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La Sera si Mangia Leggero

Febbraio. Avevo deciso di fare un’ascensione invernale in solitaria, un po’ perché volevo restare solo con me stesso, e poi perché volevo mettere alla prova i miei nervi, imborghesiti dopo tante ascensioni ordinarie.
Avevo saputo che nel massiccio del Monte Bianco le condizioni erano ideali per una via su ghiaccio. Avevo accantonato il Superculoir ed anche le vie sul Triangle du Tacul perché volevo una Nord vera. Mi attirava il bacino dell’Argentière, per quel misto di paura e di eccitazione che mi ha sempre provocato. Ricordo il mal di pancia dovuto alla tensione durante l’avvicinamento alla Nord delle Courtes, ormai tanti anni fa.
Ora però la mia fame doveva essere saziata con una via più completa: non solo ghiaccio, avevo voglia di misto. Le Droites erano lì ad aspettarmi, ma non mi facevano sufficientemente paura. C’è però una parete, in fondo al Glacier de l’Argentiére, che non sono mai riuscito a guardare senza provare un senso di terrore. Non è solcata da vie famose come quelle delle vicine pareti Nord. Non è stata oggetto di prime ascensioni da parte di Cassin e Messner non l’ha mai considerata per un exploit di velocità in solitaria, ma la parete è lì a dominare tutta la valle: è la Nord del Trifolet.
Era dall’autunno che avevo cominciato a documentarmi seriamente sulle vie di salita della parete, e ad esaminare decine di fotografie. Durante un’arrampicata in falesia in uno strano, caldo pomeriggio di metà novembre avevo addirittura conosciuto un tizio che aveva salito l’oggetto dei miei desideri una decina di anni prima. Mi aveva raccontato la sua esperienza e si era perfino spinto a darmi qualche consiglio. In verità mi sembrava più uno sbruffone che un alpinista “duro e puro”, come deve necessariamente essere chi affronta una Nord nel bacino dell’Argentiére, per cui non avevo dato troppo peso alle sue parole.
La Nord del Trifolet restava lì ad aspettarmi, sconosciuta. Rimaneva un enigma che avrei decifrato metro per metro, da solo con le mie capacità, la mia attrezzatura, i miei pensieri. Restava solo da decidere la musica per il lettore MP3 che avrebbe bombardato le mie orecchie durante l’ascensione.
Se Mark Twight predilige il punk incazzato, io sono per il rock impegnato di casa nostra: i Modena City Ramblers avrebbero fatto al caso mio.

Superata Chamonix in uno splendido sabato mattina, con un cielo terso come solo l’inverno sa regalare, avevo preso la funivia dei Grand Montets. La mia attrezzatura poteva contare su un sacco da bivacco, un sacco a pelo, un fornelletto, cibo a volontà, due piccozze tecniche, due mezze corde da 60 metri, quindici viti da ghiaccio, altrettanti moschettoni, un paio di ramponi controllati un centinaio di volte… non volevo lasciare nulla al caso.
Scendendo verso il ghiacciaio dell’Argentiére mi ero lasciato alle spalle la folla di sciatori e di semplici curiosi che salgono a far fotografie oltre i 3.000 metri di quota. Mentre mi preparavo avevo scambiato due parole con un ragazzo rumeno che voleva salire in solitaria la Verte. Lo avevo visto un po’ confuso, non sapeva esattamente quale via seguire. “C’est mieux l’arrete ou la Nord?” mi aveva chiesto con uno sguardo perso. Solo uno sprovveduto poteva fare una domanda simile: l’attrezzatura e soprattutto le capacità alpinistiche necessarie sono completamente diverse nelle due alternative che stava considerando. A confermare la scarsa considerazione che avevo in quel tipo c’era il fatto che aveva uno zaino troppo grosso, che lo avrebbe rallentato anche su un terreno semplice. Ad ogni modo appena terminato di preparare il mio zaino lo avevo salutato, piuttosto dubbioso sulle capacità di quel tizio. In ogni caso non mi è capitato di leggere nessun articolo di incidenti sull’Aiguille Verte nei giorni successivi, per cui penso che abbia rinunciato. E se non lo ha fatto, che Dio lo abbia in gloria.
Passando sul ghiacciaio ad un centinaio di metri di distanza dal Réfuge de l’Argentiére, avevo visto quattro persone sulla veranda. Due cordate che il giorno successivo sarebbero probabilmente state impegnate sulle Courtes. Dubitavo che chi ha le palle per venire in questo posto d’inverno potesse poi decidere di salire la normale all’Aiguille de l’Argentiére. Esaminando le alternative… per fare la Nord delle Droites in febbraio ci vuole un sangue freddo eccezionale, che non si compra in saldo nei negozi sportivi di Chamonix.
Uno che aveva sangue freddo era Jean Cristophe Lafaille. Anni fa avevamo cenato a pochi metri di distanza proprio al rifugio dell’Argentiére, e la mattina successiva lo avevo visto partire per le Droites. Quando ho saputo della sua morte sul Makalu mi è veramente dispiaciuto, aveva dato molto all’alpinismo ed ancora molto aveva da dare.
Ad ogni modo l’unica cosa che in quel momento speravo in cuor mio era che quei quattro l’indomani non avessero intenzione di andare al Trifolet, in modo da lasciarmi solo con la “mia” parete.

Avevo deciso di dormire sul ghiacciaio, alla base della via. Contavo sulle capacità, attitudini e buona volontà del sacco da bivacco e soprattutto del sacco a pelo, testati per i -20°C, per poter trascorrere una notte sopportabile, se non confortevole.
Alle cinque di pomeriggio le rocce circostanti mi vedevano già sorseggiare il minestrone appena cucinato sul fornelletto a gas. Avevo poi cioccolato a volontà, perché anche il palato di un alpinista vuole la sua parte, e bustine di the a sufficienza per dissetare un reggimento di fanteria britannico perso nel Sahara.
Alle sette di sera l’oscurità era totale. Rinchiuso nel sacco a pelo, le note di “Quarant’anni” nelle orecchie, ero preparato ad una lunga notte di attesa. Avevo intenzione di uscire dal mio nido caldo solo dopo le cinque di mattina, in modo da attaccare la parete prima delle sei. Contavo di superare i primi due tiri di ghiaccio verticale in auto-assicurazione nell’arco di un’ora al massimo. In solitaria, avrei dovuto ripetere ogni tiro tre volte: la prima arrampicando, la seconda in calata togliendo le protezioni lasciate lungo la linea di salita, la terza di nuovo verso il cielo con l’aiuto delle jumar.
Sopra il couloir che solca i primi 100 metri di parete c’è una fascia rocciosa che copre un dislivello di circa 400 metri, difficoltà variabili tra il V ed il VI, gradi che consideravo “alpinismo classico”, lontani dalle difficoltà pure da falesia e dalle recenti vie di ABO che stanno diventando sempre più numerose anche nelle Alpi. Si trattava dei quindici tiri di corda che mi preoccupavano di più, un po’ perché arrampicare sul VI con roccia fredda ed incrostata di ghiaccio non è esattamente come passare un pomeriggio a Finale Ligure, un po’ perché procedendo in auto-assicurazione la progressione sarebbe stata notevolmente rallentata.
Il mio obiettivo era quello di uscire dalla fascia rocciosa in non più di cinque ore, per poter affrontare con tranquillità il tratto ghiacciato che porta in vetta. L’inclinazione media degli ultimi 300 metri sarebbe stata di 60°-70°, e li avrei affrontati slegato se le condizioni del ghiaccio fossero state buone.
Morale della favola è che il mio obiettivo era quello di arrivare in vetta verso le quattro di pomeriggio, comprese un paio di soste per riprendere fiato, bere un litro di earl grey ed ingurgitare una barretta energetica al gusto di frutti di bosco. Contavo di scendere dalla normale sul versante opposto e di raggiungere un segno di civiltà nella forma di quattro mura, un tetto ed un piatto di pasta entro sera.

Non riuscivo a prendere sonno, nonostante avessi abbassato il volume della musica. Forse era colpa delle parole di “La banda del sogno interrotto”, che non funzionavano come ninna nanna.
Non c’era nessun segno di luce di lampade frontali sulle pareti circostanti, segno che non c’era nessuno in giro impegnato in un bivacco più scomodo del mio. Alle quattro di mattina non mi ero ancora addormentato, per cui potevo dire di aver passato la notte in bianco. Fatte queste considerazioni avevo deciso di anticipare la sveglia di un’ora.
Senza togliere le gambe dal sacco a pelo avevo preparato l’ennesimo the. Stranamente mi ero ricordato di mettere un pezzo di cioccolato nella tasca del pile in wind stopper, in modo da evitare di trasformare il prezioso elemento nutritivo in un blocco della consistenza del granito che avrei toccato di lì a poco.
La migliore colazione del mondo: the e cioccolato alla base della via che stavo per salire. Il fatto che la temperatura fosse probabilmente vicina ai -10°C contribuiva a dare un ulteriore tocco di magia alla situazione. Nessun English breakfast in un albergo a cinque stelle può reggere il confronto.

Mi ero imbragato e legato con calma. Avevo attrezzato la sosta alla base della via la sera precedente, in modo da risparmiare qualche minuto. Un chiodo ed un friend per la mia auto-assicurazione. Il gri-gri in vita completava l’attrezzatura che aveva il compito di fermare un’eventuale caduta.
Le punte delle piccozze entravano qualche millimetro nella sottile striscia di ghiaccio che aveva trasformato i primi due tiri in una via di misto, mentre in estate la roccia era completamente asciutta.
Piccozza, piccozza, rampone, rampone, tac, tac, tac, tac… i primi 50 metri scorrevano velocemente. Arrivato al termine del tiro avevo attrezzato la sosta su tre viti da ghiaccio, come da manuale di alpinismo. Mi ero calato fino alla base della via togliendo le sei viti piazzate lungo il tiro. Quindi mi ero caricato in spalla lo zaino ed ero risalito, con l’aiuto delle due maniglie jumar che avevano l’opportunità di farsi perdonare il peso forse eccessivo trasportato sulle spalle il giorno prima.
Il secondo tiro era la fotocopia del primo, e mi aveva portato come previsto alla base della fascia rocciosa. Mi ero tolto i guanti che di solito usavo sulle cascate di ghiaccio ed avevo indossato un paio di guanti in pile molto più leggeri, con le dita tagliate all’altezza della prima falange, per poter mantenere un contatto diretto con la roccia.
Faceva veramente freddo, e ben presto le dita avevano perso sensibilità. Non mi vergognavo di martellare qualche chiodo di troppo e di piazzare un fiend per superare i passaggi più delicati, che spesso trasformavo in A0 tirando le protezioni. La cosa bella di quando si arrampica da soli è che alla fine del tiro nessuno ti chiede: “Lo hai fatto in libera?”.
Il dodicesimo tiro su roccia era stato il più difficile. Un VI con le fessure completamente incrostate di ghiaccio e gli appoggi per i piedi resi scivolosi da un sottile strato di nevischio. Arrampicavo con gli scarponi con lo scafo in plastica, che non erano certo il massimo su quel terreno, ma almeno mi consentivano di tenere i piedi al caldo e mi sarebbero tornati utili quando, un centinaio di metri più in alto, avrei di nuovo ricominciato con il ghiaccio.

Alle undici di mattina ero arrivato al termine della parte rocciosa della via, leggermente in anticipo sui tempi previsti. Ne avevo approfittato per scolarmi un thermos di the e per gustare i frutti di bosco della barretta energetica.
Mentre calzavo nuovamente i ramponi mi sentivo sereno, oserei dire felice. Avevo ormai superato quella che consideravo la parte più difficile della via, ed ora mi restava il pendio ghiacciato che conduceva in vetta.
Avevo fatto diverse cascate nell’inverno, per cui mi sentivo tranquillo, forte del mio allenamento.
Ero contento di poter indossare nuovamente quelli che chiamavo “i miei guanti da Himalaya”, e le dita delle mani sembravano ringraziarmi.
Il primo tiro era sui 70°, per cui avevo deciso di auto-assicurarmi. Poi la pendenza sarebbe diminuita a 60°, quindi sarei probabilmente salito slegato.
Avevo deciso di lasciar scorrere le due corde sotto di me, un capo legato all’imbragatura ed uno libero di penzolare nel vuoto.
Ricordavo ancora lo stupore di un tizio quando, sbucato in vetta rompendo una cornice, lo avevo quasi spaventato. Mi aveva poi osservato mentre recuperavo le corde. Velocemente… troppo velocemente. Quando dalla cornice di neve erano sbucati due capi liberi al poveretto era quasi venuto un infarto. Forse avrà pensato che mi ero perso il compagno di cordata lungo la via.
Fatti i primi metri su ghiaccio ero felice di constatare che le punte delle piccozze e dei ramponi entravano senza problemi in una sostanza bianca e solida. Condizioni perfette quindi.
Avevo ripetuto il tiro tre volte, come vuole la tecnica di auto-assicurazione comunemente accettata nel mondo alpinistico, ed avevo confermato dentro di me la decisione di proseguire slegato.
L’unica cosa che mi preoccupava era il peso dello zaino, che conteneva il materiale da bivacco ed il fornelletto, ma mi sentivo in ottime condizioni fisiche e soprattutto mentali.
Salivo lentamente ma senza soste, segno che la forma fisica non era stata compromessa dalle diverse ore di arrampicata al freddo. Fatti circa 200 metri slegato ero riuscito a scorgere distintamente sopra di me la cornice di vetta. Sporgeva per poco più di un metro, o almeno così mi sembrava.
Avevo deciso di continuare a salire senza assicurazione fino a quando avrei dovuto affrontare il passaggio finale. In quel momento avrei valutato la necessità di auto-assicurarmi.

Avevo ripreso a salire quando, fatti pochi metri, avevo sentito il rumore di un’esplosione proveniente dall’alto.
Non poteva essere altro che la cornice soprastante, che stava franando verso il basso.
Non avevo tempo di pensare perché quel blocco di ghiaccio avesse deciso di crollare in una giornata così fredda, quando ogni cosa dovrebbe rimanere saldamente incollata alla parete.
Non avevo nemmeno guardato verso l’alto, e mi ero appiattito come potevo al pendio.
Avevo cercato di fissare le piccozze il più saldamente possibile nel ghiaccio, ed avevo chiuso i pugni sui due manici come non avevo mai fatto in precedenza.
Mentre le parole di “Il vagabondo stanco” mi risuonavano nelle orecchie, il primo blocco di ghiaccio aveva colpito lo zaino e mi aveva sbilanciato. Mentre il mio petto si allontanava dal bianco della parete un secondo pezzo di ghiaccio mi aveva preso in pieno volto, e tutto era diventato nero.
Capivo che stavo cadendo, inevitabilmente.
In meno di trenta secondi avevo ripercorso tutta la via, salita in nove ore, e mi ero spiaccicato alla base della parete.

Mi sono svegliato sudato, col respiro in affanno. Ho allungato la mano ed acceso la lampada sul comodino: l’orologio indica le tre e un quarto. Lo sapevo che non dovevo mangiare la pizza con i peperoni ieri sera, adesso ho una sete tremenda. E poi la combinazione di pizza e peperoni ha l’effetto di provocarmi strani sogni, questo almeno lo ricordo bene così ho potuto trascriverlo. Per il futuro ho un proposito: la sera si mangia leggero.


Fortunatamente tutti i fatti, pensieri, parole, opere ed omissioni descritti in questo racconto
sono frutto della mia fantasia malata. Il nome della montagna è la storpiatura del vero
nome di una delle più maestose cime del gruppo del Monte Bianco, che non ho mai avuto
il coraggio di affrontare.
Mi scuso se con queste righe ho urtato la sensibilità di qualcuno, e spero che qualcun altro
invece le abbia apprezzate. E se invece non vi sono piaciute, cazzi vostri.


Silvano Sala Tesciat
17 febbraio 2007

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