Avvenire
Sabato 17 aprile 2004
Così esce dal nido la prosa di Pascoli
Un corposo volume raccoglie gli scritti dispersi del poeta romagnolo. Ma perché nessun grande editore ha affrontato finora l'impresa dell'edizione completa delle sue opere?
Di Rosita Copioli
Le Prose disperse di Pascoli, che Giovanni Capecchi ha curato amorevolmente, sono un libro bellissimo, che realizza in gran parte il progetto di Augusto Vicinelli, di completare l'edizione degli scritti pascoliani. Vicinelli pubblicò tra il 1946 e il 1952 per Mondadori gli ormai introvabili Pensieri di varia umanità, le prose più note raccolte da Pascoli e dalla sorella Maria, e gli Scritti danteschi (entrambi ristampi nel 1971: resta comunque vergognoso che nessun grande editore abbia mai voluto affrontare l'impresa di un'edizione completa di Pascoli). Capecchi rivede, aggiorna, ridimensiona l'idea di Vicinelli, e raduna ottanta prose mai riunite prima, a partire da un'inedita satira di sapore leopardiano del 1872, dove Pascoli liceale a Rimini bersaglia tal «Nebulone scrittore di Romanzi», che Antonio Montanari ha identificato poi in Giuseppe Rovani.
Ciò che continua a stupire in Pascoli è l'infinita competenza linguistica e sonoro-musicale, che sembra nascere dalle viscere delle lingue: una duttilità metamorfica-femminile della voce e del canto. Non solo in poesia. In prosa è portentoso. La sua libertà nativa tanto è più forte quanto più sembra cozzare con le tradizioni poetiche, sintattiche e retoriche della cultura umanistica, dai greci ai latini ai medievali su su: mentre al contrario lui le adopera come un chirurgo che lavora sulle cellule per ricostruire corpi nuovi. Perciò nessuno traduce bene come lui, che riempie le prose di versi armoniosissimi: di Omero, Alceo, Saffo, Bacchilide Pindaro, Stesicoro, Teocrito, Virgilio, Orazio, e dei moderni suoi affini.
Le interminabili polemiche filologiche sono state giudicate insopportabili e lo sono: tigne d'uomo che dopo aver rinunciato a una vita privata, non difende il proprio io, ma l'identità pubblica di professore universitario e di vate dell'eredità italica. Tuttavia, nonostante la retorica, Pascoli ci fa sapere che già a fine Ottocento positivista, occorreva difendere il fondamento dell'identità greco-roma na dell'Occidente, attraverso l'educazione e la cultura. Una battaglia tragica, da Gramsci a Luciano Canfora a Salvatore Settis alla Fondazione Valla, perché dopo la riforma Berlinguer-Moratti (è tutt'uno) è stata perduta: proprio ora, che l'Occidente deve tutelare le proprie radici!
In queste prose troviamo anche il socialismo umanitario, nazionalista e retorico de «La grande proletaria s'è mossa», che sfocerà nel fascismo. Pascoli fantastica come Huxley-Orwell o un new global, sulla sola multinazionale che dominerà un intero mondo di schiavi. Sogna il campicello cinto dalla siepe, con a fianco i suoi numi Orazio e Virgilio, e sembra (e non è), alleato del cinico d'Annunzio che sta con gli agrari. Sicché Pascoli fu sconfessato dai suoi compagni anarchici, nemici della proprietà privata. Ma quel «privato» è anche un simbolo letterario: il limite che lo sguardo può misurare, «dove ci si contenta»: è la poesia, la risposta, in sottile dialettica, alla siepe dell'infinito, e all'infinito-indefinito desiderio di Leopardi, l'unico interlocutore reale di Pascoli.
È incredibile come il mito della siepe e del nido siano iscritti nel Dna bizantino-romagnolo-cattolico di questo genio che nel 1877, a ventitré anni in Foglie morte anticipa il Fanciullino del 1897, con l'intuizione di quel che significa l'atto di «vivificare» il mondo attraverso la poesia: prosecuzione dell'«allucinazione» della realtà - di cui scrive D. W. Winnicot - che il bambino applica agli oggetti, e questi divengono i tramiti d'ogni futura relazione conoscitiva e simbolica. Da quella esperienza remota Pascoli trae anche l'ossessione del «nido»: la nostalgia di madre che egli vive sotto l'adempimento sostitutivo e drammatico di tutte le forme: figlio, fratello, sposo, padre.
Nel sublime racconto «allucinato», appunto, de La Befana, Pascoli fa teatro del suo dramma. Il menage à trois casto e gioioso del nido dei tre fratelli s'era spezzato, perché la bionda Ida era andata sposa. Zvanì, che aveva conce pito il sacrificio di non sposarsi, delira. In rappresaglia, fa il tentativo di sposare una cugina. Mariù, inferocita per il doppio affronto e la gelosia, lo affonda. Lui si riincista nel suo bozzolo, ma la farà pagare a Mariù, e lei pure a lui: sarà sua schiava schiavizzatrice. Ne La Befana dunque, Pascoli elabora l'abbandono di Ida e il nido irrisolto, proiettandosi nella maestrina che canta nella notte nevosa delle rivelazioni, dove evoca, accoglie, sostituisce i morti in un vertiginoso delirio, in un immobile incanto.
Canta i perenni riti quotidiani. Gli oggetti umili deificati come nella civiltà vedica e in quella romana, compagni d'una redenzione che sarà impossibile, se non nella sua gloriosa poesia.
Giovanni Pascoli
Prose disperse
a cura di Giovanni Capecchi
Rocco Carabba Editore
Pagine 536. Euro 21, 00
Fonte web Avvenire:
http://www.db.avvenire.it/avvenire/edizione_2004_04_17/articolo_435068.html