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  La Magia nella Terra di Mezzo


La magia è un fattore indispensabile in una narrazione fantasy. Essa è l’elemento primario, l’ingrediente chiave, che permette a questo tipo di letteratura di sganciarsi dalla realtà e proporre una visione alternativa della realtà da un’angolatura diversa da quella abituale, quotidiana, ordinaria.
È altrettanto vero, però, che l’atteggiamento del narratore e dei personaggi nei confronti della magia non è altrettanto univoco. Si può dare un mondo in cui la magia è presenza accettata e scontata, e magari dove ogni personaggio è in grado di praticarla. In altre circostanze, invece, la magia può stupire, rivelarsi come un fattore estraneo al mondo della narrazione, seppure, indispensabile al dispiegarsi della storia e delle avventure. Anche in tal caso, tuttavia, c’è spesso anche un solo personaggio che  si trova perfettamente a suo agio con le arti magiche, ossia quello che le pratica personalmente.
Il trattamento della magia in The Lord of the Rings si caratterizza per diversi fattori, alcuni riguardanti la tradizionale concezione del magico, altri che invece presentano sostanziosi ritocchi  ideologici da parte dell’autore.  Innanzi tutto,  anche la magia s’inquadra nello schema dualistico caratteristico del romanzo, scindendosi in Magia Bianca e Magia Nera. La tensione tra questi due opposti contribuisce ulteriormente alla strutturazione della  grande lotta tra Bene e Male che è centrale alla trama dell’opera. Tuttavia, la magia descritta da Tolkien è una magia di più “delicata” concezione. Si lega maggiormente ad una visione mitica dei poteri naturali, amplificati in determinate situazioni o in determinati personaggi fino ad assumere connotati meravigliosi (ma pur sempre spiegabili con leggi determinate). E in effetti la magia, nella Terra di Mezzo, è strettamente associata alla Natura e alle sue manifestazioni. Sappiamo che presso tali culture la magia era spesso anche, o soprattutto, un modo di interpretare tali fenomeni, e così propiziarseli o difendersi da essi. Per tale motivo, essa attribuiva vita e volontà anche alle pietre, ai vegetali o ai fenomeni atmosferici. Tale concezione della magia permette poi, a livello della trama e della sua strutturazione, una maggiore partecipazione da parte di quello che costituirebbe altrimenti solo uno “sfondo”: rocce, alberi, animali, paesaggi. Dietro l’eroe “intelligente” si muove invece tutto un coro di vite e di vitalità, nonché di volontà, il cui ruolo è tutt’altro che da sottovalutare. È lo stesso principio, in fondo, che permette all’Anello di avere un peso così preponderante in tutto il romanzo. Il dualismo caratteristico del romanzo si riproduce anche a livello dell’interpretazione dell’evento magico da parte dei personaggi: infatti The Lord of the Rings appartiene a quella schiera di opere in cui la magia è ovvia per certi personaggi e oscura per altri, con la differenza che, dopo un’iniziale sorpresa e/o meraviglia, essa viene immediatamente inglobata negli schemi mentali anche dei più ingenui o increduli, proprio perché il suo stretto rapporto con l’originario, il mitico e i fenomeni naturali, non la rende del tutto estranea e ostica. Gli stessi personaggi legati al magico stentano ad attribuirgli tale definizione, ritenendola un’espressione quasi fuorviante, un’etichetta creata per gli scettici, per coloro che sono estranei ai poteri profondi della vita. Quando utilizzano il termine “magico” o “magia”, lo fanno dandoci la sensazione di utilizzare solo un termine di comodo. In tal modo gran parte del fascino classico della magia, intesa come potere che si oppone in essenza e in risultati alla realtà ordinaria, sembra andare perduto. In realtà, però, ciò va a tutto vantaggio di un’atmosfera, decisamente più “intrigante”, in cui magico e ordinario finiscono per compenetrarsi al punto che è difficile distinguere l’uno dall’altro. Tolkien parlò spesso, nelle sue lettere, di magia e arti magiche. Ed egli stesso fece una distinzione sommaria tra due tipi di “magie”: una inerente alle figure positive del romanzo e un’altra che egli chiama Machinery, più strettamente identificata con la vera e propria Magia (Magic), che è in effetti prerogativa di quella che chiamiamo Magia Nera. Di contro, per Tolkien la Magia Bianca, la magia esercitata dai “buoni”, è da considerarsi una forma d’Arte: “…Arte, liberata dai molti dei suoi limiti umani: molto meno faticosa, più veloce, più completa […].” In un’altra lettera, l’autore chiama i due tipi di magia coi termini classici di magia e goeteia, ossia negromanzia, introducendo però l’idea che tale netta distinzione non sia valida a priori, perché in realtà la magia è buona o cattiva a seconda dell’uso che se ne fa. Tuttavia, ribadisce che esiste un differente uso di questo potere soprannaturale tra i personaggi di The Lord of the Rings: da una parte, la “dominazione di volontà libere” della negromanzia, la quale utilizza spesso dei trucchi, degli inganni, per raggiungere i suoi malefici scopi; dall’altra, gli “scopi benefici” della magia buona, i cui effetti sono “completamente artistici e non tesi all’inganno”, effetti la cui distanza dalla realtà è la stessa che intercorre tra un’opera d’arte e la realtà stessa. Interessante è anche notare che per il nostro autore i poteri magici, nella sua storia, non si apprendono grazie ad una tradizione antica, né si possono acquisire tramite incantesimi che tutti possono recitare: la magia è “…un potere interno non posseduto o ottenibile dagli Uomini in quanto tali.” Da ciò che si evince dalle lettere, pare che per Tolkien “il motivo basilare della magia fosse solo “…oltre a ogni considerazione filosofica di come funzionerebbe- … l’immediatezza: velocità, riduzione di lavoro, e riduzione anche al minimo (o a zero) delle differenze tra l’idea o il desiderio e il risultato o l’effetto.”, il che altro non è che il “nocciolo” del pensiero magico antropologicamente analizzato: l’immediata realizzazione di un desiderio.

a cura di Tuor



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