Le
scuole di specializzazione nell'insegnamento secondario (Ssis)
Storia, problemi, prospettive
(di Luca Curti, presidente Codissis. Tratto
da www.sissco.it)
La
questione è di scottante attualità, come usa
dire; ma la sua storia comincia molto tempo fa, nel Sessantotto.
Più
precisamente verso la fine del 1969, con la legge
910, detta anche "Codignola 1" dal nome del
suo primo firmatario.
È
la legge che estendeva a tutti i titolari di diploma
secondario quinquennale (maturità classica, diploma
di ragioniere, diploma di istituto tecnico, ecc.; non diploma
magistrale, allora quadriennale) la possibilità
di accedere a qualunque corso universitario, da Medicina
a Lettere a Ingegneria; e che contemporaneamente consentiva
agli studenti di proporre alle facoltà piani di
studio "liberalizzati", come furono a lungo
chiamati, ossia indipendenti da indicazioni vincolanti a livello
nazionale.
Quella
legge aveva molte significazioni:
- proclamava
comprensione per l'insofferenza violenta del movimento studentesco
per costrizioni sentite ormai come obsolete;
- rendeva
le facoltà responsabili del livello culturale dei
laureati che avrebbero da allora in poi prodotto;
- disinnescava
un confronto diretto tra il governo e il movimento d'opinione
progressista che simpatizzava largamente con gli studenti;
- e
polverizzava en passant l'ultimo pilastro rimasto in piedi
della costruzione gentiliana, sopravvissuta molto a lungo
non solo al suo ideatore ma anche al regime che l'aveva
contemporaneamente varata e sotterraneamente contrastata
fin dal momento della sua approvazione.
Non
si tratta, ovviamente, di rimpiangere la riforma Gentile né
di deplorare gli eccessi del Sessantotto: perché non
serve e perché non è giusto. Se però
non si riflette su questa vicenda si rischia di non capire
le ragioni delle parti che oggi contendono sulla nostra questione.
Perché
quella legge 910 e la liberalizzazione degli accessi universitari
nonché dei piani di studio, a prescindere dalle intenzioni
di chi la propose e di chi la sostenne, ebbe effetti diciamo
così molto selettivi.
Per
esempio fu, in pratica, totalmente inoperante in certe
facoltà (per esempio Medicina e Ingegneria) e fu
invece di operatività totale e incontrastata,
almeno per lunghi anni, nelle facoltà di Lettere
e filosofia.
Qualcuno,
assai poco generosamente, attribuisce questo fatto e le sue
conseguenze all'incapacità delle facoltà in
questione di contrastare le spinte demagogiche e il consequenziale
crollo della qualità degli studi; ma le cose non stanno
su un piano così astrattamente morale, con la colpa
commessa e la giusta e conseguente punizione nonché
il divieto di lagnarsene (perché, come dice l'anonimo
sapiente, chi è causa del suo mal... eccetera).
Basta
una breve riflessione per vedere invece che il tipo di studi,
nelle facoltà che abbiamo preso ad esempio, è
profondamente differenziato sia nell'acquisizione delle competenze,
sia nella verifica della preparazione degli allievi, sia infine
nelle modalità di accesso alla relativa professione.
Per farla assai breve, e se esaminiamo come solo campione
il caso della facoltà di Medicina, vi vedremo agire
in potente alleanza due fattori contrari alla liberalizzazione
dei piani di studio:
- il
buon senso, che anche allora gridava contro la prospettiva
di vedere in circolazione un professionista della sanità
che anziché l'esame di Patologia generale o di Clinica
medica avesse invece sostenuto quello di Terapia delle acque
minerali;
- nonché,
e direi soprattutto, l'esistenza di un Ordine dei Medici
l'accesso al quale, necessario per esercitare la professione,
era sbarrato da un esame di stato.
E
una volta resa inoperante la liberalizzazione dei piani di
studio anche quella degli accessi, senza bisogno di ulteriori
interventi, risultava discretamente frenata: restava infatti
vero che quasi chiunque poteva iscriversi a Medicina, ma era
anche vero che per diventare medico questo chiunque aveva
di fronte un corso di studi lungo, costoso, difficoltoso come
era sempre stato in precedenza.
E
su quest'ultimo fronte, come tutti sanno, non bastò
neppure questa dissuasione "naturale", e le facoltà
di Medicina furono le prime, una volta rifluita l'onda di
piena dell'ugualitarismo democratico, a ricorrere a sbarramenti
nell'accesso (col cosiddetto "numero programmato")
tra polemiche, contrasti e ricorsi tuttora e sempre pendenti
o incombenti presso tutti i Tar raggiungibili.
Facoltà
come quella di Lettere e filosofia, per ragioni che
a questo punto spero sia inutile riprendere minutamente, furono
invece investite e spazzate in lungo e in largo da quell'onda
di piena. Stentarono a riprendere lucidità e coscienza,
commisero molti errori (e altri intendono commetterne, se
non ci saranno interventi mirati ed energici).
Ma
non serve a nulla portare in tribunale le facoltà di
Lettere o altre facoltà che abbiano problemi analoghi
o assimilabili, come quelle di Scienze della formazione, eredi
delle facoltà di Magistero. La sola cosa che abbia
senso è cercare di esaminare gli aspetti negativi
della situazione e mettere in atto i correttivi che si
ritengono adeguati: non dimenticando la storia delle cose,
se non altro per evitare di commettere gli stessi errori.
E
prima di procedere, avverto che soprattutto alle facoltà
di Lettere e filosofia è legato il discorso che
svilupperò in queste note:
- sia
perché si tratta della situazione che conosco meglio
(insegno letteratura italiana all'Università di Pisa),
-
sia perché da queste facoltà è uscito,
per lunga e logica tradizione, poco meno che il totale degli
insegnanti secondari di materie letterarie operanti nelle
nostre scuole.
Ancora
oggi, nella ripartizione per indirizzo degli allievi delle
Ssis, quelli che afferiscono all'indirizzo linguistico-letterario
sono di gran lunga i più numerosi e la loro formazione
costituisce quindi, sul piano delle prospettive politico-culturali,
il problema più rilevante almeno sul piano statistico.
"Rem
tene": la formazione degli insegnanti fino a ieriUn
esame di stato per esercitare sul territorio la professione
di filosofo, come ognuno immagina, non è mai esistito.
E
nemmeno un Ordine o Albo dei filosofi (o dei matematici).
Questa considerazione, forse superflua, basta da sola a differenziare
i problemi delle facoltà di Lettere (e di formazioni
disciplinari per molti versi affini) da quelli di altri ambiti
disciplinari.
E
se si pensa che proprio in quelle facoltà e nella cultura
umanistica in genere trovava la sua forza maggiore quella
spinta che aveva tra l'altro abbattuto i resti della scuola
gentiliana si capiranno meglio le difficoltà in cui
sono finite e in cui ora si trovano.
Ma,
ai fini di una riflessione sulla storia della formazione degli
insegnanti, non basta ancora. Nella memoria di quella generazione
che "ha fatto il Sessantotto", e dunque si è
formata in una scuola dalla struttura gentiliana, non si trova
(e non c'è infatti mai stato) neppure il problema della
formazione né di quello connesso della selezione degli
insegnanti.
Ciò
non è dovuto al caso. L'impianto gentiliano nasceva
da una concezione della cultura rigidamente gerarchica, elitaria,
custodita dal principio fondante della selezione. "Tagliare
i rami secchi" era la parola d'ordine alla quale
si conformavano ancora gli insegnanti che operavano nelle
nostre scuole almeno fino alla metà degli anni sessanta.
I
rami secchi erano gli studenti che non ce la facevano a stare
al passo. L'ideologia gentiliana puntava esplicitamente a
tenere le masse lontane dalla cultura superiore, cioè
dall'università, riservata per sua natura a pochissimi:
un progetto aristocratico che non poteva essere pacificamente
accolto nel programma di una forza politica come il fascismo,
il cui fondatore era stato un dirigente socialista e che mantenne
in tutto il corso della sua storia una fortissima componente
populistica.
Anche
annacquata e boicottata, comunque, la scuola gentiliana selezionava
con una severità sconosciuta alle epoche precedenti
come a quelle successive.
E
il risultato pratico, come è naturale, era assai positivo
per chi superava la selezione: si trovava in un territorio
di élite, molto scarsamente popolato e nel quale, soprattutto
se era transitato attraverso il liceo classico, tutte le opzioni
erano aperte davanti a lui. Soprattutto quella dell'insegnamento:
era assolutamente normale, fino ai primi anni sessanta, trovare
spazio (precario, certo) nell'insegnamento prima ancora di
essersi laureati. Anche questo era conseguenza diretta di
un pensiero di Giovanni Gentile, semplice ed eloquente come
molti dei suoi: bravo insegnante è quello che conosce
bene la materia che deve insegnare.
Rem
tene, verba sequentur. Gli studenti che concludevano il
percorso degli studi erano sopravvissuti alla selezione; dunque
sapevano; dunque insegnavano (e un concorso conclusivo sanciva,
per conto dello Stato, l'approvazione definitiva).
Così d'altronde è fatta ogni selezione
seria: essa presenta aspetti negativi unicamente per
chi viene fatto fuori. Per gli altri, solo vantaggi.
Chi
non ricorda questa situazione stenta a capire non tanto quello
che avvenne, ma la forza del tutto irresistibile di quello
che avvenne; e che aveva un'origine certamente molto composita
nella quale comunque figurava la sensazione netta che non
fosse più accettabile che la classe dirigente di un
paese moderno fosse formata secondo quei criteri.
Da
qui (scorro rapidamente e schematizzo) l'ipotesi dell'università
di massa, che in teoria voleva dire alta cultura di massa
(un ossimoro, secondo Gentile: ma fin qui era solo una conferma)
e opportunità di lavoro altamente qualificato per tutti
(e questo era un sogno, benché generoso, del quale
non mi pento ma dal quale credo di dovermi svegliare). La
prova dei fatti, d'altronde, benché non immediata,
è stata parecchio ruvida.
Dopo
la liberalizzazione degli accessi, infatti, nei corsi di studio
universitari non "protetti" si instaurò un
terribile circolo vizioso:
- tutti
studiavano (cioè chiunque lo desiderava si iscriveva
alla facoltà di suo gusto);
-
troppi volevano (ossia, visto che si era all'università,
giustamente si chiedeva che venissero riconosciuti i propri
diritti tra i quali almeno quello di arrivare alla laurea
e di sfruttarne il valore legalmente riconosciuto);
- nessuno
o troppo pochi, come presto si constatò, ottenevano
(visto che non si potevano aumentare a numero aperto le
possibilità di impiego).
Diminuirono
spontaneamente gli standard richiesti per procedere negli
studi (che cosa mai si poteva pretendere dagli studenti, usciti
da scuole che non li preparavano agli studi che essi eroicamente
intraprendevano e per giunta condannati alla disoccupazione?);
e poiché gli insegnanti secondari andavano comunque
reclutati tra quei laureati, si abbassava anche il livello
della preparazione secondaria che, oltretutto, non selezionava
più nessuno: tanto, tutti studiavano ecc.
Molte
delle illusioni che avevano sostenuto tutto ciò sono
state travolte dai rivolgimenti epocali che la storia ha conosciuto
in questi ultimi decenni. Sono però felicemente rimasti
i cocci doloranti dei progetti decaduti.
Un
solo dato, che dovrebbe diradare le ultime nebbie: nel
1999, dopo un decennio di silenzio, è stato bandito
un mega-concorso ordinario a posti di ruolo nelle scuole.
Posti disponibili, settantamila; aspiranti dotati
di titolo valido per concorrere, più di un milione.
Nove
"formati" su dieci resteranno quindi in ogni caso
fuori dell'impiego al quale il titolo di studio acquisito
(spesso la laurea) dà loro il diritto di ambire.
A
me pare la pesantissima pietra tombale di un progetto la cui
realizzazione ha innaturalmente preceduto studio dell'applicabilità,
messa a punto e previsione delle ricadute.
La
situazione attuale: non-formazione e disinformazione
Il
pensiero di Giovanni Gentile, nella sua applicazione
all'educazione, è stato di fatto dichiarato obsoleto
su due punti:
- non
è vero che il problema della scuola pubblica è
quello di tenere gli inetti fuori dalla cultura di vertice
(il problema è invece quello di formare una classe
dirigente colta che si presenti con l'ampiezza e lo spessore
necessari ai bisogni di una società democratica complessa);
- non
è vero che formare un insegnante vuol dire solo insegnargli
i fondamenti della sua disciplina (è vero invece
che la preparazione professionale ha un fondamento psico-pedagogico
che non è possibile ignorare né dare per scontato).
Su
questi due punti c'è accordo generale tra gli operatori
del settore; non bisogna però attribuire a Gentile
anche l'idea che la preparazione disciplinare è per
gli insegnanti un optional. è vero semmai il contrario,
come ognuno sa (cioè per Gentile era assolutamente
trascurabile, per un insegnante della secondaria, la preparazione
psico-pedagogica); ma davvero non è questo il punto.
Il
punto (ed è un punto quanto mai dolente) è che
la cultura sclerotizzata, obsoleta e funzionale al potere
che il Sessantotto volle abbattere per spianare la strada
al "vero sapere critico di massa" non è stata
in realtà sostituita da nulla (e da che cosa mai doveva
essere sostituita? mormora il tristo senno di poi).
Al
suo posto si è lentamente ma sicuramente installata
la semplice ignoranza: la guerra al nozionismo ha colpito
nella direzione sbagliata e ha distrutto le nozioni.
I
professori progressisti delle facoltà di Lettere, tra
i quali mi colloco, sono arrivati tardi e malvolentieri a
riconoscere questo stato di fatto (molti non ci sono ancora
arrivati).
Ma una volta fatta l'ipotesi che le cose stiano così
le conferme, come accade, fioccano. Sui giornali in questi
mesi sono comparse lettere indignate che segnalano l'ignoranza
in geografia delle nostre scolaresche; un brillante studente
pisano (!) di ingegneria, già allievo di un liceo scientifico,
alla richiesta da parte di amici su che cosa ne pensasse della
questione di una lapide che si voleva dedicare a Giovanni
Gentile, risponde: "Giovanni Gentile?". Un allievo
di un liceo classico milanese, maturato pochi anni or sono,
guarda sbalordito e silenzioso il povero umanista che gli
dice: "Vedi laggiù? è la Gorgona, con la
Capraia... "muovansi la Capraia e la Gorgona"....
"Ahi Pisa vituperio della genti / del bel paese là
dove il sì suona"...Il conte Ugolino... Ti dice
nulla?". Nulla, apparentemente.
Il
che non significa che i giovani attuali siano degli alieni
o dei devianti. Sono semplicemente ignoranti. Per la semplicissima
ragione che non hanno studiato. Ma sono, potenzialmente, quelli
di sempre (e d'altronde per quale ragione dovrebbero essere
diversi? si fabbricano sempre allo stesso modo, almeno per
ora). Se studiassero sarebbero sapientissimi. Certo, è
necessario dargli un movente per farlo.
Alle
prove di concorso per l'accesso alle Ssis (primo ciclo,
fine 1999) sono stato testimone di un episodio che mi sembra
emblematico del momento attuale. Si presenta all'orale una
candidata con punteggi altissimi nei titoli e buoni nello
scritto: è una classicista, ha già vinto un
posto in un dottorato di ricerca del settore e tenta giustamente
di tenersi aperta anche la strada dell'insegnamento secondario.
Il docente di storia le chiede se il fascismo si colloca prima
o dopo la prima guerra mondiale. La candidata si blocca, riflette,
alla fine sceglie il male minore: scena muta. Il docente le
chiede allora se sa quando le donne, in Italia, hanno ottenuto
il diritto di voto. La candidata ci guarda, gli occhi le si
riempiono di lacrime; si scusa con la commissione per la sua
ignoranza; spiega compostamente che a scuola di queste cose
non si parla, esperienza diretta non ce l'ha, i giornali non
li legge e comunque questi dati non ce li troverebbe, non
parliamo poi dei telegiornali, e dunque non sa cose che un
professore non può ignorare. è innocente ma
si vergogna.
Una
persona notevole, benché impreparata; e un atto d'accusa
completo contro l'individuo, la società, la scuola
e l'università (visto che era laureata).
L'unico
commento possibile mi sembra da individuare nella riflessione
che è gran tempo di correre ai ripari.
La
Scuola di Specializzazione: una grande svoltaDopo decenni
di abbandono arriva, sostanzialmente inavvertita da parte
dei più (e certamente da parte delle facoltà
di Lettere e filosofia che erano in ogni caso al centro della
questione) la svolta: gli insegnanti della secondaria inferiore
e superiore dovranno seguire una specifica scuola di specializzazione,
di durata biennale, per ottenere l'abilitazione all'insegnamento.
La istituisce la legge 341 del 19 novembre 1990 intitolata
alla riforma degli ordinamenti didattici universitari. L'università,
ad un tempo, vede ufficialmente declassato il titolo di studio
che essa rilascia (la laurea "non basta più"
per insegnare) e si trova affidato l'allestimento di procedure
sostitutive per la formazione degli insegnanti.
Ho
già osservato che il settore umanistico in senso
stretto non si accorse nemmeno della novità; e
questa estraneità è confermata da tutta la storia
della Ssis, ad eccezione della fase più recente. Qualunque
possa essere la spiegazione di questo fatto, è comunque
certo che esso è all'origine di molte delle difficoltà
presenti.
Caratterizzante
è invece la presenza, tra i promotori della Ssis, di
pedagogisti (come Mario Gattullo, poi tragicamente
scomparso) e di "ingegneri istituzionali"
di estrazione scientifica o socioeconomica (come Giunio
Luzzatto o Antonello Figà Talamanca).
Solo
in un secondo tempo, col costituirsi dei Comitati di proposta
regionali per l'avviamento delle Ssis, gli esponenti delle
facoltà di area umanistica sono quasi forzosamente
entrati in gioco. E con soddisfazione posso qui registrare
che in alcuni casi, come per esempio nel Comitato della Toscana,
il dibattito ha visto la convergenza di tutte le componenti
(psico-pedagogica, scientifica, umanistica) su alcuni aspetti
della struttura originale della Ssis che sembravano discutibili.
Il
punto più discutibile è certamente apparso fin
dall'inizio quello della riducibilità della durata
della Ssis: i due anni erano infatti dichiarati riducibili
a uno e mezzo in un primo tempo, poi decisamente e uno nel
caso che l'allievo avesse in precedenza (cioè nel suo
corso ordinario di laurea in lettere, matematica, chimica
ecc.) accumulato crediti riconoscibili ai fini del percorso
Ssis. Per esempio esami di psicologia, pedagogia ecc., come
non era precisato ma facilmente intuibile. Era di fatto un
pesante invito a creare percorsi didattici all'interno delle
facoltà disciplinari; invito che per ovvie ragioni
aveva molte più possibilità di essere accolto
nelle facoltà umanistiche per il contatto disciplinare
tra gli insegnamenti di filosofia e di pedagogia (sia pure
da intendersi, gentilianamente, come una delle specificazioni
empiriche del sapere filosofico) e quelli dell'area psico-pedagogica
presenti nelle facoltà di Scienze della formazione
e destinati a costituire uno dei nuclei forti della costituenda
Ssis.
Altamente
chiarificatore, almeno per me, è stato il discorso
col quale Gianni Puglisi, all'epoca presidente della
Conferenza dei presidi delle facoltà di Scienze della
formazione, ha introdotto i lavori di un'assemblea Concured
(l'organo didattico degli Atenei che si è occupato
dell'istituzione delle Ssis) a Perugia, aprile 1997.
Il tono era ironicamente celebrativo e il ragionamento
si articolava su tre punti:
-
c'era chi aveva capito fin dall'inizio il ruolo delle Ssis
e chi non l'aveva voluto capire, e ora che l'iniziativa
era in marcia si sentivano invocazioni del tipo "Vengo
anch'io!", alle quali veniva spontaneo rispondere "No,
tu no!";
- la
miopia accademica aveva moltiplicato gli insegnamenti specialistici
che erano ovviamente privi di allievi, mentre gli insegnamenti
legati alla didattica, troppo poco numerosi a fronte di
un impegno crescente, erano sommersi dalle masse studentesche;
- la
stessa miopia accademica aveva per decenni trascurato il
problema del ricambio dei docenti e l'università
andava incontro a una fase di vuoto negli organici per un
pensionamento di massa che da lì a 10-15 anni avrebbe
colpito contemporaneamente due terzi del corpo docente.
Si
trattava di un'analisi per molti versi brillante e realistica,
che non si curava di nascondere il progetto che di fatto s'era
venuto sviluppando a fianco dell'ipotesi istitutiva delle
Ssis:
- emarginare
le facoltà letterarie e filosofiche nell'economia
del processo di formazione degli insegnanti secondari di
quelle stesse materie,
- occupare
gli spazi anche accademici che l'imprevidenza di quelle
facoltà lasciava sguarniti, puntare sulla centralità
della metodologia psico-pedagogica anche a scapito della
competenza disciplinare.
Data
da allora il dibattito sulla questione che anche in queste
note viene affrontata. La storia di questi ultimi anni ha
reso inattuali molti degli argomenti qui sopra accennati,
ma il punto centrale non è cambiato: è rimasto
quello della composizione delle competenze richieste a un
insegnante e delle modalità nonché delle responsabilità
del loro accertamento.
Nel
frattempo le Ssis, tra ambiguità e incertezze (alle
quali si è rimediato, saggiamente nel complesso, ricorrendo
alla flessibilità che le disposizioni relative all'autonomia
impongono o almeno consentono) sono comunque partite. Alla
fine del 1999 sono stati svolti i concorsi per l'accesso al
primo ciclo biennale, nell'autunno 2000 stanno svolgendosi
in molte regioni gli esami di passaggio al secondo anno e
i concorsi d'ammissione al secondo ciclo. è da segnalare
un atto normativo importante che consolida le Ssis come struttura
decisiva nella formazione degli insegnanti secondari e dunque
nella costituzione del ceto colto del Paese: il 26 settembre
2000 è stato approvato in Comissione cultura del Senato
ed è pronto per l'esame dell'Aula quello che doveva
essere l'articolo 15 del Collegato alla Finanziaria 2000:
una disposizione che regola l'uscita degli abilitati dalla
Ssis e la loro collocazione all'interno delle graduatorie
permanenti dei Provveditorati agli studi. Costituisce ora
l'emendamento 6-ter al testo del decreto sull'immissione
in ruolo del personale docente, da convertire in legge entro
il 28 ottobre 2000.
Lo
trascrivo per intero: "L'esame
di Stato che si sostiene al termine del corso svolto dalle
scuole di specializzazione di cui all'articolo 4 della legge
19 novembre 1990, n.341, ha valore di prova concorsuale ai
fini dell'inserimento nelle graduatorie permanenti previste
dall'articolo 401 del decreto legislativo 16 aprile 1994,
n.297, come sostituito dall'articolo 1 comma 6, della legge
3 maggio 1999, n. 124. Con decreto da emanare di concerto
tra il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell'università
e della ricerca scientifica e tecnologica sono stabilite le
prove d'esame, che dovranno accertare sia il possesso delle
necessarie conoscenze disciplinari sia l'avvenuta acquisizione,
nella scuola di specializzazione, delle competenze professionali,
nonché le relative modalità di svolgimento.
Con il medesimo decreto vengono determinati i criteri e le
modalità di costituzione delle commissioni, sia di
ammissione alla scuola di specializzazione sia di esame finale,
e il punteggio da attribuire al risultato dell'esame finale
sia ai fini dell'inserimento nelle graduatorie permanenti
sia ai fini dell'esito del concorso per esami e titoli, in
coerenza con quanto previsto dall'articolo 3 del decreto ministeriale
24 novembre 1998, n. 460. Le disposizioni di cui al presente
comma si applicano anche
a coloro che frequentano le scuole di specializzazione alla
data di entrata in vigore della presente legge. Coloro che
sostengono con esito positivo l'esame di Stato di cui al presente
comma entro l'anno accademico 2000-2001 sono inseriti a domanda
nelle graduatorie permanenti nel medesimo scaglione del personale
di cui al comma 6-bis."
Il
personale "di cui al comma 6-bis" è costituito
dai cosiddetti "precari", beneficiari di una tornata
riservata degli ultimi concorsi ai quali ho già accennato.
La sorte degli allievi Ssis appare dunque tutt'altro che punitiva.
Ma c'è altro da osservare su questo dispositivo nel
suo complesso. Si tratta infatti di un'autentica rivoluzione
nel meccanismo di selezione e di accertamento della professionalità
degli insegnanti della secondaria.
Per
convincersene, basta indicare la conseguenza più macroscopica
del provvedimento: ogni anno, a regime, si concluderà
un ciclo Ssis, e ogni anno ci sarà dunque una tornata
di esame-concorso che produrrà una leva di insegnanti
perfettamente idonea a entrare nei ruoli. L'epoca dei mega-concorsi,
attesi per lustri da masse indeterminate di laureati pronti
a tutto e preparati a non molto, dovrebbe essere tramontata.
Nelle
pieghe del testo ci sono questioni sulle quali sarà
necessario discutere e forse anche confrontarsi (le commissioni,
i programmi, le prove): ma non mancheranno né il tempo
né gli argomenti. E la definizione di questi punti
non è, ora, la questione più urgente.
La
Ssis nel quadro del nuovo ordinamento degli studi universitari
(3+2). L'ipotesi "tre più due" secco anche
alla luce dell'ultimo decretoTutto quanto è successo
finora nelle Ssis e attorno ad esse si riferiva ad un'organizzazione
degli studi universitari che sta per scomparire. Il titolo
di ammissione al concorso per la Ssis era (anzi, è)
la laurea: che significa laurea quadriennale (e ciò
vale per Lettere come per Fisica, per Matematica come per
Lingue straniere e Giurisprudenza) conclusa dall'elaborazione
e discussione di una tesi di laurea.
Questo
impianto sta per essere sostituito da un percorso in due
fasi (schematizzo puntando su ciò che mi sembra
più utile al mio discorso):
- una
fase triennale conclusa dalla laurea vera e propria e che
non prevede la tesi suddetta più, per chi voglia,
- una
fase biennale che porta alla laurea specialistica conclusa
questa volta da una tesi.
Lo
spirito della riforma è chiaro: si intende procedere
alla formazione di un numero maggiore di laureati che possano
spendere più precocemente le loro competenze sul mercato
del lavoro e contemporaneamente si rinuncia all'ambizione
di portare la loro formazione sino alla padronanza degli strumenti
di ricerca originale, padronanza che attualmente costituisce
il requisito previsto per il lavoro di tesi e che spesso richiede,
nella situazione già ampiamente illustrata, anni di
ritardo per gran parte dei laureandi, alle prese con un'acculturazione
troppo approfondita per le loro forze.
Quest'ultimo
tipo di formazione non è abolito dalla riforma ma
è riservato a chi ritenga opportuno investire energie
supplementari nell'affinamento specialistico delle proprie
competenze. Nell'ottica della Ssis il quesito più immediato
che si pone al riguardo è se il titolo di ammissione
al concorso sia destinato a essere la laurea oppure la laurea
specialistica; il che equivale a interrogarsi sulla collocazione
della Ssis all'interno del nuovo ordinamento.
Buona
parte della cerchia dei promotori originali e primi organizzatori
delle Ssis, che sono per ragioni storiche, come già
accennato, docenti di materie scientifiche (matematica, biologia)
o attinenti all'area psico-pedagogica, propendono molto chiaramente
per la laurea triennale seguita dal biennio della Ssis. Il
loro ragionamento è lineare e tutt'altro che privo
di forza: dopo la laurea si fa il concorso di ammissione alla
Ssis. Chi passa sa abbastanza (altrimenti sarebbe bocciato);
chi non passa può riprovare quando vuole e nel frattempo
può fare quello che vuole.
In
teoria, potrebbe anche andare. In pratica, e non solo per
i limiti della situazione attuale, sarebbe semplicemente un
disastro.
Intanto
ricordiamo che la laurea triennale parte praticamente già
ora. In diverse università saranno operative fin dal
prossimo anno le conversioni (si spera oculate) degli esami
sostenuti in crediti e dunque dei percorsi tradizionali in
quelli rinnovati. E questo vuol dire che avremo laureati
triennali che escono dalla vecchia scuola: cioè,
per farla breve, impreparati. Ammettendoli al concorso
per la Ssis si commetterebbe una grave leggerezza: perché
la Ssis ha bisogno di un certo numero di allievi (visto che
la secondaria ha bisogno di un certo numero di insegnanti)
e li deve pescare lì. Altro che bocciarli se non sanno!
è
evidente che succederà tutt'altro: e cioè succederà
che, non potendoli bocciare oltre un certo limite, si
alleggeriranno le pretese della verifica e si abbasserà
lo standard richiesto. Qualcuno potrebbe obiettare: sì,
ma adesso quelli sono nella Ssis e lì impareranno quello
che non sanno. Errore (come tutti sanno): nella Ssis non
si prevede nessun recupero disciplinare ma solo didattiche
disciplinari, laboratori, tirocinio, teoria e pratica psico-pedagogica.
Chi venga ammesso alla Ssis senza sapere la storia, nella
Ssis imparerà ad insegnare la storia, cioè come
insegnare la storia, ma continuerà ad ignorare ciò
che è chiamato ad insegnare (la storia, appunto). Si
aggiunga pure che appare del tutto incredibile che nella situazione
concreta dei nostri laureati quadriennali, che come hanno
scoperto con sgomento i commissari al primo concorso per le
Ssis ignorano che cosa sia il feudo (domanda: "Che cosa
caratterizza il feudo?"; risposta: "Il fatto che
fosse completamente recintato da un muro di cinta e da un
fossato") e dove sia - sulla carta geografica - il Vietnam,
si possa, nei tre anni previsti per la nuova laurea, colmare
questi vuoti e aggiungerci le competenze necessarie per insegnare
il latino e magari anche il greco.
E
c'è di peggio. Come se i dubbi teorici appena esposti
non bastassero, esiste una prova recente dell'insufficiente
sensibilità che circola nell'attuale dirigenza Ssis
al riguardo della preparazione disciplinare. Anche quest'anno
le modalità per lo svolgimento delle prove di ammissione
e per la stesura dei relativi bandi di concorso è stata
regolata con un decreto ad hoc. Il decreto di quest'anno,
pubblicato in data del 7 giugno 2000, era più rigido
del precedente e più vincolante rispetto alle autonomie
delle singole Ssis, con vantaggi e svantaggi dei quali non
è possibile discutere in questa sede. Il punto che
qui preme è però costituito dal comma che regola
i criteri delle prove di accesso.
Questo
comma ha una storia. La rivista "Università
e scuola", diretta da Giunio Luzzatto e dedicata
all'approfondimento di "problemi trasversali e ricerca
didattica", nel fascicolo datato al marzo 2000 ma comunque
successivo al 10 aprile dello stesso anno, portava (pp. 2
e 3) questa informazione relativa al decreto in preparazione:Il
Murst ha all'opera, sul tema, una Commissione che sta concludendo
i lavori. Per quanto riguarda in particolare la Ssis, le
esigenze delle Scuole sono state rappresentate, all'interno
della Commissione, dal Presidente CoDiSsis Gaetano Bonetta
e da Milena Bandiera della Ssis del Lazio, che hanno ottenuto
che venisse lasciato un opportuno spazio alle diverse realtà
locali.
Il
testo relativo alle Ssis, salvi eventuali limitati ritocchi
finali, risulta essere il seguente.
Seguiva
l'articolato del decreto, che al secondo comma, parlando delle
prove di ammissione alla Ssis, recitava:
Le
prove vertono sui temi e sui programmi fissati dal D.M. 11.8.1998
n.357 (GU 18.11.98 n. 270), il quale sarà cura delle
singole Scuole affiggere al proprio Albo.
Il
decreto 357, per chiarezza, è quello che fissa i programmi
e le prove di esame per i concorsi ordinari nella scuola che
stanno svolgendosi in questi mesi. Fin qui, tutto chiaro.
Ma il testo definitivo del decreto, al comma 3 dell'articolo
1, legge:
I
quesiti vertono sui programmi fissati dal decreto del Ministro
della Pubblica Istruzione 11 agosto 1998, n. 357, pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale 18.11.98, n. 270, che ogni singola
scuola affigge al proprio albo, nonché su argomenti
atti a verificare la predisposizione dei candidati alle discipline
oggetto della Scuola di specializzazione, discipline il cui
elenco viene allegato al bando.
La
"predisposizione alle materie"! niente male, come
"limitato ritocco finale"! Che i test di accesso
possano svolgersi prevedendo l'accertamento delle "predisposizioni
alle materie" alla pari con le competenze disciplinari
mi sembra piuttosto inquietante. Si viene ammessi alla
Ssis se si è "predisposti" a una certa materia;
all'interno della Ssis ti "insegnano a insegnare"
la suddetta materia; e quando è che qualcuno si domanderà
se tu "conosci" quella benedetta materia della quale
sarai professore? Se sulla base di queste premesse proviamo
a immaginare che a un simile tipo di prove di accesso siano
ammessi i futuri laureati triennali non è difficile
arrivare alle conclusioni.
Il
livello di preparazione degli insegnanti colerà
definitivamente a picco (molto alto sarà invece
quello della loro sensibilità relazionale e della loro
predisposizione a fare quello che dovrebbero avere già
fatto); avremo laureati più giovani e più numerosi
ma saranno laureati fittizi; avremo sancito definitivamente
l'inutilità di insegnare quello che, in compenso, insegneremo
accuratamente a insegnare.
L'argomento
più forte contro il 3+2 "secco" mi
sembra comunque un altro. Mettiamoci per un istante nell'ottica
di un futuro neo-laureato triennale in lettere o in matematica
o in lingue straniere. Davanti a lui si aprono due prospettive:
tentare il concorso per la Ssis (che lo impegnerà
per un biennio) oppure iscriversi ad una laurea specialistica
del suo ambito disciplinare (che lo impegnerà ugualmente
per un biennio). La Ssis gli fornisce un posto contingentato
attraverso il numero chiuso, l'abilitazione necessaria a svolgere
una professione, la preparazione specifica relativa, un punteggio
aggiuntivo per entrare nelle graduatorie dei concorsi a cattedra.
La laurea specialistica gli fornisce una raffinata
preparazione nel settore scientifico per il quale ha dimostrato
maggiore inclinazione, e niente altro. Come ritenete che andranno,
statisticamente, le cose? verso quale sbocco punteranno
i laureati migliori, quelli che si giudicano titolari
di una preparazione concorrenziale? In altri termini, e lasciando
da parte gli interrogativi retorici, mi sembra evidente che
tra la Ssis e qualunque altro biennio specialistico nei
settori che prevedono lo sbocco all'insegnamento non ci sarà
partita, come si dice nel gergo sportivo. La laurea specialistica,
disertatissima e priva di motivazioni specifiche, sarà
semplicemente il moncherino di un progetto formativo abortito,
e servirà solo a chi si prepara al dottorato di ricerca.
Troppo poco per giustificare l'esistenza dell'impianto di
riforma che si chiama "3+2".
E se il processo di formazione del ceto colto del nostro
paese perdesse di fatto l'opportunità di un approfondimento
specialistico non c'è dubbio che andremmo incontro
a un vertiginoso impoverimento culturale anche rispetto alla
situazione attuale, che al paragone diventerebbe (Dio sa quanto
imprevedibilmente) tale da essere rimpianta di gran cuore.
La
proposta TranfagliaNei primi giorni del luglio 2000
è stata formalizzata la proposta della Commissione
mista Mpi-Murst presieduta dallo storico Nicola Tranfaglia.
La proposta non ha il consenso unanime della Commissione,
e la indicherò dunque col nome del presidente.
Nella
sostanza, vi si propone di indicare come titolo minimo
per essere ammessi alla Ssis la laurea specialistica:
quella cioè che si ottiene in cinque anni. La
Ssis si occuperà di verificare che nel secondo anno
(l'ultimo) della laurea specialistica siano inseriti nei curricula
degli aspiranti 60 crediti di Scienze dell'Educazione, da
intendersi probabilmente sia come didattiche disciplinari
(didattica della matematica, della storia ecc.) sia come insegnamenti
teorici di psico-pedagogia. Solo a questo punto ci sarebbe
l'accesso alla Ssis, che però consterebbe di un solo
anno, dedicato ai laboratori didattici e al tirocinio.Verso
la fine di agosto la proposta ( che viene schematicamente
indicata come "3+2+1") è stata presentata
alla stampa, riscuotendo ampi consensi; ma anche stimolando
una reazione molto viva da parte dei sostenitori dello schema
"3+2" secco.
E
il dibattito ferve. Non è difficile riconoscere i meriti
della proposta Tranfaglia, che sono fondamentali. Il primo
va visto nella riaffermazione molto marcata dell'importanza
prioritaria, nella formazione degli insegnanti, della preparazione
disciplinare. Nessuno che abbia un minimo di esperienza della
scuola secondaria "effettuale" e dell'insegnamento
universitario può seriamente ritenere che l'unica carenza
(ma nemmeno che la principale carenza) dei nostri insegnanti
attuali e prossimi futuri sia costituita da un'insufficiente
preparazione psico-pedagogica. Ho già fornito testimonianze
di prima mano che spero abbiano un significato chiaro a questo
riguardo. Nella proposta Tranfaglia si recupera un ruolo per
le lauree specialistiche che, alla luce di quanto già
detto, mi sembra sacrosanto.
Ugualmente
positivo è l'accento posto sul ruolo delle Scienze
dell'Educazione nell'accezione di didattiche disciplinari,
che non può essere esclusivo (è chiaro che anche
la teoria pedagogica deve avere uno spazio adeguato) ma che
è certamente decisivo; e che qui appare giustamente
collocato nel percorso specialistico biennale, cioè
legato all'acquisizione di competenze specialistiche (non
necessariamente micro-specialistiche!) che devono differenziare
la preparazione di un laureato (triennale) che desidera impiegarsi
nella pubblicità, oppure nelle public relations del
comune di Castiglione Olona, e quella di un laureato (triennale)
che vuole diventare professore di italiano e storia, e possibilmente
in un liceo.
Non
parlo di un professore di latino o di greco, che costituisce
un caso evidente dell'esigenza di specializzazione. Ma basta
pensare alle cognizioni generali (sulla storia del territorio,
del paese, del continente nel quale andrà ad operare;
sulle lingue che dovrà usare; sui monumenti che dovrà
illustrare, ecc.) che possono servire a un giornalista, libero
di studiare nel tempo quello che gli servirà a seconda
del tipo di servizio in cui lo collocherà il suo capo-redattore,
e chiedersi se quella preparazione può essere sufficiente
anche a un professionista dell'insegnamento di geografia e
storia nelle scuole. E vale anche il reciproco: se uno vuole
fare il giornalista, che se ne fa delle didattiche disciplinari?
Accanto
ai meriti, tuttavia, è difficile non osservare subito
che la proposta Tranfaglia presenta anche degli aspetti
criticabili. Innanzi tutto, il ruolo delle lauree specialistiche,
se non viene in qualche modo definito, taglia fuori di fatto
le Ssis e chiunque altro dalla programmazione quantitativa.
Nel senso che le lauree specialistiche sono organizzate dalle
singole facoltà: e non mi sembra realistico chiedere
alle facoltà, in un regime di autonomia come quello
presente, di ammettere alla data laurea specialistica tanti
laureandi e non di più (o non di meno); e magari alla
facoltà tale di Cagliari di accoglierne tanti e alla
sua omologa di Lecce tanti in più (o in meno). Come
prima conseguenza, salta la struttura regionale attualmente
propria delle Ssis e tutte le convenzioni e gli accordi tra
gli atenei stipulati o da stipulare.
Ancora
meno realistica appare l'idea di imporre da un qualche centro
alle facoltà i criteri sulla base dei quali ammettere
i laureandi al corso biennale, o addirittura quelli per giudicarli
maturi per il titolo conclusivo. Non parliamo dell'idea di
una commissione organizzata a livello nazionale per stabilire
il livello minimo dei requisiti necessari ad ottenere una
laurea specialistica alla conclusione del corso di studi relativo.
E dunque anche la programmazione qualitativa deve essere necessariamente
affidata ad ogni singola facoltà, che (ricordiamolo)
viene invitata a competere con tutte le altre per interessare
e richiamare gli studenti che stanno per immatricolarsi.In
questo quadro è dunque evidente che il laureato specializzato
con curriculum didattico costituirà un insieme molto
variegato (e fin qui, nulla di sconvolgente). è però
altrettanto evidente che il concetto di valore abilitante
del titolo così ottenuto, che ha un senso solo se lo
si prevede come spendibile a livello nazionale, non è
più sostenibile. Ma, si dirà, la concessione
del titolo abilitante è demandata alle Ssis.
Vero:
ma le Ssis, a questo punto della prospettiva, costituiscono
un'incognita assoluta. Sia perché, caduta la struttura
regionale, il loro ruolo va in ogni caso ridefinito (saranno
strutture legate al singolo Ateneo? o alla singola facoltà,
come parrebbe più logico?). Sia perché il concetto
stesso di ammissione alla Ssis deve essere ripensato. è
a questa altezza infatti, dopo cinque anni di corso e con
un minimo di 60 crediti didattici concordati con la Ssis,
che dovrebbe intervenire la prova di concorso a numero chiuso
per l'ammissione alla stessa Ssis. Nella proposta Tranfaglia,
ed è logico che sia così, non ogni punto è
chiarito e normato esattamente.
Ma se non c'è numero chiuso non può esserci
(a norma di legge ma anche di senso comune) un tirocinio seriamente
organizzato; e se non c'è una prova di concorso selettiva
non può esserci numero chiuso. E tuttavia, come sarà
possibile escludere dalla Ssis un laureato specializzato,
dotato di 60 crediti concordati con la Ssis e finalizzati
all'insegnamento? e alla conclusione di almeno cinque anni
di corso? Anche questa è soltanto, come si intende,
una domanda retorica. Non è umanamente pensabile nessuna
selezione tra candidati dotati di questo profilo.Tiriamo allora
le somme. Niente concorso, niente struttura regionale, niente
programmazione, niente abilitazione. La Ssis è di fatto
cancellata. La formazione specifica degli insegnanti ritorna
all'interno delle competenze delle diverse facoltà,
e per la selezione ci si riaffida, come già nel passato,
ai concorsi. Sarebbe da stolti sostenere che così è
impossibile fare: lo si è fatto molto a lungo, e non
sempre le cose sono andate tanto male.
Ma
anche in questo caso, come già sopra concludendo il
ragionamento sull'ipotesi "3+2" secca (cioè
laurea triennale più Ssis), ci si potrebbe interrogare
sul senso da dare al poderoso progetto di riforma complessiva
che si indica con la formula "3 +2", da intendersi
in questo caso come laurea triennale più laurea specialistica
biennale. Il concorso, anziché arrivare dopo quattro
anni (teorici) arriverebbe dopo sei anni (teorici) e per giunta
distinti in tre cicli ("3+2+1") che può riuscire
arduo armonizzare o tempestivamente incastrare. Avremmo insomma
lavorato alacremente per farci il maggior danno possibile.Una
proposta "modulare"Forse è possibile uscire
almeno dalle aporie più vistose e abbozzare a grandi
linee una proposta. E forse a questo fine conviene richiamare
e tenere presenti le caratteristiche fondanti della Ssis che
siano di interesse generale, e partire da quelle.
Che
sono:
- centralità
della preparazione specificamente professionalizzante degli
insegnanti, e dunque necessità della formazione psico-pedagogica
e didattica, sia generale che didattico-disciplinare;
- essenzialità
della competenza strettamente disciplinare, da acquisire
ovviamente in precedenza, nei corsi di studio specifici
seguiti nelle varie facoltà;
-
necessità di impostare l'esame di concorso esclusivamente
su base disciplinare, visto che le competenze relative non
si acquisiscono nella Ssis e che quelle professionalizzanti
si acquisiscono solo nella Ssis;
- esigenza
di motivare gli allievi Ssis, e dunque di garantire loro
un valore certo del titolo che otterranno e un legame il
più possibile stretto con le esigenze del mercato
del lavoro (e dunque esclusività per la Ssis del
titolo di abilitazione all'insegnamento);
- organizzazione
su base regionale, come base minima per una programmazione
credibile rispetto alle esigenze distributive delle disponibilità
e per una omogenizzazione delle pratiche e dei risultati
formativi;
- numero
chiuso per l'esigenza imprescindibile della fase di tirocinio,
organizzabile solo su dati quantitativi certi e dominabili.Basta
un'occhiata a questa griglia per capire innanzitutto che
la Ssis è bensì un biennio di specializzazione
post lauream ma non è e non può essere considerata
una laurea specialistica:
- perché
è strutturata a numero chiuso e prevede un accesso
per concorso;
- perché
rilascia l'abilitazione ad una professione;
- perché
non è incardinata in alcuna facoltà specifica.è
inoltre evidente, e comunque deve essere tenuto ben
fermo, che il perno attorno al quale ruotano tutti gli
interessi legittimi legati alla Ssis (e il discrimine
tra le diverse competenze che ne costituiscono l'ambito)
è uno solo: il carattere rigorosamente disciplinare
della prova di accesso.
Questo
punto deve essere garantito in forma vincolante e definitiva,
deve cioè entrare nel decreto istitutivo della nuova
Ssis, che sarà comunque da stendere, dopo la riforma
dei cicli e quella dei corsi di studio universitari.
Assodato
questo punto, si può immaginare una struttura nella
quale il titolo di ammissione ad una Ssis che sia come ora
biennale (e che però non preveda, contrariamente a
ora, alcuna possibile abbreviazione di corso) consista nella
semplice laurea. La struttura dell'esame di accesso garantisce
infatti che le competenze disciplinari siano accertate, e
se queste esistono non c'è ragione perché il
candidato non proceda e non si abiliti all'insegnamento in
cinque anni.
Chi
invece non supera la prova di concorso può recuperare
i debiti di formazione iscrivendosi alla laurea specialistica.
Ottenuto il titolo, e a patto che nel suo curriculum figurino
le didattiche relative alle discipline che intende insegnare,
il candidato che si ripresenti (o si presenti) al concorso
per la Ssis potrà contarea) su un punteggio preferenziale
per quanto attiene alla valutazione dei titoli eb) su un percorso
Ssis ridotto a due semestri e incentrato sull'acquisizione
delle competenze psico-pedagogiche e sul tirocinio.
Deve
essere precisato a questo punto che le didattiche disciplinari
non possono in nessun caso entrare in un curriculum triennale.
Questi insegnamenti, che sono finalizzati alla formazione
specifica degli insegnanti, devono collocarsi o nel biennio
specialistico o nel percorso della Ssis. La ragione è
chiara (e il punto assai importante). Prima di tutto, con
questo accorgimento si evitano le confusioni tra una disciplina
e la didattica della disciplina stessa; poi si finalizza la
didattica di una disciplina al curriculum di chi quella disciplina
vuole insegnare e la si sgombra invece dal percorso di chi
non è interessato all'insegnamento (per riprendere
un esempio già fatto, di chi vuole fare il giornalista
e deve bensì sapere la storia ma non necessariamente
la didattica della storia). Infine e soprattutto si protegge
il curriculum triennale, già assai risicato, dalla
tentazione di accumularvi crediti incongrui a futura memoria
e insomma di ritagliare al suo interno percorsi didattici
che lo sfigurerebbero irreparabilmente.
Lo
schema di soluzione qui proposto, se il ragionamento è
stato coerente, dovrebbe produrre numerosi risultati positivi,
giacché:
-
non crea percorsi didattici all'interno delle facoltà
disciplinari, limitando interventi di questo genere al livello
del biennio specialistico;
- garantisce
un percorso breve a chi dimostra di possedere precocemente
le competenze disciplinari necessarie;
- allarga
il campo d'intervento delle lauree specialistiche a condizione
che prevedano anche le didattiche disciplinari (che entrano
in gioco solo nel caso che il laureando intenda orientare
il suo curriculum verso la prospettiva dell'insegnamento);
- salvaguarda
la specificità della Ssis connessa con l'area psico-pedagogica,
il laboratorio didattico e il tirocinio, specificità
che si vede comunque garantito un totale (concorrenziale
a livello europeo) di due semestri da occupare in esclusiva;
- soprattutto
è perfettamente "modulare" nei confronti
della storia futura e auspicabile della formazione degli
insegnanti. è un punto importante e merita una riflessione.
Perché, se le informazioni sugli eventi concorsuali
più svariati e i dati sulle attività ordinarie
nelle facoltà sono affidabili, è infatti assai
probabile che, nel breve periodo, saranno assai poco numerosi
i vincitori di posto nella Ssis che siano titolari di semplice
laurea triennale. E tuttavia se l'esperienza costituita dalla
Ssis si dimostrerà vitale e producente (unica ipotesi
sulla quale valga la pena di misurarsi), se cioè la
qualità di docenti e diplomati e insomma il livello
complessivo della scuola secondaria migliorerà, è
logico attendersi che anche il numero dei vincitori titolari
di laurea triennale tenda ad aumentare. Il tendenziale coincidere
statistico degli ammessi alla Ssis e dei semplici laureati
misurerà contemporaneamente il successo della Ssis
come esperienza, la crescita del livello culturale dei nostri
corsi di laurea e il dissolversi degli argomenti del contenzioso
che forma l'oggetto del presente dibattito.
Università
di PisaNOTE:1 - G. Luzzatto, I problemi universitari nelle
prime otto legislature repubblicane, in Aa.Vv., La scuola
italiana dal 1945 al 1983, a c. di M. Gattullo e A. Visalberghi,
Firenze, La Nuova Italia, 1986, pp. 166-218.2 - Il concorso
è, nel settore pubblico, l'equivalente più prossimo
dell'esame di stato per le professioni. Non credo sia necessario
insistere sulle divergenze strutturali tra le due procedure,
divergenze che attengono soprattutto allo sbocco lavorativo
(certo, stabile e regolamentato nel settore pubblico, in tutto
dipendente dal profilo individuale per le professioni) e alla
quantificazione degli accessi (rigida almeno teoricamente
nel settore pubblico, soggetta alle leggi del mercato per
le professioni). Sono comunque due cose radicalmente diverse,
benché possano essere indicate con lo stesso nome.3
- Non sono soli. La facoltà di Scienze della formazione
dell'Università di Torino ha chiamato come professore
a contratto il cantautore Roberto Vecchioni per tenere un
corso intitolato Forme della poesia nella musica. Il nuovo
docente "ha garantito che, agli esami, non boccerà
nessuno. "La mia scala di giudizio - ha detto - va dal
27 al 30. Chi non saprà nulla prenderà 26. Perché
dobbiamo imparare già tante cose nella vita, anche
importanti, di cui non ci frega nulla. Questo sarà
un corso diverso"". Il giornalista (la fonte della
mia informazione è "la Repubblica" del 3
ottobre 2000) gli chiede: "Che valore avrà superare
il suo corso?". Risposta: "Bisogna seguire 60 ore
di lezione, prima di sostenere un esame universitario che
dà dieci punti di credito formativo, mica poco. E'
un esame ben considerato".4 - Una proposta di riordino
radicale della struttura delle prime Ssis, approvata all'unanimità
dal Comitato di proposta toscano, benché respinta con
fermezza dal nucleo originario dei costituenti Ssis, è
parso a Giunio Luzzatto "di grandissimo interesse"
(G. Luzzatto, Insegnare a insegnare, Roma, Carocci, 1999,
p. 98). A scanso di ogni equivoco lo stesso Luzzatto precisava
che non era "in discussione alcuna ipotesi di questo
tipo né in sede politica né in sede sindacale".5
- Le didattiche disciplinari sono insomma al loro posto nelle
Ssis e nei percorsi specialistici (se lo studente intende
finalizzarli all'insegnamento), cioè dove sono a disposizione
di chi le può effettivamente utilizzare. L'argomento
che anche le didattiche hanno, in quanto tali, piena dignità
scientifico-disciplinare è molto forte ma non si applica
al caso nostro. Chi intenda diventare professore di didattica
dell'italiano è uno specialista potenziale della didattica
e dell'italiano. Non c'è nessuna ragione perché
segua anche i corsi di didattica della storia e del latino
(come specialista dell'italiano non gli serve, e se lo consideriamo
nella sua veste di specialista della didattica in generale
tanto varrebbe sostenere che deve seguire anche la didattica
della matematica, della chimica e di quant'altro); né
c'è ragione che accumuli 60 crediti didattici nella
sua laurea specialistica, visto che vuole fare lo studioso
di didattica dell'italiano e non l'insegnante di italiano
nella scuola secondaria (il che allora significherebbe, quanto
meno, insegnante di italiano, storia, geografia ed educazione
civica). La congruità dei saperi è certo infinita,
però non dobbiamo neppure farci prendere per il naso
mentre legiferiamo.
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