Riministoria

Rapporti culturali tra Venezia e Rimini nel XVIII secolo
Cervia, 19 ottobre 2002. Società di Studi Ravennati, convegno sull'Adriatico

L E ACQUE dell'Adriatico «non sono mai state una barriera naturale, al contrario hanno rappresentato per secoli una strada breve e sicura sulla quale uomini e merci sono facilmente transitati» .
Lungo questa «strada» viaggiano nel Settecento anche studenti ed intellettuali riminesi. Andare nella città di San Marco, significava affacciarsi ad una realtà meno angusta di quella dello Stato ecclesiastico, caratterizzato da torpori post arcadici e da grandi paure verso il nuovo pensiero scientifico.
Il medico e scienziato Giovanni Bianchi, nel primo pomeriggio di martedì 28 giugno 1740, parte da Rimini diretto a Venezia, assieme a quattro «fanciulli» suoi concittadini che portano cognomi importanti: vanno a studiare presso un maestro originario di Santarcangelo, da quindici anni abitante in laguna.
A Venezia si trova già un altro giovane riminese, il «marchesino Carlo Buonadrata». Scrive Bianchi nel proprio diario: il marchesino «vive molto sobriamente in una casa angusta, e non ricevendo da casa che il puro suo mantenimento, non avvanzandogli alcun denaro per fare alcuna spesa per sé, o per servire alcun suo amico, come egli mi disse».
Educazione spartana, si potrebbe pensare. Ma ricordiamo le scarse sostanze a cui la nobiltà dello Stato della Chiesa s'era ridotta in quegli anni.
A Venezia Bianchi si è già recato altre due volte, nel 1720 e nel '22. Come nel '20, anche ora prosegue sino a Padova.
Qui rivede «vecchi amici» quali Morgagni, e spera inutilmente che si avveri la promessa di affidargli la Cattedra di «Medicinæ professor primarius» . (Nel 1760 Bianchi sarà aggregato al Collegio dei Filosofi e Medici di Venezia .)
Bianchi si è recato a Venezia, come egli spiega, non per divertirsi ma per liberarsi da un dolore che lo ha colpito: la morte di una sua paziente ed amica, che definisce donna superiore per bellezza, ingegno e costumi. All'immagine convenzionale, e per certi tratti molto settecentesca, di Venezia città del piacere e del vivere sensuale, Bianchi contrappone quella di un luogo su cui semplicemente proiettare le dolorose vicende personali, che lui narra nell'autobiografia latina del 1742 con i consueti echi letterari. E questa volta sembra di intravedere un ricordo del lamento di Francesco Petrarca che fugge «ogni segnato calle» per fare acquetare «l'alma sbigottita» .
Tra le persone che incontra a Venezia, merita un ricordo Giuseppe Smith. Bianchi lo definisce «ricchissimo Mercatante Inghilese che ha una raccolta grandissima di libri rari».
Le tappe quotidiane del medico riminese, sono presso studiosi, bibliotecari, collezionisti, librai e tipografi. (Qualche libraio veneziano, Bianchi lo ha già sperimentato, è particolarmente ingordo nel vendere i volumi esteri: da Ginevra via Torino costavano un quarto di meno.)
Il primo contatto indiretto di Bianchi con la cultura veneziana, è avvenuto quando studiava a Bologna nel 1718. All'inizio del gennaio dello stesso anno, a Venezia appare il primo numero del mensile Mercurio storico e politico. Un suo concittadino da Rimini gli chiede notizie sul periodico. Dalla risposta che gli invia, ricaviamo che Bianchi (da buon erudito) non ha molta simpatia per questo genere di pubblicazioni: definisce infatti «sciocarelli» due compagni anconetani che studiano con lui Medicina, soltanto perché hanno l'abitudine di «leggere i giornali di Venezia».
Nel luglio 1720 era giunto a Rimini un giovane veneziano, per iniziare una nuova stagione di studi: è Carlo Goldoni, che frequenta il convento domenicano di San Cataldo, allievo del professor Candini docente di Filosofia. Goldoni ricorderà la noia mortale a cui erano improntate le sue lezioni. Era «dolce, savio, erudito; aveva grandi meriti», scrive, «ma era tomista nell'anima, non poteva scostarsi dal suo solito metodo».
La logica aristotelica rimbomba inutilmente nella testa di Goldoni, mentre la passione intellettuale corre verso il teatro. Ha quattordici anni soltanto, ed avverte già «il prurito» (sono parole sue) della composizione letteraria.
Frequenta il teatro pubblico di Rimini dove fa amicizia con giovani attrici che generosamente lo accolgono pure nelle loro case. Sappiamo com'è andata a finire. Goldoni fugge da Rimini per raggiungere la madre a Chioggia: è la famosa pagina del viaggio nella barca dei comici. Goldoni tornerà a Rimini nel giugno 1743, assieme alla moglie, durante la guerra di successione austriaca.
Quando Bianchi si reca a Venezia nell'estate del 1740, ha da poco pubblicato, nella stessa città, la Breve spiegazione dell'Aurora Boreale nella celebre serie degli Opuscoli di padre Angelo Calogerà; e, presso Giambattista Pasquali, un libro che gli procura immediata notorietà: il De conchis minus notis, un trattato sui Foraminiferi.
Il De conchis ha fatto conoscere a Bianchi per via epistolare un sacerdote di San Vito al Tagliamento, l'abate Anton Lazzaro Moro, con il quale s'incontra a Venezia il 4 agosto. Moro sta preparando la stampa di un trattato, intitolato De' crostacei e degli altri marini corpi che si truovano su' monti. Egli è ostacolato dal Sant'Uffizio, a causa della novità delle teorie che vi espone. Secondo Moro, la crosta terrestre è stata cacciata «dal fondo del mare insù [...] da sotterranei fuochi», e i fossili non sono stati trasportati dal diluvio che, in quanto miracolo, «è inesplicabile».
Bianchi propende per quella «comunissima» (come la definisce) opinione opposta, «che al Diluvio rapporta l'andata de' Marini Corpi su' monti», per cui considera Moro non troppo «gran filosofo, né molto informato della materia che ha intrapreso a trattare».
A proposito di censura ecclesiastica, c'è una piccola vicenda ravennate. Giuseppe Zinanni pubblica a Venezia nel 1737 un trattato intitolato Delle uova e dei nidi degli uccelli. Il Padre Vicario del Santo Uffizio di Ravenna tenta di bloccarne la diffusione: il testo è stato stampato senza i visti necessari per le tipografie fuori dello Stato Ecclesiastico.
In un secondo momento, il Padre Vicario dà il suo benestare, come se l'autore avesse «prese le debite licenze». Zinanni scrive a Bianchi: «Io suppongo averà fatto ciò, avendo conosciuto ch'io non aveva mancato in conto alcuno, perche al certo il decreto, che ciò proibisce non è in uso».
Nel gennaio '35 Zinanni aveva preannunciato a Bianchi il progetto di questo volume («un piccolo tometto»), dichiarandogli la sua intenzione di farne inserire il frontespizio «ne giornali di Venezia».
Anche Bianchi avrà a che fare a Venezia con la censura, nel 1744, per pubblicare la Breve storia della vita di Catterina Vizzani Romana che per ott'anni vestì abito da uomo in qualità di Servidore la quale dopo varj Casi essendo in fine stata uccisa fu trovata Pulcella nella sezzione del suo Cadavero.
In un primo tempo Bianchi si era rivolto ad un tipografo di Firenze, ma l'autorità ecclesiastica di questa città si era opposta. Tenta poi a Venezia: pure qui il Revisore per l'Inquisizione gli contesta alcune parti dello scritto. Alla fine Bianchi rinuncia alle autorizzazioni, e s'affida al tipografo fiorentino Andrea Bonucci, abituato (per sopravvivere) a curare edizioni alla macchia.
La Breve storia di Catterina Vizzani esce a Firenze, dunque, ma con una «falsa data» (cioè il falso luogo) di Venezia: addirittura reca il nome di un tipografo realmente esistente a Venezia, Simone Occhi. Il quale, come risulta dai documenti, non ne sapeva nulla.
Sarà proprio Occhi a stampare nel 1777 l'Orazion funerale in onore di Bianchi, composta da un suo allievo. Nel suo testamento, Bianchi aveva disposto che essa fosse pubblicata «non in Rimino, né in Pesaro, ma in Cesena, o altrove ove siano buoni caratteri». La scelta cadde su Venezia forse per poter dare maggiore diffusione allo scritto, e simbolicamente sigillare con il nome di quella città un'avventura intellettuale che ad essa aveva sempre fatto riferimento.
Infatti Bianchi, negli anni successivi alla visita del 1740, pubblica presso Pasquali varie opere. Pasquali è pure colui che quasi sempre rifornisce Planco delle novità editoriali.
Anche nel secolo precedente, Venezia è stata per Rimini un importante centro editoriale di riferimento. Marco Battaglini (di cui Bianchi stampa a Firenze una biografia in latino nel 1747), aveva pubblicato a Venezia nel 1685 la Storia generale di tutti i Concilii, accrescendola in una seconda edizione apparsa tre anni dopo; e, tra 1701 e 1711, gli Annali del sacerdozio e dell'Impero.
Molti altri autori riminesi pubblicarono a Venezia nel XVII secolo.
A proposito di libri, possiamo aggiungere che nel 1659 il riminese Giovanni Matteo Bustroni è stato creato Custode della Biblioteca di San Marco.
Tra gli Incogniti di Venezia (accademia fondata nel 1630 da Gian Francesco Loredano), troviamo aggregati pure due riminesi, Lodovico Tingoli e Stefano Bonadies, le cui biografie sono pubblicate nel 1647 nel volume Le glorie degli Incogniti.
Le Opere di Gian Francesco Loredano, fondatore degli Incogniti, appaiono in un atto notarile del 1719 relativo alla famiglia riminese degli Agolanti, contenente l'inventario delle «quattro scanzie di libri».
Nella biblioteca personale di Alessandro Gambalunga (creatore dell'attuale biblioteca civica), nel 1620 figurano 1.439 titoli, corrispondenti a circa duemila volumi. Le opere pubblicate da editori veneziani sono 371 (cioè, oltre un quarto). Quelle provenienti da Anversa, il secondo luogo più rappresentato, sono 68, alle quali fanno sèguito le 60 di Lione.
A Rimini nel 1580 era arrivato dal Veneto, e forse proprio da Venezia, il tipografo Giovanni Simbeni, la cui ditta lavorò sino al 1693. Dalla stamperia che porta il suo nome, esce il 10 agosto 1660 il primo numero (rimastoci) della Gazzetta di Rimino, le cui notizie «cominciano sempre da Venezia; indi seguono quelle di Roma, di Napoli, di Parigi, di Londra, di Vienna ecc. Qualche parte vi hanno anche le notizie locali».
All'inizio del Cinquecento, Giovanni Simbeni era stato preceduto dal veneziano Bernardino Vitali, mentre nel 1782 arriva a Rimini un bassanese, Giacomo Marsoner, che si mette a stampare «all'insegna della Provvidenza».
Bianchi, nel suo diario veneziano, il 24 luglio 1740 racconta l'incontro con il padre rettore del Collegio dei Nobili di Murano: «si discorse di varie cose, e spezialmente dell'abuso di porre i figliuoli ne' Collegi».
Non riguarda i nobili, ma una povera famiglia di Verucchio, la vicenda di Serafina Mularoni che in, anni più lontani (fra 1794 e '98), è mandata da una zia e dal poeta riminese Aurelio De' Giorgi Bertòla proprio in due di quei Collegi o Conservatorj veneziani, gli Incurabili ed i Mendicanti. Qui si cerca di dare alle ragazze orfane od illegittime una formazione artistico-musicale per una carriera dignitosa che le riscatti dalla condizione d'origine. Serafina non era né orfana né illegittima, per cui doveva pagare normalmente vitto ed alloggio.
Le rette richieste sono però insostenibili per Bertòla che naviga in brutte acque: agli amici dichiara apertamente la propria miseria. In un secondo momento, e per breve tempo, Serafina Mularoni è collocata in un monastero pesarese. Alla fine Bertòla è costretto a convincerla di rinunciare all'idea di prendere l'abito, non potendo egli trovare nessun aiuto nella famiglia di lei, il cui padre era un «falegname monco e malconcio tutto». E così Serafina diviene la governante dello stesso poeta, durante i lunghi mesi della sua malattia, prima di trovar marito, e forse una vita normale.
Il nome di Venezia torna due volte nella storia personale di Bertòla degli ultimi anni della sua vita. La prima è per la collaborazione al Nuovo Giornale Enciclopedico d'Italia nel 1797 presso il tipografo-libraio Giacomo Storti.
La seconda è molto più complessa e tormentata. Il 21 ottobre 1796 egli parte in diligenza da Rimini (dove correva il rischio di essere incarcerato quale giacobino), per raggiungere Bologna. Qui si ammala e rimane fino al 2 dicembre. Progetta di trascorrere l'inverno nella Firenze governata da Ferdinando III di Lorena fratello dell'imperatore d'Austria Francesco II, per poi rifugiarsi a Vienna: Bertòla vi era ben conosciuto per un soggiorno del '78, all'epoca della Nunziatura del concittadino Giuseppe Garampi. Ma alla fine decide di ritornare ancora a Rimini. Da Bologna ha tentato invano d'ottenere un passaporto per la Serenissima, da dove avrebbe facilmente raggiunto la capitale austriaca.
Mezzo secolo circa prima di queste vicende, un oscuro poeta riminese, Antonio Maria Brunori, aveva composto il sonetto intitolato In lode dell'augustissima Repubblica di Venezia. scrivendo che la «Libertà latina», dopo la rovina dell'Impero, aveva trovato riparo «tra l'alga e la canna» della Laguna, e lì «rinacque / Col Corno augusto in capo e Toga al seno». A Bertòla invece era stato precluso dalla sorte il rifugio in Terra di San Marco.

Antonio Montanari

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