LA BUONA NOVELLA, DE ANDRE’
MI AVREBBE DATO TORTO
Partiamo dalla fine
Molti anni fa, a Firenze, in Piazza della Signoria sentii dei ragazzi con la faccia pulita e le chitarre che cantavano: “… ho visto una luce, ti dico che l’ho vista…” Con tutto il rispetto e l’affetto per quei ragazzi, devo dire che non mi convinsero né che avessero visto davvero qualcosa, né che quella luce esistesse davvero. Probabilmente, se li avessi seguiti dopo la musica, li avrei visti assistere i malati, visitare i carcerati, andare per il mondo a portare aiuto a chi ne ha bisogno. Forse avrei visto un po’ di quella luce di cui parlavano; ma quella canzone non mi faceva vedere proprio niente, se è colpa mia chiedo loro perdono.
“E tu, piano, posasti le dita
all'orlo della sua fronte:
i vecchi quando accarezzano
hanno il timore di far troppo forte.”
E’ Giuseppe che perdona Maria nella “Buona Novella” di Fabrizio De Andrè, che si è sempre dichiarato ateo. Questa luce mi porta lacrime agli occhi.
“Il canto è un mistero della bocca” dice una canzone del cileno Patricio Manns.
Il contesto
<<Nel 1969 scrivevo “La buona novella”. Eravamo in piena
rivolta studentesca; i miei amici, i miei compagni, i miei coetanei hanno
pensato che quello fosse un disco anacronistico. Mi dicevano: cosa stai a
raccontare della predicazione di Cristo, che noi stiamo sbattendoci perché non
ci buttino il libretto nelle gambe con scritto sopra sedici; noi facciamo a
botte per cercare di difenderci dall'autoritarismo del potere, dagli abusi, dai
soprusi. (…)>> F. De Andrè Presentando alcuni brani de “La buona novella” durante il
tour del 1997
Questo,
come racconta lo stesso autore, era il contesto storico in cui è nata la Buona
Novella. Un Italia dove, più che altrove, il messaggio cristiano era identificato
da molti con una Chiesa conservatrice, un potere nemico e persino con un
partito politico sedicente “cristiano” da troppo tempo al governo. E’ vero che
anche nel mondo cattolico c’era fermento; movimenti di base, preti operai, in
America Latina persino preti guerriglieri, ma i tantissimi duri e puri del
marxismo italiano guardavano con grande sospetto o, nel migliore dei casi, con
sufficienza alle istanze ed ai valori cristiani.
E
allora come nasce la Buona Novella? Come molte opere d’arte nasce come segno di
discontinuità e scandalo per quel conformismo confusamente rivoluzionario.
Ma il
contesto non può non pesare; anche per un artista vero come De Andrè. A mio
parere anche altre sue canzoni, sia vecchie che recenti, sono pervase da valori
“cristiani”, ma la Buona Novella ha posto problemi di identità al suo autore.
Non ci si scandalizzi di questo; un’opera d’arte non è il calcolo di un
ragioniere. Come Pigmalione, ogni creatore può avere un rapporto problematico
con la sua creatura, ogni artista ha diritto alle sue contraddizioni, anzi: la
sofferenza generata dalla contraddizione e dal dubbio è spesso condizione
indispensabile per la creatività.
De
Andrè, fosse ancora tra noi, mi darebbe torto? Non ho difficoltà ad ammetterlo,
ma ancora 28 anni dopo, continuando la già riportata presentazione, il
cantautore diceva: << Non avevano capito - almeno la parte meno attenta di loro,
la maggioranza - che la Buona Novella è un'allegoria. Paragonavo le istanze
migliori e più ragionevoli del movimento sessantottino, cui io stesso ho
partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968
anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere, i soprusi
dell'autorità si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza
e di un egualitarismo universali.>>
Si
può non essere d’accordo con un autore quando parla di una sua opera? Sì.
E io
non sono d’accordo.
I problemi di un creatore.
La
storia raccontata dai Vangeli (apocrifi o canonici che siano) ha anche un valore simbolico e così è pure
per la Buona Novella che – soprattutto nel finale – è densa di riferimenti alle
idee del suo tempo e dei suoi movimenti. Ma considerarla, da parte del suo
autore, un’allegoria del ’68 e basta (o anche innanzitutto), ci sembra proprio
un tarparle le ali in nome di pudori laici ed intellettualistici, peraltro
sorprendenti in uno spirito libero.
La prima parte dell’opera è dedicata a Maria bambina e sposa: quella figura che forse più di ogni altra divide la fede cattolica dalle confessioni della riforma. Una narrazione che ha toni intimi straordinari e per questo credibili e in cui l’unica allegoria risulta essere quella meravigliosa metafora del Sogno di Maria, in cui il concepimento sembra essere sia “immacolato” sia “terreno” (perchè quella Maria non mente), degno concepimento per un figlio che, secondo i credenti, sarà vero Dio e vero Uomo.
E poi c’è Giuseppe; Uomo Nuovo allora, nel mondo antico, che col suo perdono frantumò la gabbia delle leggi e delle tradizioni, e Uomo Nuovo oggi, perchè la sua libera accettazione di responsabilità ridicolizza l’egoismo di chi si presume libero da ogni vincolo.
E’ assolutamente evidente, ascoltando l’opera, che De Andrè senta tutta questa umanità e la riferisca con tutto il suo carico di significati.
Per de Andrè (per le sue dichiarazioni) Gesù non è il figlio di Dio semplicemente perchè Dio non esiste. Ma Gesù è una persona reale o un’invenzione letteraria? Lo stesso cantautore dichiara di considerare Gesù “il più grande rivoluzionario della storia”. E che lo consideri una persona reale, a mio avviso, lo testimonia anche la strepitosa forza del suo racconto e del suo sentimento; ma aldilà dell’emozione che genera ci sono degli indizi ben precisi che indicano come il cantautore consideri reale l’intervento di Cristo nella storia. Nella canzone Maria nella bottega di un falegname il costruttore di croci risponde alla donna:
“Mio martello non colpisce,
pialla mia non taglia
per foggiare gambe nuove
a chi le offrì in battaglia,
ma tre croci, due per chi
disertò per rubare,
la più grande per chi guerra
insegnò a disertare”
Cioè è stato davvero il Nazareno a “fondare” il pacifismo così come predicato dallo stesso De Andrè; un atto storico, filosofico, se vogliamo “ideologico” in una proiezione più o meno arbitraria, ma sicuramente non una leggenda. E nell’attenzione su personaggi che nei Vangeli canonici sono considerati “minori”, per esempio i ladroni crocifissi, e persino sui sentimenti della Madre possiamo riscontrare la concretezza della narrazione.
“Per me sei figlio, vita morente,
ti portò cieco questo mio ventre,
come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama amore questa mia voce.”
In questa ottica trova il suo significato profondo la scelta degli “Apocrifi”, nel fissare volti e sentimenti di persone in carne ed ossa; altrimenti cos’altro vorrebbe dire? Ben poco per un artista dello spessore del cantautore genovese; certo anche lui ha subito l’influsso di un ambiente in cui bisognava essere “alternativi” a tutti i costi, e in quest’ottica riduttiva si potrebbe interpretare la scelta di Vangeli “alternativi”. Un’ottica riduttiva in cui, peraltro, si cade facilmente. Quante volte si legge o si sente dire con tono supponente: “De Andrè si è ispirato agli Apocrifi” attribuendo implicitamente a questi ultimi un carattere rivoluzionario e dirompente che i “Canonici” non avrebbero per il semplice fatto di essere quelli accettati e promulgati dalla Chiesa di Roma. Eppure, in questo senso, sarebbero di gran lunga bastati a De Andrè il perdono dell’adultera, i pranzi con ladri e prostitute, la cacciata dei mercanti, il discorso della montagna (beati i miti, i poveri, i portatori di pace/guai a voi ricchi etc), la condanna dei sedicenti giusti e la salvezza dei peccatori e tanti altri episodi che a noi paiono davvero rivoluzionari e che – ricordiamolo – sono esattamente in Matteo, Marco, Luca e Giovanni, i quattro evangelisti “di regime” secondo la morale radical - rivoluzionaria dell’epoca (e consumista di oggi). Sarebbero di gran lunga bastati a De Andrè perché è proprio quella l’essenza e forse l’origine del sentimento più originale del nostro autore: la vicinanza, probabilmente l’amore per gli ultimi. Un sentimento cristiano, profondamente cristiano così come raccontato e tramandato da Matteo, Marco, Luca e Giovanni.
Quindi non è tanto la storia di Cristo che De Andrè racconta, ma piuttosto è quella delle persone che stanno “a margine” di questo avvento. Ma in fondo, non è proprio per i marginali, per gli ultimi che viene e viene annunziata la “buona novella” di Gesù? “... riferite questo (...) ai poveri è annunziata la buona novella.” Lc 7,35
Ecco il cristianesimo pur non dichiarato da De Andrè. Ma lui che è stato sempre in direzione ostinata e contraria del potere, avrebbe potuto non identificare quel potere, nel corso della storia, anche nella Chiesa Cattolica? Probabilmente no. Ma su questo torneremo.
Un testamento ed un
risarcimento (non dovuto)
L’arrivo di questa narrazione cominciata con l’infanzia di Maria, il suo culmine creativo (poetico e ideale) è il Testamento di Tito. Qualcuno, andando forse oltre la mia stessa lettura dell’opera, ha sottinteso che il ladrone di De Andrè rilegge i vecchi comandamenti alla luce del Nuovo Testamento. Forse è una esagerazione ma c’è del vero. Cristo viene e “rinnova la legge” o meglio, afferma che la legge è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge. Tito crocifisso dal potere in nome della legge, snocciola i comandamenti e racconta il modo in cui un marginale come lui li ha vissuti a confronto di “chi ha una donna e qualcosa” e che, a differenza sua, ruba “in nome di Dio”. Anche in questa canzone, ove pure De Andrè porta al limite la sua lettura “anarchica” delle scritture, l’amore, la speranza, il senso (sempre smentito nelle dichiarazioni) sembrano prevalere, o perlomeno sopravvivere, alla bestialità del potere. Qui non c’è neanche bisogno che Gesù perdoni e salvi il ladrone. Egli si salva da solo, gli basta vedere un innocente che muore.
Ed arriviamo alla fine, o meglio, a mio parere la fine è già arrivata perché il Testamento di Tito è la vera ultima canzone della Buona Novella. Certo musicalmente non è adatta come finale ed anche il testo non è quello di una chiusura. Ma la vera sincera ispirazione di De Andrè è terminata. C’è Laudate Hominem che – per carità – è una buona canzone, riprende il tema corale dell’esordio e chiude come drammaticamente va chiusa un’opera, ma oltre ad assolvere a questa funzione appare posticcia, fuori contesto, estranea al senso ed al sentimento che pervade il lavoro. Al racconto, alla metafora poetica, al riferimento intimo dei personaggi del dramma, si sostituiscono una serie di enunciazioni da ta tze bao poco degne del suo autore. Sembrano quasi un risarcimento per quella “parte meno attenta di loro – la maggioranza”, per quei duri e puri che non avrebbero tollerato un’opera d’arte non in linea con la rivoluzione culturale che doveva spazzare via l’arte borghese. Così De Andrè afferma e freudianamente ripete “non voglio/non posso/non devo pensarti figlio di Dio…” ed il resto della canzone spiega come il potere nella storia “in nome di quel Dio altri uomini uccise”. D’accordo forse nel 1969 queste cose andavano spiegate perché allora era il momento di spiegarle. Ciò non toglie che mentre il resto dell’opera emoziona ancora a distanza di quasi quarant’anni, quella canzone resta lì a chiudere un dramma di cui in fondo non fa parte; un canto non ispirato, un po’ come quella canzone dei ragazzi in piazza della Signoria.
Victor Jara, cileno anche lui, diceva “il canto che è stato coraggioso, sarà sempre una canzone nuova”. E la Buona Novella è stato un canto coraggioso, fino alla fine o quasi.
Ma, lo ammetto, De Andrè mi avrebbe dato torto.
Riccardo Pecoraro