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il Rimino - Riministoria

Pascoli a Rimini, studente «piuttosto satirico»
Nelle «Prose disperse» aspetti inediti della sua personalità

Le «Prose disperse» di Giovanni Pascoli pubblicate dall'editore Carabba (Lanciano 2004, pp. 536, euro 21) sono state presentate a Villa Torlonia di San Mauro sabato 20 marzo dall'autore, Giovanni Capecchi, e da Marino Biondi che ha tenuto una lezione appassionata e profonda sulla figura di Zvanì, in relazione a questo volume ed all'esperienza umana che vi si riflette.
Capecchi, nell'introduzione al libro, spiega l'importanza della raccolta che permette di scoprire gli echi delle vicende pascoliane anche nella produzione in prosa. Ad esempio, cita il dramma del matrimonio di Ida, «che ha seguìto il crollo del progetto matrimoniale di Pascoli con la cugina Imelde naufragato per l'intervento della tempestosa Mariù». Pure le pagine di critica letteraria, aggiunge Capecchi, contengono «espliciti riferimenti» alle esperienze personali.
Una curiosa confessione autobiografica si trova ad esempio in una recensione del 1898 a proposito dell'«Agricoltore» di Menandro, storia che termina con la celebrazione di un matrimonio: «dopo aver sottolineato la gioia che avrebbe cullato gli sposi», scrive Capecchi, il poeta non riesce a trattenersi e mette in relazione la felicità degli sposi (e di Ida che ha avuto le sue nozze) con la sua sorte di scapolo senza amore, aggiungendo una conclusione che a lui dovette costare un sospiro di autocommiserazione e che fa sorridere diversamente i lettori: «Basta: se ne stettero, se ne godettero, e a me nulla mi dettero». Giovannino scende dallo scranno solenne dello studioso severo, e pare che s'ingaglioffi fra le panche d'un'osteria a narrare pettegole storie nascoste, o forse palesi a tutti più che a lui stesso, allo scopo di sfogare «questa malignità di questa mia sorta», per usare le stesse parole di Machiavelli nella celebre lettera a Francesco Vettori.
La prima delle «prose disperse» è del 1872, quando Giovannino era a Rimini a studiare al liceo Gambalunga, e s'intitola «Scartabelli di Nebulone scrittor di Romanzi». Si tratta di una pagina scolastica, contenuta in un quaderno intitolato «Esercizi di poesia italiana», mai pubblicata sinora anche se conosciuta e citata da vari studiosi. Mariù stessa ne dette notizia, definendola un componimento «piuttosto satirico». Quando sabato 20 marzo ho salutato alla fine della presentazione il prof. Capecchi, egli mi ha suggerito di provare a cercare chi fosse quello «scrittor di Romanzi» di cui Pascoli metteva in caricatura la vita e le opere nel compitino riminese. Le parole di Capecchi mi autorizzano a presentare pubblicamente l'esito della ricerca.
Pascoli parla di Giuseppe Rovani (1818-1874), noto per la sua attività di romanziere e giornalista. Lo definisce «Nebulone», usando un vocabolo latino che significa ciarlatano. Rovani è passato alla storia della patrie lettere per avere scritto il romanzo «Cento anni», apparso a puntate sulla «Gazzetta di Milano» (1857-1858). Pascoli di lui dice: «quando mette fuori un Romanzo», se lo vede «squartato e posto a fette ne' giornali».
Altro indizio su Nebulone. Si narra, spiega Zvanì, che egli abbia «consumato assai più vino per trastullarsi che olio per istudiare». Dalle biografie di Rovani sappiamo che «l'abitudine ad una vita sregolata e l'inclinazione al bere» lo portarono alla morte per alcolismo (così R. Facciolo nel «Dizionario bio-bibliografico», II, Einaudi, 1991, p. 1542). Rovani cominciò povero e finì ricco: come il Nebulone pascoliano: «l'inopia poscia l'avea distolto dai bagordi, e datolo alle muse».
Nebulone, proseguiva Pascoli, «generalmente si professa comunista e internazionalista e afferma gli averi dovere essere uguali di tutti, e non esservi titoli né distinzioni di sorte». Rovani si adoperò come mazziniano nelle insurrezioni di Venezia e Roma nel 1848, e fu poi esule nel Canton Ticino con Mazzini, Pisacane e Cattaneo. Nomi che riassumono una linea politica gradita al Pascoli studente in Rimini.
Le coincidenze fra il ritratto di Nebulone e la vera biografia di Rovani non dovrebbero ammettere dubbi. Resta da dire qualcosa sul tono «piuttosto satirico» di questa pagina. Osserva Capecchi: nei giorni del soggiorno riminese di Pascoli «si faceva un gran parlare, in Romagna, di anarchia, di internazionalismo, di comunismo, e il giovane Pascoli, nella compilazione dell'esercizio scolastico non restava immune da questi dibattiti che giungevano alle sue attente orecchie». Nebulone rappresenta lo «scrittore attaccato al denaro più che alla letteratura, adulatore dei potenti ma anche del popolo che gli garantisce il successo, abile a scrivere e a parlare anche senza riflettere», romanziere prolisso, oscillante nei suoi atteggiamenti politici. Pascoli descrive il suo Nebulone come uno «strabocchevolmente arricchito» che però «in tempo di carestia serra i granai», mentre briga «per un titolo di nobiltà».
Sono argomentazioni che rendono molto graffiante la pagina pascoliana, il cui contenuto manifesta un'aspirazione politica covata tenacemente nel calore delle amicizie riminesi. Il ritratto di Nebulone si condensa in fulminanti battute che restituiscono un aspetto nascosto del giovinetto studente liceale. Le opere di quello scrittore beneficano l'umanità recandole il dono prezioso del sonno, che le evita di ricorrere «a grave prezzo» all'oppio ed al papavero. E rivelano che ci si trova davanti ad un vero riformatore della letteratura, alla vivente dimostrazione che si può (e si deve) «parlare e scrivere senza pensare».
(Vedi citazione in articolo su Avveniredi Rosita Copioli.)

Antonio Montanari


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