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ORATORI: IL CALCIO E COSI' SIA
Palo
Conte lo celebrava nella sua canzone Azzurro, quando descriveva «quelle
domeniche da solo», ma con almeno «un prete ~ chiacchierar».
Giovanni Guareschi esaltava le partite all’ombra del campanile
della sua Brescello nelle mitiche sfide fra Pepponi e don Camilli. L’oratorio
è uno dei miti italiani, autentico come la pizza o gli spaghetti.
Campetti in cemento, porte ricavate alla meglio, ma funzionanti anche
con solo due paletti e una riga a delimitare l’area di rigore.
Fa parte integrante della nostra vita, della nostra cultura, delle più
autentiche tradizioni. Una specie di porto franco, un luogo protetto
con libertà di urla e schiamazzi. Una spiaggia in cui rifugiarsi,
tirare i primi calci a un pallone, scambiare figurine e prepararsi alla
vita. E un italiano doc con tanto di denominazione controllata e protetta
ha alle spalle almeno un “don” da ricordare. Che sia il
suo prof di religione oil confessore, oppure la scusa per poter uscire
di casa dribblando i libri. Nessun papà o mamma d’Italia,
di sinistra, di destra o di centro, si è mai opposto a un incontro
pseudomistico fra sacro e profano, vangelo e pallone. E sbaglia chi
dice che oggi negli oratori il calcio è fuori moda e che la realtà
virtuale di una PlayStation ha sostituito il vero football. «Non
è così», sostiene don Massimiliano Sabbadini, direttore
della Fom (Fondazione oratori milanesi) e presidente del Forum che ne
coordina 6000 sparsi in tutta Italia. «Solo nella diocesi di Milano,
che comprende la metropoli il suo hinterland, le province di Lecco e
parte del Comasco e del Bergamasco, con l329oratori in tutto,50 mila
ragazzi fanno
Gicavamo alla viva il parroco Ci sono almeno tre cose che segnano l’infanzia
di un bambino cresciuto all’oratorio. In qualsiasi oratorio d’italia.
E forse anche d’Europa, se ci sono al tempo della Ue. La prima
cosa è la voce, spesso baritonale e quindi spaventosa, del parroco
che si lamenta perché bisogna giocare, d’accordo, ma senza
troppo chiasso, nelle altre sale ci sono quelli che fanno catechismo
e non li si può mica disturbare, «altrimenti il pallone
ve lo sequestro e non ve lo do più indietro». La seconda
cosa, invece, è il sapore della spuma al chinotto, gustata alla
fine di una partita lunga un intero pomeriggio. Qualcuno preferiva la
cedrata, è vero, però il chinotto è sempre il chinotto,
e se viene servito da una bella barista ancora meglio, e merita un posto
nella top-three. La terza faccenda che lascia un segno è lo spogliatoio
della squadra di calcio della parrocchia (quando c’è una
squadra ufficiale, ovviamente). Ecco, quel luogo, prima nell’immaginario
e poi nella realtà di ognuno, è mitico, ha qualcosa di
speciale, unico; è la cassaforte dei segreti dove può
entrare soltanto chi fa parte della squadra e l’allenatore, e
nessun altro vi è ammesso. Sigmund Freud, se avesse avuto a disposizione
un simile materiale d’indagine, si sarebbe sprecato in trattati,
analisi, congetture, avrebbe spiegato che lo spogliatoio, in fondo,
è un po’ come il ventre materno dal quale siamo usciti
ed è per questo motivo che il bambino ci si trova così
bene, e via argomentando. Forse, più prosaicamente, è
il luogo dove ci si concentra e ci si veste prima di entrare in campo
e giocare una partita, in attesa di alzare le braccia per un gol. E
dopo, cioè dopo aver segnato, com’è dolce il sapore
della spuma al chinotto e come sono lontane le urla del parroco: che
gridi pure, stavolta, tanto io ho fatto gol...
COSI LO RICORDANO I CAMPIONI «Il nostro credo era il pallone»: parola del Trap Fino a qualche anno fa, era l’oratorio
il settore giovanile delle squadre professionistiche. A Cinisello Balsamo
alle porte di Milano, c’è il vecchio campetto in cui Gaetano
Scirea tirò i primi calci. «Qui è tutto come una
volta, quando iniziò nella Serenissima-San Pio X», spiega
Gianni CrimeIla, primo allenatore |
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