«DI FRONTE AGLI ANGELI VOGLIO
CANTARTI».
LA TRADIZIONE DI RATISBONA
E LA RIFORMA LITURGICA*
J. Ratzinger
Estratto da: "CANTATE AL SIGNORE UN CANTO NUOVO"
1996, JACA BOOK
1. Liturgia terrena e celeste: la visione del Padre
Dopo un indimenticabile volo in
elicottero sui monti dell'Alto Adige nell'autunno del 1992 potei
visitare il monastero di Marienberg im Vinschgau, che là in quei
meravigliosi paesaggi venne fondato a lode di Dio e così alla
sua maniera accoglie l'invito del canto di lode dei tre fanciulli:
«Voi monti e colline, lodate il Signore! » (Dan 3,75).
Il vero e proprio tesoro di questo monastero è la cripta,
consacrata il 13 luglio 1160, con i suoi meravigliosi affreschi,
che frattanto sono stati quasi completamente restaurati (1). Queste immagini - come tutta l'arte
medievale - non avevano un significato puramente estetico.
Vogliono essere essi stessi una liturgia, una parte della grande
liturgia della creazione e del mondo redento, per partecipare
alla quale questo monastero venne innalzato. Il programma di
immagini corrisponde perciò alla comune comprensione di fondo
della liturgia, quale nella Chiesa intera (Oriente ed Occidente)
era ancora viva. Rivela forti influssi bizantini, ma nel suo
nucleo è semplicemente biblica, e d'altra parte è
essenzialmente determinata dalla tradizione del monachesimo, più
concretamente dalla Regola di san Benedetto.
Il vero e proprio punto di prospettiva è perciò la «Maiestas
Domini», il Signore risorto e innalzato, che però al tempo
stesso è visto come colui che ritorna, che viene già adesso
nell'Eucaristia. La Chiesa che celebra l'Eucaristia gli va
incontro, la liturgia è proprio l'atto di questo andare mcontro
a Lui che viene. Nella liturgia Egli anticipa già adesso questa
sua venuta che ci aveva promesso.
La liturgia è parusia anticipata, è l'irrompere del «già»
nel nostro «non ancora», come Giovanni lo ha rappresentato nel
racconto delle nozze di Cana: l'ora del Signore non è ancora
giunta, non tutto quello che deve avvenire è già adempiuto, ma
alla preghiera di Maria - la Chiesa - egli ci dà già adesso il
nuovo vino, ci dona già in anticipo il frutto della sua ora.
Il Signore risorto non è solo. Egli viene visto nelle immagini
della liturgia celeste donateci dall'Apocalisse: circondato dai
quattro esseri viventi, circondato soprattutto da una grande
schiera di angeli che cantano. Il loro canto è espressione di
gioia che non sarà tolta, il risolversi dell'esistenza nel
giubilo della libertà che ha trovato il suo compimento.
Il monachesimo fu inteso sui dagli inizi come vita alla maniera
degli angeli: la maniera degli angeli è l'adorazione. Entrare
nella forma di vita degli angeli significa dare alla vita la
forma di un'adorazione, nella misura in cui è possibile alla
debolezza degli uomini (2).
Così la liturgia è il centro del monachesimo, ma il monachesimo
non fa altro che mettere in luce per tutti ciò di cui si tratta
nell'esistenza cristiana, anzi nell'esistenza umana in quanto
tale.
A guardare a questi affreschi i monaci di Marienberg hanno
pensato certamente anche al capitolo diciannovesimo della Regola
di san Benedetto: la disciplina del salmodiare, ove il padre del
monachesimo ricorda fra l'altro il primo versetto del Salmo 137 (138):
«Di fronte agli angeli ti voglio cantare». Benedetto prosegue:
«Riflettiamo dunque su come si debba essere e stare davanti alla
divinità e agli angeli, e stiamo allora nel nostro canto in modo
tale che il nostro cuore sia all'unisono con le nostre voci». «Mens
nostra concordet voci nostrae». Dunque le cose non stanno così,
che l'uomo si inventa qualcosa e poi lo canta, bensì che il
canto gli proviene dagli angeli, ed egli deve innalzare il suo
cuore affinché stia in armonia con questa tonalità che gli
giunge dall'alto.
Importante è però soprattutto una cosa: la liturgia non è una
cosa che fanno i monaci. Essa esiste già prima di essi. Essa è
l'entrare nella liturgia celeste già da sempre in atto. La
liturgia terrena è liturgia solo per il fatto che si inserisce
in ciò che già c'è, in ciò che è più grande.
Così diventa pienamente chiaro il senso degli affreschi.
Attraverso di essi la vera e propria realtà, la liturgia celeste,
getta il suo sguardo all'interno di questo nostro spazio. Essa è
per così dire la finestra attraverso cui i monaci protendono lo
sguardo al di fuori, verso il grande coro, cantare dentro il
quale è il nucleo della loro vocazione.
«Di fronte agli angeli ti voglio cantare»: questa unità di
misura viene così continuamente posta loro davanti agli occhi.
2. Un riflettore acceso sulla disputa post-conciliare sulla liturgia
Discendiamo da Marienberg e dalle
vedute che ci permette, scendiamo a valle nella pianura dell'odierna
quotidianità liturgica. Qui il panorama è assai confuso. Harald
Schützeichel ha descritto la situazione di oggi come un «già e
non ancora», ove certo non ci si vuol riferire più al concetto
escatologico concernente il Cristo veniente in un mondo ancora
contrassegnato dalla morte e dalle sue pene, ma dove il nuovo,
invece, che è «già» presente è ora la riforma liturgica,
mentre il vecchio - l'ordinamento tridentino - sarebbe appunto «non
ancora» superato (3).
Così anche la domanda: «Dove debbo rivolgermi?» non è più (come
era una volta) ricerca del volto del Dio vivente, bensì
descrizione della assenza di orientamento nella situazione della
musica sacra, risultata dalla realizzazione a metà della riforma
liturgica. Qui si è verificato manifestamente un profondo «cambiamento
di paradigmi», per usare un termine alla moda. Un abisso divide
la storia della Chiesa in due mondi irreconciliabili: quello pre-conciliare
e quello post-conciliare. In effetti non c'è nell'opinione
pubblica nessun verdetto peggiore che quando a proposito di una
decisione ecclesiale, di un testo, di una funzione liturgica o di
una persona si può dire che è «pre-conciliare». La cattolicità
dovrebbe secondo questi parametri essere stata rinchiusa fino al
1965 dentro una condizione veramente terribile.
Applichiamo tutto ciò al nostro caso pratico. Un maestro di
cappella del duomo, che aveva svolto il suo ministero nel duomo
di Ratisbona dal 1964 al 1994, si trovò - se le cose stanno così
- in una situazione praticamente priva di vie d'uscita. Quando
egli iniziò, la Costituzione liturgica del Vaticano II
non era ancora stata approvata. Alla sua entrata in servizio
egli stava ancora del tutto chiaramente sotto il parametro (eretto
con comprensibile orgoglio) della tradizione ratisbonese, detto
più precisamente: del «Motu proprio» di Pio X Tra le
sollecitudini, emanato il 22 novembre 1903, circa
le questioni della musica sacra (4).
Questo «Motu proprio» non era stato in nessun'altra parte
accolto così gioiosamente (e così illimitatamente preso come
parametro), come nel duomo di Ratisbona, il quale con questo
atteggiamento divenne certamente esemplare per molte cattedrali e
chiese parrocchiali in Germania e anche fuori di essa.
Pio X si era rifatto, con questa riforma della musica sacra, ad
una propria esperienza e conoscenza liturgica. Già in seminario
egli aveva diretto una scuola corale. Come vescovo di Mantova e
come Patriarca di Venezia combatté contro la musica operistica,
che allora predominava in Italia. L'insistenza sul corale come la
vera musica liturgica era per lui parte di un più grande
programma di riforma, in cui si trattava di ridare al culto
divino la sua purezza e dignità, di configurarlo in base alla
sua interiore pretesa (5). In questa
sua preoccupazione egli aveva conosciuto la tradizione di
Ratisbona, che fece da padrino del «Motu proprio», senza che
per questo fosse stata canonizzata come tale in blocco. In
Germania oggi Pio X viene per lo più visto solo come il papa
antimodernista. Gianpaolo Romanato ha mostrato chiaramente nella
sua biografia critica quanto questo papa proveniente dalla
pastorale sia stato un papa riformatore (6).
Per chi rifletta su tutto ciò e osservi le cose un po' più da
vicino, il fossato tra pre-conciliare e post-conciliare apparirà
già più stretto. Lo storico aggiungerà un ulteriore dato di
conoscenza. La Costituzione liturgica del concilio Vaticano II
ha sì posto le fondamenta per la riforma; ma la riforma
stessa venne poi strutturata da un comitato post-conciliare e nei
suoi concreti dettagli non può venir ricondotta semplicemente al
dettato conciliare. Il concilio era un inizio aperto, il cui
ampio ambito consentiva parecchie realizzazioni. Se si pensa
giustamente a tutto ciò, non si potrà più descrivere l'arco di
tensione che si aprì in questi decenni con i termini di
tradizione pre-conciliare e riforma post-conciliare, ma piuttosto
si parlerà di confronto tra la riforma di Pio x e la riforma
avviata dal concilio. Dunque di gradi di riforma e non di un
fossato tra due mondi.
Se si allarga ancora ulteriormente lo sguardo si può dire che la
storia della liturgia sta sempre nella tensione tra continuità e
rinnovamento. Essa cresce all'interno di situazioni sempre nuove,
e deve anche sempre nuovamente tornare a ritagliare il presente,
che diventa poi passato, affinché l'essenziale riappaia, nuovo e
pieno di forza. Essa ha bisogno sia di crescita che di
purificazione, e in entrambe della conservazione della sua
identità, dello scopo, senza il quale essa perderebbe il suo
fondamento di esistere.
Se però le cose stanno così, allora l'alternativa tra forze
tradizionali e riforme si rivela inadeguata. Chi crede di poter
scegliere solo tra vecchio e nuovo si è già posto in una strada
priva di sbocco. La questione è piuttosto: che cos'è la
liturgia in base alla sua essenza? Quale parametro pone essa a
partire da se stessa?
Solo quando questo è stato chiarito si può ulteriormente
chiedere: che cosa deve restare? Cosa può e cosa deve forse
diventare diverso?
3. La domanda circa l'essenza della liturgia e circa i parametri della riforma
Alla domanda circa l'essenza
della liturgia abbiamo già trovato una prima risposta nell'introduzione
a proposito degli affreschi di Marienberg, una risposta che deve
ora venire ulteriormente approfondita. In questa preoccupazione
ci imbattiamo nuovamente contro una delle alternative che
derivano dall'immagine storica dualistica di mondo pre-conciliare
e mondo post-conciliare. In base ad essa prima del concilio
sarebbe stato soltanto il prete l'incaricato della liturgia,
mentre a partire dal concilio lo sarebbe ora la comunità
radunata. Quindi - così si deduce - è la comunità come vero
soggetto della liturgia a determinare cosa in essa debba accadere
(7).
Ora il sacerdote non ha certamente mai avuto il diritto di
disporre da sé che cosa si debba fare nella liturgia. La
liturgia non era affatto a suo piacimento. Essa lo precedeva come
«rito», cioè come forma oggettiva della comune preghiera della
Chiesa.
L'alternativa polemica «prete o comunità come incaricati della
liturgia?» è senza senso: essa distrugge la comprensione della
liturgia, anziché promuoverla, e crea quel falso fossato tra pre-conciliare
e post-conciliare, che lacera il grande nesso della vivente
storia della fede. Essa si basa su di un appiattimento del
pensiero, in cui non emerge più l'essenziale.
Se apriamo il Catechismo della Chiesa Cattolica, troviamo invece
in magistrale sinteticità e chiarezza la «summa» delle
migliori conoscenze del movimento liturgico e quindi ciò che la
grande tradizione conserva di permanentemente valido. Qui veniamo
in primo luogo istruiti che liturgia significa «servizio del
popoio e per il popolo» (8). Quando
la teologia cristiana prese dall'Antico Testamento greco questo
termine che si era andato formando nel mondo pagano, essa pensava
naturalmente al popolo di Dio, che i cristiani erano
diventati per il fatto che Cristo aveva abbattuto il muro
divisorio tra ebrei e pagani, per unificare tutti nella pace dell'unico
Dio.
«Servizio per il popolo»: essi pensavano che questo popolo non
era creato da loro, attraverso la comune derivazione, ma si
realizzava solamente in virtù del servizio pasquale di Gesù
Cristo, e dunque riposava sul servizio di un altro, e cioè del
Figlio.
Il popolo di Dio non esiste semplicemente come esistono i
tedeschi, i francesi, gli italiani o altri popoli. Esso sorge
sempre di nuovo solo in virtù del servizio del Figlio e per il
fatto che egli ci innalza nella comunione di Dio, a cui noi da
soli non possiamo arrivare. Conformemente a ciò prosegue il
Catechismo: «Nella tradizione cristiana esso (il termine «liturgia»)
significa che il popolo di Dio partecipa alla 'opera di Dio'».
Il Catechismo cita la Costituzione liturgica del concilio,
secondo cui ogni celebrazione liturgica è opera di Cristo, che
è il sacerdote, e del suo corpo che è la Chiesa (9).
Così le cose appaiono ora già molto diversamente. La riduzione
sociologica, che riesce solo a contrapporre attori umani gli uni
agli altri, è spezzata. La liturgia, come abbiamo visto,
presuppone il cielo aperto; solo se questo è vero, c'è allora
liturgia. Se il cielo non è aperto, ciò che era liturgia si
rimpicciolisce, si riduce ad un gioco di ruoli, ad una ricerca (ultimamente
priva di interesse) di auto-conferma comunitaria, in cui in fondo
non accade nulla.
L'elemento decisivo è dunque il primato della cristologia. La
liturgia è opera di Dio, oppure non esiste. Con questo primato
di Dio e della sua azione, che viene a cercarci con segni terreni,
è data anche l'universalità e l'universale apertura di ogni
liturgia, che non può venir afferrata a partire dalla categoria
di comunità, ma solamente a partire dalle categorie di popolo di
Dio e di corpo di Cristo.
Solamente in questo grande contesto si può allora comprendere
giustamente la reciprocità di sacerdote e comunità. Il prete fa
e dice nella liturgia ciò che egli in proprio, di suo, non può
fare e dire; egli agisce - come diceva la tradizione - «in
persona Christi», cioè a partire dal sacramento che garantisce
la presenza dell'altro, di Cristo. Egli non sta a sé; egli non
è nemmeno il delegato della comunità, che gli avrebbe in un
certo senso affidato un ruolo, bensì il suo stare nel sacramento
della sequela esprime precisamente il primato di Cristo, che è
la condizione di base di ogni liturgia.
Poiché il sacerdote rappresenta questo primato di Cristo, rinvia
col suo ministero ogni assemblea al di là di se stessa in
direzione del tutto, poiché Cristo è solo uno, e aprendo il
cielo Egli è anche Colui che elimina ogni frontiera terrena.
Il Catechismo ha articolato trinitariamente la sua teologia della
liturgia. Mi sembra assai importante che si parli della comunità
nel capitolo sullo Spirito Santo, con le seguenti parole: «Nella
liturgia del Nuovo Patto ogni azione liturgica, specialmente la
celebrazione dell'Eucaristia e dei sacramenti, è un incontro tra
Cristo e la Chiesa. L'assemblea liturgica ('la comunità') riceve
la propria unità dalla 'comunione dello Spirito Santo', che
riunisce i figli di Dio nell'unico Corpo di Cristo. Essa supera
le affinità umane, razziali, culturali e sociali. L'assemblea
deve prepararsi ad incontrare il suo Signore, essere un 'popolo
ben disposto'». (10)
Bisogna qui ricordare che il termine comunità (Gemeinde)
- derivante dalla tradizione protestante - nella maggior
parte delle lingue non può venir tradotto. Il suo equivalente
nelle lingue latine è «assemblée», assemblea, ove viene già
posto un accento un po' diverso. Con ambedue le espressioni (comunità
e assemblea) sono indiscutibilmente evidenziati due importanti
dati di fatto: in primo luogo che i partecipanti alla
celebrazione liturgica non sono individui senza relazioni gli uni
con gli altri, bensì in virtù dell'evento liturgico vengono
connessi vicendevolmente fino a costituire una concreta
rappresentazione del popolo di Dio; in secondo luogo che essi
come popolo di Dio qui radunato sono attivi co-esecutori dell'evento
liturgico, a partire dal Signore.
Ma di contro all'odierna ipostatizzazione della comunità ci si
deve decisamente difendere. I radunati, come dice con ragione il
Catechismo, divengono un'unità solo in forza della comunione
dello Spirito Santo, essi non lo sono da se stessi, come una
grandezza sociologica chiusa. Se essi però stanno in una unità
derivante dallo Spirito Santo, allora è sempre un'unità aperta,
il cui superamento dei confini nazionali, culturali e sociali si
esprime nella concreta apertura verso quelli che non fanno parte
del suo nucleo originario. L'odierno discorrere di comunità
presuppone oltremodo un gruppo omogeneo, che possa programmare e
condurre avanti azioni in comune. A questa «comunità» si può
allora affidare solamente un sacerdote che la conosca e che sia
da essa conosciuto.
Con la teologia tutto questo non ha nulla a che fare. Se ad
esempio in una grande cattedrale si radunano per la celebrazione
festiva delle persone che in termini sociologici non formano
alcun gruppo unitario e che ad esempio fanno anche fatica a
riuscire a cantare assieme, sono essi allora comunità o non lo
sono? Sì, lo sono, poiché il loro comune rivolgersi con fede al
Signore e l'andare incontro ad essi del Signore li unisce l'uno
all'altro interiormente in maniera molto più profonda di quanto
non potrebbe fare una semplice appartenenza sociale reciproca.
Riassumendo si può dire: né il prete di per sé, né la comunità
di per sé è il responsabile della liturgia, bensì il Cristo
totale, Capo e membra. Il prete, la comunità, i singoli lo sono
nella misura in cui sono uniti con Cristo e nella misura in cui
lo rappresentano nella comunione di Capo e corpo. In ogni
celebrazione liturgica è compartecipe l'intera Chiesa, lo sono
cielo e terra, Dio e gli uomini, non solo in termini teorici, ma
del tutto reali. Quanto più la celebrazione è animata da questa
consapevolezza, da questa esperienza, tanto più concretamente
essa realizza il senso della liturgia.
Con queste riflessioni ci siamo apparentemente allontanati dal
tema della tradizione di Ratisbona e della riforma post-conciliare,
ma solo apparentemente. Era necessario che venisse preso in
considerazione questo ampio quadro, poiché in base ad esso si
misura ogni riforma, e solo a partire da esso si possono
adeguatamente descrivere anche il luogo interno e la maniera
corretta della musica sacra.
Possiamo adesso sinteticamente dire quale era la tendenza
essenziale della riforma scelta dal concilio. Di contro all'individualismo
dell'epoca moderna e al moralismo con esso intrecciato doveva
nuovamente venire alla luce la dimensione del mistero, cioè il
carattere cosmico della liturgia, che abbraccia cielo e terra.
Nella partecipazione al mistero pasquale di Cristo essa
oltrepassa tutti i confini di luoghi e tempi, per radunarli poi
nell'ora di Cristo, che nella liturgia viene anticipata,
conducendo così la storia al suo traguardo (11).
Due ulteriori punti di prospettiva si aggiungono poi nella
costituzione liturgica del Vaticano II. Il concetto di mistero è
inseparabile nella fede cristiana da quello di Logos. I
misteri cristiani - al contrario di tanti culti misterici pagani
- sono misteri del Logos. Essi vanno al di là della
ragione umana, ma non conducono nell'assenza di forma del fumoso,
né della dissoluzione della ragione in un cosmo inteso
irrazionalmente, bensì conducono al Logos, cioè alla
Ragione creatrice, in cui si fonda il senso di tutte le cose. Di
qui deriva la fondamentale semplicità, il legame con la ragione
e il carattere di «parola» della liturgia.
A ciò si collega un secondo elemento: il Logos è
divenuto carne nella storia. L'orientamento secondo il Logos è
perciò per i cristiani sempre anche orientamento all'origine
storica della fede, alla parola biblica e al suo sviluppo
paradigmatico nella Chiesa dei Padri. Dallo sguardo sul mistero
di una liturgia cosmica, la liturgia del Logos, derivò la
necessità di rappresentare concretamente e visibilmente il
carattere comunitario del culto divino, il suo carattere di
azione e la sua natura di «parola». Tutte le istruzioni singole
circa la revisione di libri e riti son da leggere a partire di
qui.
Se si ha tutto ciò davanti agli occhi, si vede che la tradizione
di Ratisbona, come pure il «Motu proprio» di Pio x, malgrado le
differenze esteriori mirano intenzionalmenete nella stessa
direzione. L'esclusione dell'apparato orchestrale che soprattutto
in Italia si era sviluppato in direzione della musica operistica,
doveva mettere nuovamente la musica di chiesa interamente a
servizio della parola liturgica e al servizio dell'adorazione. La
musica di chiesa non doveva più essere uno spettacolo connesso
alla liturgia, ma doveva divenire essa stessa liturgia, cioè un
entrare a cantare nel coro degli angeli e dei santi.
Così doveva diventar trasparente che la musica liturgica conduce
i credenti tutti assieme nella glorificazione di Dio, nella
sobria ebbrezza della fede. La sottolineatura del corale
gregoriano e della polifonia classica era dunque subordinata sia
al carattere misterico della liturgia, sia al suo carattere di Logos,
sia al suo legame alla Parola storica. Essa doveva, per così
dire, mettere in luce la paradigmaticità dei Padri, che forse
talvolta era stata intesa in maniera troppo esclusivistica o
troppo storicistica: paradigmaticità, intesa correttamente,
significa infatti non esclusione del nuovo, ma indicazione della
direzione, che dona l'orientamento in prospettive sempre più
ampie. Avanzare nella nuova terra viene qui reso possibile
proprio dal fatto che è stata trovata la via giusta.
Solo se si comprende questa essenziale comunanza di volere e di
direzione nella riforma di Pio x e in quella conciliare, si
possono anche rettamente apprezzare le differenze negli
orientamenti pratici.
Viceversa possiamo dire a partire di qui che una maniera di
vedere la liturgia che ha smarrito il suo carattere di mistero e
la sua dimensione cosmica finisce con l'operare non una riforma,
ma una deformazione della liturgia.
4. Fondamento e compito della musica nel culto divino
La domanda circa l'essenza
della liturgia e circa i parametri della riforma ci ha ricondotti
da sé alla domanda circa il posto della musica nella liturgia.
In effetti non si può parlare di liturgia senza parlare anche
della musica liturgica. Dove viene a crollare la liturgia, crolla
anche la musica sacra, e dove la liturgia viene rettamente intesa
e vissuta, là cresce bene anche la buona musica di chiesa.
Abbiamo in precedenza visto che nel Catechismo il concetto di «comunità»
(o assemblea) appare per la prima volta laddove si parla dello
Spirito Santo come Colui che dà forma alla liturgia. Avevamo
detto che così è descritto esattamente il luogo interiore della
comunità.
Parimenti non è un caso che nel Catechismo la parola-chiave «cantare»
emerga per la prima volta laddove si tratta del carattere cosmico
della liturgia, e precisamente in una citazione tratta dalla
Costituzione liturgica del Vaticano II: «Nella liturgia
terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che
viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale
tendiamo come pellegrini... Con tutte le schiere celesti cantiamo
al Signore l'inno di gloria...» (12)
Philipp Harnoncourt ha espresso molto bene lo stesso dato di
fatto allorché ha commentato il noto detto di Wittgenstein: «Delle
cose di cui non si può parlare bisogna tacere» in questi
termini: «Delle cose di cui non si può parlare, si può allora,
anzi si deve, cantare e musicare, se non si può tacere» (13). Poco dopo egli aggiunge: «Ebrei
e cristiani sono concordi nell'opinione che il loro cantare e
musicare rinvia al cielo, o proviene dal cielo, o è suggerito
dal cielo... ». (14) In queste
frasi sono dati i principii fondamentali della musica liturgica.
La fede deriva dall'ascolto della parola di Dio. Dove però la
parola di Dio viene tradotta in parola di uomini, rimane un
soprappiù di non detto e non dicibile, che ci invita a tacere,
ci invita ad un silenzio che alla fine fa diventare l'indicibile
un canto e chiama in aiuto anche le voci del cosmo, affinché l'indicibile
divenga udibile.
Questo significa che la musica sacra nascendo dalla Parola e dal
silenzio percepito in essa, presuppone un sempre nuovo ascolto di
tutta la pienezzza del Logos.
Mentre Schützeichel dice che in linea di principio ogni musica
può venire impiegata all'interno del culto divino (15), Harnoncourt accenna a più profondi ed
essenziali nessi tra determinati atteggiamenti di vita ed
espressioni musicali ad essi adeguati, e prosegue: «Sono
convinto che anche per l'incontro con il mistero della fede... ci
sono musiche particolarmente adeguate e anche musiche non
adeguate... » (16). In effetti una
musica che debba servire alla liturgia cristiana deve
corrispondere al Logos, concretamente deve stare in una
significativa subordinazione a «quella» Parola in cui il Logos
si è espresso. Non si può, nemmeno come musica strumentale,
distaccare dall'interiore direzione di questa Parola, che apre
uno spazio infinito, ma traccia anche linee di demarcazione. Essa
deve in base alla sua essenza essere diversa da quella musica che
è destinata a condurre verso l'estasi ritmica, lo stordimento
degli allucinogeni, l'emozione sensuale, la dissoluzione dell'io
nel Nirvana, per nominare solo alcuni atteggiamenti possibili.
Su questo esiste una bella frase nella spiegazione del Padre
Nostro di san Cipriano: «Delle parole e dell'atteggiamento della
preghiera fa parte una disciplina, che include una quiete e un
rispetto. Pensiamo al fatto che siamo sotto gli occhi di Dio.
Agli occhi divini bisogna piacere anche attraverso l'atteggiamento
del corpo e il padroneggiamento della sua voce. L'assenza di
vergogna si esprime anche nel gridare abituale, mentre ai
timorati di Dio si addice pregare con parole piene di timidezza...
Quando noi ci raduniamo insieme con i fratelli e con il sacerdote
di Dio celebriamo il sacrificio divino, non possiamo scuotere l'aria
con rumori senza forma, e nemmeno gettare addosso a Dio le nostre
preghiere con un chiacchiericcio sguaiato, quelle preghiere che
invece gli dovremmo presentare con umiltà, poiché Dio.., non ha
bisogno che noi gli ricordiamo tutto ciò con le nostre grida...»
(17)
Naturalmente questo parametro interiore deve essere inserito
in una musica adeguata al Logos: essa deve introdurre
nella comunione con Cristo gli uomini qui ed ora, in questo tempo
e in questo luogo, come oranti. Essa deve essere ad essi
accessibile, ma al contempo condurli oltre, e cioè condurli in
quella direzione che la liturgia stessa, in maniera
insuperabilmente concisa, formula all'inizio del canone: «Sursum
corda» - il cuore, cioè l'uomo interiore, tutto il mio io, in
alto verso Dio, verso quell'altezza che è Dio e che in Cristo
tocca la terra, attira a sé ed eleva a sé.
5. Coro e comunità: la questione del linguaggio
Prima di tentare di applicare
queste affermazioni di fondo ad alcuni specifici problemi della
musica sacra nel duomo di Ratisbona, c'è ancora qualcosa da dire
circa i soggetti della musica liturgica e il linguaggio dei canti.
Dove è in vigore un concetto di comunità esageratamente
gonfiato e (come abbiamo potuto constatare) completamente
irrealistico proprio in una società mobile come la nostra,
possono venir riconosciuti come soggetti legittimi del canto
liturgico solo il prete e la comunità.
Il primitivo azionismo e il piatto razionalismo pedagogico di una
simile posizione è oggi divenuto oltremodo evidente e viene
perciò sostenuto oramai solo raramente. Che anche la «schola»
e il coro possano contribuire al tutto non viene oramai quasi più
contestato, persino laddove si interpreta erroneamente il motto
post-conciliare della «partecipazione attiva» nel senso di un
azionismo esteriore. A dire il vero continuano ad esserci delle
eccezioni, delle quali parleremo fra poco. Esse si fondano su di
un'insufficiente interpretazione della collaborazione liturgica,
in cui mai soltanto la comunità presente può essere soggetto,
bensì questa può venir intesa solamente come assemblea aperta
verso l'alto e a partire dall'alto, sincronicamente e
diacronicamente, verso tutta l'ampiezza della storia di Dio.
Nuovamente ha qui apportato un importante punto di vista
Harnoncourt, allorché egli parla di forme elevate che nella
liturgia come festa di Dio non possono mancare, ma che dalla
comunità come un tutto non possono venir adempiute. Egli
prosegue: «Il coro dunque non sta di fronte ad una comunità che
lo ascolta come di fronte ad un pubblico che vuole che gli si
canti qualcosa, ma è egli stesso parte di questa comunità e
canta per essa nel senso di una legittima rappresentanza». (18) Il concetto di rappresentanza è
una delle categorie di fondo della fede cristiana, che concerne
tutti i livelli della realtà di fede e così è essenziale anche
nell'assemblea liturgica. (19)
L'idea che si tratti di rappresentanza dissolve in effetti la
concorrenza di chi sta di fronte. Il coro agisce per gli altri e
li include nella sua propria azione. Attraverso il suo canto
tutti possono venir condotti in quella grande liturgia della
comunione dei santi e così in quella preghiera interiore che
strappa il nostro cuore verso l'alto e al di là di tutte le le
realizzazioni terrene ci fa entrare nella Gerusalemme celeste.
Ma si può propriamente cantare in latino se la gente non lo
capisce?
Dopo il concilio è comparso in certi luoghi un fanatismo della
madre-lingua che in una società multiculturale è davvero
astruso, così come in una società mobile ha poca logicità una
ipostatizzazione della comunità.
Prescindiamo dapprima dal fatto che un testo non è ancora già
comprensibile a tutti per il fatto che lo si traduce nella
propria madrelingua, anche se con ciò è toccata una questione
di non poca importanza. Un aspetto essenziale per la liturgia
cristiana in generale lo ha nuovamente presentato in maniera
eccellente Philipp Harnoncourt: «Questa celebrazione non viene
interrotta non appena si canta o si suona..., ma essa mostra
invece proprio così il suo carattere di 'celebrazione'. Questa
esigenza non richiede però né unità nella lingua liturgica, né
unità nello stile delle parti musicali. La tradizionale
cosiddetta 'Messa in latino' ha sempre parti aramaiche (Amen,
Alleluia, Hosanna, Maranatha), greche (Kyrie eleison,
Trishagion), e la predica veniva di regola tenuta nella
lingua della gente. La vita reale non conosce l'unità e
perfezione stilistica, al contrario, dove qualcosa davvero è
vivo si mostrerà sempre una molteplicità di forme e di stili...
l'unità è un'unità organica» (20).
A partire da queste vedute, il maestro di cappella del duomo, che
ora va in pensione, nei trent'anni di cambiamenti teologici e
liturgici in cui gli era stato affidato il suo incarico,
sostenuto dalla fiducia sia del vescovo Graber, sia da quella del
suo successore Manfred Müller, sia da quella dei vescovi
ausiliari Flügel, Guggenberger e Schraml, non di rado ha saputo,
remando controvento, di contro a correnti impetuose, guidare la
continuità nello sviluppo e lo sviluppo nella continuità.
Grazie alla profonda comprensione e accordo con i vescovi
responsabili e i loro collaboratori egli poté, senza perdersi e
allo stesso tempo restando aperto, contribuire essenzialmente a
che la liturgia nel duomo di Ratisbona conservasse la sua dignità
e grandezza, la sua trasparenza verso la liturgia cosmica del
Logos nell'unità di tutta la Chiesa, senza che essa assumesse
carattere da museo o si irrigidisse in disparte, nostalgicamente.
Vorrei alla fine illuminare brevemente ancora due esempi
caratteristici di questa lotta per la continuità nello sviluppo,
anche di contro alle opinioni dominanti: la questione del Sanctus
e del Benedictus e quella circa il luogo significativo
dell'Agnus Dei.
6. Questioni singole.- Sanctus, Benedictus, Agnus Dei
Il mio collega e amico dei
tempi di Münster, Lengeling, ha detto che se si comprende il Sanctus
come parte autentica della comunità che celebra la Messa, «allora
ne risultano non solo stringenti conseguenze per nuove traduzioni
musicali, ma anche l'esclusione della maggior parte delle musiche
gregoriane e di tutte le musiche polifoniche, poiché esse
escludono il popolo dal canto e non rispettanto il carattere di
acclamazione». (21)
Con tutto il rispetto per il grande liturgista, questa
affermazione dimostra che anche gli esperti possono
grossolanamente mancare il bersaglio. La diffidenza è in primo
luogo sempre opportuna, lì dove una gran parte della storia
vivente deve venir gettata sul mucchio dei rifiuti dei
fraintendimenti. Questo vale ancor più per la liturgia cristiana,
che vive della continuità e dell'interiore unità della storia
della preghiera cristiana.
In effetti l'affermazione del carattere di acclamazione, che
potrebbe venir realizzato solo per mezzo della comunità, non è
giustificabile in base a nessuna motivazione. Il prefazio si
conclude sempre, in tutta la tradizione liturgica dell'Occidente
come dell'Oriente, con l'accenno alla liturgia celeste, e invita
la comunità radunata a inserirsi nell'acclamazione dei cori
celesti. Proprio la chiusura del prefazio ha inciso decisamente
sull'iconografia della Maiestas Domini, dalla quale io ero
partito in queste mie riflessioni. (22)
Nel testo liturgico del Sanctus sono da osservare tre
nuovi accenti rispetto al fondamento biblico di Isaia 6 (23).
Il palcoscenico non è più, come nel profeta, il tempio di
Gerusalemme, ma il cielo, che nel mistero si apre verso la terra.
Per questo non sono più semplicemente i serafini che acclamano,
bensì l'intera schiera del cielo, nella cui acclamazione, a
partire da Cristo, che unisce cielo e terra reciprocamente, può
inserirsi l'intera Chiesa, l'umanità salvata. Infine il Sanctus
è stato perciò cambiato dalla terza alla seconda persona:
cielo e terra sono pieni della «tua» gloria.
L'Osanna, originariamente un grido d'aiuto, diventa così
un canto di lode.
Chi non tiene conto del carattere misterico e del carattere
cosmico dell'invito a inserirsi nel canto di lode dei cori
celesti ha già fallito la comprensione del tutto.
Questo unirsi al coro celeste può avvenire in molteplice maniera,
e ha sempre a che fare con la rappresentanza vicaria. La comunità
radunata in un luogo si apre al tutto. Essa rappresenta anche gli
assenti, si unisce ai lontani e ai vicini. Se in essa c'è il
coro, che la può attirare più fortemente che il suo proprio
balbettare nella liturgia di lode cosmica e negli aperti
orizzonti di cielo e terra, allora proprio in questo istante la
funzione rappresentativa del coro è particolarmente opportuna.
Per esso può venir donata una maggiore trasparenza verso il
canto di lode degli angeli e perciò una più profonda capacità
interiore di unirsi al canto, di quanto non possa fare in tanti
luoghi il proprio acclamare e cantare.
Ora io sospetto a dire il vero che la vera obiezione non consista
affatto nel carattere di acclamazione e nella richiesta che tutti
cantino; questo mi sembrerebbe troppo banale. Dietro ci sta
certamente il timore che attraverso un Sanctus eseguito
dal coro, soprattutto se deve poi venire obbligatoriamente
collegato col Benedictus, proprio all'entrata nel Canone
entri una specie di impianto orchestrale e quindi una pausa nella
preghiera in un punto m cui non sarebbe minimamente sostenibile.
In effetti, se si presuppone che non c'è alcuna rappresentanza
vicaria e alcun cantare e pregare assieme nel silenzio esteriore,
allora questa obiezione sarebbe giusta. Se durante il Sanctus tutti
quelli che non cantano attendono solamente la sua fine o si
dedicano all'ascolto di un pezzo di concerto, allora sì che l'esecuzione
con il coro è insostenibile. Ma deve essere proprio così? Non
abbiamo forse qui disimparato qualcosa, qualcosa che dobbiamo
urgentemente reimparare?
Forse è a questo punto utile ricordare che la preghiera
silenziosa del Canone da parte del sacerdote non è sopraggiunta
perché ad esempio il Sanctus era diventato così lungo
che adesso bisognava già cominciare a pregare, per guadagnare
tempo. La sequenza è alla rovescia. Sicuramente a partire dall'epoca
carolingia, ma forse anche prima, il sacerdote esordisce col
Canone «in silenzio»; il Canone è il tempo del puro silenzio
come «preparazione alla vicinanza di Dio» (24). A volte si è poi imposto un «officio di
preghiera di accompagnanento, paragonabile alle Ektenie orientali...
come velo esteriore sopra la silenziosa preghiera del Canone da
parte del celebrante» (25). Più
tardi fu il canto del coro che - come disse Jungmann - «continua
a mantenere l'antica dominante del Canone, ringraziamento e canto
di lode, e per l'orecchio dei partecipanti lo estende anche al di
là del Canone» (26).
Anche se noi non vogliamo tornare a ripristinare questa
situazione, essa può tuttavia offrire un'indicazione: non ci fa
bene, prima dell'irrompere del mistero, avere un momento di
silenzio pieno, ove il coro ci raccoglie interiormente,
conducendo ognuno nella preghiera silenziosa e proprio così in
una unione possibile solo interiormente? Non dobbiamo forse
imparare nuovamente proprio questo silenzioso intimo pregare
insieme gli uni con gli altri e con gli angeli e i santi, i vivi
e i defunti, e con Cristo stesso, affinché le parole del Canone
non divengano delle formule abusate, che noi poi vanamente
tentiamo di rimpiazzare con sempre nuovi giri di parole, in cui
cerchiamo solo di nascondere l'assenza dell'autentico evento
interiore della liturgia, l'uscita dal discorso umano per
arrivare a toccare l'eterno?
L'esclusione sostenuta da Lengeling e da molti altri dopo di lui,
è senza senso. Il Sanctus corale ha anche dopo il
Vaticano n il suo buon diritto.
Ma come stanno le cose con il Benedictus? L'affermazione
secondo cui non potrebbe in nessun modo venir separato dal Sanctus
è stata messa m piedi con così tanta insistenza e apparente
competenza, che solo poche anime forti sono in grado di
contrapporvisi. Ma essa non è né storicamente, né
teologicamente, né liturgicamente giustificabile. Naturalmente
ha una sensatezza cantare le due parti insieme, ove la
composizione offra questo nesso, che è assai antico e molto ben
fondato. Ciò che bisogna rifiutare è anche qui nuovamente l'esclusione.
Sanctus e Benedictus hanno il loro proprio posto
nella Scrittura e si sono perciò dapprima sviluppati anche
separatamente. Mentre incontriamo il Sanctus già nella
prima lettera di Clemente (34,5s.) (27), dunque certamente ancora in epoca
apostolica, incontriamo il Benedictus, per quanto mi è
dato vedere, per la prima volta nelle Costituzioni Apostoliche,
quindi nella seconda metà del quarto secolo, qui come
acclamazione prima della distribuzione della Santa Comunione,
come risposta alla frase: «Il Santo ai santi». La troviamo
nuovamente nelle Gallie a partire dal sesto secolo, dove si è
unita al Sanctus, come è accaduto parimenti nella
tradizione della Chiesa orientale (28).
Mentre il Sanctus è stato sviluppato a partire da Isaia 6
e poi dalla Gerusalemme terrena è stato trasferito a quella
celeste e così è divenuto un canto della Chiesa, il Benedictus
si fonda su una rilettura neo- testamentaria del Salmo 117(118),
26. Nel testo veterotestamentario questo versetto è una parola
di benedizione all'arrivo della festosa processione nel tempio;
nella domenica delle Palme ha acquistato un nuovo significato,
che certamente era già preparato nello sviluppo della preghiera
giudaica. Infatti la parola «Colui che viene» era divenuta un
nome per il Messia (29). Quando la
gioventù di Gerusalemme la domenica delle Palme acclama Gesù
con questo versetto, essa lo saluta come Messia, come re del
tempo finale, che entra nella città santa e nel tempio per
prenderne possesso.
Il Sanctus è subordinato all'eterna gloria di Dio; il Benedictus
si riferisce invece alla venuta del Dio fatto uomo in mezzo a
noi. Cristo, Colui che è venuto, è anche sempre Colui che sta
per venire: la sua venuta eucaristica, l'anticipazione della sua
«ora», fa diventare la promessa una presenza e riunisce il
futuro al nostro oggi. Per questo il Benedictus è sia un
andare incontro alla consacrazione, sia un'acclamazione al
Signore divenuto presente grazie ai gesti eucaristici. Il grande
momento della venuta, la straordinarietà della sua presenza
reale negli elementi della terra, esige formalmente una risposta:
elevazione, genuflessione, suono delle campane sono un tale
balbettante tentativo di risposta (30).
La riforma liturgica - parallelamente al rito bizantino - ha
formulato un'acclamazione del popolo: «Annunciamo la tua morte,
Signore, proclamiamo la tua resurrezione...». La domanda circa
ulteriori possibili acclamazioni di saluto per il Signore venuto
e che sta per venire è però posta, e per me è evidente che non
c'è acclamazione più adeguata e più profonda, e allo stesso
tempo più suffragata dalla tradizione, che appunto questa: sia
benedetto Colui che viene nel nome del Signore. La separazione di
Sanctus e Benedictus è cioè non necessaria, ma
altamente sensata. Se il Sanctus e il Benedictus vengono
cantati insieme dal coro l'interruzione tra il prefazio e il
canone può in effetti diventare troppo lunga, cosicché non è
più utile all'entrata silenziosa e compartecipe nella cosmica
liturgia di lode, poiché la tensione interiore non resiste. Se
invece dopo la transustanziazione vi è ancora spazio per un
silenzio pieno e un interiore saluto al Signore, ciò corrisponde
assai profondamente all'intima struttura dell'evento.
La messa al bando, da parte dei maestri di cappella, di una tale
suddivisione, sorta non senza fondamento durante lo sviluppo
storico, la si dovrebbe dimenticare il più presto possibile.
Ancora una parola sull'Agnus Dei. Nel duomo di
Ratisbona è divenuto usuale che dopo lo scambio del segno di
pace il triplice Agnus Dei venga detto dapprima dal prete
e dal popolo insieme. Dal coro viene poi ulteriormente eseguito
durante la distribuzione della Comunione, come canto di Comunione.
Di fronte a ciò si sostenne che l'Agnus Dei fa parte
dello spezzare del pane. Solamente un arcaismo completamente
fossilizzato può trarre da questa sua originaria destinazione ad
accompagnare il momento dello spezzare il pane, la conseguenza
che debba venir cantato esclusivamente a questo punto. Di fatto
già nel nono e nel decimo secolo, allorché i riti antichi dello
spezzare del pane non erano più necessari, a causa delle ostie
nuove, è divenuto un canto di Comunione. Jungmann accenna al
fatto che già nel primo medioevo veniva cantato solo un Agnus
Dei dopo il saluto di pace, mentre il secondo e il terzo
trovarono il loro posto dopo la Comunione e così accompagnavano
la distribuzione della Comunione, là dove aveva luogo. (31)
E l'invocazione della misericordia di Cristo, l'Agnello di Dio,
non è forse sensata proprio nel momento in cui Egli come agnello
senza difesa si consegna nuovamente nelle nostre mani, Egli, l'immolato
ma anche trionfante agnello di Dio, che tiene in mano le chiavi
della storia (Ap 5)? E l'invocazione della pace fatta a lui, l'indifeso,
e come tale il vincitore, non è forse particolarmente indicata
nel momento in cui si riceve la Comunione, giacché pace era
proprio una delle denominazioni dell'Eucaristia nella Chiesa
antica, poiché essa abbatte i confini tra terra e cielo, tra
popoli e stati, e unisce gli uomini nell'unità del corpo di
Cristo?
La tradizione di Ratisbona e la riforma conciliare e post-conciliare
appaiono ad un primo sguardo come due mondi contrapposti, che
urtano l'un contro l'altro in un duro contrasto. Chi è stato per
tre decenni in mezzo ad essi può sentire sulla sua pelle la
durezza delle questioni poste. Ma se questa tensione viene
sopportata, si vede che un unico cammino. Solo se le si tiene
assieme l'una con l'altra tutte queste tappe costituiscono allora
giustamente comprese e si sviluppa la vera riforma nello spirito
del Vaticano II. Una riforma che non è frattura e distruzione,
ma purificazione e crescita in direzione di una nuova maturità e
di una nuova pienezza.
Al maestro di cappella del duomo, che ha sopportato questa
tensione, vanno i ringraziamenti: questo è stato non solo un
servizio a Ratisbona e al suo duomo, ma un servizio alla Chiesa
intera.
J. Ratzinger
______________________________________________
Note:
* Ho consapevolmente mantenuto il linguaggio colorito di questa conferenza tenuta in occasione del congedo di mio fratello dall'incarico di maestro di cappella del duomo di Ratisbona, per la ragione che è proprio nel caso concreto che, a mio avviso, si possono chiarire e spiegare al meglio le cose fondamentali.
(1) Cfr. su ciò H. Stampfer, H. Walder, Die Kripten von Marienberg im Vinschgau, Bolzano 1982.
(2) Importante sul tema della «vita angelica» J. Leclercq, Wissenschaft und Gottverlangen, Düsseldorf 1963, p. 70 (orig. franc. Amour des lettres et désir de Dieu, Paris 1953). Cfr. anche H. Stampfer - H. Walder, loc. cit., p. 20.
(3) H. Schützeichel, Wohin soll ich mich wenden? Zur Situation der Kirchenmusik im deutschen Sprachraum, in StdZ 209 (1991), pp. 363-374.
(4) Testo originale italiano in AAS 36 (190), pp. 329-339; trad. tedesca in HB. Meiyer, R. Pacik (a cura di), Dokumente zur Kirchenmusik unter besonderer Berücksichtigung des deutschen Sprachgebietes, Regensburg 1981, p. 23-34. Un implicito accenno a Regensburg (Ratisbona) lo si può trovare nell'introduzione a p. 24.
(5) Nell'introduzione al «Motu proprio» (p. 25) e in II 3 (pp. 27s.) si parla espressamente della partecipazione attiva dei fedeli come di un fondamentale principio liturgico. G. Romanato, Pio X. La vita di Papa Sarto, Milano 1992, disegna la preistoria del «Motu proprio» nella biografia di Pio X: nel seminario di Padova egli aveva diretto la «Schola cantorum», e in un quaderno che portava con sé ancora da patriarca di Venezia aveva steso alcune note sull'argomento. Come vescovo di Mantova aveva speso molto tempo ed energie, durante la riorganizzazione del Seminario, per la «scuola di musica». Lì imparò a conoscere anche Lorenzo Perosi, che gli rimase molto amico e che dal suo studio a Regensburg aveva ricevuto impulsi determinanti per la sua opera di musicista. A Venezia proseguì l'incontro con Perosi. Lì pubblicò nel 1895 una lettera pastorale, che si basa su uno scritto che nel 1893 egli aveva inviato alla Congregazione dei Riti e quasi alla lettera anticipa il «Motu proprio» del 1913 (pp. 179ss.; pp. 213s.; pp. 247s.; p. 330).
(6) Romanato, op. cit., p. 247, rinvia anche al giudizio di R. Aubert, che ha definito Pio X come il più grande riformatore della vita interna della Chiesa dal tempo del concilio di Trento.
(7) Schützeichel, op. cii., pp. 363-366.
(8) Catechismo della Chiesa Cattolica, 1069.
(9) Ibid.
(10) Ibid., 1097.
(11) Cfr. Costituzione liturgica, 8; vedi anche la nota seguente.
(12) Catechismo, 1090; Costituzione liturgica, 8. Il Catechismo ricorda che la stessa idea è stata espressa anche nella Costituzione sulla Chiesa, 50, ultima frase.
(13) P. Harnoncourt, Gesang und Musik ivi Gottesdienst, in H. Schützeichel, Die Messe. Ein kirchenmusikalisches Handbuch, Düsseldorf 1991, pp. 9-25, citazione di p. 13.
(14) Op. cit., 17.
(15) Op. cit., p. 336.
(16) Op. cit., p. 24.
(17) De dominjca oratione, 4, CSEL, III,1 (a cura di Hartel), pp. 268s.
(18) Op. cit., p. 17.
(19) Cfr. su questo il lavoro meticoloso di W. Menke, Stellvertretung. Schlüsselbegriff christlichen Lebens und theologische Grundkategorie, Einsiedeln-Freiburg 1991.
(20) Op. cit., p. 21.
(21) E.J. Lengeling, Die neue Ordnung der Eucharistiefeier, Regensburg 19712, p. 234. Cfr. B. Jeggle-Merz, H. Schützeichel «Eucharistiefeier» in H. Schützeichel, Die Messe (vedi nota 13), pp. 90- 151, qui pp. 109s.
(22) Cfr. K. Onasch, Kunst und Liturgie deir Ostkirche, Wien-Köln-Graz 1984, p. 329.
(23) Cfr. J.A. Jungmann, Missarum sollemnia II, Freiburg 1952, pp. 168ss.
(24) Ibid., p. 174.
(25) Ibid., pp. 175s.
(26) Ibid., p. 172.
(27) Cfr. K. Onasch, op. cit., p. 329; Jungmann, op. cit., p. 166. In san Clemente (Ad Cor., 34) si trova già anche il collegamento di Ger 6 con Dn 7,10, che è presupposto nella composizione del Sanctus liturgico; è precisamente quella visione che abbiamo trovato nelle immagini di Marienberg: «Facciamo attenzione a come tutta la schiera dei suoi angeli sta presso di lui». Sulla datazione di 1 Clem. cfr. Th.J. Herron, The dating of the first epistle of Clemens to the Corinthians, Roma 1988. Herron tenta di mostrare che 1 Clem. non è da datare nel 96 dopo Cristo circa, ma piuttosto attorno al 70.
(28) Jungmann, op. cit., pp. 170s. (note 41 e 42).
(29) Jungmann, op. cit., p. 171, nota 42. Cfr. R. Pesch, Das Markusevangelium, II, Freiburg 1977, p. 184.
(30) Cfr. Jungmann, op. cit., p. 165. In questo contesto può interessare l'accenno al fatto che il «Motu proprio» di Pio x del 1903 in III, 8 (p. 29) insiste sul fatto che nei canti della S. Messa possono essere impiegati solo i testi liturgici. Solo «una» eccezione viene ammessa: conformemente all'uso della Chiesa di Roma dopo il Benedictus della Messa Solenne può venir cantato un mottetto al Santissimo sacramento.
(31) Op. cit., pp. 413-422.