Ragione:

 

PROLUSIONE
Allargare gli spazi della razionalità proponendo «un dialogo, anzi un nuovo incontro della fede cristiana con il nostro tempo». L’analisi del presidente della Cei

Ruini e la ragione rivelata a se stessa

Il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona e la proposta del filosofo Habermas: due «ipotesi» per un'alleanza tra filosofia e religioni, ma molto diverse. La prima vuol liberarsi della metafisica con la scienza; la seconda invece rinuncia all'idea di dominio
«La Bibbia riconcilia due dimensioni prima separate, cioè il Dio eterno di cui parlavano i pensatori e il bisogno di salvezza che l’uomo porta dentro di sé. Il Creatore cristiano è il Dio della metafisica, ma anche della storia, entra cioè nel più intimo rapporto con noi»
 

 
di Camillo Ruini
 

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Nel Progetto culturale si esprime in veste laicale la «missionarietà dell’intero popolo di Dio». Un vero e proprio «apostolato o diaconia delle coscienze esercitati esplicitando le ragioni della propria fede e traducendo in comportamenti effettivi e visibili la propria coscienza cristianamente formata». Così il cardinale Camillo Ruini, presidente della Cei, ha aperto ieri i lavori dell’ottavo Forum del Servizio nazionale per il Progetto culturale, il primo che si svolge dopo il Convegno nazionale di Verona. I lavori, che si concludono nella mattinata di oggi, vertono sul tema «La ragione, le scienze e il futuro delle civiltà». Oltre a toccare la questione centrale del rapporto tra fede e ragione – come esemplificato dal Papa nel discorso di Ratisbona e analizzato con una serrata critica alle posizioni del filosofo tedesco Jürgen Habermas (pubblichiamo in questa pagina ampi stralci dei passaggi della prolusione dedicati a tale tema) – il porporato ha fatto una sorta di bilancio sul metodo utilizzato nell’appuntamento scaligero. Con i cinque ambiti (affettività, lavoro e festa, tradizione, fragilità, cittadinanza) è stata portata – ha detto Ruini – una novità che «non solo "adatta" la pastorale all’attuale contesto socio-culturale, ma corrisponde all’indole profonda dell’esperienza cristiana, caratterizzata da un’attenzione primaria alla persona e alla sua concreta situazione di vita».


Prima del Convegno di Verona c'era stato il discorso di Ratisbona, con le successive polemiche sull'islam e sui suoi rapporti con la ragione e con la violenza, oltre che con il cristianesimo. Molto meno si è discusso del vero tema di quel discorso, che è incentrato sull'affermazione che «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio» e sfocia nel programma di allargare gli spazi della razionalità, proponendo così un dialogo, anzi un nuovo incontro della fede cristiana con la ragione del nostro tempo. Pochi giorni fa Jürgen Habermas, ultimo dei grandi rappresenta nti della scuola di Francoforte ed autorevole interlocutore dell'allora cardinale Ratzinger nel dibattito avvenuto il 19 gennaio 2004 a Monaco di Baviera ed edito anche in italiano dalla Morcelliana, ha rilanciato (in un articolo pubblicato parzialmente su Il Sole 24 Ore del 18 febbraio con il titolo «Alleati contro i disfattisti», che uscirà integralmente nel prossimo numero della rivista Teoria politica) la proposta di un'alleanza tra la ragione illuminata, ossia «la coscienza rischiarata della modernità» e «la coscienza teologica delle religioni mondiali», al fine di «mobilitare la ragione moderna contro il disfattismo che le cova dentro» e che si manifesta «sia nella declinazione post moderna della "dialettica dell'illuminismo" sia nello scientismo positivistico». Secondo Habermas, la ragione moderna può facilmente venire a capo di questo disfattismo sul piano strettamente teorico, ma, nella situazione concreta, non su quello della ragione pratica: essendo venuta meno la garanzia della filosofia della storia, essa comincia infatti a «dubitare della forza motivazionale delle sue buone ragioni».
Qual è però il tipo di alleanza che Habermas propone? Non «ambigui compromessi tra ciò che resta inconciliabile», ossia tra la prospettiva antropocentrica della ragione moderna e quella derivante dal pensiero geocentrico e cosmocentrico. Se le due ragioni o coscienze vogliono davvero parlare l'una con l'altra (e non solo l'una dell'altra), le religioni devono riconoscere l'autorità della ragione "naturale" (le virgolette sono di Habermas), vale a dire i fallibili risultati delle scienze nonché i principi universalistici dell'egualitarismo giuridico, mentre la ragione secolare non deve impancarsi a giudice delle verità religiose, anche se resta vero che essa, «da ultimo, accetta per "ragionevole" soltanto ciò che si mostra traducibile nei suoi discorsi», che devono essere, almeno idealmente, accessibili a tutti. In concreto si tratta di una ragione c he la scienza moderna ha costretto a sbarazzarsi per sempre della metafisica, limitando la filosofia «alle sole competenze generali dei soggetti di conoscenza, linguaggio e azione». È stata spezzata pertanto, secondo Habermas, la sintesi di fede e ragione costruita a partire da sant'Agostino fino a san Tommaso. La filosofia moderna ha saputo così appropriarsi criticamente dell'eredità del pensiero greco (cioè appunto anzitutto della metafisica), ma ha drasticamente respinto da sé il sapere giudaico-cristiano della salvezza, ossia la rivelazione e la religione. Non si tratta di incollare adesso questo strappo, ma di capire che la ragione secolare supererebbe l'attuale opacità del proprio rapporto con la religione se prendesse sul serio quell'origine comune di filosofia e religione che rinvia alla rivoluzione dell'immagine del mondo che accadde a metà del primo millennio avanti Cristo. Solo comprendendo entrambe le tradizioni che risalgono ad Atene e a Gerusalemme come facenti sostanzialmente parte della propria genesi storica, la ragione secolare potrà comprendere pienamente se stessa e i suoi figli (Habermas intende sia i credenti sia i non credenti) potranno accordarsi circa la loro identità e posizione nel mondo.
Su queste basi, nell'ultima parte del suo articolo, Habermas critica il discorso di Ratisbona, con il quale Benedetto XVI avrebbe dato una piega sorprendentemente antimoderna al dibattito su ellenizzazione o deellenizzazione del cristianesimo, e in tal modo una risposta negativa alla domanda se i teologi cristiani debbano sforzarsi di venire a capo delle sfide suscitate da una ragione moderna e dunque postmetafisica. Richiamandosi alla sintesi di metafisica greca e fede biblica elaborata a partire da Agostino fino a Tommaso, Benedetto XVI negherebbe la bontà delle ragioni che hanno prodotto nell'Europa moderna una polarizzazione tra fede e sapere. Per quanto egli affermi di non voler «tornare dietro l'illuminismo e congedarsi dalle scienze moderne», mos tra tuttavia «di voler respingere la forza degli argomenti contro cui quella sintesi metafisica ha finito per infrangersi». Habermas conclude che non gli sembra vantaggioso «mettere tra parentesi - escludendole dalla genealogia di una "ragione comune" di credenti, non credenti e altrimenti credenti - quelle tre spinte di deellenizzazione (cfr. il discorso di Regensburg) che hanno contribuito a far nascere l'idea moderna della ragione secolare».

Mi sono soffermato a lungo su questo intervento di Habermas perché esso ci permette di cogliere con precisione i veri nodi del dialogo-confronto-nuovo incontro tra fede cristiana e razionalità contemporanea, sui quali Joseph Ratzinger-Benedetto XVI si è cimentato da ultimo nel discorso di Ratisbona ma fin dalla sua prolusione del 1959 all'Università di Bonn, dedicata al Dio della fede e al Dio dei filosofi, che sta finalmente per uscire in italiano presso la Marcianum Press, e poi attraverso tutto il suo lavoro teologico, da Introduzione al cristianesimo fino a Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo e a L'Europa di Benedetto nella crisi delle culture, ed ora nei suoi interventi come Pontefice.
È impossibile non rilevare nel discorso di Habermas un paio di "precomprensioni" abbastanza datate e oserei dire anacronistiche, che mostrano come anche un pensatore di alto livello e proteso alla ricerca di un'alleanza con il pensiero cristiano rimanga tuttora condizionato nel suo approccio ad esso. La prima è il ricondurre la fede e la teologia cristiana alle prospettive derivanti dal pensiero geocentrico e cosmocentrico. Basterebbe ricordare in proposito l'enciclica Dives in misericordia, n.1, dove Giovanni Paolo II affermava invece che la prospettiva del cristianesimo è simultaneamente e inseparabilmente antropocentrica e teocentrica, formulando questa precisa diagnosi: «Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l'antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell'uomo in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del Magistero dell'ultimo Concilio».
La seconda precomprensione di Habermas sta nel ritenere che la sintesi tra metafisica greca e fede biblica sia stata elaborata a partire da Agostino per arrivare a Tommaso. Proprio nel discorso di Ratisbona Benedetto XVI ci ha detto che con l'affermazione «In principio era il lógos» l'evangelista Giovanni «ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio», nella quale «tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi», e pertanto l'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco «non era un semplice caso», ma aveva invece una sua «necessità intrinseca». A Ratisbona il Papa presenta con brevi parole le fasi di sviluppo di questo processo, a partire dall'«Io sono» con cui Dio si rivela a Mosé nel roveto ardente, ma ad illustrare e fondare tutto ciò Ratzinger ha dedicato a più riprese molte pagine, nei libri che ho già ricordato. In virtù di questa sintesi già il primo Concilio ecumenico, quello dell'anno 325 a Nicea, assai prima che Agostino nascesse, poteva affermare solennemente che il Figlio è «consustanziale» (omooúsios) al Padre, come professione di fede vincolante per tutti i credenti in Cristo. Ho formulato un piccolo riassunto di questi punti del lavoro teologico di Ratzinger - dando anche i riferimenti bibliografici - nella relazione che ho tenuto ai sacerdoti di Roma il 14 dicembre scorso e che sarà pubblicata a brevissimo termine presso le edizioni Cantagalli, in un libretto dal titolo Verità di Dio e verità dell'uomo.
Qui mi preme piuttosto chiarire un interrogativo, avanzato anzitutto in ambito cattolico, su come si con cili l'affermazione secondo la quale «In principio era il lógos» è «la parola conclusiva del concetto biblico di Dio« con l'altra, posta a titolo dell'enciclica di Benedetto XVI Deus caritas est, che Dio è agápe (1 Gv 4,8.16) e in concreto che «all'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, 1). Certo, si può e si deve anzitutto precisare che in Dio lógos e agápe, ragione-parola e amore, si identificano, ma Ratzinger-Benedetto XVI non si limita a questo. Per lui il legame intrinseco tra la fede biblica e l'interrogarsi greco è soltanto una metà del discorso: l'altra metà è costituita dalla novità radicale e dalla diversità profonda della rivelazione biblica rispetto alla razionalità greca, anzitutto riguardo al tema centrale della religione che è Dio. Il Dio della Bibbia supera infatti radicalmente ciò che i filosofi avevano pensato di Lui, non soltanto perché Egli, in quanto Creatore sommamente libero, è distinto dalla natura in un modo ben più decisivo di quel che poteva avvenire nella filosofia greca, ma soprattutto perché questo Dio non è una realtà a noi inaccessibile, che noi non possiamo incontrare e a cui sarebbe inutile rivolgersi nella preghiera, come ritenevano i filosofi. Al contrario, il Dio biblico ama l'uomo e per questo entra nella nostra storia, dà vita ad un'autentica storia d'amore con Israele, suo popolo, e poi, in Gesù Cristo, non solo dilata questa storia di amore e di salvezza all'intera umanità ma la conduce all'estremo, al punto cioè di «rivolgersi contro se stesso», nella croce del proprio Figlio, per rialzare l'uomo e salvarlo, anzi per chiamarlo ad un'intima unione di amore con Lui. È questo il senso in cui il Dio biblico è agápe, amore che si dona gratuitamente, ed è anche eros, amore che vuole unire intimamente l'uomo a sé (cfr. Deus carita s est, 9-15). Così la fede biblica riconcilia tra loro quelle due dimensioni della religione che prima erano separate l'una dall'altra, cioè il Dio eterno di cui parlavano i filosofi e il bisogno di salvezza che l'uomo porta dentro di sé e che le religioni pagane tentavano in qualche modo di soddisfare. Il Dio della fede cristiana è dunque sì il Dio della metafisica, ma è anche, e identicamente, il Dio della storia, il Dio cioè che entra nella storia e nel più intimo rapporto con noi. È questa, secondo Ratzinger, l'unica risposta adeguata alla questione del Dio della fede e del Dio dei filosofi.

Torniamo ora all'articolo di Habermas, per affrontare il punto centrale del suo dissenso dal discorso di Ratisbona e più ampiamente dall'impostazione di fondo del pensiero e dell'insegnamento di Benedetto XVI. Habermas persegue con sincerità personale e intellettuale un'alleanza tra ragione secolarizzata e "illuminata" e ragione teologica, ma in realtà concepisce questa alleanza su basi nettamente diseguali. Infatti, mentre la ragione teologica dovrebbe accettare l'autorità della ragione secolare postmetafisica, quest'ultima, pur non impancandosi a giudice delle verità religiose, «da ultimo» accetta come «ragionevole» soltanto ciò che si mostra traducibile nei suoi discorsi, quindi, alla fine, non le stesse verità religiose nel loro principio trascendente (il Dio che si rivela) e nel loro contenuto sostanziale e decisivo. Nella stessa linea "Gerusalemme" è accolta come facente parte, accanto ad "Atene", della genesi storica della ragione secolare, ma non come attualmente ragionevole. In ultima analisi Habermas non esce da quella "chiusura" su se stessa in cui Ratzinger vede il limite della ragione soltanto empirica e calcolatrice.
Ben diversamente aperta è invece la prospettiva dello stesso Ratzinger-Benedetto XVI. Egli infatti, a Ratisbona e più ampiamente in altri testi che ho già richiamato, sostiene sì con decisione che all'origine dell'universo vi è il Lógos creatore, sulla base dell'esame delle strutture e dei presupposti della conoscenza scientifica, e in particolare della corrispondenza che non può non sussistere tra la matematica - che è una creazione della nostra intelligenza - e le strutture reali dell'universo, dato che, se questa corrispondenza non ci fosse, le nostre previsioni matematiche e le nostre tecnologie non potrebbero funzionare: tale corrispondenza implica però che l'universo stesso sia strutturato in maniera razionale e pone la grande domanda se non debba esservi un'intelligenza originaria, fonte comune di questa realtà "razionale" e della nostra razionalità.
Anche con altre motivazioni Ratzinger mostra che la razionalità non può essere spiegata con l'irrazionale e che il soggetto umano non può essere ricondotto ad un oggetto né conosciuto adeguatamente attraverso i modi e i metodi con cui si conoscono gli oggetti. Egli è però pienamente consapevole non solo che questo genere di considerazioni e argomentazioni vanno al di là dell'ambito della conoscenza scientifica e si pongono al livello dell'indagine filosofica, ma anche che sullo stesso piano filosofico il Lógos creatore non è l'oggetto di una dimostrazione apodittica, ma rimane «l'ipotesi migliore», un'ipotesi che esige da parte dell'uomo e della sua ragione «di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell'ascolto umile». In concreto, specialmente nell'attuale clima culturale, l'uomo con le sue sole forze non riesce a fare completamente propria questa «ipotesi migliore»: egli rimane infatti prigioniero di una «strana penombra» e delle spinte a vivere secondo i propri interessi, prescindendo da Dio e dall'etica. Soltanto la rivelazione, l'iniziativa di Dio che in Cristo si manifesta all'uomo e lo chiama ad accostarsi a Lui, ci rende davvero capaci di superare questa penombra (cfr. L'Europa di Benedetto, pp. 59-60; 115-124).

Proprio la percezione di una tale «strana penombra» fa sì che l'atteg giamento più diffuso tra i non credenti oggi non sia propriamente l'ateismo - avvertito come qualcosa che supera i limiti della nostra ragione non meno della fede in Dio - ma l'agnosticismo, che sospende il giudizio riguardo a Dio in quanto razionalmente non conoscibile. La risposta che Ratzinger dà a questo problema ci riporta verso la realtà della vita: a suo giudizio infatti l'agnosticismo non è concretamente vivibile, è un programma non realizzabile per la vita umana. Il motivo è che la questione di Dio non è soltanto teorica ma eminentemente pratica, ha conseguenze cioè in tutti gli ambiti della vita. Nella pratica sono infatti costretto a scegliere tra due alternative, già individuate da Pascal: o vivere come se Dio non esistesse, oppure vivere come se Dio esistesse e fosse la realtà decisiva della mia esistenza. Ciò perché Dio, se esiste, non può essere un'appendice da togliere o aggiungere senza che nulla cambi, ma è invece l'origine, il senso e il fine dell'universo, e dell'uomo in esso. Se agisco secondo la prima alternativa adotto di fatto una posizione atea e non soltanto agnostica; se mi decido per la seconda alternativa adotto una posizione credente: la questione di Dio è dunque ineludibile (cfr. L'Europa di Benedetto, pp. 103-114). È interessante notare la profonda analogia che esiste, sotto questo profilo, tra questione dell'uomo e questione di Dio: entrambe, per la loro somma importanza, vanno affrontate con tutto il rigore e l'impegno della nostra intelligenza, ma entrambe sono sempre anche questioni eminentemente pratiche, inevitabilmente connesse con le nostre concrete scelte di vita.
Proprio nel considerare la prospettiva credente come un'ipotesi, sia pure quella migliore, che come tale implica una libera opzione e non esclude la possibilità razionale di ipotesi diverse, Ratzinger-Benedetto XVI si mostra sostanzialmente più aperto di Habermas e della «ragione secolare» di cui Habermas si pone come interprete: essa accetta infatti co me «ragionevole» soltanto ciò che si mostra traducibile nei suoi discorsi.
In questa "assolutizzazione" della ragione secolare abbiamo in qualche modo il corrispettivo, a livello teoretico, di quella "dittatura" o assolutizzazione del relativismo che si verifica quanto la libertà individuale, per la quale tutto è finalmente relativo al soggetto, viene eretta a criterio ultimo al quale ogni altra posizione deve subordinarsi (vedi la mia prolusione al Forum del 2 dicembre 2005).


 

 

Ragione: «PROLUSIONE. Allargare gli spazi della razionalità proponendo «un dialogo, anzi un nuovo incontro della fede cristiana con il nostro tempo». L’analisi del presidente della Cei. Ruini e la ragione rivelata a se stessa. Il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona e la proposta del filosofo Habermas: due «ipotesi» per un'alleanza tra filosofia e religioni, ma molto diverse. La prima vuol liberarsi della metafisica con la scienza; la seconda invece rinuncia all'idea di dominio «La Bibbia riconcilia due dimensioni prima separate, cioè il Dio eterno di cui parlavano i pensatori e il bisogno di salvezza che l’uomo porta dentro di sé. Il Creatore cristiano è il Dio della metafisica, ma anche della storia, entra cioè nel più intimo rapporto con noi» Camillo Ruini, Avvenire, 3.03.2007

 

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