Dio e
la guerra

«Pace, non bandiere»
 

La pace è una costruzione politica, il pacifismo no. E le ragioni della pace esigono il disarmo e il rispetto della risoluzione Onu 1441 da parte dell’Irak. Ecco cosa dirò oggi a colazione al mio amico Tarek Aziz: “Davvero il tempo è scaduto, ma non tutto è perduto se...”
 

 
di Roberto Formigoni,


Oggi incontrerò il Viceprimoministro irakeno Tarek Aziz. Il cristiano Tarek Aziz, l’uomo che ha sempre tenuto aperto il dialogo con l’Occidente e che io incontrai la prima volta nel 1990 (ero allora vicepreisdente del Parlamento Europeo) alla guida della prima delegazione occidentale che visitò i paesi arabi, dopo la crisi del Kuwait. L’uomo senza il quale, tredici anni fa, nell’imminenza della guerra del Golfo, non avrei riportato a Milano i 264 ostaggi italiani che il regime di Baghdad si preparava a dispiegare come scudi umani contro l’intervento militare. Mi rendo conto che davanti al formidabile e crescente dispositivo militare accumulato dagli Usa nell’area mediorientale il nostro tentativo per contribuire a una soluzione pacifica dell’attuale crisi si muove entro spazi politico-diplomatici molto angusti. Il building up militare che gli Stati Uniti vanno dispiegando contro l’Irak, sembra non concedere molte illusioni sul come si concluderà questa ennesima crisi nel Golfo Persico. D’altra parte, poiché non credo sia assurdo attendersi dei “miracoli” dalla ragione e dalla libertà umane, ritengo che, proprio nella considerazione dei rapporti che ho costruito in questi anni con alcuni uomini di Baghdad, sia mio dovere partecipare in ogni modo allo sforzo che stanno compiendo in queste ore le cancellerie internazionali - Papa e diplomazia vaticana in testa - per tentare di scongiurare un conflitto che potrebbe avere conseguenze devastanti per l’intera umanità.


Ci rendiamo conto del rischio di essere considerati dai nostri alleati americani come un problema in più rispetto allo schema, teoricamente giusto, del ricorso alla forza per risolvere una volta per tutte il caso Irak, cioè quello di un regime che sin qui non ha mostrato di voler rispettare gli obblighi di disarmo e ripristino della legalità internazionale formalmente assunti davanti alle Nazioni Unite. Ma vorrei anche che i nostri alleati capissero che non sempre gli schemi - per quanto possano essere studiati nei minimi dettagli – funzionano poi nella realtà. Specie in una realtà come quella mediorientale dove è davvero difficile prevedere con certezza gli effetti di una guerra che, dicono gli esperti, tra l’altro si stima potrebbe causare molte vittime.


Usa, baluardo della libertà
E' ragionevole, come ci si prospetta, lo spargimento di tanto sangue? E anche se queste stime risultassero infondate alla prova dei fatti, davvero la guerra contro Baghdad è una via obbligata, il “male minore” rispetto alle minacce rappresentate dal regime di Saddam Hussein? Non lo penso.
Voglio essere chiaro: la mia iniziativa è del tutto coerente e solidale all’azione politica sin qui svolta dal governo italiano. Azione politica che ha avuto e ha per obbiettivo la pace, che è schierata senza indugi sotto i vessilli dell’Onu, e che in un momento di grave divaricazione politica tra i vertici della Unione europea e l’alleato Usa, ha saputo riunire nove paesi della Ue sotto una chiara e netta posizione di fedeltà all’Alleanza Atlantica, a fianco di quegli Stati Uniti d’America che, pur nei limiti e negli errori che si convengono a tutte le Nazioni, rappresentano il baluardo dei popoli liberi e delle democrazie contro ogni forma di totalitarismo e di tirannia che pretendessero minacciare la libertà, la sicurezza e la pace nel mondo.

No al pacifismo irresoluto e nefasto
Nemmeno vorrei che il nostro tentativo di mediazione venisse confuso con certo pacifismo che, a mio parere, ha ben poco a che vedere con la ricerca di un’autentica pace fondata sulla giustizia. Conosciamo quali siano stati gli esiti nefasti di certo pacifismo che si mostrò debole e irresoluto in diverse occasioni storiche. Parlo non solo di quel pacifismo che al tempo del dilagare dell’occupazione nazista nel cuore dell’Europa si chiedeva se davvero la valesse la pena “morire per Danzica”. Ma anche di quello che negli anni settanta, a fronte della crescente minaccia del totalitarismo comunista, ebbe la faccia tosta di riempire le piazze d’Europa al grido di “meglio rossi che morti” (e i morti, nel famigerati Gulag, e a milioni, erano i dissidenti dell’est, non i dissidenti dell’ovest, quelli che marciavano contro la Nato).

Perché sto con il Papa
Dunque, su cosa facciamo affidamento in questo nostro tentativo?
Sulla speranza che va al di là di ogni speranza, persuasi - come ci ha ricordato monsignor Luigi Giussani dalle colonne del Corriere della Sera - che sia necessario collaborare in ogni modo con tutti coloro che in queste ore stanno tentando di scongiurare quell’avventura senza ritorno che è la guerra. E da uomo politico, scommetto sulla possibilità (quasi impossibile) di dimostrare a Usa e Irak che una soluzione pacifica conviene a entrambi: a patto che l’Irak scelga di collaborare finalmente e apertamente con gli ispettori per dimostrare di non possedere più armi di distruzione di massa, e che gli Usa accettino di rispettare fino in fondo la via dell’Onu che essi stessi hanno saggiamente imboccato, aspettando che gli ispettori siano eventualmente in grado di portare la dimostrazione di un non avvenuto disarmo da parte dell’Irak.
Per questo ho accettato volentieri di incontrare Tarek Aziz, al quale dirò: davvero il tempo è scaduto, davvero dovete collaborare con gli ispettori ai sensi della risoluzione Onu 1441, svuotare i vostri arsenali, ristabilire le condizioni della legalità internazionale. Questo è il modo per evitare all’Occidente un conflitto contro l’Irak e all’Irak l’immane catastrofe di una nuova guerra.
 
 

Dio e la guerra: «Pace, non bandiere», di Roberto Formigoni, Tempi, Numero: 7 - 13 Febbraio 2003