa possa essere operata un'idea di trasmutazione, alterata dalle sue stesse compressioni/dilatazioni". Sarà necessario sottolineare l'aspetto orientale, quello filosofico dell'uscita da sé rivolta però ancora alla dimensione temporale, quello alchemico della trasmutazione, quello tecnico/musicale che individua l'espressione agogica nel respiro?

Fatto sta che i quattro compositori promotori (oltre a Luciano, Carmelo Columbro, Antonio De Santis e Renato Piemontese) si muovono con grande attenzione strategica, utilizzando una vera e propria struttura per l'organizzazione della quattro giorni (si va dal fotografo Fabio Donato, che in sostanza creerà l'immagine di Cilio, all'architetto Fabrizio Ciancaleoni, allo scenografo Mario Di Pace) e coinvolgendo Visca, l'assessore alla cultura di allora, e molti giornalisti, da Elio Cadelo a Gianni Cesarini e Giovanna Ferrara. Si avvalgono, inoltre, di uno strumento espositivo molto appropriato e ben studiato: un libretto che presenta la rassegna, con interviste ai compositori, fotografie, illustrazioni dei brani, esempi musicali e semiografici. Sarebbe stato bello riprodurre per intero la guida, ma naturalmente non è possibile. E tuttavia occorre dare un'idea della dimensione di quell'evento. Di Luciano si suoneranno la Sonata n. 4, il Trio per strumenti a fiato[11], la Suiff  ed il Terzo Quadro da 'Dialoghi del presente'. Compaiono anche Due studi  per soprano e pianoforte di cui si dirà più avanti[12]. Di Carmelo Columbro i dieci studi per voce e percussione Ombre, il brano Egocentrismo per contrabbasso solo, un Vocalizzo del '71, Introspezione, del '74, per flauto, fagotto e pianoforte, Assolvenze per flauto solo, e Appunti, ancora per contrabbasso solo. Di Antonio De Santis, che all'epoca aveva già incontrato Giuseppe di Giugno e costituito a Napoli il gruppo di Acustica ed Elettronica in seno all'Istituto di Fisica Sperimentale dell'Università, allora direttore scientifico dell'IRCAM, verrà eseguita una selezione di composizioni di musica elettronica: Fast 1-2 (1977); T-Bach (1978); Feedback (1972); Escalation (1978); Musica notturna (1970); Landscape (1975); Canone (1976); Seriale 1-2 (1973); Tre pezzi brevi (Finale dal 'Rondò dei gattini', Something in the night, Moresca, 1970); Sinfonico 1-2 (1979); Missione 13 (1973); Machine Code (1976). Di Renato Piemontese si suoneranno  il Commento alla Epigrafe per i Caduti di Marzabotto, scritto dopo il 1975 con evidenti motivazioni ricognitive, su liriche di Salvatore Quasimodo, per voce recitante, nastro magnetico, percussione; Methempsis (1975) per quattro percussionisti; Quattro Liriche di S. Quasimodo, del 1974, per soprano, clarinetto e pianoforte; Cronache del 1979 per tre fiati (clarinetto, tromba, fagotto); Hypobrikium 2° (1977) per flauto solo, Asse, del '78, per due clarinetti. Dal programma risulta anche l'esecuzione di Spazio Zero, ricerca per corde vocali e percussione, di Antonio Buonomo. E ci sarà l'apporto coreografico di Marianna Troisi con Indiscreto per Luciano, per tre danzatrici su musica di Cilio. Negli appunti coreografici, pubblicati nel librino, si legge la seguente Annotazione per Elena e Cynthia: "Sintonizzare la respirazione ai fiati, poi abbandonarsi, lasciando la respirazione fluida. Rientrare nel suono, tenerlo, tenerlo... poi lasciarlo andare... Usiamo il suono come materia d'appoggio, passiamogli accanto, sfioriamo, tocchiamo, poniamo in accento - evitiamo - Costruiamo (per noi) piani sensibili"[13].

 

Il dibattito sulla musica elettronica

Si era appena conclusa la rassegna, ed ecco scatenarsi uno dei dibattiti 'estivi' che accompagnano l'ozio degli intellettuali napoletani (intendo di quelli stesi al sole in panciolle), ospitato sulle pagine del quotidiano locale, col titolo, già tutto un programma, "Se la fantasia alza bandiera bianca". La musica elettronica li aveva toccati, eccome! A tutta pagina, in cultura,  il 10 agosto interviene Giovanni Amedeo (A tutta macchina). Lo scrittore si concede lunghe riflessioni sulla natura dell'astrattismo, considera come Cilio avesse ragione valutandone la portata, e tuttavia si chiede se l'aver posto un rilievo simile fosse sufficiente ad orientare la ricerca: "il punto chiave è qui: in quale rapporto col contingente o, se si vuole, con l'evoluzione (o l'involuzione) storica si pone l'arte. Cilio dimostra di non avere alcun dubbio in proposito e semplifica anche troppo la questione sostenendo che Bosch e Paolo Uccello sono grandi artisti con propensioni all'astratto".

Si dilunga poi sulla distinzione di Vico tra forma e congettura, per approdare ad una definizione della fantasia che parte dalla memoria dilatata (è sempre Vico). Nel caso della 'forma', viene scomodato anche il materialismo dialettico di Marx, per concludere che sono le forme ad essere richiamate a nuove variazioni o a nuovi significati ogniqualvolta si sia compiutamente e felicemente artisti. Per Amedeo "la cultura moderna, intrisa di scientismo, è nata e si è sviluppata in diretta antitesi con l'arte"; questa considerazione prelude all'attacco allo sperimentalismo, alle "specifiche propensioni di De Santis" nelle quali non scorge nulla di nuovo (!!), fatto salvo l'interesse per il calcolatore (!!!). La conclusione vorrebbe essere una stroncatura: "sia Cilio sia De Santis si sentono rivoluzionari. Peccato che la loro rivoluzione non è quella di cui si sente più bisogno: una rivoluzione che bandisca il chimerico e restauri la vera razionalità".

Il 14 agosto è la volta di Luigi Compagnone, che ancora si chiede cosa sia la fantasia, e racconta della bruciante risposta ricevuta un giorno da Bruno Maderna e Luciano Berio, all'inizio degli anni '70, a Milano: "ma lei crede ancora a queste cose?". Compagnone cita Adorno (stranamente) che se la prende con la tecnizzazione, e conclude un pezzo peraltro stilisticamente molto bello con la considerazione che "è vecchia la rivoluzione degli artisti che hanno nel naso soltanto odori diciamo elettronici". Finalmente, il 29 agosto,  interviene Maffettone: "Si tratta di vedere se la natura 'complicata' e controintuitiva dell'arte cosiddetta moderna consente di dare libero sfogo alla fantasia dell'artista e del fruitore". La domanda è retorica: la fantasia sopravvive, anche se si pensa alla teorizzazione di 'arte allucinogena' di Nelson Goodman che permette una critica radicale alla nozione di realismo estetico. Maffettone significativamente conclude: "la fantasia e la libertà non ce la tolgono né i calcolatori né l'arte moderna. Ce la tolgono Hitler e Stalin".

A settembre, il due e il ventuno, le repliche di Compagnone e Amedeo. Il primo si scopre di più; le sue osservazioni intendevano solo cogliere la 'qualità' delle stanche e ripetitive contraffazioni e di "quelle sperimentazioni del linguaggio effettuate a base di calcolatori, cervelli elettronici, computers, li si chiami come meglio si vuole". Gli strumenti usati sono ancora francofortesi, la critica è quella all'industria culturale, la conclusione tira in ballo il creativo spirito d'immaginazione di Coleridge... Anche Amedeo usa un procedimento analogo, cita Horkheimer, ed afferma testualmente che  "non c'è operazione del computer che non si possa eseguire con carta e penna. Il solo vantaggio offerto dalla macchina consiste nel poter eseguire le operazioni con grandissima rapidità". Il che, naturalmente, dimostra solo che lo scrittore non considerasse la possibilità di generare col computer suoni mai ascoltati prima.

 

Opera-Idra

Al di là delle argomentazioni, col senno di poi facilmente attaccabili, non si può che prendere atto della grande mobilitazione di intellettuali di grosso calibro, e del notevole spazio giornalistico conquistato da una 'semplice' rassegna concertistica. Ciò avveniva con uno spostamento d'asse rispetto alle intenzioni dei promotori, perché l'aspetto elettronico non riguardava che una piccola parte dei brani ascoltati, e la ricerca restava prevalentemente ancora di tipo strumentale e vocale.

Ma la elettronica avrebbe meritato una trattazione più lungimirante, visto che oggi l'home computer è nelle case di ogni compositore. La presenza di quell'elettrodomestico, comunque la si consideri, ha già cambiato le abitudini dei musicisti: per un verso diminuisce lo scarto tra immaginazione e realizzazione (sia che si pensi a suoni e assemblaggi tradizionali che a cambiare temperamenti e proporzioni intervallari), per l'altro si propone (ed è il caso della elettronica vera e propria) come sconfinata estensione creativa di suoni, ritmi, sovrapposizioni. In entrambi i casi, l'acquisizione dei fonemi della macchina (e la costituzione di silicei linguaggi autonomi, alla Blade Runner) mi pare il minimo di quel che potrebbe accadere; l'uomo interagisce col computer estendendosi a sua volta, confrontandosi con pensieri sempre meno mediati. E' nello scambio di alterità il massimo interesse del virtuale.

Dal punto di vista estetico, inoltre,  la possibilità di veicolare suoni senza barriere attraverso medium diversificati ci pone di fronte ad una acquisizione fondamentale, densa di sviluppi futuri: la scomparsa della figura dell'autore/compositore. I midi-file circoleranno via cavo con la possibilità di essere modificati da ciascuno; a quel punto conterà più chi ha dato il primo input o l'opera tentacolare e multiforme, un'opera-idra,  che si potrà ascoltare con un clic?

 

La musica infiltrata

Sempre per Estate a Napoli, si era tenuta a San Martino, tra il 24 e il 25 luglio,  l'azione musicale Suite per un Castello di Pasquale Scialò e Aldo Sisillo, presentata dalla Scuola Popolare di musica di Montesanto, con Giancarlo Cardini, i nastri con le composizioni elettroniche di De Santis, i laboratori di coro, clarinetti e flauti dolci, e la Banda "Città di Bacoli" diretta da Antonio Salemme.

Come mai la presenza della elettronica non aveva scandalizzato più di tanto in quella occasione? Certamente si trattava di una cosa differente, perché in quel caso l'intero luogo aveva cominciato a risuonare, e s'era intuito che ciascuna musica può avere una direzione di senso divaricata dalle abitudini convenzionali d'ascolto. Se c'entra la 'musica d'arredamento', c'entra pure quella infiltrata, capace di scivolare nelle connessioni tra roccia e roccia, di alloggiare anche provvisoriamente negli stucchi appena discostati. Una musica che come un parassita attecchisca sulle mura, per svaporare appena diluita nello spazio, perché fondamentalmente nomade. Il suo valore risiede propriamente nell' uso diversificato, nella sua adattabilità. Se una critica andava posta alla elettronica (che all'epoca era comunque ancora terribilmente sperimentale) avrebbe dovuto esser formulata in termini di inadeguatezza d'esecuzione. Una musica così non può morire in una sala da concerto tradizionale, va arricchita di vettori, deve conservare il suo respiro, la sua vacanza semantica. Può così essere ricollocata in ambiti diversi, sortire i suoi effetti, veramente infiltrarsi.

 

Suite per il Castello di San Martino

Dal programma, Giuliano Scabia: "Colloquio di musiche. Armonizzazione di sfere sonore diverse. Esplorazione di uno spazio, dei suoi ricettacoli fonici. Una città è una cassa sonora: il corpo di uno strumento un tempo suonato da voci, passi, cavalli, carri, oggi da motori, voci, passi, clacson, rombi". L'evento nasce dall'esperienza mutuata dai laboratori dell'estate precedente. L'azione prende il via fuori dal Museo, con la Banda di Salemme su trascrizioni di Scialò e Sisillo. Poi l'ingresso in un primo spazio, sonorizzato con suoni e silenzi. Ecco, nella chiesa, il Satie di Cardini, con la versione pianistica di Le piége de Méduse, gli Embryons desséches, ed altro. Si va nel chiostro, seguono gli interventi dei laboratori di clarinetto e flauto. Il coro altera la prima Gymnopedie di Satie, scomposta e ricomposta in modi originali. Anche qui si gioca con armonie 'disturbate' da vocalizzi e giaculatorie, e ogni tanto si ripiomba nel silenzio del castello. Infine, la seconda parte del concerto di Cardini, con Cage, Howard Skempton, il Bodypiano (1972), Una sera d'autunno (1979) di Cardini, ed il celebre Solfeggio parlante per Voce sola di Castaldi: un brano  che attua il programma della due giorni: "un incontro tra il teatro e la musica, amplificando la teatralità presente nella musica e la musicalità del teatro, attraverso linguaggi e pratiche musicali diverse".[14]

 

Liebesleid

Torniamo a Luciano, la cui esplorazione riguardava prevalentemente gli strumenti tradizionali. Gà nella tanto discussa "Avanguardia e ricerca" aveva provato in pubblico, senza illustrarli nelle note, i Due studi [15] eseguiti da Donella Del Monaco ed Eugenio Fels. Nella nuova, ed ultima, rassegna, curata insieme a Columbro per Estate a Napoli '82, i Due studi, parzialmente rimaneggiati, diventano Liebesleid, un titolo preso in prestito da Kreisler. Fels, dopo aver confrontato le parti, afferma in un'intervista che quella pianistica resta immutata, ci sono dei segni in più in quella per voce, vengono eliminate delle ripetizioni. Solo chi ha suonato sia Suiff che Liebesleid può vedere, inoltre, che all'elemento della circolarità del primo si va a sostituire una sezione improvvisativa nel secondo. Lo spartito/canovaccio segna soltanto le altezze d'arrivo per la voce, e alcune semibrevi con un simbolo di tremolo, la cui esecuzione, nel ricordo di Fels, corrispondeva a "grappoli di note vicinissime, che creassero un'onda, un rombo, doveva muoversi una massa di suoni dalla parte bassa dello strumento fino a quella alta, e viceversa: un gioco di timbri". In Liebesleid vi è un uso ardito  degli intervalli della parte vocale, che mette a dura prova qualsiasi soprano, e l'uso, per la seconda volta nella sua produzione nota, dell'improvvisazione[16].

Questo brano è l'ultimo composto ufficialmente da Luciano: porta una bellezza sconvolgente, restando tuttavia agghiacciante nella rarefazione, nelle sottrazioni a cui forse fu sottoposto. Ascoltandolo, noi compositori avremmo dovuto capire che parole ulteriori non sarebbero venute dalla sensibilità di quell'artista. S'era verificata una congestione tra la emergenza vulcanica e sentimentale delle prime sonorità (iDialoghi ) e le successive soppressioni, irriducibilità, essenzialità. L' afonia di Liebesleid è paradossale; è davvero un canto di morte.

 

Un gran calderone

A distanza di anni, e benché gli "Incontri nazionali della Nuova Musica", tenuti l'anno dopo (è l' '82)[17], avessero consentito a me di esordire come pianista in una manifestazione napoletana importante, e avuto il merito di ospitare l'Improvvisazione per violoncello e pianoforte di Fels, non posso fare a meno di considerare l'aspetto calante della nuova rassegna rispetto a quella dell'anno precedente, e del resto la cosa non mi pare sorprendente, sapendo quel che stava accadendo.

Innanzitutto, troppe concessioni all'accademia, con nomi di compositori legati ad ambienti e scuole ben precise ed individuabili. Gli incontri volevano tentare di portare Napoli nel logorroico e ristretto circuito della musica contemporanea sperimentale; per chi aveva tanto criticato l'esterofilia della città non era una concessione da poco. Il punto è che Cilio era ormai entrato in contatto con forze istituzionali e accademiche che non si sposavano bene con la sua natura, costipandone la personalità e schiacciandone la creatività. Era davvero impensabile per i discepoli della sperimentazione colta aver a che fare con un "dilettante autodidatta", per quanto geniale fosse. Luciano dovette vivere con difficoltà questa situazione, visto che la sua ambizione restava comunque legata allo storicismo, le sue aspettative soprattutto rivolte alla musica 'colta', i suoi desiderata indirizzati ad una esecuzione al San Carlo. Ma nell'incontrare questi compositori, specie fuori di Napoli, paradossalmente finì col ricevere 'consigli' su quali maestri contattare e prendere come riferimento. Questi suggerimenti 'disinteressati' provenivano da chi era perfettamente allineato proprio con l'avanguardia deteriore tanto aspramente criticata: scuole che ben presto avrebbero esaurito il loro compito, e che a distanza di anni fanno sorridere per l'aspra irriducibilità darmstadtiana. Oggi la vera musica contemporanea (ma preferirei usare più plurali), fatte salve poche roccaforti (gente che abita al di là del tempo ed incapace di sentire l'isolamento), si attesta saldamente in una direzione che Cilio aveva precorso e percorso trent'anni fa. Eppoi, perfino i brani più 'sperimentali' nel senso deteriore del termine, vale a dire il Trio di fiati, che qui diventa "8° quadro" , hanno una magia espressiva unica, che si lascia dietro le spalle più di un compositoruncolo accademico.

 

Gli errori della critica

Di quelle serate mantengo un ricordo già descritto e pubblicato[18], legato soprattutto all'incomprensione del pubblico, che perlopiù disertò i concerti. Anche i critici, forse perché non coinvolti direttamente, si mossero con disattenzione o disinteresse. Ancora mi chiedo, con rabbia profonda, per quali ragioni un certo giornalismo dovesse incorrere in errori molteplici e reiterati, come ad esempio nell'esclusione di certi nomi dal novero dei compositori partecipanti alla rassegna, in sbagli sulle età dei musicisti coinvolti[19], nel pressappochismo giustizialista di alcuni[20], nell'incomprensione (dimostrata fino all'altroieri) di altri[21]. Per fortuna Gino Castaldo e Lucio Seneca furono più oggettivi, maggiormente consapevoli  della validità dell'opera compositiva,  dell'importanza storica e sociale della  vicenda di Cilio.  Di Gianni Cesarini, anche amico del compositore, s'è già detto: in qualcosa riuscì,  forse avrebbe potuto fare anche di più finché Luciano era in vita. Certo è che non fece nulla per lui (per la sua musica) dopo la sua scomparsa, e dispiace che a tanti anni di distanza qualche critico, il quale evidentemente non ebbe dei fatti una conoscenza diretta,  ancora ne sopravvaluti l'azione[22].

Le uniche commemorazioni od esecuzioni di brani sono state tenute e volute quasi esclusivamente da me o da Eugenio Fels[23]; ne chiediamo e pretendiamo il merito, perché il silenzio e l'inerzia di tutti gli altri operatori o musicisti, ancorché sollecitati ed invitati più volte a muoversi, è stato e resta scandaloso e gravissimo.

 

Se muore un amico

E' difficile evitare la retorica. Quando Luciano scompare ci ritroviamo tutti smarriti, a fare i conti sulle ragioni per le quali un compositore come lui avesse scelto (ma è mai una scelta?) di morire in quel modo. Le risposte sarebbero arrivate dopo molto tempo, anche rivivendo sulla nostra pelle gli stessi scontri e le stesse disillusioni che aveva vissuto lui. Ma subito capiamo che quell'avvenimento non ha soltanto un valore personale. Tutto avrebbe seguito un corso differente, se Luciano fosse sopravvissuto. Stava diventando un punto di riferimento sostanziale per molti giovani, e, soprattutto, si manteneva raggiungibile, disponibile come può soltanto chi ha tanto da dare, e non teme impoverimenti. Ma non basta fermarsi qui. Cilio aveva anticipato anche qualcosa d'altro; era stato il più radicale, il più coerente fra noi. Aveva portato alle estreme conseguenze una afonia creativa. Aveva dimostrato come i decenni della sperimentazione stessero collassando. Altri hanno scelto di non comporre più, o di fare del silenzio un'estetica. O di dedicarsi ad attività paramusicali. Ma nessuno si è reso così simbolicamente definitivo.

Con il mero sperimentalismo un intenso e ricco patrimonio di talenti veniva dissipato. Chi non ebbe la forza di cambiare si piegò in solitudine, e cadde. Una generazione di soccombenti.

 

La giusta collera

L'impeto da 'giusta collera' che era appartenuto al Cilio degli inizi viene ereditato in parte da Fels[24], il quale, benché docente di conservatorio, mantiene una autonomia creativa che gli impedisce di confluire in scuole già consolidate. L'abitudine di vivere in una full immersion musicale lo preserva da frequentazioni politiche dannose. Il motto romantico "libero ma solitario" viene opportunamente scremato: molti compagni di percorso, tanti allievi, ma capacità di allontanarsi dalle pastoie burocratiche.

Come interprete Eugenio non ha esitato, fin dagli esordi, a mescolare come si faceva prima che la nozione di 'repertorio' si attestasse, brani originali con altri già acquisiti. Se si pone l'accento su questa abitudine, vi si troverà il seme del cross-over, il principio della commistione; e non è un caso che lui mostri grande attitudine alla trascrizione, presto divenuta reinvenzione, e infine composizione su suggestioni.

Si è già detto che all'ultima rassegna voluta da Luciano nell' '82 avevo eseguito in prima assoluta l' Improvvisazione per pianoforte e violoncello, una delle prime composizioni non 'ripudiate'. Ma altri brani notevolissimi la precedono, sia dal punto di vista tecnico-strumentale, sia per il fatto che già mostrano una felicissima vena tematica (parliamo dunque di pezzi tonali, dallo sviluppo formale classico) sono il Preludio-fantasia, per pianoforte, del 1969[25]; l'Adagio e Allegro, per pianoforte, del 1970; il romantico Concerto per pianoforte e orchestra (1971); il Concerto per violoncello e orchestra del 1972; la Toccata per organo del 1974. 

Già altrove mi ci sono riferito, rilevandone le costanti: uso della modalità, ripetizione di Leitmotiv, capacità di escogitare melodie che echeggiassero per atmosfera lontananze medievali e barocche (specie per il gusto polifonico, sempre esibito in modo appropriato), ma per conduzione fasti e scoppiettii romantici. Già quei lavori presentano elementi ritmici originali, talvolta vicini al jazz; e da subito, quindi, l'opera di Fels appare contraddistinta da una sorta di sospensione temporale, che mi ha sempre fatto pensare alla "lontananza nel tempo", intesa in senso goethiano.

 

Le composizioni rigettate

Non mi pare inopportuno soffermarmi ad analizzare anche dettagliatamente quei lavori, perché è il solo modo che conosco per dar loro visibilità: se fossi un produttore non starei qui a cianciare. Ed è forse il caso di precisare subito che quasi tutte le musiche che abitano queste pagine sono inedite, non pubblicate, spesso poco eseguite. Le racconto per evitare che svaporino come quelle di Luciano[26].

Il Concerto in Si minore per violoncello e orchestra (Vacciago,12 settembre 1971, concluso a Napoli il 3 settembre del '73; credo oggi di essere il solo a possedere una copia del manoscritto inedito), essendo scritto ai limiti delle possibilità classiche dello strumento, arriva sì alla tonalità, ma lo fa attraverso un vorticoso susseguirsi di dissonanze. Il primo movimento comincia con un Allegro prevalentemente cadenzato; dopo una breve preparazione dell'orchestra, il violoncello attacca con una serie di arpeggi con trilli, avviandosi ad una lunga cadenza, con l'orchestra che accompagna o s'interpone per progressioni (il movimento dell'oboe è estremamente romantico). Notevolissimo l'inserimento e l'uso del basso elettrico. Cambi di tempo repentini e numerosi: il Presto segue velocissimo con il violoncello che arpeggia, si scatena in scale e figure irregolari. Viene fuori la caratteristica forte, cioè l'incrocio tra ritmi differenti, quasi rock, che spiega l'inclusione del basso elettrico. Anche l'organo fa la sua parte. Il Secondo movimento, Adagio, comincia con l'esposizione del tema da parte del violoncello, subito ripreso dall'orchestra. E' malinconico e tardoromantico, struggente e bellissimo. Durante lo sviluppo non mancano elementi connettivi col primo tempo. Il Terzo movimento, un po' più scolastico, voglio menzionarlo soprattutto per la presenza di una sezione in stile improvvisativo.

Il Concerto in do minore  per pianoforte e orchestra, iniziato nel gennaio del '70 e concluso a Napoli l'undici aprile del 1974 (la Fantasia da concerto eseguita sovente dal vivo e talvolta indicata come Adagio e Allegro è la versione pianistica del secondo e terzo tempo) è inedito e mai eseguito con l'orchestra. L'incipit è misterico, ispirato, capace di catturare immediatamente l'attenzione; la scrittura pianistica è estremamente virtuosistica, e mescola differenti luoghi della tradizione strumentale. Il Lento con molta espressione  espone il tema tra flauto e oboe, ma lo affida presto al solista: il movimento è malinconico, la scrittura tradizionale. Il terzo tempo, Vivace (alla russa)  non viene separato dal secondo: è un'infuocato sfogo pianistico, e chi  ne abbia sentito in concerto la versione solo strumentale ne resta profondamente coinvolto.

Tra i brani solo strumentali di questo periodo merita menzione anche la Toccata per organo, cominciata nel giugno del '73 e conclusa nell'aprile dell'anno dopo. Essenzialmente tripartita, con una ripresa variata, comincia con una suggestiva introduzione in do diesis minore, affidata alla pedaliera. Il tema è subito inseparabile dalla sua distensione accordale, viene sviluppato fino alla sovrapposizione con l'introduzione, capace di creare più di un brivido armonico per la sovrapposizione tra un fa doppio diesis (sol naturale) e l'accordo la-do diesis-mi-sol diesis.

 

Un "notturno" importante

Il vero spartiacque è nel  Notturno, un brano molto particolare del 1975, scritto per la concertista anglo-tedesca Antonietta Webb-James, maestra del nostro. La Webb-James, ormai piuttosto anziana, aveva subito una paralisi alla mano destra, che era riuscita tuttavia a rieducare, rinunciando solo in parte all'estensione. Ecco che Eugenio immagina questo pezzo dolcissimo, che esige dalla sinistra doti particolari di velocità, adattabilità alle posizioni, distribuzione del peso, e chiede invece alla destra 'soltanto' poche note, che possono essere legate, oppure accarezzate (ovvero slegate) ma fuse insieme con l'uso di un particolare tipo di pedale; insomma, è un vero esercizio di tocco. Il Notturno possiede un'atmosfera malinconica che sarebbe errato definire tardoromantica, perché essa resta invece collegata in modo omogeneo, attraverso lo studio e la soluzione di problemi tecnici pianistici, grazie quindi all'estrema congruenza tra l'atto compositivo e quello esecutivo, alla produzione di grandi pianisti/compositori appartenenti al passato di quello strumento; e naturalmente mi riferisco ai più originali.

 

Improvvisando a cavallo del tempo

L'Improvvisazione  è stata scritta per pianoforte e violoncello (ma vi si può sostituire il contrabbasso: in questa versione non è mai stata eseguita,  ma la immagino sicuramente molto originale , con il cb che arranca per stare dietro al pianoforte) e non il contrario. A qualsiasi esecutore capiti per le mani lo spartito, apparirà lampante la predilezione per il piano: basta confrontare la lunghezza e l'incidenza delle due cadenze, e l'espansione estrema della scrittura pianistica nel finale, che giunge dopo una serie di protagonistici accordi dissonanti; una battuta di sette/mezzi fa allargare le braccia al pianista, dal centro verso l'esterno, ed il gesto esplode con acciaccature al basso (Fels è generoso nel concedere licenze: spesso eseguo il brano con ottave) e la ripresa finale del tema. Le cose notevoli dell'Improvvisazione mi sembrano, oltre alla richiesta di una interpretazione consapevole e capace di tensioni/distensioni (anche se i pianisti in possesso di tale capacità non mi sembrano poi tanti), il tentativo di codificare l'improvvisazione, un po' come fa Stravinskij, anche se qui il jazz c'entra poco. Il nesso tra le due particolarità risiede nell'uso del tempo rubato, che è il vero ponte tra scrittura, assenza di ritmo ed improvvisazione. Va detto, per completezza, che la versione oggi 'autorizzata' da Eugenio è diversa da quella definita il 16 giugno '79, perché la parte per violoncello è molto più piena. Le linee di sviluppo, tuttavia, restano le stesse.

Antica Monodia, scritta nel 1982, riesce a condensare e riassumere la scrittura in due semplici linee melodiche; è un brano che appartiene a un filone fortunato, alla "musica per cinque dita" con la quale prima o poi i pianisti compositori si cimentano. E' come se fosse una purificazione (mentale e spirituale) dal virtuosismo esecutivo, che consente di calarsi poi in quello compositivo: voglio dire che non è affatto facile scrivere cose interessanti utilizzando pochissime note, in pagine accessibili anche ad un bambino.

Quando nell' '85 ho eseguito in prima assoluta sia il Notturno che Antica Monodia c'è stata una notevole risposta del pubblico. Da allora, abbino spesso il piccolo brano ad altri di maggiore difficoltà, perché situa l'ascoltatore in un non-tempo in grado di propiziare e decollocare qualsiasi ascolto successivo.

 

Il Gruppo Ricerca e Sperimentazione

Risale al 1982, e quindi all'anno che precedette la morte di Cilio, la nascita (o la concretizzazione, se si vuole) del "Gruppo Ricerca e Sperimentazione", che unì le esperienze di diversi esecutori e compositori. Ricordo con precisione il momento in cui decidemmo di fare qualcosa che assomigliasse alle rassegne napoletane, naturalmente differenziandole e personalizzandole. Eravamo ad una stazione della "Vesuviana": c'è un trenino che collega tutti gli aggregati periferici. Quel trenino aveva una sorte simile alla nostra: passeggia su un tratto ferroviario famoso per essere stato il primo realizzato in Italia. E tuttavia sferraglia in zone di confine, o se si preferisce resta al confino. Con Montagano si pensa di coprire quei paesi attraverso una attività-corridoio condensata nel gruppo. Col nostro progetto avremmo scovato forze e talenti di quelle parti, valorizzato le attività nascoste, anche quelle legate al patrimonio di memorie tradizionali. Il tutto senza disdegnare  il potenziale sperimentale che avrebbe potuto vivificare anche le afasie della metropoli. Quella consapevolezza non era da sottovalutare: oggi si sa che sono proprio le realtà laterali, le voci delle culture del disagio, i ghetti dentro e fuori dalle metropoli, che rispondono in modo energico e sinergico alla sterilità, soprattutto di talenti, della città. Recentemente, per sintetizzare tutto questo in un titolo, ho scelto un'allusione ad Asimov, e ho scritto della "Provincia dell'Impero"[27]. E non è un mistero che le origini del rap, o l'emergenza straordinaria della musica nera (d'Africa, intendo), stiano portando linfa vitale ad un linguaggio altrimenti incapace di rinnovarsi. Anche la cultura della guerra, purtroppo assieme alle devastazioni, o quella della persecuzione (si pensi al rai algerino), producono canti di rivolta e di dolore che dicono nuovamente qualcosa. L'estetica non può nascondersi una nuova forte evenienza di senso.

Il gruppo esordisce nel Giugno Popolare Vesuviano organizzato dall'Arci-Villaggio Vesuvio nella ricca e provinciale S. Giuseppe Vesuviano, nella apparente tranquillità di Ottaviano, e nella piccola Terzigno. Il 10 Giugno si terrà un  concerto che presenta, tra l'altro, musiche mie, di Gabriele Montagano, di Giusto Pappacena.

La seconda rassegna  si terrà nel marzo dell' '83 a Sant'Anastasia, paesone alle pendici del Monte Somma; una due giorni dedicata alla musica contemporanea. E' qui che assume maggiore leggibilità la presenza di un manipolo di 'dissidenti' dall'accademia. Assieme alla Suiff di Cilio e all'Improvvisazione di Fels, verranno eseguite una Invenzione di Mario Vitale, un giovane e sensibile compositore che presto abbandonerà il conservatorio, Les sons dans la nuit (per due flauti, con Luciano Carotenuto e Raffaele Di Donna) di Montagano. Io suonerò Agonia, uno dei tempi di Metafore, importante trittico pianistico di Montagano, ed il mio Basso Ostinato. Segnalo che quella di Suiff fu l'ultima esecuzione prima della morte di Luciano; la ricordo con dolcezza, perché fu il periodo in cui lo frequentai con maggiore assiduità, intervistandolo o discutendo con lui delle difficoltà della musica a Napoli.

Il gruppo andrà man mano disgregandosi nell' '84, ma produrrà ancora, rispetto ai contenuti, gli importanti "Incontri di Musica Contemporanea" nel Chiostro di San Francesco per l'Estate Sorrentina, a cura di Gabriele Montagano. Lì ci sarà l'unica esecuzione congiunta dei tre brani, in qualche modo correlati, per violoncello e pianoforte: a Suiff e Improvvisazione si aggiungerà il mio IV Quadro tratto dall'operina in cinque scene Libido. Gli interpreti: il bravissimo Petric Drummond al violoncello e Domenico Schiattarella al pianoforte. Si eseguirà, inoltre, l'intero trittico di Metafore di Gabriele e le sue Itineranze, appena composte (al piano però suona Natale Garufi), Il terribile cappuccetto rosso di Giusto Pappacena. C'è anche la presenza di un accademico napoletano, Bruno Mazzotta, con il Dittico infantile. Tra i non napoletani, nomi di prima grandezza della scuola sperimentale: Manzoni, Gentilucci, Bussotti, Porena, Clementi, Rendine. Due voci originali, quella di Castaldi e quella del trombonista romano Alessandro Vecchiotti. Tra i pianisti c'è anche Rosario Musino, un delicato pianista compositore sul quale tornerò più avanti.

 

La porta del sole

Quello che in genere indico come l'ultimo atto del "Gruppo Ricerca e Sperimentazione", che non compariva più ufficialmente sui programmi, fu la divertente rassegna "Musica, Performance ed altre storie", voluta dall'Arci per l'undicesimo giugno popolare, e organizzata soprattutto da Giusto Pappacena. Una trasformazione era avvenuta nel marzo dell' '84, con la costituzione di una associazione, "La Porta del Sole", il cui nome fu suggerito da Eugenio Fels. La nuova associazione partiva con bei presupposti, perché riuscivo a pubblicarne il manifesto sul quotidiano (poi diventato settimanale) Napolinotte, del quale ero collaboratore. Ogni sabato facevamo uscire un 'paginone' centrale monografico su temi di rilevante interesse per la città, e quello del tre marzo 1984 lo dedicammo  a "La porta del sole: spunti per un'estetica dell'improbabile". L'occhiello recitava, in corpo sedici e senza possibilità di confusione: "La musica contemporanea a Napoli è da sempre considerata un prodotto sottoculturale, se non addirittura antiartistico. L'alternativa a questa idea è offerta da un gruppo di compositori, già riunito nel Gruppo di Ricerca e Sperimentazione, ora presenti sul territorio partenopeo come associazione. Si tratta de 'La Porta del Sole' che raccoglie molti degli artisti napoletani che avevano trovato finora i maggiori spazi all'estero e al Nord Italia". Il paginone assemblava L'alchimia del suono e L'antiestetica, a mia firma, e Il soggetto, la memoria e il disincanto, un lungo e erudito articolo di Montagano. Partendo da un'epigrafe di Rilke ("Canta all'angelo il mondo, non l'indicibile") e di Nietzsche ("Ma l'indicibile afferrò un lembo della sua veste e ricominciò a gorgogliare e a cercar parole"), Montagano compie una ricognizione della possibilità di parole ulteriori, partendo dal Tractatus di Wittgenstein, e passando naturalmente attraverso l'opera di Franco Rella e citazioni da Benjamin. La conclusione ruota attorno alla nozione di disincanto: "La visione messianica  è il riscatto di una memoria disincantata - che non ha nostalgia perché non ha nulla da recuperare: vive nelle ali dell'angelo che riprende a volare senza l'inquietudine del corpo. La redenzione ci è donata dal passato che reca con sé il segreto di una debole forza messianica. Sarà questa forza disincantata a portare a compimento il passato e a redimerlo. La redenzione e il disincanto sono i nuovi paradigmi del sapere".

Più eversivo, apparentemente antiavanguardistico, ma sostanzialmente agguerrito contro gli esiti castranti del periodo sperimentale, il mio intervento: "è tempo di andar oltre la Nuova Musica, per non argomentare solo l'inseguirsi di fasi, per non dover considerare l'arte 'a perfetta dissimiglianza da Dio'[28], per lavorare sui sacrosanti criteri di tradizione, reinvenzione, ricerca e produzione, tutti possibili". [29]

I nomi e i brani della rassegna "Musica, performances ed altre storie" sono pressappoco quelli già presenti a Sorrento. Ma Rosario Musino eseguirà, assieme alla soprano Margherita Pucillo, una serie di brani vocali: la sua Voce e pianoforte,  il mio Lied, il Vocalizzo di Montagano, e il Primo Stasimo di Pappacena, su versi del poeta Lello Giordano. Inoltre, Eugenio Fels terrà una memorabile esecuzione della sua monumentale Vent qui chante, Vent qui danse - Sonata, ancora nella versione comprendente il Take-five Time. La precedono le Itineranze  di Montagano ed il mio Basso Ostinato.

 

Diversioni

I quattro compositori che animano "La Porta del Sole" e che prima avevano formato il "Gruppo Ricerca e Sperimentazione" prendono strade differenti. Fels è sconvolto dalla morte di Luciano, ma lavora attorno alla sua Vent qui chante, Vent qui danse - Sonata, provandone in concerto varie versioni. Io mi dedico al giornalismo, conducendo una serie di interviste sulla musica contemporanea a Napoli, e al concertismo, portando direttamente al pubblico le mie composizioni. Gabriele Montagano si rivolge alla ricerca (prevalentemente sperimentale) delle possibilità vocali, tenendo un laboratorio che lo condurrà, nel 1986, alla registrazione dell'opera Evento, un rondeau in un atto per quattro voci, sax tenore, violoncello e trombone. Giusto Pappacena si dedica soprattutto alla carriera accademica, ma anche alla computer music (non alla musica elettronica: volgerà le sue opere in accurate e fedeli versioni per computer, facendo però uso di stilemi piuttosto accademici e riproducendo le sonorità di strumenti tradizionali).

E' la fine dell'esperienza associativa, anche se si manterranno sporadiche collaborazioni. Soltanto io e Fels continueremo ad operare insieme, fondando nel 1985 l'Associazione Musicale Ferenc Liszt, oggi ancora attiva.

 

Spinte centrifughe e centripete

Una fondamentale divergenza era intercorsa tra me e Gabriele, forse visibile anche leggendo trasversalmente i programmi delle rassegne rispettivamente curate. Il mio tentativo era sempre stato quello di valorizzare i percorsi dei compositori locali, attraverso formule associative che consentissero esecuzioni pubbliche, ma che presto avrebbero dovuto sfociare in dischi e pubblicazioni. Si trattava di una spinta centrifuga, che sognava di mostrare all'esterno le  acquisizioni, le idee precorritrici, tutto quanto di buono avessimo potuto forgiare nei nostri laboratori meridionali. Il mio intervento era anche distruttivo, e polemico, sulla scorta dell'esperienza di Luciano, il cui percorso mi pareva  debole soltanto per l' 'apertura' al circolo dei compositori accademici. Viceversa, Montagano viveva in modo pieno la stagione sperimentale, certo con una coerenza ferrea, tale da spingerlo ad abbandonare il corso di composizione di Bruno Mazzotta. La sua intransigenza sperimentale aveva la forza di trasformarlo in un autodidatta antiaccademico, allineato però alle sorti dell'avanguardia storica, quella stessa che Cilio aveva tanto aspramente criticato, pur ospitandone nell'ultima rassegna illustri nomi. Così, Gabriele, anche volendo sostanzialmente dare visibilità al suo percorso, come in fondo ciascuno desidera, intraprese una marcia solitaria, fortemente individualistica, che lo spinse a raggiungere i migliori risultati, rispetto a tutti noi, nel campo della musica sperimentale (non è un caso, infatti, che  consideri il Trio di fiati come il miglior pezzo di Luciano Cilio). Di quella musica contattò i principali esponenti nazionali, alcuni ospitandoli nelle rassegne che curò. Conobbe  Giacinto Scelsi, il quale gli attribuì il merito di scrivere musica che gli ricordava la sua gioventù, Boris Porena, e molti altri. Dopo aver scritto Evento, che lui chiama "operina", tra l' '86 e l' '87 lavora a Trieb, e a musiche di scena. Il 1987 sarà un anno di grande produttività, con E-Lang-A+ 4'30" per orchestra; Music for Match[30], per voci e strumenti; Rotte di migrazione, musiche per teatro; Arset,  per percussioni; Dune, per flauto  amplificato; Dissolvenze, per pianoforte o per archi.

Pian piano, però, spinto da scelte personali molto sofferte, e dall'esigenza di essere creativo anche in altri settori,  dalla filosofia alla comunicazione, dall'organizzazione di eventi allo studio degli scenari del terzo millennio, produce alcune installazioni sonore, tra cui Camera d'ascolto, ed Ecoulements (1991, Museo Bolzano). Si dedica alla produzione saggistica, lavorando fianco a fianco con Alberto Abruzzese, uno dei maggiori esperti di televisione e comunicazioni. Pubblica come curatore o coautore diversi saggi, di cui menziono solo Estetiche del walkman, la Scena Immateriale, e il Dizionario della pubblicità. Molti suoi lavori sono ospitati un po' ovunque. Ma come musicista, nulla: c'è  un volontario ritrarsi, una vera e propria sparizione. Se si esclude un mirabolante e abbastanza recente brano per orchestra, in cui una sequenza gira vorticosamente, ripetuta da ogni strumento in modo da creare un rutilante cluster perpetuo, il resto è silenzio. Un silenzio, però, solo apparente, perché si potrebbe più adeguatamente parlare di una messa in parentesi.

 

Metafore all'avanguardia

L'abilità principale di Gabriele mi è sempre sembrata quella di assemblare, spostare oggetti sonori, collocare oppure tagliare, adeguare, il materiale a percorsi mentali spesso di forte valenza aporetica, ai limiti dell'utopia musicale. Le opere pensate per strumenti tradizionali sono geniali, al punto da condurre a buon esito, forse con maggiore spregiudicatezza, quella singolare capacità mostrata da Cilio di con/fondere strumenti e voci, in modo tale da simularne la totale contiguità in frasi cominciate dagli uni e terminate dagli altri. Situare e desituare, per questo autore, non ha un significato soltanto spaziale, perché il tempo gioca un ruolo importantissimo. L'abilità cageana di collocare nel tempo di uno spettacolo di Cunningham rumori estratti da microfoni grattati, sfregati, incartati[31], appartiene anche a Montagano. I suoni ci sono, al punto giusto, in un tempo che una volta scandito mostra il segnale della irreparabilità del reale, dell'accaduto imprevedibile e ingestibile. La capacità del porre insieme, propriamente del com/porre, la si trova latente nelle molteplici improvvisazioni pianistiche, esistenti in residue registrazioni in possesso dell'autore. Anche lì, nella capacità improvvisativa, specie in quella esaltata dall'incontro con altri pianisti, c'è un gusto dell'incontro musicale a sorpresa, reattivo, che dimostra curiosità e capacità di gioco. Ma si parla di tempi lontanissimi, in cui le frequentazioni della tastiera erano appena frenate dai problemi a un polso. Le prime opere compiute, Metafore ed Itineranze  (e tuttavia Montagano non cita un Preludio, abbastanza romantico, ma con pedali numerosi riconducibile ad una influenza debussiana, da me presentato in prima assoluta) svolgono aspetti legati al virtuosismo esecutivo e strumentale dello sperimentalismo pianistico, con rapide volatine atonali, spesso svolte su aspri accordi dissonanti. Metafore non è il meglio che abbia prodotto, sia per l'indugio in tecniche non riconoscibili, non riportabili cioè ad una specificità linguistica[32], sia per il desiderio, abbastanza evidente, di sentirsiall'avanguardia.. Di Metafore , scritte nel giugno dell'83, ho tenuto a battesimo soltanto il primo tempo, Agonia, nonostante il trittico fosse dedicato a me. Un'epigrafe posta in calce allo spartito dice: "La musica è l'oggetto puro della mente. E' l'idea praticabile della coscienza. E' il luogo della memoria che si diffonde nel tempo riconciliato del vissuto". Agonia è un brano che alterna violente sferzate (sestine di semicrome) a mistici accordi, a irreali, lentissime, crome ripetute, segno di una implacabilità cerebrale notevole, e tuttavia momento di riposo dagli sbotti accordali/improvvisativi e dalle volatine reiterate. Nella mia interpretazione (l'assemblaggio di alcune sezioni era personale, come i coloriti prescelti, ed i segni di legato) enucleavo momenti di lucidità a parossismi agogici, sempre ai limiti delle possibilità esecutive. Un aspetto notevole mi pare ancora oggi la capacità del compositore di gestire il riposo di quelle volatine, trattenute con legature in accordi bitonali capaci di risuonare a lungo, ed infine svanenti nel silenzio di una pausa. La particolarità del secondo tempo mi pare consistere soprattutto nell'ultima sezione, quando suoni appena accarezzati vengono trattenuti  a lungo nel tempo, lasciati risuonare, e trovano infine riposo in clusters. Il terzo movimento, una toccata, assegna alla mano sinistra la reiterazione di accordi dissonanti, una sorta di tormentone per crome, e concede al finale l'uso di rapide passeggiate sulla tastiera, con i pugni chiusi che disegnano volute.

Itineranze è del 14 marzo del 1984; si tratta di una pagina costruita sul nome e cognome di Fels (undici suoni più una variabile che segue certe regole), e al pianista dedicata. E' talmente centrata (e preoccupata) di sperimentare le possibilità dello strumento da avere bisogno di un'intera altra pagina per spiegare il simbolismo grafico usato. Tuttavia, Eugenio l'ha suonata interpretandola a modo suo (grazie alla previsione di un'improvvisazione), e devo dire che il fine, soprattutto timbrico, appare raggiunto.

 

L'operina

Il lavoro più importante di Montagano è di certo l'operina, quell'Evento, rondeau in un atto per quattro voci e tre strumenti, a cui s'è già accennato. Il testo è in parte del compositore e in parte estrapolato da opere di Peter Handke. Evento è stato eseguito in prima assoluta per una settimana al Teatro Spazio Libero, ricevendo un'ottima accoglienza, nel febbraio del 1986[33]. E' stato poi replicato per il Forum degli scambi artistici tra Francia e Italia Meridionale all'Istituto francese di Napoli[34]. Dell'opera esiste inoltre una registrazione accurata, una inedita e bellissima incisione con le voci di un laboratorio vocale, Milena Di Vicino, Daniela Boffa, Mariarosaria Visco e Titti Mautone. I tre strumentisti (ma sembrano moltiplicarsi come per incanto grazie alla scrittura di Gabriele) sono Drummond Petrie al violoncello, Enzo De Carolis al sax e Alessandro Vecchiotti al trombone. Il risultato è un lavoro di densità sconcertante, in cui è palpabile l'ansia e l'impellenza creativa del compositore, ma anche la partecipazione espressiva degli interpreti. Il tempo reale dell'esecuzione è di quarantotto minuti, suddivisi in due tempi di trentuno e diciassette, ma quello emozionale è infinitamente più breve, denso come un amplesso sonoro. E un amplesso sicuramente è simulato da alcuni stratagemmi vocali, laddove i suoni vengono retrocessi a grida, invocazioni, pure emissioni. L'incipit sembra la continuazione del Trio di fiati di Cilio, del quale ultimo, come ho già detto, Montagano eredita l'aspetto più legato alla ricerca. Ma presto, dal tessuto in pianissimo imbastito dai fiati, emergono primi sommessi vagiti, brevissimi, puri, accaduti nella narrazione quasi per caso, come se un respiro si condensasse in parole. Quando la durata di questi vocalizzi si espande a cavallo dell'altra onda, quella descritta dai fiati e dal violoncello, il timbro vocale si smarrisce per incanto, e va a confondersi con quello strumentale. Altre voci, in sottofondo impalpabile, si mescolano come quelle di anime smarrite nel buio, e pian piano si avvicinano, descrivendo e modulando l'unico suono fino a quel momento ripetuto dalla prima solista. Questa atmosfera è contigua a sé, non vi sono interruzioni o fragori tipici della musica sperimentale deteriore; ma è richiesto un ascolto attento, disponibile al turbamento, in grado di tollerare le parole e i suoni del profondo. Il testo parte; ma è decostruito, si percepiscono solo sillabe, a lungo tenute, una sorta di lamentazione, di pianto di donne perduto nelle radici stesse della storia. E nel frattempo tutto cresce, in modo impercettibile, procedendo per onde. Poi le voci. Raggiunto un suono, rapidamente seguono un pitch discendente, si desituano oltre un tipo, rimandano a dinamiche insolite, perché usate più frequentemente dagli archi. E' qui che la confusione di timbri si fa caratteristica pregiata, grazie ancora, ne sono certo, alla magia del mixer. Alcuni sovracuti spengono la sezione.

Comincia una sillabazione dei testi piuttosto irritante, perché stavolta più vicina ai moduli della ricerca fine a sé stessa. L'ossessività della ripetizione sillabica si scontra con il principio della sua stessa variabilità. Vale a dire che si percepisce la consequenzialità (sic, con la 'q') di un testo che rompe con la ripetizione. Su questa base, che già discuterei, si mostrano tronfie esibizioni vocali, naturalmente non di belcanto, ma di tecniche teatral/musicali, e cioè  risate, urla, grida, che mi sono sempre parse eccessive, per quanto efficaci e realizzate in modo straordinario. Ma il periodo era quel che era, ed è naturale che anche l'operina pagasse il suo tributo all'avanguardia. I diciassette minuti della seconda parte (ma parlerei di una terza sezione) cominciano con fiati che giocano con archi, perché l'esiguità della tenuta dei suoni nei primi è tale da simulare lo stridio in pianissimo dell'archetto sulla corda, e viceversa. Non mi meraviglia che quest'opera piacesse a Scelsi, perché certi suoni/respiro sono davvero orientali. Quello che oggi mi pare estremamente affascinante è proprio il magma indistinto che consente alle voci di irrompere come  variabile impazzita.  Con l'intensificarsi delle piccole onde descritte da sax e trombone, subentra una voce che simula un coito in modo palese, e l'espressività è consegnata a questo risvegliarsi dell'attenzione per movimenti di vita e di morte, che solo un atto così passionale e profondo può generare.

In definitiva, l'operina riesce ad essere il racconto delle emozioni allo stato puro. Sentimenti primordiali come la paura, il gioco, l'amore, la morte, si fanno suono, e solo l'articolazione della parola mi disturba. "La verità diventerà verità", e tutte le altre frasi tautologiche, pur affascinando per il rinvio di senso, costringono l'ascoltatore a definire una soglia (minima) del linguaggio. Per questo preferisco la prima sezione, che mi pare un capolavoro nel capolavoro: tutto accade e nulla accade. Ma se quanto descritto nel finale era stato già realizzato all'inizio, forse l'opera va letta proprio attraverso l'inversione del suo procedere. Almeno questo suggerirebbe l'ultimo respiro, che gioca a rimpiattino con il primo.

 

Trieb

Sempre giocato sul singhiozzo, sul respiro (per i fiati), o sulla gestualità concitata (per gli archi), è Trieb, cominciato nel giugno dell' '86 e concluso nel gennaio dell' '87.  Il brano è suddiviso in due sezioni, o paginoni; nella prima si mantiene una scrittura più convenzionale, nel senso che le altezze sono definite entro una sequenza di otto note, permutata dopo due esposizioni e mezzo. Quasta pagina può essere eseguita anche dai singoli strumentisti, e infatti lo è stata, soprattutto dal flautista Luciano Carotenuto. Anche in Trieb  le note esplicative sono indispensabili per capire cosa esattamente abbia voluto il compositore: "il suono che si deve ottenere è un impulso incontrollato generato da movimenti addominali. E' il corpo che deve suonare nella maniera più rigorosa". Il tempo, gli andamenti e le dinamiche non sono indicati, perché bisogna procedere dal lento/piano al veloce/forte, secondo le possibilità di ogni fascia di strumenti. Se resta fissa l'altezza dei suoni, non lo è l'ottava, perché si presume che ogni strumento debba usare la più alta. Un certo grado di aleatorietà viene così fissato (ogni alea, secondo Evangelisti, ha il proprio limite nelle previsioni del compositore; per Cage ne ha un altro più serio nelle capacità dell'esecutore) in relazione al 'respiro' di ogni interprete, nel duplice senso di respiro 'agogico' e respiro 'fisico'. Un trait d'union è affidato all'ottavino, che ripete la parte quando gli altri strumenti passano al secondo paginone, il cui incipit vede un gran glissato di tutta l'orchestra che parte dal sol periodico della sequenza e conduce al suono più alto possibile di ciascuno strumento (il glissato sarà evidentemente breve, visto che ognuno è già alla sua ottava più acuta), e in tutta evidenza quel che si vuole raggiungere è un effetto 'urlato', cioè dinamico, visto che la 'scena' successiva (lo spartito è organizzato come una delle partiture visive di Bussotti o di Lombardi) prevede un diminuendo progressivo che conduce allo svanimento (ritengo soffio per i fiati e fruscio d'archetto per gli archi).  L'ultimo quadro, rappresentato graficamente come una sorta di 'aquilone', è interessante per la 'coda', visto che gli strumenti giocano con glissati d'armonici (flauti e ottoni), armonici medi e naturali, e infine un sax tenore che chiude tenendo la sua nota più bassa in modo solo parzialmente intonato (oscillando leggermente sopra e sotto un suono). 

Non ho mai ascoltato Trieb nella sua esecuzione orchestrale, ma soltanto in quella per flauto: la ricerca interessante resta quella rivolta agli impulsi che lo strumentista deve catturare, facendo in modo di evitare quelli meramente binari, e cadendo sempre un po' fuori dal tempo[35].

 

Dissolvenze

Dissolvenze , scritto tra l' '87 e l' '88, chiude il cerchio: si tratta di un pezzo aforistico, esistente in due versioni che differiscono per dilatazioni successive. La prima, pianistica, consta di diciannove battute con valori larghi, che si lasciano risuonare a lungo, anche oltre la durata dei quattro movimenti, in pianissimo. Si tratta di accordi il cui legame è armonico soltanto per il senso di vibrazione che si instaura tra le parti. I movimenti di quest'ultime sono perlopiù 'proibiti' secondo i canoni limitativi dell'accademia, tanto che 'risolvono' a modo loro, frantumando le abitudini consolidate (in definitiva il titolo Dissolvenze mi fa pensare proprio a "risolvenze" improprie). Ma la dilatazione del tempo, il prolungamento dei suoni attraverso il pedale, l'evanescenza del pianissimo, l'uso prevalente di registri medio-alti, fanno sì che non si verifichi uno spiazzamento che risulta sgradevole al consumo. Nel suonare questo brano ho potuto verificare, inoltre, che l'uso di una diteggiatura non convenzionale (tale da consentire una posizione della mano che nell'attacco indirizzi il peso verso certi suoni dell'accordo) apre all'ascolto linee trasversali di significato. La versione pianistica, inoltre, presenta due piccoli incisi melodici, cromatismi lati, che nella zona centrale della pagina offrono un barlume di memoria formale; una specificazione ritmica, purché l'esecutore ricordi di considerare l'ampiezza del tempo virtuale che sta alla base del pezzo, segue immediatamente, richiamando il procedimento logico della progressione. 

Nella versione per archi i suoni vengono ulteriormente spaziati, tanto che le battute diventano ventidue; il valore degli incisi procede per 'aumentazione', sparisce anche l'individuazione ritmica immediatamente seguente. Tutte le durate si appiattiscono, linee di senso finiscono sommerse, lasciando al direttore la possibilità di rintracciarne e recuperarne traccia. Ma se un singolo esecutore può recuperare ed amplificare empaticamente suoni/chiave, tutta l'orchestra andrebbe forse indirizzata prevedendo e segnando i piani sonori desiderati (con 'ossia', o molteplici varianti...).

Dissolvenze  rende ancor più essenziale il gesto compositivo di Gabriele; ne condensa lo sforzo attraverso una realizzazione "minima" (come riferisce lo stesso autore).

Al silenzio alcuni compositori sono giunti attraverso l'uso di pause, la fugace apparizione di suoni sottilissimi. Montagano è consapevole della necessità di tagliare, rendere agile ed essenziale la comunicazione, ma sceglie la strada intensa del suono lungo.

Come se chiudendo una porta nessuno potesse mai dimenticare che nell'altra stanza c'è un intero universo di suoni e colori.

 

Quel terribile cappuccetto rosso

Di Giusto Pappacena, l'altro compositore vicino al Gruppo Ricerca e Sperimentazione, devo segnalare in primo luogo la straordinaria capacità improvvisativa. Seduto davanti alla tastiera del pianoforte, Giusto era capace di modulare per ore, cambiando continuamente genere senza interrompere la  narrazione. Una grandissima musicalità fluiva libera, e forse non ho mai più provato una tale sensazione di arresto del tempo reale come quando queste 'sedute' avevano corso. Al suo confronto, io e Gabriele, che non ce la caviamo male con l'improvvisazione, sembravamo bambini con difficoltà d'articolazione. Eppure (specie in duo con Montagano, che si dimostrava il più adattabile) procedevamo ad esperimenti che sarebbe stato bello e importante far confluire in qualche registrazione, cosa che non avvenne mai.

Ad un certo punto Giusto cominciò dapprima ad occuparsi in modo  serrato della sua preparazione scolastica, e poi della carriera accademica. Il dono d'attingere a istantanee sublimità venne pian piano messo da parte, forse perché, letteralmente, troppo "a portata di mani" (nel senso che poco doveva essere lo scarto tra pensiero e gesto musicale). La sua maggiore attenzione, oggi che insegna in conservatorio, è rivolta agli impegni didattici, ed agli strumenti originali e raffinati che predispone per i suoi allievi.

Pappacena, dottore in filosofia dal '78, è allievo, come Fels, di Aladino Di Martino, con il quale fa in tempo a conseguire il compimento inferiore di composizione. Il dato non è casuale, perché specialmente nei primi lavori è presente una vena melodica abbastanza ironica, simile a quella del maestro. Con la sua Sonatina vince il concorso Maleventum, e l'Improvviso n. 4 viene trasmesso (è l'otto aprile 1985) dalla trasmissione radiofonica "Un certo discorso". Oltre che all'interno delle rassegne già citate, io ed Eugenio  eseguiremo alcuni suoi brani nei concerti inaugurali della Associazione Liszt. Si tratta ancora della Sonatina Tragicomica, del Preludio quasi un blues, e del fluido Quel terribile cappuccetto rosso (tratto dall'omonima fiaba di Rodari "C'era una volta un povero lupacchiotto, che portava alla nonna la cena in un fagotto..."). Sono  brani in cui prevale l'elemento improvvisativo, e non so quanto oggi vengano accettati dall'autore. Certo è che specie il Preludio quasi un blues richiama fortemente i momenti più ispirati delle performances libere del compositore vesuviano, ed è pagina molto ispirata. Su decime affidate ad un' ampia sinistra, si muove un fraseggio perlopiù monodico, molto cromatico, affidato alla destra, che conduce un monologo della durata di appena venticinque battute, non senza sbuffi e palpiti irregolari. Bello anche il Primo stasimo, una lirica per soprano e pianoforte su testo di Lello Giordano ("Un asfittico palpito di morte, diluizione nel mare del silenzio, perdermi, e perdere. Soffrire sradicando le lacrime e le colpe..."): di stampo neoimpressionistico, non gli mancano tuttavia la pienezza di certe armonie jazz (la curiosa sensazione è che nel Primo stasimo l'autore si sia volutamente contenuto, irregimentandosi nelle regole...).  Ho notizia di una suite per archi, e di molti altri brani pianistici consegnati al nastro, che risalgono all'incirca al 1985. Dell' '86-'87 è Disincanto, una improvvisazione mossa sul tracciato del Preludio, in cui mi pare notevolissimo l'humus accordale, prevalentemente armonico, che fa da sfondo alla performance di una tromba solista (o altro fiato, visto che la registrazione è sintetica). Molto carino e sfavillante Friends, del 1991, concepito per banda; il Concerto per tre del 1992 è gradevole, anche se un po' incline a certe prolissità scolastiche (romantiche, per quanto riguarda il pianoforte). Più recentemente ho avuto modo di ascoltare alcune registrazioni di prova per due Song: la prima esiste in due versioni, per solo pianoforte e per quartetto d'archi, estremamente romantica, evoca, un po' per gioco, aloni alla Rachmaninoff. La seconda, più interessante limitatamente all'incipit, è per pianoforte ed archi, ma ci avrei visto bene il bandoneon, perché allude a modalità usate da Piazzolla. Ma è chiarissimo che in entrambe Giusto sta facendo esercizio di stile.

In generale devo considerare che se questo straordinario musicista/strumentista tornasse alla sua antica vocazione potrebbe stracciare parecchi autori di musica da film (che a parer mio, lo ripeto, ha  medesima se non maggior dignità di quella d'altro tipo), e fare cose non lontane da quelle dello Jarrett performer solista. Il paragone mi viene anche meglio dopo aver ascoltato la produzione, per così dire, 'colta' del famoso jazzista: anche lì il senso della forma soffoca l'ispirazione melodica; eppure nelle improvvisazioni restano notevoli le acquisizioni sperimentali, le sognanti melodie, impossibili da riprodurre su carta o da suonarsi identiche, come ammette lo stesso autore[36].

 

Le interviste: un quadro desolante

Tra l' '82 e l' '84, oltre a dedicarmi all' attività solistica e compositiva[37],  mi muovo come giornalista per sentire le ragioni di operatori e compositori napoletani. Parto naturalmente dall'ondata di interesse suscitata da "Avanguardia e ricerca musicale" e sento tra i primi Carmelo Columbro, che mi conferma la difficoltà a lavorare nella città (è il giugno dell' '82). "Per essere compositore a Napoli devi pensare di non essere a Napoli: la città non ti stimola, le strutture mancano, gli enti sono tardivi e, spesso, completamente immobili. Fare musica è quasi impossibile: esistono soltanto delle élites, al di fuori delle quali il nulla, l'affossamento totale di certi processi culturali". Per questa ragione Carmelo afferma di lavorare senza pensare al pubblico, ma solo per la voglia di farlo. "Parto da 'ombre' che vado man mano a definire attraverso momenti quasi artigianali di costruzione ed elaborazione. Il 'fare espressivo' aumenta col definirsi di queste ombre. Il momento creativo si esaurisce quando la composizione è terminata".

Nello stesso periodo, pubblico le interviste e le analisi di brani di Fels e Cilio. Nel febbraio dell' '84 ascolto un didatta locale, Carmine Pagliuca, e gli chiedo provocatoriamente quale sia la situazione del conservatorio di Napoli; questa la risposta: "Napoli, pur avendo la scuola più celebre, a livello mondiale, ha oggi numerose carenze: non abbiamo nemmeno il corso di musica elettronica. Esiste una maggiore arretratezza, il conservatorio viene considerato provinciale, perché inquadrato in una realtà cittadina purtroppo decadente e avvilente (...). Comunque abbiamo tuttora delle forze vive, per porci all'avanguardia del movimento musicale internazionale: in quanto a tecniche, fantasia e modernità di linguaggio i nostri compositori sono sempre fra i primi, anche se, purtroppo, la mancanza di strumenti idonei li costringe a non aggiornarsi sufficientemente. Vi è la latitanza più completa dello Stato". 

Dopo pochi giorni incontro Franco Di Lorenzo, che ricopre la carica di responsabile della struttura orchestra e coro della sede regionale Rai. Mi è stato presentato da Enzo Marone, un universitario sensibile e colto e tuttavia di ironia raffinata. Di Lorenzo, gentile e disponibile, si mantiene però sul filo del rasoio; concede e recede, dice e tace. Cavilla sul termine "contemporaneo" ("essere un artista contemporaneo non vuol dire porsi all'avanguardia"), ma poi ammette: "a Napoli non vi è spazio per la composizione, c'è poca avanguardia, anche per la scarsa presenza di artisti specializzati. La musica non è un'arte autonoma: l'autore deve affidarsi a un esecutore: e purtroppo non esistono strutture che mettano a disposizione solisti, orchestre, organici vari per eseguire le nuove musiche".  Tutte cose vere, naturalmente, e sarebbe appena il caso di chiedersi dove diavolo avrebbero dovuto essere queste orchestre se non alla Rai... Certo, la responsabilità era dei vari direttori artistici lì presenti, da sempre più preoccupati di crearsi un'immagine nazionale: a chi poteva interessare promuovere la musica dei compositori locali? 

Tuttavia Di Lorenzo, di tanto in tanto, riuscì ad essere eseguito dall'orchestra Rai e ad utilizzare quelle esecuzioni per incisioni discografiche. Extra ecclesiam nulla salus.

 

La difficoltà di essere musicisti a Napoli

Per Renato Piemontese (l'intervista è del marzo '84), "Napoli è una strana città: se può sembrare l'eterna addormentata all'ombra degli eventi, opera poi costantemente in una fitta rete di cultura che sovente esplode o primeggia nelle occasioni offertele. Una gran quantità di talenti produce arte come il pane quotidiano, ma è costretta a usufruire  di circuiti extralocali o, se vuole operare in loco, di quei rari spazi consentitigli dalle strutture esistenti. Il guaio è che questi spazi sono creati non certo per sete di conoscenza o per interesse diretto, ma perché 'la serata contemporanea dà lustro' ". Con grande lucidità, Piemontese aggiunge che "Napoli non offre alcuno spazio alla musica contemporanea, se non sporadiche occasioni pressoché riservate a quei nomi che fanno parte dei circuiti nazionali di arte contemporanea. Tutti dovremmo raggiungere la consapevolezza che l'avanguardia non è più dei vari Sciarrino, ma di coloro che giorno per giorno continuano la ricerca e la sperimentano nell'atto della creazione".

Il problema è che sono passati oltre dieci anni da quella intervista, e l'unico omaggio a  un vivente che si pensa di organizzare nei dintorni della città è proprio dedicato a Sciarrino, un compositore che, con tutto il rispetto, appare lontano anni luce da tutto quanto sta accadendo nel panorama delle musiche vive[38].

Piemontese descrive con precisione e minuziosità il suo procedimento creativo: "Partendo dalla ricerca di definizione immaginale, attraverso processi di articolazione, ti trovi a modificare e spesso a moltiplicare le immagini stesse, ti trovi in mondi diversi da quelli iniziali, ad analizzare sfere emotive scaturite dalle tue elaborazioni, dalle tue immagini. Rispetto ai mezzi espressivi, non disdegno di usare, se necessario, forme di linguaggio anche tradizionali. Un compositore di oggi ha a sua disposizione una enorme quantità di materiale timbrico, armonico e gestuale, anche perché coadiuvato da mezzi tecnici impensabili fino a pochi anni fa. Con questo intendo dire che non soltanto perché si è usato il rumore di un vetro rotto si debba negare l'utilizzazione dei semplici accordi perfetti maggiori e minori".

 

Il suono e la parola

Nel marzo dell' '84, stimolato dalle inchieste condotte, e per muovere qualcosa in acque altrimenti stagnanti, promuovo e curo nelle sale della libreria dehoniana di Via Depretis un convegno dal titolo "Il Suono e la parola", in tre pomeriggi di "annotazioni e ascolto sulla/della Nuova Musica". Il 23 marzo leggo gli "Spunti per una estetica improbabile", già pubblicati dal quotidiano Napolinotte, e faccio ascoltare su nastro le musiche di Cilio, Fels, Montagano e mie. E' previsto un intervento di Enrico Renna, di cui Ciro Scarponi aveva eseguito Tief durante gli "Incontri nazionali della Nuova Musica". Sia io che Fels abbiamo appena detto la nostra, soprattutto mostrando l'apertura a musiche di provenienza differente da quella 'colta'. Renna reagisce duramente, prendendo in giro alcuni gruppi rock e cercando lo scontro frontale anche sul problema della formazione (servono le scuole di composizione? in che rapporto sono genialità e autodidattica?). Eugenio non sopporta la provocazione, s'alza e va via.

Al secondo incontro, proprio sul tema della creatività,  benché fosse prevista la presenza di Columbro, Piemontese, e naturalmente la nostra, ci si ritrova in pochi: evidentemente non a tutti le sorti della musica contemporanea sono care come era parso nelle interviste. Conclude il ciclo l'unica commemorazione a Salvatore di Giacomo, il 5 aprile, con un "Omaggio" di Franco De Lorenzo che ne ha musicato e pubblicato su ellepì una lirica[39].

Posso dire retrospettivamente che il convegno ha avuto una duplice funzione. I contenuti, innanzitutto: materiali sommersi son venuti alla luce, riacquistati all'ascolto benché soltanto da nastri. Ma anche tesi a confronto: l'irriducibilità  tra l'avanguardia 'colta', 'sperimentale', e quella vera, che avrebbe preso il sopravvento: quella che incontra di nuovo il pubblico perché utilizza la contaminazione, un linguaggio accessibile ed espressivo (non necessariamente semplice), che rompe con l'estetica oppressiva e snob della seconda scuola di Vienna. Simbolicamente, le due posizioni s'erano scontrate, e quasi schiaffeggiate, per usare una metafora 'postuma' suggerita da Fels.

Nemmeno mi pare casuale l'assenza di alcuni, e l'egotismo di altri (i tg segnalarono soltanto la terza conferenza...): mentre in altre città, per esempio Roma o Firenze, i compositori riuscivano a federarsi e a trovare nuove opportunità d'esecuzione, a Napoli, scomparso Cilio (avrebbe potuto essere l'Amelio della musica), non si reperiva una figura capace di aggregare e amplificare le diverse solitudini.

Se non c'era l'emergenza di un contropotere (né io né Montagano riuscimmo a costruirne uno sufficientemente forte), mancò pure un interlocutore istituzionale che potesse per autorità o competenza costituirsi come referente.

 

Andiamo a verificare...

In effetti, se si tenta una ricognizione delle possibilità concrete offerte dalla istituzioni cittadine in quegli anni, guardando anche ai loro direttori, si vedrà che queste si potevano quasi contare sulla punta delle dita e che quelli s'infischiavano della valorizzazione delle nostre risorse. Ed è quasi superfluo precisare che non si sta parlando genericamente della musica  che altri portavano qui, ma delle occasioni che gli artisti partenopei avevano per dare visibilità al loro lavoro.

Tutto questo va dimostrato, per evitare che si parli della solita lamentazione o del consueto piagnisteo meridionale. Qui deve essere visibile che la compressione di certi percorsi fu questione di scelte relative a precise politiche culturali. Le nostre terre di frontiera furono prese per terre oleografiche, e rese disponibili alla conquista. Capire questo, e dirlo a tutte lettere, potrebbe servire ad evitare errori futuri, e il messaggio mi pare sufficientemente chiaro. Devo anche legittimare l'indignazione con documenti, date, citazioni, che sono qui solo esemplari (né potrebbe essere diversamente: il panlogismo è una pretesa eccessiva). E pazienza per l'appesantimento del testo.

I nomi che già sporadicamente passano al San Carlo sono quelli di Satie, Hindemith, Berg, Webern. Il nostro teatro viene appena sfiorato da opere di Henze, Tosatti, Barber, Mannino. Nell' '86 si commemora il quindicesimo anniversario della morte di Antonio Cece (Passacaglia). Nel '93 ci sono Cece e Morricone. Poche e sporadiche le altre presenze. La musica contemporanea ha invece una via d'accesso facilitata per quanto riguarda i balletti. A parte una fantasmatica commissione che già Cilio dovette ricevere, il Caledoscopio di Cece,  Lucia! di Sergio Rendine, e poche altre cose, ho notizia di un ottimo successo riportato da Nino Panariello con Immago.

Alla Rai, quando ancora la sede era attiva con una programmazione indipendente e con l'orchestra, l'apparente gran movimento sotto la direzione artistica di Mario Bortolotto, soprattutto grazie al Festival d'autunno consacrato alla musica contemporanea, si riduceva alla passarella dei soliti nomi dell'avanguardia nazionale che ci gratificavano con le loro opere sperimentali.  Nell' '84, ad esempio, veniva eseguito l'Arioso mobile di Francesco Pennisi (e nello stesso concerto opere stagionate di Ghedini e Bossi). Bortolotto riteneva molto importante dare spazio ad un concerto monografico dedicato alla "Scuola di Donatoni" col milanese Ruggero Laganà (Concerto per arpa e orchestra),  Alessandro Solbiati, classe 1956, di Busto Arsizio (...Più sopra le stelle..., per soprano e orchestra),  Pippo Molino, sempre milanese (Il canto ritrovato, per orchestra da camera), col romano Matteo D'Amico (Ariel, per orchestra) e naturalmente  Franco Donatoni (Orts per 14 strumenti). Una certa compensazione la troverei nella scelta di Enrico Renna come direttore, se non sapessi che quel concerto dette origine ad una serie di problemi e recriminazioni. Nel 1985, Bortolotto programmava Bettinelli (Omaggio a Strawinsky e Concerto per violino e orchestra), Pennisi (Due canzoni natalizie etnee), Short (Slow Drag and Gallop; Scott Joplin and Friends, per quintetto d'ottoni e orchestra), riteneva importante commemorare i dieci anni dalla morte di Dallapiccola (e passi), ma anche il sessantesimo compleanno di Aldo Clementi (O du Heilige) con musiche di Gentile (Criptografia), Togni (Lyrusches Intermezzo), ancora Pennisi (L'arrivo dell'Unicorno, giusto per una postilla "per Aldo"), Arcà (A Splendid Tear), Mann e Sciarrino (Due canzoni del XX Secolo). Ospitava il Terzo concerto per pianoforte e orchestra op.25 di Mosca (uno dei pochi brani memorabili), ed il "veneziano" concerto per pianoforte, clavicembalo e orchestra di Ambrosini. Sempre nell' '85 c'erano due prime assolute di Claudio Cojaniz (Memories 1 e 3), con la direzione di Dennis Stanko e di Sandro Gorli[40]. Nel 1987 (ancora una festa di compleanno!), per il 60° anno di Hans Werner Henze si eseguono la  Sinfonia n. 1, per orchestra da camera; la Fantasia per archi e leFunf neapolitanische Lieder (e cioè "Canzoni 'e copp' 'o tammurro") per mezzosoprano e orchestra.

In realtà, il vero pensiero di Bortolotto sulla musica napoletana era contenuto in una epigrafe consegnata al già citato disco di Franco Di Lorenzo. Tra altre amenità, riteneva che il lavoro di Di Lorenzo non si potesse "ricondurre ad una matrice napoletana, vera o immaginaria che sia"; e adduceva le seguenti motivazioni "storiche": "si sa come, dopo la grande età dei Borboni, fino al direttorio e al regno di Murat, non si possa più parlare, per la composizione, di una vera e propria scuola di Napoli: lo stesso insegnamento di Zingarelli (mi permetto di far notare che sta parlando di Nicola Antonio Zingarelli, nato a Napoli nel 1752, e morto a Torre del Greco nel 1837!! nda), e d'altri, ebbe gli esiti migliori con musicisti non napoletani, Bellini in prima fila. La ripresa importantissima di Martucci non trova continuatori: dopo Martucci, si tratta in ogni modo di casi sporadici, da considerare, chi ne fosse interessato, ciascuno per sé, autonomamente". Non c'è che dire, una ricostruzione davvero aggiornata! Il lavoro di Franco Di Lorenzo sembra aver avuto valore soprattutto per il fatto che "quali che siano i suoi rapporti con gli altri musicisti del Sud, la sua linea se ne discosta senza mezzi termini. Non rinunzia a nulla del colore che è tradizionale nella musica del Mezzogiorno, e men che mai della sua tendenza a risolvere tutto in valori lirici, nel predominio del canto (...)".

Come ci si poteva illudere che questa linea critica concedesse spazi alla nostra musica?

 

Tutto cambia, nulla cambia

Con l'avvento di Fargnoli alla direzione artistica della Rai, c'è l'apparenza di qualche concessione in più ai compositori locali. Nell'Autunno Musicale dell' '88 viene programmata la Suite Dominicana di Antonio Braga, che fa seguito alla sua Hispaniola, già eseguita alla Rai. Ci sarà una serata di prime assolute, con il  Capriccio per clarinetto e archi  di Aladino Di Martino (un brano atonale e virtuosistico), l'omaggio a Proust Recherche  di Franco Di Lorenzo (certo non descrittivo nel senso tradizionale, ma rivisitazione atonale e quasi dodecafonica - ma non seriale), il Concerto per archi di Cece, il modesto Concerto per clarinetto e archi di Enzo De Bellis [41], la Suite per pianoforte e archi di Mario Pilati (nel 50° della morte)[42]. Il concerto del 9 dicembre vede quattro prime esecuzioni assolute, di Galdi (Concerto per archi), Vandor (il manniano Paesaggio con figure), Scogna (Fluxus, immagino dal nome del mitico e omonimo movimento) e Lombardi (è il Concerto per pianoforte e orchestra)[43]. Il 16 dicembre c'è la prima di Gentile (Concerto per chitarra e orchestra) e di Ravinale (Elegia del silenzio, e meglio sarebbe stato tacere). Non mancano cenni di continuità con la gestione di Bortolotto, come si vede, non foss'altro per il perpetuarsi dell'intento celebrativo (l' 80° compleanno di Carter...). Nella stagione "istituzionale" dell' '89, su diciannove concerti, l'unico 'contemporaneo' sarà Petrassi. Pian pianino anche l'"Autunno Musicale", tradizionalmente dedicato alla musica d'oggi, si impoverirà di esecuzioni: nel '90 l'autore più vicino a noi sarà Hindemith. E non è napoletano.

Le altre istituzioni, la cattedra universitaria di Storia della Musica e il Conservatorio statale, hanno avuto un ruolo trascurabile per la promozione di musica contemporanea. La prima pare quasi specializzata in musica medievale (non è una battuta: Ziino è un esperto di quel settore), e il secondo, oltre ad ospitare periodicamente un concerto  di qualche gruppuscolo, mi pare, fino ad oggi (si è appena insediato Roberto De Simone), paralizzato come la sua biblioteca[44].

 

Le ragioni del silenzio

A questo punto le ragioni che mi spingono a qualificare la nostra come un'avanguardia 'altra' dovrebbero essere evidenti. Avevamo contemporaneamente qualcosa in più e qualcosa in meno rispetto a città come Roma o Firenze.

I politici che ci rappresentavano venivano eletti per ragioni di opportunità. Le Piedigrotte  erano sempre servite a consolidare i tarallucci, di cui ci restava naturalmente soltanto il buco (altro che brioches!). E' naturale che si facesse di tutto affinché le cose rimanessero come erano. Non si poteva mica consentire a qualcuno di ripensare la cultura, di anticipare i percorsi dell'arte, di riformulare quelli della musica. L'omertà è calata anche attraverso i giornali; quando s'è soltanto svilito e sminuito quello che qui si produceva bisognava ritenersi fortunati. L'acquisizione estetica del silenzio è stata quantomeno 'indotta', per dir così, attraverso quella mancanza di parole.

L'omertà produceva altri effetti indesiderati: eravamo incapaci di federarci; il sospetto, l'opportunismo, il menefreghismo e il tira a campà tutto partenopeo, appartenevano alla sfera delle scelte, o erano anch'essi 'indotti'?

Così, ognuno fece per sé; qualcuno riuscì, come Roberto De Simone (che per la verità ha anche dato spazio a molti giovani). Molti altri non furono, all'interno dell'atollo, che una miriade di monadi perlopiù isolate, spesso in lotta feroce l'una con l'altra.

Questo individualismo esasperato non ci impedì di anticipare talvolta i percorsi estetici nazionali, e in qualche caso internazionali, un po' come era avvenuto al trenino della "Vesuviana". Non ho bisogno di fornirne prove ulteriori: il solo caso di Cilio è sintomatico, e taccio, per pudore, dei viventi.

Ma occorre tener presente che con la velocità ipermediale l'unicità del genio è andata scomparendo; la sensibilità collettiva appartiene ad una coscienza globale sempre più sviluppata. Insomma, ci si muove in tanti verso la medesima meta. Una cosa accade quando la vediamo in rete;  non possiamo nulla contro questa illusione, se non almeno mantenerci consapevoli degli effettivi mille piani quando ricostruiamo o raccontiamo i fatti.

Magari conservando quella personale conoscenza, la quale infine supera la prospettiva, e si tramuta, col tempo, in  silenziosa e saggia capienza.

 

L'armonia e l'invenzione

Molte monadi, dunque, si formano pian piano. Associazioni come "L'Armonia e l'invenzione", "Liszt", "Aliseo", gruppi come  "AC.EL.", "Virus", "Colin Muset": tutti esempi che documentano la vita musicale dell'ultimo decennio. Realtà non prive di valore, di intuizioni importanti. Forse uniche occasioni per veicolarsi.

L'attività de "L'Armonia e l'invenzione" sembrò inizialmente incoraggiata più da "Paese Sera" che dal "Mattino". Ma anche il maggior quotidiano locale dette spazio a quei concerti/analisi, come ad esempio alla performance di Shivkumar Sharma. Naturalmente ciò avveniva entro i limiti e le possibilità che già abbiamo attribuito ai critici di quel giornale. Il merito generalmente riconosciuto all'associazione (che organizzò incontri di rilievo con Berio, Nono, Schiaffini, etc.) è attribuito al tentativo  di 'formare' il pubblico napoletano, che però a me pare un tentativo che palesa una vecchia malattia degli operatori, forse inoculata dalla formazione neoadorniana. Infatti mi pare chiaro che il vero problema per i botteghini fosse più nella qualità dei compositori che riuscivano ad arrivare ai teatri che nei limiti di fruibilità degli ascoltatori: i curriculum e le cassette demo venivano accolte all'estero e rifiutate a Napoli.

 

Un colloquio di informatica musicale

Il gruppo AC.EL. (e cioè il gruppo di Elettroacustica del Dipartimento di Scienze Fisiche dell'Università di Napoli), invece,  svolse prevalentemente attività di ricerca fin dalla  fondazione nel '76 ad opera di Giuseppe Di Giugno e Antonio De Santis. Coinvolse soprattutto scienziati interessati al discorso musicale, più che musicisti veri e propri: ma questa è un po' la pecca di tutta la musica elettronica (solo in parte, e con evidente minor capienza di mezzi, l'insorgenza della computer music consentirà anche a compositori non specialisti di ampliare certe facoltà grazie all'uso delle macchine, sempre nell'ambito di possibilità previste da software già predisposti). Una storia essenziale del gruppo è stata formulata da Giancarlo Sica, sensibile e disponibile compositore, in un saggio ospitato da  KOnSEQUENZ (n. 2/94). Tuttavia mi pare importante ripetere qui, almeno, i nomi di Sergio Cavaliere, Aldo Piccialli e Imma Ortosecco (1980). Nell' '81/'82, Cavaliere e Sossio Vergara realizzano un elaboratore in tempo reale per la sintesi del suono (TROLL). Con Lorenzo Papadia, Cavaliere studia, inoltre, un sistema che consenta l'interazione automatica tra musica e movimento, poi presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Il sistema PSO-TROLL, che approderà a Parigi, sarà invece opera di Piccialli, Cavaliere ed Evangelista.

Ma l'esito più importante dell' AC.EL. per la città, visto il numero di prime esecuzioni che vi si realizzarono, fu il "VI colloquio di Informatica Musicale", tenuto a Villa Pignatelli nell'ottobre del 1985. Oltre all'esecuzione di tre lavori di Giancarlo Sica (Cantata (ex machina) per soprano e computer; Arcana; Timesteps) non mancarono prime assolute di Sergio Cappucci (Traslazione e...), Enrico Cocco (Istinti verso...), Michelangelo Lupone (Mira);  brani di Fausto Razzi ed altri.

 

Il lavoro di Giancarlo Sica

Pur svolgendo un'intensa attività di ricerca nell'ambito del gruppo AC.EL., Sica non rinuncia per questo all'attività compositiva. Le sue opere strumentali Sonata per pianoforte e marimba, e Quartetto d'archi, adottano un sistema compositivo che rimanda implicitamente alle permutazioni matematiche utilizzate anche nella produzione elettronica. Lo stratagemma tecnico consiste nell'individuazione di piccole sequenze ripetute attraverso un loop, un circolo virtuoso/vizioso di reiterazioni, pur sempre modificabili, sulle quali si inscena la variazione tematica o l'invenzione ritmica di una parte superiore. Mi pare, in particolare, di poter connettere le due composizioni già citate almeno alla Cantata (ex machina)  e a Kane no Koe.  Un discorso a parte merita invece Ancestralia, per pianoforte, alla quale abbinerei Il cerchio del Tonal, ambiziosa e bellissima suite per voci ed orchestra ispirata alle opere di Castaneda ed eseguita in prima a Napoli nel 1991[45]. Si tratta di opere legate a linguaggi più semplici, tonali o atonali, che restano pur sempre espressive e raffinate. Anche la Fantasia per flauto e orchestra da camera (ma ne esiste anche una versione per flauto e quintetto d'archi) può riconnettersi a questa seconda anima di Giancarlo, visto che alcune cellule rimandano alla medesima propensione india. Qui la tensione  resta legata più al percorso iniziatico/musicale che a un "in sé" dedito alla ricerca di suoni e formulazioni inedite. L'anima elettronica di Sica non si esime dall'uso di seduttive voci femminili, le quali muovono melodie atonali e voluttuose, al di sopra di un sostrato elettronico denso e inaccaduto, per indisponibilità delle sue particelle ad un riconoscimento strutturale. Ad esempio, la Cantata utilizza un testo liberamente estrapolato dalla lirica Laughing Gas di Allen Ginsberg ("un'occhiata/dalla quale l'intero/processo svolge questo/universo.../lo disfà nel suo esatto/contrario finché si ritorna da/fino al Nulla/nel quale a caso/una nota venne in origine/sfiorata (...) e l'intera/struttura si svolge/inevitabilmente e/torna a riavvolgersi/nel Nulla..."), gestisce la voce umana come nona super partes (le altre otto sono affidate al computer, che conduce il movimento di un cluster suddiviso in due sezioni in modo da ottenere spettri leggermente disarmonici). Anche Kane no Koe ("Il suono della campana") utilizza la voce femminile che recita un testo giapponese ("Gli orgogliosi sono effimeri, simili solo al sogno di una notte di primavera; e i forti, anch'essi, saranno alla fine travolti, a nient'altro simili che a polvere dinanzi al vento"). Invece, un lavoro decisamente all'avanguardia, e quindi all'estremo 'elettronico' di Giancarlo Sica, mi pare Particles che utilizza il linguaggio per macchine virtuali Csound, del quale Giancarlo ha fornito un'esemplare trattazione nel n. 1/95 di KOnSEQUENZ. L'autore così la definisce: "la composizione è nata dall'idea di 'fasci di particelle' musicali (i grani della sintesi granulare asincrona) propagantisi ovunque, che di volta in volta si aggregano a formare strutture sonore dotate di confini ben definiti o nebulosi, e con distribuzioni spaziali dinamiche nel tempo".

Pur riconoscendo l'elevato specialismo elettronico di Particles , confesso di preferire la produzione intermedia, quella che mescola l'umano e l'elettronico, anche perché lì il linguaggio mi pare più riconoscibile.

A meno che anche quello della riconoscibilità non diventi un luogo comune, e non si verifichi davvero la scomparsa della figura dell' autore. Finora, all'alba del terzo millennio, non è che un'ipotesi giocosa, a metà strada tra fantapolitica ed estetica, ma la diffusione di tecniche sofisticatissime ne sta accelerando la realizzazione.

 

Nasce la Ferenc Liszt

Nel febbraio dell' '85, per iniziativa di Fels e mia, nasce l'"Associazione Musicale Ferenc Liszt": la nostra monade. Il primo atto è esecutivo e strumentale, ci qualifica immediatamente come pianisti-compositori: nelle sale adiacenti al chiostro maiolicato di Santa Chiara, si tengono due long concert  solistici.

Eugenio suona nella prima parte uno dei suoi mitici Bach-Fels (ovvero una trascrizione/reinvenzione da Bach), e tre pezzi forti  di Mozart, Franck e Liszt. Nella seconda parte tre composizioni di Dino Messina: Réverie d'été (1983), Sortilèges d'une courte èvasion (1985) e Improptus (1982), la IV Sonata di Cilio nella prima versione del 1975,  la Sonatina di Pappacena, le mie Variazioni sul Vento (1985) e la sua Vent qui chante, vent qui danse - Sonata, nella versione del 1983. Io dedico la prima parte ad Erik Satie, ma cambio i testi, improvvisando sugli ostinati in Avant-derniéres penseès, modificando con variazioni ritmiche  Je te veux, giocando sulle dinamiche delle sei Gnossiennes e delle tre Gymnopédies. Nella seconda parte presento Les chants de la mi-mort di Alberto Savinio, musiche di Stravinskij, Schoenberg, due brani di Fels, due di Giusto Pappacena, il Preludio per pianoforte di Franco Di Lorenzo[46], i miei Fantasia, Preludi, Basso ostinato. In calce al programma è indicata una "improvvisazione", che fu tenuta e registrata: l' esperimento di un pianista 'colto' al quale stava stretto quel ruolo. L'inaugurazione dell'Associazione smuove un po' le acque, anche per la straordinaria affluenza e il notevolissimo successo di pubblico che accompagnano entrambi i concerti. La Liszt inizia un'attività che la porterà nel giro di dieci anni a diventare Ente di rilievo regionale, e alla pubblicazione di KOnSEQUENZ. Poco dopo la sua fondazione, gemma una filiale calabrese, presieduta da Jonny Polito, e una romana grazie al pianista Claudio Bonechi. Negli anni promuove una serie di rassegne pianistiche in cui si dà spazio soprattutto a interpreti e compositori locali; patrocina lo spettacolo teatrale e musicale "Satie Opera" di Ugo Fanina ed Eugenio Fels che fa il giro d'Europa; produce concerti per coro o vario organico. Dal 1990 al 1994 cura la parte musicale della Mostra meridionale del libro "Galassia Gutenberg", inventandosi ogni anno un tema differente, con iniziative seguitissime dalla stampa locale e nazionale ("...fino alla Nuova Musica", 1991; "Nonsolomozart", 1992; "Gershwin & dintorni", 1993)[47]. E' grazie al lavoro dell'Associazione che sarà possibile, nel maggio del 1993, tenere presso le Edizioni Scientifiche Italiane il "Ricordo di Luciano Cilio", capace di scatenare una nuova ondata di interesse sul  percorso musicale dell'artista scomparso.

 

Scoppia un Virus

Parallelamente all'attività della Liszt si attesta anche quella di un gruppo di pittori in grado di portare aria nuova anche alla musica, con performances e happenings che coinvolgono strumentisti e compositori, cittadini e non. Il progetto di Giancarlo Savino, Carla Viparelli e Dino Izzo è a tutto raggio, e può condensarsi nella frase "l'arte è un modo". La matrice del virus-pensiero può essere studiata leggendo il Progetto per un nuovo almanacco (il riferimento è a Kandiski) rilasciato dai tre artisti il 30 novembre 1987. Sia Adorno che Arnheim col suo l'Entropia e l'arte influenzano l'estetica del gruppo, e tuttavia il Virus si muove e promuove verso/con sviluppi inediti e realizzazioni estetiche originali. "Il superamento che l'artista può esprimere nel suo lavoro è il superamento di se stesso: l'avanguardia è un'officina interiore": il gruppo aprirà il suo atelier ad altri artisti, a visitatori e curiosi. Ampi stanzoni con sorprese sempre nuove: lì qualcuno  dorme e  mangia, eppure produce  (alla faccia di Adorno!). La sensazione del movimento estetico svolto attorno e dentro quella casa/museo colpisce tutti, e sempre più gente affolla le serate programmate dal gruppo. Ad ogni "Evento", una sorta di memorandum: un ciclostilato con frasi, dichiarazioni, disegni. Un genio trasversale, la cui vita è arte, accompagna il lavoro di Virus: si tratta di Isacco, sempre presente nel museo, come un custode d'oggetti svaniti (da un quadernino: "Confusa armonia delle forme, nubi son parole che un sogno scrive"). In uno dei memorandum ci sono scritti di Oreste Bilotti, fantasie vulcaniche  di Carla Viparelli (usa materiali raccolti pazientemente sul vulcano, e sul vicino Monte Somma, poi mescolati, mescolati...), poesie di Marco Manchisi, affabulazioni di Izzo e Savino. Su di loro andrebbe scritto un libro apposito, ma qui si può segnalare almeno la "Esposizione di macchine inutili" di Puccio Savioli e Michèle Kramers, perché lì si raggiunse un grande coinvolgimento tra scultura, musica (improvvisata/segnata) e teatro. L'arte, in queste forme, comincia a risuonare con gli spazi della metropoli, come era accaduto con "Suite per un castello". Ma qui la città è più vicina, perché non vi si sovrappone l'ingombro del monumento. Il corteo di macchine terrestri e volanti si forma in una piazza, quella del Gesù Nuovo, e procede verso lo studio di Via Benedetto Croce, sosta in un cortile, lungo le scale rovinate, e ad ogni pianerottolo di un palazzo, storico quanto malandato. Tra la folla si finisce col toccare mura e gradini, sentire ringhiere arrugginite e osservare intonaci cadenti. Eppure tutto ciò è più vero e più sentitamente artistico dei concerti al San Carlo e alla Rai. La storia di Virus è importante proprio per questo: se un artista non riesce a trovare "canali", allora apra la propria bottega, e si faccia egli stesso vicolo, rione, città[48]. Se i luoghi istituzionali sono vuoti di cultura, perché il circuito soffoca, allora riempiamo le case vive di una metropoli morente, respiriamo con gusto l'atmosfera decaduta, accendiamo candele che rendano visibile un'altra e una vera avanguardia, che è sentire interiore. A Napoli è mancato chi fosse in grado di portare un contrabbasso, un pianoforte, un violoncello, in una piazza. La cosa avrebbe avuto un senso profondo allora. E non ne ha alcuno oggi, quando il mercato si è in qualche modo riconciliato con l'arte, perché l'arte ha trovato una strada, è uscita dall'impasse in cui era precipitata.

 

Le ribollenti Temperature Flegree

Vittorio Palumbo[49] fonda l'Associazione Aliseo e dall' '85 som/muove i territori flegrei attivando un fantastico contenitore di musica, pittura, danza, editoria. L'inizio, nell' '85, alle terme di Baia, non sarà privo di deflagrazioni, visto che l'idea straordinaria di accostare arti visive (decine di mostre dislocate lungo un percorso), musica 'classica' (ma con il trasgressivo concerto di Fels, che programma opere di Corea, Wakeman, Brubeck, etc.) e musica rock viene rovinata da slittamenti che dividono i desiderata dei rispettivi pubblici (ecco il punto debole: il pubblico è unico). Ma, aldilà della mia defezione (avrei dovuto intervenire in due concerti), la rassegna decollerà benissimo soprattuto per la presenza dei Panoramics, dei Walhalla, dei Little Italy e dei Bisca. Sempre alle Terme, si terrà l'edizione dell' '87, dedicata alla danza. Parteciperanno Movimento Danza, Every Day Company (al pianoforte c'è Antonello Salis), Koros, e Teatrodanza Contemporanea. La rassegna dell' '88 ha la grave pecca di essere presentata da politici campani (i processi sono in corso...), ma il programma è denso, anche perché approfitta del (quasi) mezzo millennio della nascita del vulcano flegreo Monte Nuovo. In collaborazione con lo Studio Morra, luoghi dell'area flegrea s'accendono di musica, poesia e teatro. Alla Solfatara, all'Acropoli di Cuma, nella Casina Vanvitelliana del Fusaro, si alternano nomi d'artisti e studiosi: Corrado Costa, Arrigo Lora-Totino, Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Marcello Aitani, Albert Mayr. La quarta edizione di "Temperature Flegree" vede inaugurarsi l'attività editoriale di Aliseo, con la produzione di I miti e la storia nei campi flegrei e il videodanza dedicato a Properzio, alla Piscina Mirabilis: "Cynthia, forma potens, Cynthia, verba levis"

 

Il Colin Muset

Una sintonia molto particolare con quello che accade nel resto del mondo conosciuto, cosa piuttosto infrequente nella città in cui viviamo, è stata dimostrata dal "Colin Muset", una formazione capace di gareggiare, per inventiva, con quelle che oggi riescono a sbancare nei festival e nei negozi di dischi. Altrove, infatti, anche gli imprenditori ed i produttori hanno capito che si stava affievolendo l'auctoritas legata alla tradizionale immagine del "compositore di musica", e che anche i brani di repertorio, ancorché il giro d'affari  crescesse, risultavano alquanto difficili da piazzare sul mercato discografico per l'enorme costo delle produzioni.  Così, va da sé che diventava economicamente molto conveniente promuovere gli esperimenti creativi, inizialmente soprattutto trascrizioni, poi subito reinvenzioni e creazioni originali, di piccoli ensemble da camera dall'organico raro o ricercato. Qualche esempio? il "Marimolin" con Sharan Leventhal al violino e Nancy Zeltsman alla marimba; gli "Icebreaker" (spaccaghiaccio), fondati da James Poke e John Godfrey nell' '89, una decina di strumentisti che usano anche tastiere, basso e chitarra elettrica, percussioni; il brass quintet "Meridian Arts Ensemble"; Brett Dean e Simon Hunt ("FrameCutFrame"); il "New Century Saxophone Quartet" con Stephenson, Boatman, Pollock, Hubbard; e l'italiano "New Art Ensemble", che però al posto di Canino avrebbe bisogno di un pianista alla Moritz Eggert. Non ho volutamente citato ensemble più famosi, come quelli legati ai compositori Bryars, Glass, Adams, Nyman, o i quartetti rivoluzionari Kronos e Balanescu, e gli straordinari Madredeus. Il "Colin Muset" è in grado di gareggiare e vincere con più di uno di questi gruppi, eppure, benché anch'io non mi esima dal citarne le gesta ad esempio su una rivista specialistica della portata di CDclassica, è entrato in crisi dopo aver registrato un disco rimasto sullo scaffale dei crediti che la musica napoletana vanta verso la politica culturale cittadina[50]. I cinque strumentisti eccezionali sono (all'origine, ma le collaborazioni si moltiplicherranno nel tempo) Antonello Paliotti (chitarra, mandola e mandolino), Maurizio Chiantone (contrabasso) Nicolò Casu (tromba, flicorno sopr.), Luciano Russo (clarinetto, sax ten.) e Roberto Natullo (flauto e ottavino). Si tratta di musicisti di estrazione classica, ma con differenti percorsi artistico-culturali. Il loro progetto è sintetizzato nella ricerca di un suono particolare, 'nuovo' grazie all'originalità dell'organico, e nella scelta di un repertorio che è come minimo trascritto e adattato alle esigenze della compagine. Loro si sentono un po' vicini alle esperienze del Novecento ( opere jazz o da music-hall, autori dell'altro Novecento: Weill, Stravinskij, Piazzolla, Gismonti, etc.) e un po' orchestrina da Café Chantant o Cabaret berlinese anni '20. Si occupano anche dei contemporanei, soprattutto quando si tratta di utilizzare brani scritti per organico indeterminato. Ma quello che mi piace di più dei loro 'intenti programmatici' è la seguente frase: "Infine la musica contemporanea: impossibile la trascrizione di opere scritte nel dopoguerra, non solo perché esse risultano legate alla tecnica degli strumenti per cui sono state pensate, ma anche perché contengono già in nuce tutto il significato strumentale; ciò che rende non trascrivibile la Terza Sonata di Boulez, per esempio!".

 

Bob Ashley, Peter Gordon...

Gabriele Montagano non si dà per vinto, e tra il 1986 e il 1988, si sbatte parecchio per inventarsi un ruolo d'artista manager che gli consenta di programmare e realizzare eventi d'elevato valore estetico. Invece di tentare la via delle associazioni, che abbiamo visto in fondo restare monadi (magari effervescenti, ma monadi), intraprende quella dell'impresa. La sua abilità manageriale la spunta in diverse occasioni, ma più spesso capitola di fronte all'incapacità di realizzare idee che si spingono troppo avanti. L'accensione di piazze e strade, la possibilità di far cantare, per davvero, tutta la città; la proliferazione non convenzionale di materiali anche effimeri (altro che resistenti), di istallazioni evanescenti, si scontra con la coriacea diffidenza partenopea, con quel modo di pensarsi e sentirsi fieramente isolati. La vera ragione di quell'identità falsata era ancora politica, e di certo legata alla capienza di un serbatoio di voti che una gestione differente, progressista, della cultura avrebbe potuto drasticamente ridurre.

Muovendosi tra mille difficoltà, Gabriele organizza la mostra "Immagini di città" a Villa Campolieto; il duplice concerto, a Santa Chiara e all'Istituto francese, del coro Bela Bartòk diretto da Kertész; diverse mostre (tra cui l'incontro con la fotografia di Antonio Gaeta al Museo del Sannio); promuove a Nola la rivista "Match" diretta assieme a Camillo Capolongo. Nel 1988 assume la direzione artistica dell'importantissima "Jazzology", rassegna antologica del jazz italiano[51], e quella del "Settembre a Napoli", riuscendo a portare in città Bob Ashley, con la prima europea di El Aficionado, e il newyorkese Peter Gordon. E tuttavia, conoscendo l'estrema ricchezza del progetto originario di Montagano si ha la misura dello scarto esistente tra le sue idee avanzate e le concrete possibilità offerte dalle istituzioni cittadine.

 

Vento che canta, vento che danza

Eugenio Fels, intanto, si ritrova in una nuova felice stagione creativa. Il suo autocontrollo è forte, e la capacità di entusiasmarsi per la musica in sé gli conservano una intensa vitalità.  Scrive Aztlán  (tromba, trombone e pianoforte), Ixtlán  (clarinetto e pianoforte) e l' Intermezzo  per chitarra, tutti nell' '88. Harzenlied (viola e pianoforte) e Atitlán (pianoforte) nell' '89; il Preludio Dorico e l' Arabesques, sempre per pianoforte, nel '90; completa l'ultima versione, ormai definitiva, della Vent qui Chante, Vent qui Danse - Sonata nel 1992; compone il Canto Notturno (pianoforte) e le musiche di scena, per organo e strumenti, Lustratio ad iter Averni nel '93; la Threnodia, per voce e strumenti, nel '94, assieme ad un monumentale lavoro di trascrizione (ed incisione) della colonna sonora del film Fade Out. Recentissimo è l'Hommage à Bartòk, che consta di due pezzi facili per due pianoforti, un Ostinato  e una Marcia, rispettivamente del gennaio e maggio '95.

Cominciamo dalla Sonata, che accompagna il percorso del pianista-compositore per lungo tempo. Il primo movimento consiste nell'esposizione del tema, mutuato da una canzoncina francese e affidato al registro medioalto del pianoforte. Nella (mai) celata tonalità di do minore, il Tema esplora l'universo di poche note presente già nell'Antica Monodia tuttavia aprendosi subito a più voci, e consegnando la melodia ad una parte interna, in modo da esigere dall'esecutore notevole magistero di tocco. Suddiviso in due sezioni, Andante e Più veloce (legatissimo), prende in quest'ultimo un carattere 'improvvisativo' di ricercando, grazie al do basso in ottava sul quale si muove, non esente da cromatismi e variazioni, la frase che contrappunta il tema. L'Adagio comincia con un mi naturale basso, e con misteriose volatine modali che approdano ad appoggiature sostenute dall'ultimo suono legato dell'arpeggio. La sensazione di spaesamento è garantita. Gli intervalli (per quel che può servire dare gli intervalli in musica di atmosfera come questa) sono di quarta eccedente/quinta; seconda eccedente/terza (forma la terza minore di do...); quinta eccedente/sesta. Tutto questo già porta alla 'lontananza nel tempo' di cui s'è  parlato. Un "cadenzando" prelude alla prima esplosione fortissima, e poi ad un "lasciare vibrare": col pedale tutti i suoni eseguiti. La libertà agogica dell'Adagio è ancora segnalata dallo "stentato precipitando" e dal vorticoso Presto ("martellato") che sfrutta la zona più bassa della tastiera (frammenti del tema e del controsoggetto mescolati) per ottenere un rombo appena sfumato dal pedale: questo 'effetto', molto usato da Fels e da me, raggiunge una sorta di clamore metallico non casuale né caotico, ma in grado di evocare tonalità o temi lunghi attraverso tecniche particolari di esecuzione.  Gli accordi che riportano al tempo primo rappresentano il punto cruciale, l'apertura del movimento. Non c'è interruzione, ma un lungo pedale che introduce l'Interludio, "Lento, molto libero", con la sordina e l'alternanza di mf e pp che crea un effetto eco. Una sorpresa: la cellula misteriosa che viene prima esposta solitaria, poi arricchita con accordi (decime, naturalmente) della sinistra, in tutto otto battute, diventa elemento minimale, ma di un minimalismo che guarda alla sacra triade Glass/Reich/Riley solo da lontano, e proprio dal vecchio continente. In questo brano (che è quello che più avvicina le nostre produzioni) Fels va verso un minimalismo europeo che non è cerebrale come quello di Adams, o estroverso come quello di Nyman, sembrando piuttosto vicino alla delicatezza del Bryars di Vita Nova, come ho già avuto modo di osservare in un articolo. In più, la vena melodica (e non si dimentichi che la Sonata produce in fondo continue variazioni del tema), che si inserisce perfettamente nell'insieme dei movimenti, è così pronunciata fin dall'essenza della cellula iniziale, da farci immaginare quali potrebbero essere gli esiti di un minimalismo italiano; ma questo accenno è quasi unico nell'intera produzione di Fels. La Fuga palesa la dimestichezza dell'autore col trattamento della polifonia: è forse il brano più complesso ed esauriente che ha scritto, o più semplicemente quello che io amo di più per equa disposizione degli elementi cerebrali ed esplosioni ritmiche e dissonanti: ma andrebbe ascoltato... Segnalo che alla fine della Fuga è prevista una cadenza improvvisata, di cui Eugenio fornisce un possibile canovaccio. O sarebbe meglio dire che segna la sua improvvisazione: si vadano a ripescare i frammenti di soggetti e controsoggetti  presentati con grande abilità fuori dal loro contesto ritmico, ovvero spostando gli accenti. La sua esecuzione della pagina (mi pare importante segnalarlo) è tipicamente jazz: usa un tocco non legato, ma accentato, senza pedale. Il Corale finale (concluso a Pozzuli nell'ottobre del '92) ripresenta con variazioni armoniche il tema, nella tonalità di si minore (ancora uno spaesamento, una delocalizzazione...), e propone una figurazione di semicrome puntate, piccoli clusters e bicordi dissonanti, una intuizione importante nel percorso compositivo perché, pur nella profonda dissonanza, è uno stratagemma che permette di muovere le armonie millimetricamente, generando una sorta di alone armonico.

Resta, nella Sonata, la più importante qualità che noi assegniamo, in tempi di accaduta postmodernità, all'opera d'arte: la capacità del rinvio ad altro. Fels la raggiunge attraverso  lo spostamento di tecniche, armoniche e ritmiche, di tutti i tipi.

 

L'antica trilogia: Aztlán  Ixtlán  Atitlán

Aztlán  e Ixtlán , finiti di comporre rispettivamente nel giugno e nel dicembre dell' '88, sono stati eseguiti in prima assoluta nell'edizione '92 di Galassia Gutenberg.

In Aztlán  tromba e trombone tessono un dialogo che procede per larghi intervalli, non certo di facile esecuzione. Entrambi gli strumenti tengono lunghe note sull'entrata del pianoforte, che non manca di ricamare qualche arpeggio minimale alla maniera dell'Adagio della Sonata. Del brano mi spiace soltanto il dialogo un po' percussivo tra il pianoforte e i due strumenti (come segnalai a Eugenio alla prima assoluta), ma trovo interessante la presenza di cadenze della tromba prima e del trombone poi, perché reminiscenze di improvvisazioni. In una successiva versione, l'autore ha eliminato il dialogo tra i due fiati, inserendo una cadenza pianistica sulla quale viene innestato, in parti interne e ravvicinate, l'intervento di tromba e trombone.

Ixtlán  comincia con un nostalgico e misterioso tema affidato al clarinetto, non privo  di asperità tecniche per la presenza di due glissati: l'esecutore deve essere in grado di improvvisare e cadenzare con un respiro appropriato. Il tema viene subito ripreso dal pianista, con accordi quasi alla Rachmaninoff, fino all'esposizione ("Larghetto") di un malinconico tema. Gli episodi si susseguono come in una improvvisazione a due, in cui ogni tanto spunta una melodia o un'invenzione ritmica (lo staccato improvviso del pianoforte "un po' più allegro", poi sviluppato e ripreso anche oltre). La pagina raggiunge la maggiore rarefazione in un punto affidato al solo pianoforte, nel Largo : un luogo in cui la scrittura di Fels è uguale a sé stessa, riconoscibile, struggente. Di Ixtlán  devo segnalare un continuo cambio di temi e atmosfere, che mi pare indebolire il brano, a meno di reinventarlo esecutivamente volta per volta con  grande flessibilità agogica, del resto prevista dal compositore.

L'Intermezzo per chitarra, finito anch'esso nel dicembre dell' '88, ancora inedito e  ineseguito, conosce almeno due rielaborazioni, e credo sia una delle migliori pagine pensate per uno strumento differente dal pianoforte. Se in Aztlán e Ixtlán  si sente una certa difficoltà di quadratura formale, l'Intermezzo  trova una migliore disposizione tra intuizione melodica e sviluppo.

Atitlán è un brano pianistico che ha avuto un certo successo di esecuzioni, sia perché nel '90 è stato pubblicato in una collana che dirigevo per un editore napoletano[52], sia per l'oggettiva bellezza, tutta strumentale, di certi passaggi. L'epigrafe recita: "Insieme ad Aztlán e ad Ixtlán , Atitlán forma un'ideale trilogia evocativa di remoti misteri: Aztlán  era l'Olimpo degli Incas, Ixtlán  un luogo di potere degli sciamani messicani, ed Atitlán  un lago vulcanico a tremila metri di altitudine, scenario di antichi riti pagani, considerato oggi dai guatemaltechi una delle meraviglie naturali del mondo".

La prima sezione mostra una mano sinistra che arpeggia da posizioni impervie, sfruttando i cromatismi in modo da far 'esplodere' l'accompagnamento; la seconda echeggia frammenti minimali, questa volta assegnati alla destra; un terzo episodio, su una figurazione di quartine di semicrome ripetuta, gioca con un ritmo di tre/tre/due non mancando di utilizzare cluster sulla tastiera e sulle corde. Atitlán  resta di notevole difficoltà, e tuttavia è uno di quei brani che dà soddisfazione al pianista, perché fa bene alle dita.

Harzenlied, finito di comporre a Roma nell'aprile dell' '89, sia per lunghezza che nella modalità del dialogo tra pianoforte e viola è più bilanciato di Aztlán  e Ixtlán . Vi si fa un uso armonicamente ambiguo, e perciò gustoso, di bicordi di quarte[53].

 

Lustratio ad iter Averni

Sbaglierò, ma il Preludio Dorico del maggio 1990 fa da spartiacque fra il Corale di cui s'è già detto (1992), ed il Canto Notturno, terminato nel '93. Dico subito che l'apice dei tre momenti è naturalmente rappresentato dal brano più maturo: è lì che l'intuizione di con/fondere e mescolare clusters 'armonici', per così dire, alla vena melodica di cui Fels già aveva fatto bella mostra fino al '79, viene portata a buon esito. Il Preludio Dorico, invece, può essere accostato senza difficoltà allo studio del trattamento di melodie 'arcaiche' che culminerà soprattutto nella Lustratio ad iter Averni.  Nel brano pianistico si esplorano tipi e caratteri della modalità, e questo naturalmente finisce con attenuare la tensione cromatica, restaurando tuttavia il clima presente nella lontana Improvvisazione (me la ricordano anche alcune formule cadenzali).

Quella di Lustratio è una musica commissionata dall'associazione "Progetto Flegreo"[54], per lo spettacolo omonimo svoltosi all'interno della Grotta della Sibilla, in occasione del "Viaggio nel Mito"[55]. Il nome indica la purificazione lungo la strada dell'Averno, un rito realmente esistente e recuperato dal lavoro dell'autore e regista Ugo Fanina. Piccoli gruppi di persone, guidati dalla flebile luce di fiaccole, si inoltrano nella  galleria della Sibilla. Lungo il percorso appaiono ninfe velate, figure magiche, che recitano solo con sguardi e gestualità, indicando anfratti e cunicoli dispersi nel sottosuolo. La musica accompagna il pubblico itinerante, che replica inconsapevolmente la catarsi. Alla fine, nell'antro delle vasche, suoni di arpe su melodie antichissime: si tratta degli unici frammenti musicali dell' "Oreste" di Euripide e degli "Inni delfici", trattati da Eugenio con naturalezza ed efficacia. Lo spettacolo, restato memorabile in quella versione, è poi stato replicato da altri, che ne hanno imitato  l'idea originale ma non di certo la raffinatezza o la qualità dovuta alle intuizioni di Fanina e Fels[56]. La musica, semplice e rarefatta, è magica, tanto da non sembrare opera di un occidentale. Andrebbe registrata e pubblicata su compact.

 

Fade Out

Nel settembre del '93 il regista Mario Chiari chiede ad Eugenio di occuparsi della colonna sonora del suo film Fade Out (che tecnicamente indica la dissolvenza). Eugenio pensa a musica trascritta da classici, e a qualcosa di nuovo composto per l'occasione. L'idea è quella di confrontarsi con le variazioni da Paganini. Inizia un monumentale lavoro di trascrizione e rielaborazione[57] della Variazione n. 1, del Tema, della seconda, dodicesima e diciottesima variazione della Rapsodia su un tema di Paganini op. 43 di Rachmaninov. A queste verranno aggiunte alcune della Brahms-Paganini (la seconda, quarta, decima e dodicesima) ed alcune delle Variazioni di Liszt. Per una scena cruciale, Fels immagina una melodia affidata ad un contraltista (si tratta di Maurizio Rippa), appena sostenuta da un bordone, poi sviluppata con variazioni strumentali. Nasce la Threnodia, un brano di bellezza sconvolgente, fortemente espressivo e di grande densità metatemporale. In quel periodo, Fels sta assistendo la madre gravemente ammalata, che non riuscirà a vedere la realizzazione di Fade Out . Di tutti i pezzi, eseguiti nel film dal pianista compositore, esiste una registrazione in studio, realizzata in tre differenti sedute, a Roma e a Napoli[58]. Sarà forse superfluo aggiungere che, ascoltando il nastro inedito, o vedendo il film, si nota un pianista ancora eccezionale, per nulla opacizzato dall'attività compositiva. "Dissolvenze" verrà scelto e proiettato in prima assoluta alla Mostra del Cinema di Venezia (1994), con ottimo successo di critica.

 

Alkèmia

Seguendo un percorso che lo allontana dai concerti tradizionali, Fels continua ad usare il pianoforte, ma in lavori che lo coinvolgono in modo nuovo e originale, Fels riprende "Satie Opera", e poi si dedica alla scrittura di uno spettacolo particolare, tutto fondato sull'improvvisazione. Si tratta di"Alkèmia"[59], una performance che nasce da quella che Enrico Grieco[60], suo ideatore assieme ad Eugenio, chiama "una idea fissa": una mescolanza tra immagini, musica e danza nella quale nessuna disciplina prevale sull'altra, dal momento che appaiono così capillarmente "confuse", nel senso postmoderno del termine, da essere effettivamente, e costantemente, l'una il prodotto dell'altra. Quando, in occasione di un mio articolo, ho chiesto ad Enrico di parlarmene,  lui ha alluso con estrema lucidità al "potere di tre arti poste sullo stesso livello, sullo stesso piano: non somma, non semplice raccolta, ma moltiplicazione, incremento quasi esponenziale di tutte". Ognuno dei tre operatori (c'è anche una danzatrice), e questo è il dato fondamentale, improvvisa interagendo con l'altro, così come è tipico della pratica esecutiva jazz. Eugenio parla di "una rappresentazione che tende al raggiungimento di un risultato unitario; non si tratta di una scenografia per immagini, o di musica pensata per una scenografia: ci si muove per appunti minimi, seguendo un percorso comune e prestabilito. Enrico: "per godere del nuovo messaggio multimediale di Alkèmia, ciascun gesto della ballerina, ciascun suono prodotto da Eugenio, e ognuna delle mie diapitture proiettate su di loro, a loro adattate, vien fuso e confuso insieme. A tal punto che il prodotto finale sembra vivere di vita propria, proprio come una cosa che sia lì da sempre, e che è toccato a noi riscoprire".

Ho ascoltato la musica, specie quella del primo quadro, parzialmente annotata su canovaccio: si tratta in assoluto della miglior cosa scritta da Eugenio. Sfrutta i suoni della cordiera, percossa con varie tecniche, ma in modo espressivo. Il che vuol dire conserva la capacità di parlare al pubblico riuscendo contemporaneamente ad utilizzare le tecniche maturate durante la fase dell'avanguardia (è l'acquisizione estetica di chi non ha mai smesso di cercare la comunicazione). Gli esiti successivi del lavoro di Fels dovranno passare necessariamente attraverso una testimonianza discografica.

 

Il "Centro di Cultura Musicale"

Non sono poi molte le vicende che scorrono  nell'ultimo lustro. Posso cronologicamente individuarle nell'attività di Pezzullo, nel corso napoletano di Donatoni (che mi dà modo di conoscere alcuni suoi allievi locali), nelle rassegne "Musical Networks" e "Dissonanzen", nelle sporadiche proposte dell'Istituto Francese o della mostra tecnologica di "Futuro Remoto".

Cominciamo dal "Centro di Cultura Musicale" di Franco Pezzullo e Maria Regina de Vasconcellos, la cui attività si condensò attorno ad un Festival annuale di musica contemporanea, intitolato "'900 Musicale Europeo", che affiancava alle  esecuzioni (spesso prime assolute) le conferenze/analisi esplicative dei maggiori critici nazionali ed europei. Passarono per il Festival le prime di Daniele Bertotto (...Con libere ali per violino, violoncello e pianoforte), Alfredo Cece (Sonata per clarinetto e pianoforte), Chiti (Arion per chitarra), Silvana Di Lotti (Aura per pianoforte a quattro mani; Trio per violino, violoncello e pianoforte), Giorgio Ferrari (IV Quartetto per archi; Gesta per quintetto di fiati), Flavio Testi (Tempo, per quartetto d'archi), Italo Vescovo (Sonatina per Aldo per pianoforte), Daniele Zanettovich (Aube per voce femminile e flauto). Il poderoso programma della VII edizione ospita opere di Scelsi (Kho-Lo  e più tardi i Quattro pezzi per corno in fa), Berio (Sequenza per voce sola), Sciarrino, Bortolotti e soprattuto dei nostri Mario Cesa (My Musical per clarinetto e pianoforte) e Patrizio Marrone (Due fantasie per clarinetto e pianoforte). Il Festival accoglie, fra l'altro, nel 1990, l'importante performance Brise Glace, con musiche di David Jisse e Luc Ferrari, vincitrice del Prix Italia dell' '87.

I critici, considerando a parte i giornalisti locali dei quali Pezzullo diceva apertamente un gran male, furono Enrico Fubini, Paolo Gallarati, Enzo Restagno, Imre Foldes, Dominique Jameux, Jean Roy, Hansjorg Pauli, Estevan Lines, Volker Scherliess, Mario Vieira de Carvallo, e molti altri. Sul tipo di formula adottato da questa e da altre rassegne ho già espresso i miei dubbi: più che essere formato, il pubblico sembra volersi godere musica gradevole, e se la qualità lo convince non esita a sbancare il più vicino emporio musicale. Ciononostante, il "'900 Musicale Europeo" è stato una presenza importante per la città, almeno fino a quando nella città è rimasto, ospite dell'Istituto francese di Via Crispi. Negli ultimi anni, stufo di combattere contro i mulini a vento e di mercanteggiare spazi coi giornalisti, Pezzullo lo esportò a Ischia. Il destino migratorio degli operatori e dei musicisti si compiva ancora una volta.

In una recente intervista mi confidava di volersi 'aprire' ancor più ai napoletani, e so del suo interesse per il lavoro di Gaetano Panariello e di Giacomo Vitale, che definì "musicisti con belle qualità, ma che possono certamente trovare ulteriori possibilità per giungere ad un 'loro' linguaggio". Dei giovani in generale rilevava la difficoltà ad "allontanarsi dall'accademismo contemporaneo" e a "districarsi all'interno della matassa dei linguaggi".

In un mio articolo per un quotidiano, pur rilevando il valore degli strumentisti impegnati (primo tra tutti il cornista Guido Corti), e l'attenzione rivolta a Giacinto Scelsi, un autore che ha dovuto patire una non piccola e non breve persecuzione critica (solo di recente c'è stata una sorta di 'riabilitazione')[61], bacchettavo pesantemente (ma bonariamente) Pezzullo. Ciò avveniva nonostante fossi stato ospitato come unico relatore napoletano di quella edizione[62]. Più precisamente, esprimevo il desiderio di ascoltare anche i brani di altri napoletani, e facevo i nomi di Paliotti, Musino, Mormile, Fels.

Ma Franco era abituato a rapporti tempestosi con la critica, e non me ne volle: qualche tempo dopo mi regalò un suo importante disco con la Kammermusik di Napoli (pubblicato dalla francese MGA, con opere di Dvorak, Strauss e del contemporaneo Jacques Bondon).

La profonda umanità di questo didatta (operatore e trascrittore, esperto di fiati) mi colpì subito, al di là dei suoi meriti e demeriti. L'ultima volta che l'ho sentito, prima dell' inaspettata scomparsa, era felice come un bambino perché il San Carlo gli aveva affidato un concerto. Purtroppo il male gli impedì di tenerlo.

 

Oltre Donatoni

Sempre nel '90 il corso partenopeo[63]  di Donatoni mi dà modo di conoscere Gaetano Panariello, Carlo Mormile ed Enrico Massa. Questi musicisti devono al veronese l'amore per l'avanguardia e, in fondo, anche il suo superamento. Lo stesso cerebralismo strutturalistico del primo Donatoni, capace di attirare in epoca di aureo culto della contemporanea 'colta' frotte di nuovi aspiranti adepti, una volta sfociato nella sottile ironia degli ultimi anni, nel diatonalismo che da più parti gli rimproverano, ha poi allontanato (o definitivamente 'formato') molti degli allievi di una volta. Non so come potrebbe reagire un giovane al vedersi valutare il proprio elaborato con il pendolino da rabdomante, come è uso fare di recente Donatoni. O alla vista del suo maestro/vate che si presenta al Maurizio Costanzo Show in tenuta da messicano con tanto di sombrero. Negli interminabili pomeriggi dei suoi corsi, l'autore di Antecedente X, Questo, e del Sigaro di Armando 'metteva su' una cassetta con un brano di sua composizione; disponeva caramelle, sigari, fiammiferi e quant'altro sul tavolo, e placidamente si addormentava, boforchiando di tanto in tanto qualche risposta esoterica alle rade domande degli allievi. Ma ad un genio (matematico, beninteso) si perdona questo ed altro.

Sta di fatto che alcuni dei partenopei storicamente allievi di Donatoni, pur restando in qualche modo legati affettivamente al maestro, se ne sono  distaccati progressivamente dal punto di vista degli esiti compositivi. 

 

Finalmente Topolino

Panariello s'è diplomato con Aladino Di Martino, per poi perfezionarsi all'Accademia di Santa Cecilia con Donatoni. Conta parecchie esecuzioni, anche radiofoniche, ed è edito da Pucci e Simeoli. Nel '90 la sua produzione comincia a discostarsi da quella di Donatoni; quella è anche l'epoca in cui cominciano le commissioni di Gorli, Pezzullo etc. Collabora intensamente con il San Carlo, ma soprattuto attraverso balletti. Oltre al già menzionato Immago (rappresentato nel giugno del '92, per flauto, clarinetto, violino, viola, violoncello, vibrafono e percussioni), c'è La scena del ragno per il balletto Agostino (realizzato però al Teatro di Corte nel marzo dell' '85), e la suite Nel magico mondo di Disney (soprano solo e grande orchestra, portato in scena nell'aprile del '95), che naturalmente rielabora temi ed esprime sintonie col mondo dei fumetti.

Dalla nota di presentazione di Immago, un'epigrafe cara al compositore: "le sue composizioni nascono da una costruzione artigianale intesa come espressione di felicità e di vitalismo positivo: sviluppi imprevedibili vanno oltre lo sguardo acquoso del postmoderno per tuffarsi nella concretezza del fare, senza nutrire più il minimo dubbio sulla possibilità della comunicazione" (Gallarati). Non posso, naturalmente, condividere la lontananza dal postmoderno, ché altrimenti troverei noiosa l'opera di Nino. Un effetto del postmoderno (di cui mi pare possa prendersi a vangelo l'opera di Lyotard, La condizione postmoderna, che è del '79), è la naturale combinazione e confusione che caratterizza il tempo presente, e dal quale non mi pare affatto essenziale distaccarsi. Anzi, la possibilità che fonda una estetica del futuro, a cui non posso dedicare qui più che un rapido accenno, è proprio nell'uscita dal sistema rappresentata dalla contaminazione, la quale può condurre alla qualità (possibile) dell'opera e alla sua comunicabilità. Ciò equivarrebbe alla riscoperta di un senso dopo l'epoca di conclamata crisi della parola e della creatività.

Per tornare all'opera di Nino, troverei singolare che fosse distaccata dal postomoderno e poi indulgesse in una scrittura che dimostra d'essere molto varia, e quindi certamente attuale. Oltre ai balletti, Panariello è autore di una maestosa e concentrata Sacra Rappresentazione su testo di Ferrara (non Franco Ferrara, il voluttuoso e funambolico poeta), nella quale è possibile percepire il gran gusto per la pura e non cerebrale invenzione (forse questo intende Gallarati per 'vitalismo'), eseguita alla Curia di Salerno nell'aprile '91; ha scritto Ajone, gradevole, melodica, descrittiva opera incisa per Leep Records nell'ottobre '91 (devo soltanto sanzionarne la declamazione della voce, troppo accentuata), e il recentissimo, ancora tonale, La scuola di Musica di Brema, per voce recitante e orchestra. Ha in catalogo molte musica di scena, composizioni vocali e miste, brani per strumento solo ed ensemble. Mi pare notevole il suo Quartetto, del '90, forse ancor troppo legato alla stringente logica donatoniana; Grock, del '91, è già più lontano, perché pur mantenendo una serrata trama sotterranea, e incorrendo in qualche giochetto di troppo (cioè riconoscibile e riconducibile ad un ambito sperimentale), mostra qualche indulgenza per la melodia in un intermezzo armonico, principiato da accordi ben individuabili.  Immago, del '92,  è un nuovo passo avanti, e di strutture severe conserva poche tracce solo nel finale (preferisco sviluppi per note lunghe e tenute). Il suo lavoro più notevole resta per me Concerto per quattro corni, commissionato, come s'è detto, da Pezzullo, scritto velocissimamente da Nino, ed eseguito infine a Lacco Ameno nel settembre '93. Col solo inizio strutturalistico segue un secondo movimento dai toni intimi e delicati, solo a tratti interrotti dall'intervento del terzo corno, che crea un ponte logico/connettivo tra i movimenti (per la ritmica che propone). Il terzo tempo offre qualche seduzione mahleriana. Insomma, una giusta misura tra la voglia di dire qualcosa d'espressivo e l'utilizzazione di tecniche e segnature sofisticate.

 

Rag Birds

Dopo essersi diplomato, Carlo Mormile s'è perfezionato  all'Accademia di Roma e alla Chigiana di Siena con Donatoni. Ma alla Chigiana incontrava Prati, Barriere, Morriconi... e consolidava i suoi interessi per la musica elettronica e per quella da film (con buona pace di Umberto Eco). Del conservatorio non pensa un gran bene; in una intervista inedita mi dice: "La sua situazione negli anni '80 creò problemi a molti, ad esempio a Gabriele Montagano, ma anche a Mario Vitale, che ora fa l'informatico. Io ho resistito, ma qui non ho mai partecipato a un saggio. Cercavamo risposte che a Napoli mancavano. Gli insegnati erano Mazzotta, Ravinale, D'avalos (il quale dice che la composizione è morta nel 1950). Tomei è sulla stessa lunghezza d'onda. Poi qui c'è anche questa faccenda della scuola napoletana, di cui siamo discendenti. Anche Calbi, con tutto il bene che gli ho voluto, era in sostanza una persona essenzialmente retrò. E' stata una generazione che non ha fatto nessuno sforzo per accostarsi alle problematiche italiane ed europee".

Non è che Mormile sia più tenero con Donatoni: " Era attento ed era anche despota. Di qualsiasi frammento voleva sapere origine e collocazione, e se c'era qualcosa che non funzionava secondo una certa concatenazone tecnica o logica ne voleva spiegazione. Questo ha creato la famosa generazione dei 'donatonini', dovuta proprio al fatto che lui era così presente. 'Donatonini' di spicco furono, ad esempio, Gorli, Cardi, Gentilucci, ed altri: l'Italia ne è piena, anche se oggi scrivono in modo molto diverso. Poi è finita l'avanguardia, e con la sua morte certi atteggiamenti sono stati abbandonati. L'anno scorso gli ho chiesto come si trovasse oggi, lui che ne era stato uno dei baluardi. Mi ha risposto di aver già svoltato negli anni ottanta; oggi ha scritto anche qualcosa di diatonico. Dice di essere stato contagiato da Solbiati, all'epoca suo allievo".

Nonostante tutto, dopo il diploma, Carlo ha avuto parecchie esecuzioni radiofoniche, commissioni, pubblicazioni. Di lui m'interessa la disponibilità alla critica, la versatilità e trasversalità del lavoro, la capacità di teorizzarne gli esiti. Mormile, considerando la consacrazione della serialità integrale sia al problema delle durate che a quello delle altezze, finisce col dedicarsi soprattutto al ritmo ("se si riproduce su uno strumento a suoni indeterminati il ritmo di un brano famoso, questo sarà riconosciuto nella maggior parte dei casi sia da ascoltatori musicisti che semplici amatori"). Isolate alcune cellule ritmiche elementari ma discontinue, procede alla loro ripetizione e permutazione, escludendo con meticolosità tutte quelle che potrebbero ascriversi all'intervento dell'esecutore. L'alea, decisamente, non gli interessa, e gli esiti di rigida scansione ritmica non possono che rimandare ad analoghe preoccupazioni del suo maestro (quando vide Silenzi,  la prima frase  di Donatoni fu: "anch'io all'inizio usavo molte pause, perché non sapevo scrivere").

La scelta delle altezze viene invece consegnata al momento compositivo in sé, nel senso che si tende ad utilizzare serie difettive sovrapposte alla scelta delle durate, secondo l'unica discriminante dell'impatto d'ascolto.  Tutto ciò, naturalmente, vale soprattutto per la produzione 'accademica' o 'di scuola', nella quale includerei senz'altro Specchi (per pianoforte, maggio '89)[64], Cadenze (fl. cl. tr. md. cb., agosto '91), Three Two Time (trio d'archi, maggio '92), Sweet Blue Night (pianoforte, sax contralto e tenore, aprile '93), Abba (fl. ob. cl. cr. mb., giugno '93), Figuranti  (fl. ob. cl. cr. mb.), ed altri brani per strumento solo, come Silenzi, unico definito dall'autore 'cageano' (ciò avviene per la presenza di pause ed il tentativo di lavorare sul silenzio: cosa che per la verità mi pare avvicinarlo più a Webern che a Cage) e Permutazioni per clarinetto solo. Fra questi, Sibilando, di cui posseggo una versione per macintosh, pur utilizzando qualche rete strutturale donatoniana, mi pare ottimamente riuscito. Negli altri brani, la componente sperimentale è notevolmente pronunciata, e certo non posso dire di condividerne gli esiti. Molto interessante la lista delle proibizioni estetiche che Carlo adotta come progetto del suo lavoro a venire: innanzitutto l'adozione del furto come metodo di lavoro[65]; poi, l'abolizione dell'estetica adorniana, e del riferimento alla seconda scuola viennese, dell'avanguardia e della novità per la novità, di "pregiudiziali fideistiche nei confronti dei movimenti artistici 'commerciali' ". Nel programma di Carlo c'è, inoltre, oltre alla già menzionata attenzione verso lo sviluppo delle durate, anche la ricerca verso stili e forme del dire musicale non esenti da contaminazioni.

Infatti altre opere, soprattutto per teatro, sono notevolmente più liriche e meno preoccupate di proclami estetici restando,  a mio avviso, le migliori[66]. Anche la collettanea Mare Nostrum Citreum, di cui si dirà più avanti, ha meriti legati alla confusione con elementi gestuali e teatrali. Infine non mancherò di segnalare che quando Carlo decide di divertirsi e divertirci, al di là delle preoccupazioni sperimentali (con Rag Birds per orchestra di flauti), ci riesce benissimo[67]. E non è un caso che quest'ultima sia forse l'opera più eseguita.

 

Il pozzo e il pendolo

Dopo gli studi napoletani, Enrico Massa si è perfezionato con Donatoni e Clementi. La sua ricerca, rigorosissima, s'è indirizzata verso lo studio di parametri costanti, invarianti o 'eterni'. Ben presto ha preso le distanze dai suoi maestri, lamentando soprattutto la loro indifferenza alla dimensione verticale; ha così cercato inedite relazioni strutturali tra accordi, nuove 'armonie'[68] possibili, pur senza tornare alla tonalità. Ha rilievo pure la rivalutazione della tensione melodica (come ad esempio in Ditirambo).

Massa certamente caratterizza il suo lavoro attraverso una forte carica intellettualistica, che si esprime, ad esempio, nell' interesse per la memoria, indispensabile per l'individuazione della forma di un brano. Per lui, la riconoscibilità di fatti accaduti nel tempo (ha funzione simile a quella dello spazio nell'arte figurativa) assicura la continuità tra atti fondamentali e loro impercettibile mutazione (variazione). "Ogni frammento di musica è formato da singole unità sonore che stabiliscono con l'unità precedente e con quella seguente rapporti di altezze, durata e omo/disomogeneità timbrica": l'aggregarsi di queste particelle crea strutture più complesse. Ciò fa sì che Enrico privilegi la forma chiusa, proprio a causa della presenza di una finalità connessa con l'esercizio della memoria: anche Weininger lega quella facoltà all'espansione volitiva.

Così, giustizia è fatta della serialità integrale, che Massa dichiara morta e defunta proprio come la tonalità; e del suo distaccarsi dall'opera aperta s'è detto. Oggi, l'attenzione va soprattutto al tempo, e subisce la suggestione proustiana: "un tempo in cui passato e presente si intreccino e si confondano, in cui non sempre sia possibile distinguere con chiarezza il prima dal dopo".

Questa ricerca sul tempo e sulla memoria sortisce esiti differenti nella sua produzione. A parte i Cinque pezzi per pianoforte  (1986), eseguiti in Italia e Grecia da Roberto Melini, la sua prima produzione è perlopiù inedita e non ancora eseguita. Si tratta di Collage e Sonatina per vibrafono e pianoforte (1986); Presentia per quartetto d'archi (1988); Il segreto di Arianna per violino e percussioni (1988). Invece Cheter (1989), per due pianoforti, vede diverse esecuzioni, anche radiofoniche, grazie ad Oreste De Tommaso e Carlo Mormile. Vi si esibisce un pianismo vigoroso, esuberante, energico e poderoso, non esente da deteriori tensioni virtuosistiche, e tuttavia d'effetto. Dei Quattro Studi per flauto  (1989-90) uno soltanto è stato eseguito più volte da Daniela Cima e anche da Sandro Carbone, ma lo trovo una sorta di esplorazione di tecniche sperimentali, e non di grande interesse.

Complesso, solidamente costruito, insomma nello stile di Massa, è The Pit and the Pendulum (1990)[69], per chitarra, che più di altri pezzi si fa esemplare del progetto compositivo. Brano rarefatto, suddiviso in 'aree', ambiti o segmenti riconoscibili, ancorato probabilmente a stilemi sperimentali, è tuttavia non privo di esiti espressivi, soprattutto quando rinuncia ad effetti di 'rottura' trasversale. Una sezione echeggia consapevolezza di musiche diverse, addirittura anche jazz (in senso molto lato). In altra sezione, quella che più adotta il metodo donatoniano, presenta attimi (note), punti d'appoggio timbricamente riconoscibili. L'ultima parte torna al lento risonare, stavolta di accordi, appena 'disturbati' da interventi strumentali ad effetto.

Il successivo Studio per Arianna (1991) è tratto da Il segreto di Arianna quasi integralmente. Non è il brano che preferisco, ma devo dire di averlo ascoltato (sia dal vivo che su nastro) soltanto nell'esecuzione di Enzo Porta, forse troppo 'specialistica'. Il Preludio per chitarra, sempre del '91, è tutt'altra cosa, e condensa l'esperienza de Il Pozzo e il pendolo in una aforistica e gradevole piece che presenta qualche citazione (di atmosfere), qualche ostinato, qualche bell'effetto tipicamente strumentale. Si chiude con il susseguirsi di note lunghe (forse si ricollega al pozzo che ospita memorie), e con accordi arpeggiati non privi di tensione armonica. Non conosco la Serenata per quintetto d'archi,  e mi delude un po' il Preludio, duetto e rondò per due sax e pianoforte, scritti entrambi nel '92. Invece trovo molto belli Saffo  ('93) che gioca per sovrapposizioni variate tra la voce femminile ed un contrabbasso in tessiture anomale, e Ditirambo (1995) per sax alto. L'ho ascoltato nell'esecuzione di Nicola Cassese: è un pezzo molto concentrato ed espressivo. Espone il moto solitario, quasi modale, di un solista, cantore dell'universo. Ha preparazione del materiale, sviluppo, apice agogico e coda con virtuosismi, tutti convincenti.

Assieme ai brani per chitarra mi pare tra le cose migliori di Enrico.

 

Altra musica al "Grenoble"

Monade con l'obbligo di produrre cultura con gli indigeni è stato l'Istituto francese di Napoli. Quando non occupato a predisporre meravigliose locandine (salvo poi abbandonare gli artisti a se stessi), propose anche concerti notevoli, sia con Digne che con Schifano. Grazie al primo, diversi artisti partenopei trovavano comunque uno spazio (ed uno sgangherato Steinway che è ancora lì): Eugenio vi rappresentava con Ugo Fanina "Opera Satie", Montagano l'operina Evento, ed io uno spettacolo assieme al gruppo"Virus". Grazie a Schifano, invece, un pezzo d'Africa, col concerto di Francis Bebey, approdava a Napoli. Ma per la prima volta non si trattava di una manifestazione di colore, di quelle che mandavano in bestia Luciano Cilio, ma della performance, perfino un po' snob, di un interprete che gira il mondo per far capire a tutti di quale musica l'Africa si sia riappropriata, e quanto sia disposta a condividerla se sollecitata dal miraggio del villaggio globale.

Il concerto (è il 1993) inizia coi suoni di un piccolo flauto usato dai pigmei. E' un'emissione prima solitaria, ma ben presto capace di articolarsi in varianti profonde o lievi, come accade con la voce umana. C'è vera Africa, col suo diritto a vivere senza guerre postcoloniali, senza egemonia di gruppi commerciali stranieri, nel grido modulato che Bebey lancia al soffitto (e in fondo al resto del mondo) come nelle cantilene  su cellule e moduli strumentali ripetuti. Ma c'è Africa e Francia, e quindi contaminazione, nei pezzi più riusciti, come nel Poema. Qui si congiungono la canzonetta francese ed i timbri ancestrali della "sanza" e dello "n'dehou"; anche la chitarra viene percossa in ogni punto come un tamburo, ed il testo, francese, ci parla  di voli oltre il mare, di morte come a noi è ignota (bambini per strada, mucchi di giovani e vecchi in fosse comuni, massacri di intere tribù...), di colori intensi, di paesaggi  al di là dello sguardo.

Questi stessi elementi, la continuità dolciastra delle melodie, l'amalgama suadente tessuto dalla voce, la poliritmicità sincopata delle percussioni, li ritrovavo qualche tempo dopo nella performance dei figli di Bebey. E tuttavia restavo scontento dell'inserimento un po' casuale di una chitarra elettrica, e di non convinte modulazioni infratoniche della voce, tanto da scrivere di questo secondo concerto come di una grottesca esibizione, capace solo di fare il verso a quella di Bebey padre.

 

Musical Networks

Muovendosi in controtendenza rispetto a tutte le scelte precedenti, forse presagendo l'imminente crisi, la Rai nostrana, morente monade autoritaria, decide nel '92 di programmare una serie di concerti dedicati esclusivamente alla musica contemporanea. Tra novembre e dicembre si terrà infatti una sfortunata rassegna, dal titolo "Musical Networks", spinta dalla sinergia tra RAI, AMN, Università Federico II e Conservatorio. Il progetto, ideato da Giancarlo Sica, è affascinante, perché si basa su un'ipotesi connessionistica ad interazione completa ("Una rete a connessione totale può rappresentare, al di là della sua rigorosa applicabilità nel campo scientifico, un modello di riferimento per collegare molteplici aspetti di un medesimo ambito culturale"), il che presume una conduzione 'aperta' all'intervento del pubblico, dei critici, dei compositori e degli interpreti. Nell'idea iniziale, questa interazione, assieme alla connessione tra alcune tematiche evidenziate come portanti, doveva condurre ad uno spettacolo veloce, di tipo televisivo, con la presenza di linguaggi multimediali (diapositive, filmati, suoni registrati e live), la cui fusione restava affidata tuttavia alle persone invitate e sedere in una sorta di 'salotto' allestito sul palcoscenico. Più di una volta sono intervenuto a quei concerti, dicendo la mia dalla platea, e questo m'ha consentito di capire la ragione del fallimento (di pubblico, ma anche di programmazione, visto ad esempio l'eclatante forfait di Stockhausen). In una struttura realmente aperta, tutte le interazioni avvengono sullo stesso livello, non esiste, cioè, una gerarchia che ponga gli 'utenti' ad un livello di accesso mediocre. Viceversa, si riprodurrà il solito dibattito privo di risvolti culturali. In ogni caso, un merito di "Musical Networks" è sicuramente l'aver portato i pochi presenti all'ascolto di opere di rara programmazione. Ma a parte Berio, Petrassi, Clementi, Donatoni, ed i soliti Cage, Boulez, e via di seguito, anche qui su quattordici concerti viene inserito un solo compositore napoletano. Gli altri autori non sono nemmeno tenuti in considerazione, nonostante io ed altri, pubblicamente e per iscritto, continuassimo a chiederlo. La risposta, quella solita, beffarda e provocatoria: "ma dove sono i compositori napoletani?".

Si può perdonare l'ignoranza, ma non lo strategismo vigliacco.

 

L'esterofilia della Scarlatti

Benché nella formulazione dei programmi la "Scarlatti" si sia recentemente un po' aperta, la più grande associazione musicale napoletana continua a caratterizzarsi per la sua evidente esterofilia. Le sue iniziative non sono sommerse, perché essendo rimaste quasi uniche raccolgono grande attenzione dalla stampa; eppure, certi contenuti della vera (altra) avanguardia non sono stati ignorati. Alcune idee, lanciate in incontri pubblici, come ad esempio invitare il quartetto Balanescu, sono state accolte. Ma quando ho provato a proporre, sempre pubblicamente, lavori o nomi di compositori locali che probabilmente valeva la pena di ascoltare per svecchiare ancor più l'aristocratica stagione concertistica, non ho ricevuto in risposta altro che silenzi.

In ogni caso mi pare opportuno segnalare che, se non altro, dal punto di vista della programmazione, s'è capito che bisogna puntare ad un nuovo pubblico, più giovane e sveglio. E che per conquistarlo occorre mettere in cartellone musica viva.

Così, è accaduto che pian piano stiano venendo a Napoli il Kronos Quartet, il Balanescu, DD Bridgewater, le Voci Bulgare, le percussioni di Ondekoza. Quello che invece non s'è compreso ancora è che va ricostruito il legame con la vita musicale reale della città, e che per farlo bisogna chiamare a raccolta i migliori compositori ed esecutori.

 

Futuro Remoto

Al di là delle implicazioni politico/tecnologiche, va detto che la fortunata mostra a metà strada tra scienza e fantascienza ha talvolta ospitato, nel settore musica, opere ed interventi di compositori ed operatori cittadini. Nel '92, sul tema un po' scontato del "mare", tre compositori, Rosario Musino, Carlo Mormile ed Enzo Amato, si federavano anche creativamente nel produrre un'opera a sei mani dal titolo Mare Nostrum Citreum, un "viaggio sonoro attraverso gli strumenti etnici dei popoli del Mediterraneo".

Il progetto si svolge seguendo tre direttive: sintesi tra l'uso di una strumentazione tecnologicamente agguerrita (ma si tratta sempre di computer music: al lettore dovrebbe essere ormai chiara la differenza che c'è tra questa e la musica elettronica, pur senza discriminazioni) e la presenza dell'elemento etnico;  riferimento alla cultura della Magna Grecia "intesa nel suo concetto di mediterraneità" (ancor sempre Mediterraneo: uno spot per la musica nostrana); ed infine  ricerca su timbri, campionati, sintetizzati o realizzati dal vivo (gli strumenti impiegati dal vivo sono la tammorra di Alfio Antico, le launeddas di Enzo Stera e la voce di Daniela Del Monaco; quelli campionati: Naqqarat, Echeion, Zansa, Sistro, Ud, Fidula, Cromorno, Ciaramella, Buccine, ed altri). I software utilizzati sono Macintosh (immagino un "Finale"), ed i suoni sintetici quelli delle macchine Roland. Del brano ricordo il vivo contrasto espresso dal  'calore' improvvisativo di quel fenomeno delle percussioni che è Alfio Antico, dalle modulazioni a suono unico di Enzo Stera, e la freddezza tecnica, un po' sperimentale della Del Monaco. Il computer, ancorché privo di agogica, faceva la sua parte, ma in modo forse semplicistico. Notevole mi pare, ancora oggi, riascoltando il brano, il presupposto etnico, che varrebbe la pena di riprendere e approfondire. L'edizione del '93 presentava di importante uno dei due concerti napoletani del Kronos Quartet (decentrato al Teatro Delle Palme, nel corso della stagione Scarlatti), e la serata affidata a Francesco D'Errico e Daniele Sepe, sui quali mi pare opportuno soffermarmi.

 

L'ironia di Daniele Sepe

Si potrebbero dire molte cose su Daniele Sepe, un musicista completo che trova una strada originale e particolarissima tra il jazz, la musica etnica ed alcune suggestioni di natura 'colta', come direbbe qualche illuminato critico della vecchia scuola.

Ma è più divertente dare  uno sguardo al curriculum semiserio (cioè decisamente ironico) che Daniele consegna ai suoi più fedeli estimatori: "Dopo il diploma, stanco di preparare estenuanti concerti da presentare alle vecchie nobildonne, immancabili al circolo degli artisti, e non possedendo un frac, comincia a lavorare in studio e qualche volta dal vivo, con un sacco di gente (Nino Bonocore, Mia Martini, Teresa De Sio, Roberto De Simone, Gino Paoli, etc) di cui gli risultano simpatici solo Peppino Gagliardi, Eduardo de Crescenzo, Roberto Murolo e Nino D'Angelo. (...) Pericolosamente inizia a scrivere musica propria, ed i nomi che dà alle diverse formazioni danno solo una vaga idea di quello che attende l'ignavo spettatore dei suoi concerti: Art Ensemble of Soccavo, Luchisto luchiddu e i suoi Abbracalabria, Orchestra dell'On. Trombetta, ... Paradossalmente tutto ciò piace alla gente e più incredibilmente ancora alla critica (con la doverosa esclusione di quella jazzistica). Comincia a documentare il suo lavoro dapprima sugli inevitabili demotape 'senza speranza' e poi con un disco autoprodotto nel 1989 dal suggestivo titolo 'Malamusica (non è tutto)'. Qualcuno lo ignora del tutto e qualcuno grida al miracolo: così va la vita. Fortunatamente, il disco si vende cosicché, non pago, ne registra un altro a cui dà il titolo più che qualunquista di 'Uscita di gladiatori'. Lo rifila con rara mancanza di scrupoli ai Soluzionisti Virgin. Scappa a Timbuctù con i milioni di miliardi ricavati dalle vendite".

Dopo varie peripezie, impossibili da riportare qui per intero, il nostro eroe conclude sconsolato che "non riesce ancora a passare dalla monocamera al bivani con balcone".

Tutto ciò per raccontare come questo compositore/esecutore sia versatile, ed autoironico come pochi (ad esempio il già citato Alessandro Vecchiotti esibiva un analogo curriculum, nel quale affermava testualmente d'essersi diplomato col minimo dei voti per gettare il suo pubblico nel massimo dello sconforto). Ma al di là delle boutade, sarà più che opportuno segnalare la godibilità e qualità del penultimo disco (solista) di Daniele, Vite Perdite che ha avuto fior di recensioni anche sulla stampa specializzata in jazz, checché ne dica lui, e intere pagine su quotidiani a tiratura nazionale. Il fatto è che il suo linguaggio riesce ad essere espressione di un genere che, altrove, abbiamo definito come world globale: una musica che pur affondando le radici in alcune, diverse, tradizioni etniche, riesce poi a parlare al mondo intero.[70]

Il suo ultimo lavoro, Spiritus Mundi va colorandosi sempre più di rosso, come i più recenti spettacoli, ed appare come un pot-pourri delle collaborazioni molteplici e mutevoli del geniale strumentista. La voce di Auli Kokko, che dal vivo m'era parsa straordinariamente evocativa e potente[71], risulta in studio un po' attutita, e questo certo la danneggia. Del compact, e in generale dell'opera, di Daniele, stimo l'autonomia espressiva, l'energia, la capacità di contaminazione. E tuttavia mi secca  che si consideri il disco come un 'contenitore di cose', nel quale si può mettere di tutto senza disturbare l'ascoltatore/compratore. Manca, in Daniele, l'utilizzazione strategica del supporto, la cognizione estetica di autonomia dell'oggetto che veicola, l'umiltà che fa scegliere, selezionare e pubblicare solo il meglio del meglio. Resta la sensazione di una grandeur tutta partenopea, veramente nostrana. Un po' come se si fosse al mercato della carne e del pesce.

 

La raffinatezza di Francesco D'Errico

Francesco è un musicista che abbisognerebbe di un saggio intero, perché la sua musica, prevalentemente jazzistica, è fatta di sfumature, colori tenui, evanescenze delicatissime e rarefatte. Chi scrive ha collocato il suo compact Tartana, in una zona che comprende Byablue di Keith Jarrett (un lp prima maniera, con Paul Motian, Charlie Haden, Dewey Redman) ed il più delicato Chet Baker, vale a dire quello strafamoso di Let's Get Lost, e quello italiano di Chet on Poetry (recentemente ho collocato sullo stesso scaffale anche lo Chet Baker in Italy che raccoglie perle tratte dalle numerose ondivaghe peregrinazioni italiane). Mi pare quasi inutile precisare che i riferimenti stilistici vanno ad un antesignano comune a molti tra i pianisti jazz oggi in gran voga, e cioè a Bill Evans (ma questo è minerale naturale come l'acqua). Francesco D'Errico ha lavorato più volte con Daniele Sepe, nei brani più vicini al jazz, ma ha collezionato anche tante altre collaborazioni, come quelle con Condorelli, Onorato, Sannini, D'Argenzio, De Vito, Casu, eccetera eccetera. Ha scritto musica d'accompagnamento per film, partecipato a trasmissioni Rai e non Rai, risultato in ottimi piazzamenti nei referendum di "miglior esecutore" annuali proposti da una testata come "Musica Jazz". Esplica anche una notevole attività didattica e culturale con corsi, seminari e concerti tenuti all' Andj, Associazione Napoletana Diffusione Jazz[72]. Il suo campo d'azione ultimamente comprende anche la critica teorica, visto che è laureando in filosofia e si occupa di molteplici tematiche che riguardano le estetiche contemporanee.

 

I colori del piano

Ho già fatto cenno in più luoghi all'abilità e sensibilità di Rosario Musino ("Futuro Remoto" non è che una parentesi nella sua rutilante attività esecutiva e compositiva). Il fatto che si tratti di un pianista,  per giunta di scuola napolentana[73], non fa che accrescere la mia considerazione, soprattutto per una morbidezza esecutiva ed una raffinatezza tecnico/musicale davvero notevoli. Queste doti, assieme a quelle di compositore e direttore, non sono sfuggite nel passato a Roberto De Simone, che se ne è servito in più di un lavoro (come del resto era accaduto per Antonello Paliotti, anima del Colin Muset). Ha lavorato nella celeberrima Gatta Cenerentola come maestro sostituto, clavicembalista e organista, e all' Histoire du Soldat di Stravinskij nella versione di De Simone. Ha vinto concorsi come pianista e come direttore, e suona un po' in tutta Europa eseguendo, appena possibile, la sua produzione pianistica. Ma non è un pianista/compositore, come me e Fels; in lui la scrittura assume un rilievo e un'indipendenza maggiore. Tra le sue opere, un Allegro Agitato per pianoforte (1983), Quattro pezzi per pianoforte (1984), in cui prevale un forte cromatismo oscillante tra l'ultimo Mahler, il seduttivo primo Schoenberg e il melodismo dodecafonico di Berg. C'è un Adagio per quartetto d'archi (agosto 1984),  una Introduzione ed Allegro per quartetto d'archi, che resta una delle sue opere più notevoli. Nell' '85 c'è grande efflorescenza creativa: Dittico dei miei fantasmi, per pianoforte, due Frammenti  per violino solo e flauto solo, la Fantasia per flauto e pianoforte, il Concertino per pianoforte e orchestra.   Notevole il suo interesse per Jacopo Sannazzaro, sui cui testi scriverà due cantate (della prima, Giorni mal spesi e tempestose notti farà due versioni, che differiscono per la presenza di una cadenza pianistica, per la parte centrale e per l'inserimento del violoncello): si tratta di lavori in cui il linguaggio si fa più sperimentale, e che per questo motivo amo di meno. Nell' '86 compone  Per quattro clarinetti un po' strani e il Duetto per due clarinetti. Del '92 il primo tempo di Mare Nostrum Citreum, di cui s'è già detto, e un Preludio per pianoforte. L'ultimo lavoro di cui ho conoscenza è Colori, del 1994. E' un mirabile, sognante, raffinato brano pianistico, in cui si avvicendano rapidamente  momenti di lirismo per l'uso di stratagemmi tipicamente strumentali (l'una corda, l'uso del pedale di risonanza) ed invenzioni ritmico/timbriche. I "colori" sono quelli disponibili sulla tavolozza della tastiera, e non ho difficoltà ad azzardare che l'uso di armonici prodotto dall'abbassamento di tasti vuoti rappresenti l'evanescenza estrema delle dinamiche. Ritengo che l'opera di Musino possa fornire esiti inusitati, specie se tra i due aspetti, quello più tipicamente teso alla ricerca (che corre il rischio di svilire l'immenso patrimonio espressivo), e quello rarefatto e delicato, dovesse prevalere, come auspico, il secondo.

 

'ndacalàmacalì

Non posso chiudere questo libro senza fare cenno all'attività di Mario Cesa, un compositore irpino di cui ammiro l'opera e l'attività di promozione culturale (è da anni il direttore artistico di un Festival delle Orchestre molto conosciuto all'estero e snobbato dai giornali locali). Essenzialmente autodidatta per la composizione, la sua attività non fu risucchiata che occasionalmente dai miasmi napoletani. E' infatti stato eseguito a Cuba, in Germania, Polonia, Francia, Ungheria ad opera di interpreti 'storici': Canino, Ballista, Fumo, Mondelci, Fabbriciani, Scarponi. Ha pubblicato dischi con Edipan, Leep Records, Musical Dorica. Tra le sue opere più rappresentative ci sono i Cinque esercizi sulle feste popolari irpine, eseguito in prima da Bruno Canino (a lui dedicato, e pubblicato dalla Edipan nel 1983), il quale lo ha riproposto in un recente concerto capace ancora di scandalizzare qualche critico. La parte presenta cinque 'tracce' che utilizzano soltanto i righi (in violino e basso) necessari, e poi sviluppa gli esercizi utilizzando un grafismo essenziale, non pittorico come in altri lavori, con l'uso di clusters e semiclusters. Bella l'idea percussiva che scaturisce dalla realizzazione della "spirale" visivo/esecutiva nel quarto esercizio. Varianti ('ossia') sono possibili a scelta dell'interprete.

Notevoli anche le Feste Paesane dell' '83 per dodici strumenti a fiato e timpani. La parte vi si dipana come un'intabulatura per liuto, la ricerca del segno grafico si fa più sofisticata, meno essenziale, più ardita. Lo spartito si trasforma in una descrizione scritta del brano (a sua volta trasposizione di una oralità scomparsa). Qui lo sperimentalismo aleatorio si fa strada pericolosamente, ma l'ambito di casualità è meno ampio di quel che si potrebbe immaginare.

Non meno importante mi pare il Modulo pianistico pubblicato dal mensile "Piano Time"; è uno studio delle possibilità armoniche liberate da una linea tematica di suoni a tasto vuoto (o 'morto', come indica Cesa) che reagisce alla percussione ripetuta di un accordo in fortissimo. E' inutile sottolineare che la melodia è 'popolare', come spesso in questo autore, attento studioso  del folclore dei luoghi. Mi sembrano rappresentative anche le Ritualità antiche (per pianoforte a quattro mani), Repercussio (clarinetti e ensemble), Città viva, Città morta, città... ( sax e ensemble), Strade (flauto e ensemble), Il Paese della festa (clarinetto e ensemble). Notevole il concerto per violino e orchestra Sciaugscenesce, col  suo tentativo di smontare il predominio gerarchico del violino in una programmatica inversione di ruolo tra il primo e il secondo movimento. Nel terzo, sulla base della melodia popolare La canzone di Zeza, che viene utilizzata solo per quel che riguarda la successione delle altezze, si sperimentano suoni staccati, glissati del violino ma anche dei clarinetti, tromboni, arpa e timpani.

I nove minuti di Synph, per ventuno violini e orchestra, sono un gioco di rincorsa speculare tra i solisti che entrano in successione, e poi retrocedono fino al silenzio.

L'ultimo lavoro discografico di Cesa comprende la Sinfonia degli Inni e dei Canti, e il Concerto per pianoforte e orchestra (Bella Musica). Il compositore mescola qui il folclore locale alla ritualità metropolitana, cimentandosi con  due delle forme legate alla più aurea tradizione colta. Il nesso ritmico del Concerto  è in una frasetta da hits di musica leggera : "ndacalàmacalì", che certo funziona meglio di complessi calcoli algoritmico/seriali. La sinfonia, dal canto suo, è eseguita con grande vigore e convinzione  dall'orchestra "Mihail Jora" di Bacau, tra glissandi e sovrapposizioni di temi. E' un' opera di complessità e densità sconcertanti.

 

Dissonanzen

Il capitolo aperto da "Dissonanzen" alla Galleria Toledo è senz'altro importantissimo per la storia della città. Marco Vitali e Aldo De Vero sono gli ideatori della rassegna, che si avvia sotto i migliori auspici, pur restando monade tra monadi. La formula è un po' quella usata e abusata dei concerti de "L'armonia e l'invenzione", di cui s'è detto: si tenta di 'parlare' di musica contemporanea, 'iniziare' il pubblico alla comprensione dell'arcano segreto che si cela dietro alla tecniche più complesse, procedere ad ascolti che prevedono il religioso silenzio (vengono banditi gli applausi tra un pezzo e l'altro). Insomma si cerca, forse anacronisticamente, di fare del teatro una chiesa, e della 'colta' per eccellenza una religione. Mancava una bibbia, ed ecco quindi che i curatori pensano di produrre una newsletter mensile, che viene inviata gratis a chi dà il proprio indirizzo o mostra interesse per l'iniziativa. Nella lettera si racchiudono notizie sui brani, generalmente tendenti a ricostruire la storia dell'avanguardia, e sugli esecutori che li presenteranno a Napoli.

Inizialmente anch'io vengo sedotto dal progetto, perché Vitali promette "poche parole di introduzione" ai concerti, e mi pare che intuisca che il discorso sulla musica contemporanea non può prescindere dalla "qualità inventiva". Credevo che questo andasse nel senso di Chiari (che si preoccupa più dei musicisti che della musica, a ragione), ma mi sbagliavo, perché già nella prima newsletter le domande sulla qualità dell'opera vengono risolte nel "tempismo con il quale un'idea si è presentata" e nella  "novità" già insita in essa. "Dissonanzen" parte scontando ancora la pesante eredità adorniana, e Vitali non intende affatto sottrarsene (Vitali: "consapevoli del rischio connesso con l'uso di categorie dialettiche come quelle di progresso e reazione  di adorniana memoria, riteniamo nondimeno che, usate criticamente -come punto di partenza e non di arrivo-, esse possano avere ancora oggi una loro utilità")[74]; ma alcune di quelle 'verità' vengono tramandate un po' frettolosamente  agli adepti dell'erigenda chiesa, come segnalavo in alcune recensioni[75]. E' così che soprattutto brani di autori già storicizzati vengono programmati ed eseguiti nella rassegna del '93 (la sacra triade viennese; Ives, Cage, Stockhausen, Brown, Feldman, Kagel...). Le cose non cambiano molto nel '94: ci sono Maderna, Gentilucci, Guarnieri, Manzoni, Donatoni, il solito Cage col solito Bussotti che legge brani interminabili, e via di seguito. L'unico napoletano presente in cartellone, benché avessi in un incontro (e sulle colonne di un quotidiano) proposto a Marco di programmare un concerto dedicato a Cilio[76], è Enrico Massa (con Arianna per violino solo, eseguito da Enzo Porta). Dopo quella edizione, forse  per lo scarso successo di pubblico, o più probabilmente per una distonia tra gli organizzatori, anche "Dissonanzen" è precipitata irrimediabilmente nel limbo delle promesse mancate.

 

La Festa della Musica

Il 21 giugno dell'era Nicolini, in sintonia con altre città europee, anche Napoli ha avuto "La festa della Musica". Contemporaneamente, e non solo per quella giornata, s'è suonato a San Martino, al Maschio Angioino, nelle piazze Bellini, Santa Maria la Nova, S. Domenico Maggiore. Unico limite, una sorta di divisione tra generi, che però è solo pretesto per orientare la scelta del pubblico (e il suo percorso). La 'classica' viene ospitata nel cortile e nelle sale Maschio Angioino, che del resto ne è luogo deputato fin dai tempi di Luciano Cilio. Il coordinatore di quella manifestazione è il compositore Enzo Amato, che mi telefona per invitarmi a far eseguire le mie Variazioni sul Vento.

In una delle sale adiacenti c'è invece l' "Incontro con i compositori napoletani", che chiude il ciclo "La parola alla musica" organizzato da una associazione[77]. I compositori che appaiono sono, nell'ordine del programma (diverso da quello d'esecuzione), Roberto Altieri (Cadenza sul nome Bach); Massimo Coen (Mon coer qui bat ; Improvvisazione ;   c'è inoltre un fuoriprogramma: sono brani in cui si esibisce una certa abilità strumentale che manifesta un percorso originale, ma un po' neoclassico e citazionistico); Luigi Fortunato (Variazione; Luce : pezzi atonali, che cedono spesso a suggestioni meramente sperimentali); Enzo Galdi (Erleben per pianoforte e violino, dal linguaggio sperimentale,  aforistico e conciso. Recitativo); Gabriele Montagano (Trieb , nella versione per flauto solo); Carlo Mormile (Cadenze); Rosario Musino (Giorni mal spesi e tempestose notti); Federico Odling (è uno degli animatori di "Dissonanzen"; la sua musica è severa e rigorosa, forse troppo concettuale)[78]; Sergio Pagliarulo (vari brani); Vincenzo Palermo (Notturni, Canzonette, Frammenti nel tempo: usa un linguaggio prevalentemente tonale, di stampo neoromantico; ma Palermo mi ha contestato questa opinione, espressa in una recensione: lui preferisce riferirsi ad armonie che procedono ad anello).

Il lungo concerto è chiuso da opere di Renna, che è tra gli organizzatori dell'evento. Il compositore (pluridiplomato in flauto, pianoforte, composizione e direzione d'orchestra) s'è formato con Di Martino e Rotondi. Ha scritto parecchia musica da camera, opere teatrali, alcuni brani per piccola orchestra. Numeri importanti della sua produzione sono apparsi in un compact Edipan, con la Serenata del 1984 per due chitarre, Aiolos del 1987 per arpa, Albumblatter dell' '87 per flauto e arpa e 27 Romanze senza parole del 1988 per pianoforte. Nonostante il peso del linguaggio, ancorato ai tipi del periodo sperimentale, devo dire che sento poco di gratuito, e che la ricerca di Renna appare improntata al più severo rigore e a una certa coerenza. Anche in brani di cui non posso condividere né forma né linguaggio (ad esempio quelli per pianoforte), c'è il senso dell'attesa, del riposo, del lento risuonare. Il suo Aiolos, che finalmente si concede di indagare l'universo greco e l'arpa eolia, è la composizione che più mi convince, nonostante l'evidente prolissità. Ed è forse l'unica in cui mi pare ritrovare alcune suggestioni dei Dialoghi del presente di Cilio.

 

Immagine e companatico

La "Festa" si chiude con uno strascico polemico dei jazzisti, che emanano un comunicato in cui si denuncia la grave abitudine di richiedere prestazioni gratuite ai musicisti. "Se in fondo la nostra produzione non interessa, o non la si conosce affatto, non chiamateci solo quando serve musica, appunto, gratis. Se non altro per una questione di buon gusto". I firmatari, tra gli altri, sono Vittorio Pepe, Giulio Martino, Stefano Tatafiore, Giancarlo Penna, Francesco D'Errico, Sergio Di Natale, Pietro Condorelli, Marco Zurzolo.

I malumori li raccogliamo anche nelle altre 'categorie'. I chitarristi suonano praticamente da soli in uno stanzone che ospita pure una mostra; alcuni gruppi  rifiutano di esibirsi sul palco centrale, perché l'acustica è pessima e non ci sono microfoni. Altri confessano di aver partecipato solo perché "in queste cose è meglio esserci".

Ed il punto è proprio questo: è meglio prestarsi soltanto per l'immagine, o piuttosto dare forfait,  guardare verso altri lidi?

Quale musicista non ne ha parlato almeno una volta, di questo desiderio bruciante: andar via di qui, come altri hanno fatto, e magari dirigere orchestre in Canada. Ciascuno ci ha creduto, almeno all'inizio, alla faccenda dell'immagine. Luciano Cilio conservava ogni trafiletto che lo riguardasse anche indirettamente. E quanti di noi posseggono un archivio più o meno segreto, la famosa 'rassegna' che dovrebbe motivare la sofferenza degli scontri, incentivare la successiva scrittura, pagare goccia a goccia il sudore versato per conquistarsi spazi e professionalità...

Può la levità dell'immagine compensare tutto questo? può bastarci la consapevolezza di aver comunque prodotto cultura, generato mode, cambiato i fonemi e le ragioni dell'avanguardia? Siamo ancora abbastanza forti per combattere e vincere?

 

Cultura dei confini

Tra le musiche 'collaterali', 'sommerse', 'di confine', ci sono state anche quelle dei gruppi vicini ai centri sociali, anche perché, almeno all'inizio, la loro risposta ai silenzi delle istituzioni è stata forte e dirompente; tanto che la loro attività, ancorché frattale, ha poi rotto i margini dell'omertà giornalistica. Non pochi gruppi sono stati capaci di procurarsi un buon livello nazionale di fruizione e (paradossalmente) di 'consumo'.

Una analisi sociologica su questa evenienza sarebbe qui improponibile. E tuttavia non posso fare a meno di notare come in luoghi apparentemente desituati e decollocati rispetto agli abituali aggregati urbani sia stato possibile produrre opere di larga fruibilità.

Inizialmente scollegati dalla logica di mercato delle major, la proliferazione di gruppi e concerti ha fatto sì che la pratica dell'autoproduzione diventasse una concreta realtà capace di innestarsi nelle nicchie del mercato. Il primo passo è stato senz'altro quello della diffusione di nastri amatoriali, spesso pirata, un po' come avveniva per il rap americano, e come ancora oggi accade in alcuni paesi africani. Arrivati al compact, lo si distribuisce ai concerti, e poi lo si vende attraverso piccole messaggerie (luoghi dall'aspetto 'amatoriale'), che tuttavia raggiungono i loro clienti in tutta la penisola attraverso il medium della spedizione postale. Come può immaginarsi, la possibilità di attivare una rete distributiva estremamente mirata la dice lunga sull'illusione di sottrarsi al 'mercato'. Si riesce ad evitare, semmai, lo sfruttamento dei grossi colossi dell'editoria e della distribuzione (ed è già gran risultato), ma non mi pare che questa soluzione eviti la logica dello scambio. Evidentemente, la domanda fondamentale resta la seguente: l'opera può essere venduta senza danno estetico? La nostra risposta è affermativa, ed è ricca di implicazioni, che però devono per il momento essere lasciate da parte.

Rispetto, poi, alla cosiddetta collocazione 'di confine', ripeto che essa mi è sembrata senz'altro effettiva all'inizio, soprattutto per i motivi urbanistici di cui s'è detto. Ma se i Centri sono stati, via via, suburbani, desituati, legati alla cultura del 'degrado' (un recente convegno romano verteva proprio su questo aspetto), essi alla fine non si sono sottratti alla veicolarizzazione dei media, anche di quelli più odiati e combattuti. Ad una marginalità urbanistica s'è sostituita la centralità medialica, non esente da notevolissime implicazioni politiche.

E' per la visibilità dell'operato dei centri sociali, per le molteplici occasioni di far circolare idee e produzioni attraverso giornali e tv,  che questo libro ne sfiora appena le attività. Non senza rilevare, però, che la musica emanata dai centri ha una potenza legata soprattutto alla certezza dell'ideologia (e il termine conserva tutte le sue implicazioni filosofiche), alla radicalizzazione dei singoli percorsi, alla creazione di steccati protettivi attorno a strutture che ne fanno luogo di spaventosa ubiquità/ambiguità, contemporaneamente ai margini e al centro della metropoli. E' facile prevedere che i centri sociali, mancando un'inversione di tendenza, finiranno con l'estinguere l'effettivo, deflagrante, impatto sociale. E che i loro gruppi musicali saranno sempre più simili a quelli dei 'professionisti'.

Già il loro messaggio, missato a musiche del mondo, diventa meno esplosivo, meno eversivo. E, nondimeno, esteticamente valido (perciò disposto/disponibile allo scambio), perché frutto di impasti e contaminazioni[79].

Rispetto ai casi particolari, va detto che la musica di gruppi come Almamegretta e 99 Posse (ma tanti 'minori' suonano nelle sale dei centri) appare legata allo spazio più che al tempo, vale a dire al territorio che si rappresenta con le sue espansioni e contrazioni. Le stesse commistioni non impediscono la presenza di un serrato dialetto, non sempre di facile comprensione anche per la frequenza della distorsione. Tecnicamente si tratta di un misto di reggae, rap, ragamuffin..., tuttavia già consolidato in uno stile riconoscibile (vesuwave?[80]), che viene scelto e acquisito con inesorabilità logica.

La città sta utilizzando il successo di questi gruppi per darsi un'immagine particolare, un po' rude, ma che simbolizza bene il crogiolo di razze e stili che la costituisce. Almeno, in questo caso il companatico è stato meritato.

 

Epilogo

Nel racconto degli ultimi vent'anni sono sfilati nomi e date in gran quantità; di certo si è data visibilità ai percorsi di molti compositori operanti a Napoli, senza tuttavia volerne congelare la storia. Posso prevedere l'obiezione di aver auspicato fino all'eccesso un maggiore spazio per i nostri autori, ma si dovrà riconoscere per forza, con i dati alla mano, che non ci è stato concesso molto.

Credo si sia anche dimostrato che molti musicisti, a dispetto di mille difficoltà,  sono stati attivissimi, magari autoproducendosi e autoesportandosi.

Nello svolgersi del tempo, alcune intuizioni estetiche, legate  ai nomi di pochi emergenti ma soprattutto ai percorsi sommersi degli altri, si sono consolidate, e possono darsi per acquisite. Alcune etichette, specie di musica leggera, si sono create un grosso mercato. Alcuni amministratori sembrano (sembrano) meno ciechi dei precedenti.

C'è poi anche qualcosa in meno: grazie all'effetto tangentopoli, molti dei 'vecchi' potenti  hanno dovuto cedere il passo ad altri, o franare nel nulla (probabilmente ancora tramano nell'ombra, cercando nuovi amici a Roma).  Certe strutture, perse per sempre, non hanno lasciato alcun vuoto nelle convinzioni di chi ama la musica viva. Certe associazioni hanno azzerato la loro attività perché i finanziamenti sono di colpo cessati (e forse è in gioco anche una grossa battaglia per la suddivisione dei fondi residui). Certi giornali hanno chiuso o hanno dovuto procurarsi collaboratori migliori.

Di sicuro il destino della città, almeno per quanto riguarda la musica, appare tutt'altro che definito. Cosa accadrà? Verrà fuori la solita associazione nata l'altroieri e ansiosa di monopolizzare la scena? Appariranno nuovi faccendieri travestiti da esperti del settore, nuovi critici musicali capaci di fare il bello e il cattivo tempo? Tornerà qualcuna delle vecchie mummie?

L'esperienza di questi anni ci ha abituati al peggio, eppure registriamo blandi segnali di cambiamento. Forse tra vent'anni li racconteremo in un libro diverso, che parli di aperture, avventure, tanta musica al plurale.

Un po' ci speriamo davvero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1]In uno dei quadernetti ricchi di note e appunti che la Webb-James aveva l'abitudine di compilare, ho reperito alcuni programmi dei primi del secolo, svolti in duo con la violinista Maria Teresa Canettoli (o, per dirla più elegantemente, "col suo concorso"). Assieme agli elenchi di opere da far eseguire ai giovani allievi, ad uno dei primi cataloghi dell'opera di Debussy, alle molte composizioni di Longo (Giga, Romanza op. 17, etc.) c'è poi un interessante libretto. Si tratta della "Quinta rassegna interprovinciale di musica contemporanea da camera", svolta naturalmente per l'"Unione fascista dei professionisti e degli artisti" (21 marzo 1939): la Webb-James, che non figura tra gli interpreti,  ha conservato con cura tutto il materiale illustrativo, compresi i testi delle composizioni, una Sonata per violino e piano di Enzo De Bellis (nato nel 1907- ma nel programma si indica il 1910-  allievo di Daniele Napoletano e Gennaro Napoli), Tre liriche per canto e piano di Mariano Cinque (classe 1909, allievo di Carlo Iachino), e altri brani di Vincenzo Perrotta (Napoli, 1913), Attilio Staffelli (Napoli, 1894), Adolfo Apreda (Sorrento, 1906) e Italo Lippolis (Bari, 1910).

[2] Le versioni scritte di questo brano, tratte dal disco,  forse furono stilate da Carmelo Columbro.

[3]Ponty, violinista di formazione classica, si avvicina ben presto al jazz e al rock. Conosce Frank Zappa, suona negli Experience, Mothers of Invention, Mahavisnu Orchestra. Non è alieno da frequentazioni elettroniche (soprattutto sequencer ed harmonizer) e da suggestioni etniche.

[4]In una intervista di Michele Esposito a Gennaro Tesone e Rino Della Volpe degli Alma Megretta pubblicata sulla rivista di Goffredo Fofi "La terra vista dalla luna", vi è un accenno a Sorrenti "A Licola, al festival del proletariato giovanile, fischiarono Alan Sorrenti che faceva una musica un po' sperimentale per l'epoca e applaudirono Giorgio Gaslini, sperimentatore di professione che però aveva furbescamente esordito con l' Internazionale.

[5] codice 064-18253. Di seguito riporto tutte le notizie relative al disco.

LUCIANO CILIO, Dialoghi del presente. Primo quadro "della conoscenza". Secondo quadro. Terzo quadro. Quarto quadro "dell'universo assente". Interludio. Tutte le composizioni sono scritte, orchestrate e dirette dall'autore. SOLISTI: Luciano Cilio  piano (terzo quadro), chitarra, flauto, basso, mandola; Maurizio Pastore  piano (primo quadro); Toni Esposito  percussioni; Roberto Fix  sassofono soprano; Patrizia Lopez  coro; Peppino Romito  oboe, corno inglese; Elio Lupi  violoncello; Paolo De Simone  contrabbasso; Pippo Cerciello  violino. Produzione  Renato Marengo. Maurizio Roselli  tecnico di registrazione. Nicola Muccillo  collaborazione tecnica. Luciano Cilio  missaggi. Bruna Malasoma  tecnico del missaggio.

Cilio riproduce anche questa frase di Adorno: "Se l'individualità ha una posizione critica nei confronti dell'opera musicale, questa è altrettanto critica nei confronti dell'individualità. Se la casualità individuale protesta contro la legge sociale rigettata, da cui essa stessa proviene, l'opera costruisce schemi per far propria quella casualità. Essa rappresenta quanto c'è di vero nella società contro l'individuo: questi riconosce quanto v'è di non vero, ed è egli stesso questa non verità".

[6]E' quello trascritto dal disco da Giuseppe Cassaro, da me arrangiato ed eseguito spessissimo in concerto.

[7]Ho conosciuto Gianni Cesarini, incontrandolo spesso ai recital che entrambi frequentavamo per trarne critiche da giornale (un concerto è la pallida evanescenza di una recensione). Benché ci avessero presentati da anni, pareva sempre vedermi per la prima volta (io scrivevo per un giornale minore). Ad un concerto tenuto da Sergio Fiorentino ad Ischia, in occasione di una storica incomprensione tra l'eccellente solista e il direttore (vuoto di memoria, sbaglio di tempi, o altro), Gianni decise di non fare alcun articolo. "Cosa potrei scrivere?", mi disse. Non ricordo se poi mantenne il proposito. Cesarini stimava Fiorentino come uno dei pochi pianisti napoletani degni di questo nome, e aveva ragione,  perché in realtà polemizzava con gli iceberg della scuola egemone. Non si accorgeva, tuttavia, o non voleva farlo, della presenza di tanti altri. Anche per la musica contemporanea quel giornale spesso mantenne (e mantiene tuttora) un atteggiamento di grande superficialità e snobismo. Un quotidiano locale, appunto. Un bel giorno Cesarini scomparve nel nulla, e pochi posseggono il numero di telefono di un'isola lontana dove qualcuno si offre di portargli un messaggio. Un'ultima scelta coerente, l'abbandono del campo.

[8]Percorsi ben lontani dal peso della 'novità' e della 'adeguatezza storica'.

[9]Non è un caso che Luciano abbia definito questo pezzo uno "studio sul silenzio".

[10] In una intervista rilasciatami, Luciano si sofferma anche sul contenuto della ricerca, riferendosi a "metodi atipici di semiografia musicale come colori, inchiostri, diagrammi, figure geometriche e addirittura collage, che ponessero l'esecutore in un rapporto di incidenza aleatoria con la partitura". A questo lavoro giovanile esa seguito lo studio di un "metodo di integrazione della grafia nuova con quella classica ove questa sia limitante, cercando un po' da me nuove possibilità semiografiche laddove la complessità di un pezzo da eseguire lo richieda".

[11]Il Trio è un brano fortemente sperimentale, capace di conservare una fortissima carica espressiva, grazie alla simulazione di lunghi e lenti respiri successivi. Luciano lo considerava uno studio sull'emissione di fiato, basato sull'espediente di regolare "la pressione della colonna d'aria in modo che le vibrazioni si frazionino in più parti con l'incidenza di quest'ultima sulla generazione degli armonici".

[12]Il problema della probabile retrodatazione di queste opere (per il Terzo Quadro è addirittura indicato il 1969) è stato affrontato da me e Fels in una intervista pubblicata sul primo numero di KOnSEQUENZ.

[13]Per avere un'idea della mole di musicisti e artisti coinvolti nel progetto, eccone un elenco sommario: Stanislao Angeli (contrabbasso); Angela Cantiello (soprano); Donella Del Monaco (soprano); Emery Cardas (violoncello); Ensemble Nuova Musica con Luciano Nini (clarinetto), Beniamino Esposito (clarinetto) ed Enzo De Carolis (sassofono contralto e tenore, performer); Tempo di Percussione, diretto da Antonio Buonuomo, con Clara Perra, Walter Scotti, Vittorio Buonomo, Cuono Correra, Romano Molinaro, Gianni Nicotra; Raffaele Evangelista (clarinetto); Luigi Farina (tromba) Eugenio Fels (pianoforte); Pino Finizio (fagotto); Mario Giannotti (flauto); Claudio Leonardi (fagotto); Robleto Merolla (tenore); Gaetano Russo (clarinetto); Marianna Troise (coreografie); Cynthia Fiumanò (danzatrice); Elena Papulino (danzatrice).

[14]Nella seconda serata, Cardini eseguirà ancora pezzi di Satie, brani di Cage per pianoforte preparato, il Piano Piece (1963) di Morton Feldman, e la Novelletta di Bussotti/Cardini. I laboratori sulla voce furono firmati da Aldo Sisillo e Benito Nisticò, quelli per flauti dolci e clarinetti, da Pasquale Scialò ed Agostino Noviello.

[15]Che non sia azzardato ritenere la data di composizione molto più recente del '78 sembrerebbe provato dal fatto che i Due studi dagli Inni alla notte di Novalis vengono presentati nel comunicato stampa come "Due liriche": Cilio cambiò il nome nel giro di pochi giorni, e questo mi fa pensare che il brano non fosse poi così lontano nel tempo.

[16]Una 'prima volta' c'era stata nella Sonata, lasciata all'immaginazione del pianista; ma Cilio, tra le altre 'epurazioni', tagliò via la sezione a causa di una sinistra arpeggiata eccessivamente tonale.

[17] Questi i compositori eseguiti la sera del 28 luglio, nell'ordine: N. Castiglioni, L. Berio, P. Renosto, F. Carluccio, S. Sciarrino, E. Renna, E. Fels, A. De Santis, L. Cilio. Questi i compositori eseguiti la sera del 29 luglio: C. Columbro, G. Testoni, A. De Santis, F. Carluccio, M. Tutino, L. Cilio, C. Galante.  Tra gli interpreti: M. Damerini, C. Scarponi, G. De Simone,  E. Galante, M. Pedron, C. Chailly, Donella Del Monaco, E. Fels, P. Cardas, C. Liccardi, E. Cardas, A. Colonna ed altri.

[18]In Manuale del mancato virtuoso, ESI, 1993.

[19] Ad esempio nella prima rassegna di Donnaregina, in un articolo a firma Giovanna Ferrara.

[20] Ad esempio Aurelio Musi solo dopo anni ha corretto il tiro.

[21]Mi riferisco ad un giornalista, tale Paolo Animato, che in un dibattito pubblico a dieci anni della morte di Cilio ancora mi chiedeva ironicamente quale fosse l'importanza della sua opera.

[22]Alludo a un articolo, a firma Pietro Mazzone,  comparso nel primo numero della nuova rivista "Dove sta Zazà", diretta da Goffredo Fofi.

[23] Ho notizia anche di un pezzo di De Santis dedicato a Luciano, e di un'esecuzione di Suiff voluta da Montagano, il quale gli ha anche dedicato l'opera Evento.

[24]Riferisco questa 'eredità' a Fels specie per riguarda  l'aspetto pratico ed esecutivo. Le invettive teoriche, e giornalistiche, invece, sento di condividerle con lui non senza angoscia.

[25]Tutte le date relative alla produzione di Fels fanno riferimento alla stesura definitiva del manoscritto. In alcuni casi, il compositore ha eseguito in concerto le sue musiche con manoscritti provvisori, canovacci, etc.

[26]Desidero anche ripetere che spazi e attenzione differenti per i vari compositori sono dovuti alle mie scelte, parzialissime, di musicista.

[27]Si tratta dell'editoriale del n. 2/94 di KOnSEQUENZ.

[28]La mia polemica è già rivolta all'autore di Fase Seconda (Mario Bortolotto), che riporta, tra le altre, quella epigrafe.

[29]Molte di quelle tematiche sarebbero state oggetto del volume Le parole sospese , ESI 1988.

[30]"Match" era la rivista/oggetto d'arte 'fabbricata' da Montagano e da Camillo Capolongo nell' '87. Compare, tra le altre immagini, qualche annotazione ("La gnosi come tiro a zero. come un tiro a zero") e qualche simbolo musicale. Nel numero otto è riprodotta una pagina della partitura visiva, piena di grafismi, con la data del 25 ottobre 1987. C'è un intervento di Albert Mayr: "Il mio lavoro parte dall'indagine sulle possibilità di isolare i parametri temporali, sensorialmente non definiti a priori, e di porli alla centralità di operazioni estetiche. Questo presuppone che si cominci con l'esaminare l'esperibilità del tempo e le possibili relazioni tra qualità temporali misurate, esperite e comunicate. Ciò oggi avviene sullo sfondo della sempre più ineluttabile eteronomia dei nostri ritmi giornalieri, settimanali, annuali; della deformazione -raramente avvertita come tale- delle caratteristiche temporali di accadimenti nei mezzi di comunicazione; della scomparsa di antiche unità di misura definite in termini temporali in favore di altre definite in termini spaziali". Nel numero successivo (il nono), ad un certo punto compare a margine del foglio un triplice rigo per sax, trombone e violoncello, la stessa strumentazione utilizzata da Montagano per l'operina. Gabriele mi ha poi fatto notare che "dissemina i materiali creativi in luoghi impropri". Ma è un peccatto che questa dispersione sia diventata prima evanescente e rarefatta, e poi precipitata in silenzi, implosioni, progetti così ariosi da diventare impalpabili.

[31]Conobbi Cage dopo uno spettacolo partenopeo. Aveva fatto largo uso di suoni prodotti all'impronta con microfoni ed oggetti vari. La sua espressione era quella di un santone, davvero in possesso di qualche misteriosa verità. Era quasi inevitabile che si scatenasse una certa empatia tra lui ed il suo pubblico.

[32]Non che la riconoscibilità del linguaggio sia un carattere che attribuisco all'estetica attuale: qui ci si limita alla descrizione del brano, alla lettura storica e sociologica.

[33]Lo spettacolo fu ben recensito da Livio Aragona per Paese Sera, specificando la dedica a Luciano Cilio.

[34]Alcune parti dell'operina sono poi state trasferite nello spettacolo "Rotte di Migrazione", rappresentato al Tetaro Rossini di Pesaro e al festival di teatro contemporaneo di Polverigi. Altre sezioni di Evento sono state eseguite staccate, come ad esempio alla terza edizione della rassegna "Ricerca Musicale e Mezzogiorno", organizzata ad Avellino da Mario Cesa per l'Arci.

[35]Montagano completa così la mia osservazione: "prendersi - sorprendersi in controtempo".

[36]Nella trascrizione del famoso concerto di Koln.

[37]Lavoravo alle Variazioni sul Vento, in cui uso un tema e un controsoggetto della Vent qui Chante, Vent qui Danse  - Sonata di Fels.

[38]L' "Omaggio a Sciarrino" si è tenuto il 12 novembre 1994 nella Chiesa S. Maria delle Grazie di San Leucio. Ho avuto modo, in quella occasione, di intervistare il compositore, che mi è parso ferocemente inchiavardato sulle sue convinzioni, mostrando tuttavia una sorta di superiore disponibilità al colloquio, non esente dal fiero cipiglio degli aristocratici che consentono al villano di recarsi in pellegrinaggio nella torre più alta del loro castello. Naturalmente solo per onorarli e inchinarsi ai meriti acquisiti in battaglia...

[39]Il disco (edizione ABICI srl, Napoli, fuori commercio) contiene un Concertante per cinque fiati e orchestra d'archi (solisti Masi, Sisillo, Martini, Panebianco, Marini; direttore Franco Caracciolo), un Concerto per orchestra (diretto da Luciano Rosada); e Pianefforte 'e notte per voce recitante e orchestra (voce di Stefano Sattaflores, direttore Ugo Rapalo). Indovinate quale orchestra suona?

[40]Gorli è uno dei pochi allievi di Donatoni ad interessarmi, soprattutto per un breve e rarefatto Requiem; nel 1991, dopo averlo contattato, consigliai l'inserimento della sua terza Novelletta, suonata da Alexander Lonquich in un compact collettaneo pubblicato da Pagano.  Gorli, purtroppo, mandò come registrazione definitiva tutte e tre le Novellette nell'esecuzione di Maria Grazia Bellocchio.

[41]Si tratta della generazione precedente: De Bellis, da noi già citato, nacque nel 1907 e morì nell' '82; fu allievo di Daniele Napolitano a Napoli, e scrisse soprattutto opere teatrali.

[42]Mario Pilati (1903-1938) pur essendo nato a Napoli orbitò nell'area di Pizzetti per aver insegnato a lungo a Milano, dove quest'ultimo era direttore. Cominciò a scrivere intorno al 1921; la Suite eseguita a Napoli è del 1923, anno in cui compose anche un Notturno per orchestra. E' invece del 1926 la  Sonata per flauto e piano (recentemente incisa per Nuova Era da Mario Carbotta e Roberto Cognazzo), che vinse il concorso Coolidge bandito dall'Associazione Scarlatti. Fu eseguita anche al Conservatorio nel 1931, da Marcel Moyse e Alfredo Casella. La scrittura di Pilati resta un po' di maniera, ridondante nelle invenzioni melodiche e simmetrica in eccesso.

[43]Nella stagione 1986-'87, per l'Accademia Musicale Napoletana, si era già eseguito il Pròteo di Lombardi per quattro pianoforti, voce di Joice, altra voce recitante e video-tape. Oltre a Daniele Lombardi ci sono al pianoforte Stefano Fiuzzi, Riccardo Risaliti e Giancarlo Simonacci. Dalle note del programma: "Ho realizzato quest'opera senza incatenare Proteo, nella speranza di rivelazioni, ho tentato invece di introdurmi nell'attimo della metamorfosi, metafora dell'impercettibile trapasso tra coscienza del presente e ricordo, realtà e immaginazione, così compenetrati nel proprio mondo interno".

[44]Ad esempio nel '90, in collaborazione con l'Associazione Chopin, il Movimento Artistico Napoletano proporrà nella sala Martucci del Conservatorio tre serate dedicate ai compositori napoletani, dove appaiono un po' mescolati per età e tendenze. Questi i nomi: Di Martino, Castaldo, Pagliuca, Napoli, Sandelli, Mormile, Evangelista, Schiavo, A.Vitale, Calbi, Anastasi, Panariello, Baccile, G. Vitale, Cece.

Devo segnalare anche la Missa 'Deus Meus'  di Franco Nocerino, dell' '89, eseguita nel giugno del 1990 alla Sala Martucci del Conservatorio, in uno dei saggi di composizione, ma soprattutto accettata alla Grawemeyer Music Award Comitee di Louisville.

Altre prime esecuzioni di quegli anni (tra il 1985 e il 1987), sporadiche rispetto a quelle di Torino, Roma, Milano...,  non tutte cittadine, e per varie associazioni minori, sono quelle che riporto di seguito: Miniature di Elisabetta Brusa; Aria e Berceuse di Otello Calbi; Entrebois e Solo di Gabriella Cecchi; Liebeslied di Raffaele Cecconi; Tre pagine da Amor Vacui di Ettore Contini; Concerto per pianoforte solo di Aurelio Giordano; 3X2+2 di Vincenzo Liguori; Sonata di Giuseppe Manzino; Dream I di Carlo Alberto Neri; Divertimento di Eraclio Sallustio; Le ragioni delle Conchiglie di Sciarrino; Kleine Musik di Gerardo Tristano; Poemetto Lirico di Raffaele Sergio Venticinque. Altre esecuzioni, naturalmente, potrebbero sfuggirmi.

E' invece del 1988 il "I Festival Italiano di Ragtime", svoltosi all'Auditorium del castel Sant' Elmo. Lo cito perché in programma figurano tre concerti, di Marco Fumo (presenta anche una composizione di Mario Cesa, Moduli Rag), Cesare Poggi e Antonio Ballista. Il 16 novembre del '90, allo Studio Morra, Daniele Lombardi presenterà Palindromi, Tredici Preludi, Quattro studi alla memoria di Chopin, Metamorfosi.

[45]Chi ha dimestichezza con i libri di Carlos Castaneda, metà antropologo, metà narratore, riconoscerà nei titoli de Il cerchio del Tonal,  le suggestioni mescaliniche di quell'autore.

[46]E' un brano scritto nel 1964 che gioca molto con le dinamiche, con valori e tempi irregolari. Gli stratagemmi tecnici e strumentali richiamano molto l'Hindemith del Ludus Tonalis (Interludio IV), con qualche allusione schoenberghiana. Il Preludio resta tuttavia confinato in ambito 'sperimentale'.

[47]Non posso fare a meno di menzionare, almeno, una serata dedicata a Bastianelli e Savinio, con l'intervento artistico di Davide Carnevale (Davic).

[48]Questa intuizione culminerà nella manifestazione epocale "Napoli - Studi aperti", con la partecipazione di quasi cinquanta artisti che apriranno i loro atelier di pittura (è il 30 novembre 1987).

[49] Vittorio aveva studiato pianoforte con Fels e per un breve periodo anche con me.

[50]Antonello Paliotti mi ha regalato copia della registrazione inedita: è un lavoro bellissimo, che presenta rivisitazioni, sempre gradevolissime, di brani noti o ignoti (Stravinskij, Gismonti, Satie, Paliotti, etc). Il titolo, forse non indovinatissimo, è Ma tu, se venisse un signore e ti desse diecimila lire, lo faresti il bagno? Si tratta di tredici tracce, interpolate con frasi celebri o inedite di grandi uomini e donne della cultura internazionale (Grazia Deledda: "Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi mandalo per la strada dei monti; se lo trovi nella poesia per la seconda volta puniscilo ancora. Se va per la terza volta, lascialo in pace, perché è un poeta"). E con le previsioni dei moti ondosi scandite alla radio con lentezza inesorabile (altro che Cage!).

[51]Di quella rassegna, ospitata dal Teatro Diana tra Maggio e Giugno 1988, resta un meraviglioso catalogo (riproduce anche alcune partiture). Questi gli artisti coinvolti: Roberto Gatto, Rita Marcotulli, Massimo Bottini, Battista Lena, Franco D'Andrea, Tino Tracanna, Attilio Zanchi, Gianni Cazzola, Luis Agudo, Riccardo Bianchi, Marco Micheli, Christian Meyer, Maria Pia De Vito, Enrico Pieranunzi, Enzo Pietropaoli, Fabrizio Sferra, Franco De Crescenzo, Aldo Farias, Umberto Guarino, Daniele Sepe, Dario Franco, Giancarlo Perna, Riccardo Zinna, Piero De Asmundis, Pietro Iodia, Enzo Nini, Pietro e Pino Iodice, Pietro Condorelli, Ares Tavolazzi, Glauco Leandri, Marco Sannini, Lello Panico, Pietro De Asmundis, Pippo Matino, Claudio Romano, Guglielmo Guglielmi, Gianni D'Argenzio, Vittorio Pepe, Gino Izzo.

[52]In quella stessa collana ("Nugae", edita da Pagano) erano pubblicati brani di Claudio José Boncompagni (Presenze per clarinetto e pianoforte), Antonello Cannavale (Fragments per voce e pianoforte), Nicola Schiavo (Tema e Variazione per flauto solo), Glauco Cataldo (Vestigia Flammae, per pianoforte), Pietro Cece (Insomnia, per percussioni), Alessandro Abbate (Preludio per pianoforte), e naturalmente miei (Variazioni sul Vento per pianoforte; V.I.T.R.I.O.L.U.M., per pianoforte). Ben presto, tuttavia, appena mi resi conto di non avere alcuna reale possibilità di indirizzo, abbandonai la direzione di questa e di altre collane e smisi di collaborare con quell'editore.

[53]Come è noto, ciascun accordo di quarta di tre suoni può 'risolvere' almeno in tre modi diversi. Altre caratteristiche interessanti, reperibili peraltro in qualsiasi manuale, fanno sì che essi, pur essendo meno dissonanti, se usati in successione  mantengano meglio la sospensione armonica. Quando invece vengono 'risolti' (visto che comunque è possibile ricondurli entro un'area' armonica), vanno a finire su accordi che conservano una certa apertura tra le voci. Anche Schoenberg, pur assegnando la stessa funzione ad accordi che potremmo definire convenzionali (triadi aumentate, settime diminuite in successione, etc.) riconosce alle quarte il carattere di "armonia vagante".

[54]"Progetto Flegreo" si è costituita nel marzo del '93 e da allora opera con grande efficacia per la valorizzazione culturale, territoriale ed ecologica della zona flegrea.

[55]La manifestazione fu voluta dalle Sovrintendenze e dal "Mattino", che però tacque o fu impreciso su molte delle manifestazioni.

[56]Le 'apparizioni' erano realizzate da Pina Testa, Carla Savastano, Marialuisa Camaioni e Rossella Pollice. Fanina e Fels riproporranno con successo, il 16 aprile del '94, e sempre per "Progetto Flegreo", lo spettacolo "Satie Opera" che aveva avuto la prima assoluta al Café Einstein di Berlino.

[57]Fels è un ottimo trascrittore, tanto da essere contattato più volte dal musicologo Artuh Schanz. In catalogo ha, tra l'altro: da Bach, l'ultimo contrappunto dall' Arte della fuga, naturalmente completato (1974); il Preludio-corale BWV 742 (1973); e inoltre: BourrèeBWV 1002 (1973); Fantasia cromatica e fuga BWV 903 (1974); Preludio e fuga BWV 549 (1984); Passacaglia BWV 582 (1990); Sarabanda e double BWV 1002 (1990); Toccata e fuga BWV 565, in duplice versione, libera rielaborazione (1969-1987) e libera trascrizione (1987). Da Haendel: Passacaglia in Sol minore (1969). Da Rachmaninov le già citate trascrizioni usate in Fade Out. Non so se Fels accetti o meno ancora una sua trascrizione da  Tschaikowsky: l'Andantino in modo di canzone dalla Sinfonia n. 4 in fa minore.

[58]Il 28-1-'94; il 19 e 20 febbraio 1994.

[59]Il termine è per metà inventato. Dalle note di presentazione: "Alkèmia vuole portarti in un luogo particolare dove leggende e miti si mescolano ad una realtà ancora più misteriosa e magica. In un luogo dove la natura ha ammaliato i Cimmeri, i Greci, i Romani, le sibille, i poeti di tutti i tempi. Là dove nell'aria ci sono ancora gli odori dello zolfo, e se si guarda attentamente il mare, pare quasi scorgervi delle sirene. E' tra queste sensazioni che nasce la suite, accompagnando lo spettatore attraverso le tenebre degli inferi (terra), i misteri della magia dei miti e dei responsi della Sibilla (aria), attraverso il fuoco, vulcanico e metaforico (fuoco), fino a giungere alla fine di un percorso iniziatico, al mare ch'è il nostro mare, il Mediterraneo (acqua)".

[60] Enrico Grieco, come artista multimediale, si interessa al rapporto tra immagine e suono, cercando di "improvvisare" con le immagini così come  un jazzista farebbe coi suoni. I primi esperimenti risalgono al 1970, ma la storia è proseguita con diverse sperimentazioni: "Katia" (1984-86, solo immagini), "Vesuvio Suite" (1989-91, con chitarra e batteria), "Jam Session" (1992, con tamburo e sculture), "Senza titolo" (1992, con chitarra e percussioni), "Ploff visivo" (con suoni di Luc Ferrari), "Incongruenze" (1993, con pianoforte). Più recentemente ha utilizzato musica dei Pink Floyd e di Keith Jarret. Con "A suddd di Paperone" è intervenuto con immagini miscelate a dialogo, musica, movimento.

[61]Come indica anche Harry Halbreich, Giacinto Scelsi aveva l'abitudine di improvvisare al pianoforte le sue composizioni, chiedendo soltanto in un secondo momento ad un copista-compositore di trascriverle per gli organici da lui prescelti, e poi lavorandole a lungo con i singoli esecutori, come  testimonia anche il contrabbassista Stefano Scodanibbio ("Una volta lui desiderava da me un suono rotondo, io passai mesi a scervellarmi per dare un'idea, per dare corpo a questo suono rotondo, non lineare, ma sferico, che quindi ritorna su se stesso"; inoltre, dice Halbreich, che per Scelsi "ogni nota è un suono, e cioè non semplicemente un punto, ma una sfera dotata di dimensione, profondità, volume"). Questa abitudine fece in modo che alla sua morte diversi copisti si facessero avanti dichiarando la paternità di opere. Il suo lavoro, tuttavia, oltre ad essere stato riabilitato in sede mondiale con un autorevole intervento di Zoltan Pesko sulla rivista dell'IRCAM, risulta essere di una tale unitarietà poetica e formale da escludere un'improvvisa convergenza,  ai limiti del paranormale, tra compositori diversi.

[62] Naturalmente partecipai senza percepire alcun compenso, e soggiornando sull'isola a mie spese.

[63]Il corso culminava in una deprecabile rassegna al Denza. Si trattava dei "Concerti finali" dell'anno accademico 1990, per i corsi tenuti dall'Associazione Musica Insieme (presidenza di Giovanna Peduto, direzione artistica di Carmelo Columbro, coordinamento didattico di Enrico Massa). Svolti nel teatro dell'Istituto Denza l'otto e il nove dicembre del '90, ospitavano i seguenti compositori, in ordine di esecuzione: Pierfrancesco Forlenza (Thunderball per pf.); Luigi D'Arienzo (Schizzo per clarinetto e clarinetto basso); Dario Candela (Endecaritmo, per pf); Enzo Amato (Colors, per chitarra); Pietro Piscitelli (Jubal, per ensemble); Girolamo De Simone (Lamentatio Doctoris Fausti, per pf.: il mio brano scandalizzò i presenti perché niente affatto 'donatoniano'); Carlo Mormile (Specchi, per pf; A Due per fl. e cl.); Giacomo Vitale (Puk, per fl.).

[64]"Il primo pezzo compiuto con Donatoni è Specchi. E' stato nell' '89. Eravamo a Salerno con Nino Panariello ed altri, e disse: 'ah, finalmente è venuta primavera'. Finalmente avevamo preso una strada nostra. Così, quello è un mio pezzo chiave.".

[65] Si veda, per la portata estetica del plagio, la sua validità e importanza per la musica contemporanea, il mio saggio Estetiche del plagio, pubblicato su KOnSEQUENZ n1/1995

[66]"Ho vissuto una vita artistica piuttosto varia: ho suonato musica popolare, ho fatto l'attore, eccetera. Il primo atto ufficiale da compositore è l'arrangiamento di un intero spettacolo fatto per un gruppo popolare. Ci sono cose scritte per i filodrammatici, con Franco Pennasilico, e altro ancora...".

[67]Anche Carlo ritiene che questo brano sia particolarmente riuscito. In una intervista, inedita, dice: "feci il ragtime in modo tradizionale. Scritto senza nessuna pretesa,  è diventato uno dei miei pezzi più rappresentativi"

[68]Tutto sommato, 'armonia' vuol dire 'connessione'. Se una connessione è stata data, storicamente, anche dalla sequenza (finalizzata) di accordi, o addirittura di semplici suoni, è poi prevalso il principio della 'verticalità' o, per dire meglio, della 'simultaneità' dei suoni. Ora, c'è da chiedersi se qualsiasi simultaneità (anche se una effettiva simultaneità può essere solo simulata in esecuzioni umane) possa definirsi 'armonia', o se il termine non si carichi di ulteriori significati. Dal punto di vista filosofico, per armonia s'è intesa una combinazione di elementi diversi; combinazione, però, 'organica' e 'felice', ovvero portata a buon esito, ad un 'medesimo effetto d'insieme' (le espressioni sono mutuate dal Lalande). Pertanto, può parlarsi di armonia laddove nell'accordo siano presenti suoni simultanei che contengano una qualità, i quali ad uno stadio minimo deve generare almeno un 'medesimo' effetto. I singoli suoni di un accordo non  contengono questa direzionalità, a meno che essi non vengano iscritti in un sistema di memorie consolidato, come la modalità o la tonalità (e nel caso di musiche con differenti suddivisioni dell'ottava assumano la direzionalità loro propria). Più accordi possono acquisire certo una direzione, una relazione tra diversi suoni o interconnessione reciproca creando relazioni strutturate o organizzate fra di loro. Ma si può dire che quando i suoni simultanei assumono  'qualsiasi' direzione, seguendo  'qualunque' organizzazione, essi esprimano un'armonia? Per un ben noto principio di logica, se qualsiasi organizzazione è armonia, nessuna lo è davvero. In tutta evidenza, quindi, per semplificare il discorso e non depistare il lettore, per 'armonia' intenderò la scienza codificata degli accordi, che nel nostro sistema è tonale. Naturalmente resta possibile riferirsi ad 'armonie' codificate anche in assenza del riconoscimento di una specifica tonalità, come ad esempio nel caso delle 'armonie' di quarte sovrapposte. In conclusione, 'armonia' implicherà connessione non nel senso più elementare di 'simultaneità' verticale, ma in quello stratigrafato di 'predisposizione di senso' di ciascun suono, dove 'senso' esprime sempre un carattere di movimento, direzione.

[69]Da alcune annotazioni di Massa: "Il pendolo è la misura del tempo, il pozzo è il serbatoio della memoria. Il moto del pendolo definisce lo spazio di un vissuto sonoro primo; il suo moto è accelerato verso il centro e lento agli estremi, armonicamente e gestualmente speculare al centro temporale, e ciò è graficamente evidente; il tempo-spazio iniziale definito dal pendolo viene sezionato dalla memoria in cinque ricordi che, rivissuti, subiscono l'inevitabile trasfigurazione".

[70]Una trattazione più dettagliata sulle musiche del mondo può essere reperita in un mio lungo articolo pubblicato su CDclassica, febbraio '95.

[71]Mi riferisco ad un concerto per "Mediterraneomusica" tenuto l'anno scorso a Ravello, e che ho avuto occasione di ascoltare e recensire. Si andava dalle altezze arcaiche di un Epitaffio greco a Gesualdo Da Venosa (naturalmente contaminato con un'Ave Maria Sarda del tredicesimo secolo e una lettera ai feudatari del millesettecento), da Tacito al rap, dalle manfredine agli sfottò berlusconiani. Grande efficacia scenica e spettacolare.

[72]Tuttavia, la sua Al Piano, raccolta di ventinove pezzi (cinque Improvvisi, quattro Preludi, sei Danze, quattordici Fogli d'album), opera prevalentemente didattica, è ostentatamente sperimentale, lontana anni luce dai lavori discografici. La tecnica esibita è alquanto semplicistica, e quasi tutti i pezzi mi sembrano lavori un po' casuali, non troppo meditati.

[73]E' stato allievo, per il pianoforte, di Luigi Averna, ed ha partecipato alle "vacanze musicali" dell' '81 con Vincenzo Vitale: è nota la mia idiosincrasia per le modalità esecutive di quella scuola.

[74]Contra, si legga l'utilissimo volume di Middleton Studiare la Popular Music (Feltrinelli, 1994), e specialmente il capitolo in cui si dimostra la necessità di allontanarsi da Adorno. Anch'io ho espresso questa opportunità in diversi luoghi della mia produzione, e specialmente nell'editoriale del primo numero di KOnSEQUENZ.

[75]Riferendomi ad una conferenza tenuta per Dissonanzen da Arturo Martone,  davo il seguente resoconto: "  Martone si è ricondotto all'opposizione adorniana tra ordine e caos, e al significato, all'  'invenzione di senso', che è possibile conferire ad un'opera scritta in un momento storico  di alienazione. Infatti, in Minima moralia, i riferimenti all'entropia ed al caos sono continui, e nell'incompiuta  Teoria estetica  la trattazione dell' 'ideale del nero' trova spazi considerevoli. Quindi in Adorno sembrano convivere due esigenze diverse; da un lato, la consapevolezza che l'unico contenuto ancora possibile per l'arte è nell'istante negativo (nel senso di una dialettica negativa): essa rifiuta una definizione, è parzialmente svelata dalla sua legge di movimento, ed il suo contenuto è identico alla sua legge formale. Ma per Adorno è anche possibile un superamento della hegeliana morte dell'arte nel fatto che nell'opera esiste  una 'qualità', che risiede nell'arte quando essa diventa spirito attraverso le sue configurazioni.  In questo senso, allora,  l'idea di un'opera  che sia tale soltanto per ciò che di nuovo riesce a dire, non ci sembra riconducibile a Schoenberg. Infatti, nel Manuale di armonia  campeggia la frase: 'Al suo più alto livello l'arte si occupa solo di riprodurre la natura interiore'. La 'novità' resterebbe anche per l'inventore della dodecafonia un semplice corollario: e ciò ci sembra importante per cercare altrove quel 'senso' in fondo auspicato da Martone e dai curatori di 'Dissonanzen'".

Questo 'senso' veniva poi riduttivamente riscoperto, come detto, in categorie superate.

[76]Vitali rifiutò sdegnosamente: troppo lontana la musica viva dalla rigidità assiomatica dei neoviennesi.

[77]Con meraviglia, leggendo il programma, scopro che la rassegna è curata "(...) con la partecipazione di Girolamo De Simone". Per la verità io mi ero limitato a rispondere all'invito per una conferenza, e a fornire dati e nomi di autori agli organizzatori, senza poi saperne più nulla per mesi. Ho trovato molto scorretto anche un trafiletto pubblicato sul quotidiano locale che parla dei musicisti coinvolti nel progetto come dei "giovani compositori che fanno capo a ...". Riecco apparire il luogo comune dell'età (hanno partecipato anche musicisti di sessant'anni), e la simulazione di un'appartenenza inimmaginabile: ci sono artisti che lottano e pagano amaramente pur di non figurare sotto alcuna bandiera.

[78]Federico è nato a Genova nel '61, anche se opera a Napoli da parecchio tempo. E' stato fondamentale, per la sua formazione, l'incontro con Mengelberg. Ha fondato "L'Ottetto", gruppo di improvvisazione, e "Contrarco", ensemble specializzato in musica contemporanea. Ha scritto molto per il teatro.

[79]Mi pare evidente ed acquisito che l'aspetto sociologico e politico non debba più essere mescolato con il giudizio di valore estetico.

[80]Quello della vesuwave è un problema complesso; vorrei però almeno segnalare che qualora se ne scrivesse la storia non sarebbe possibile  ignorare la densissima attività (sociale ed estetica) dei gruppi operai.