Dio e la guerra

«Guerra: avventura senza ritorno»
 

Per sedici anni è stato Osservatore permanente della Santa Sede all’Onu. E ora che il Papa lo chiama a guidare in Vaticano il Pontificio consiglio Giustizia e Pace, monsignor Renato Martino si trova a riaffrontare l’annosa crisi irachena. Di cui parla nell’intervista esclusiva a Tracce, cogliendo l’occasione per un bilancio del suo mandato e di altri temi caldi che agitano lo scenario internazionale
 

 
di Marco Bardazzi,


All’inizio del 1991, con il mondo allora come oggi sull’orlo di un conflitto nel Golfo Persico, il nunzio apostolico della Santa Sede all’Onu, arcivescovo Renato Martino, apprese dal segretario generale delle Nazioni Unite, Javier Perez de Cuellar, che non c’era più spazio per sperare di evitare quella che il Papa chiamava allora “l’avventura senza ritorno” dell’intervento militare. «Mi disse: monsignore, non possiamo più fare niente, perché hanno già deciso di fare la guerra» racconta l’Arcivescovo, che nel 2002 è tornato a ricordare ai potenti della Terra all’interno del Palazzo di vetro, come fece anche 11 anni fa, che la guerra «non risolve niente».
Nei 16 anni in cui è stato osservatore permanente della Santa Sede all’Onu, monsignor Martino ha vissuto tutti gli alti e bassi dell’ormai più che decennale crisi irachena. E anche ora che si appresta a lasciare New York, chiamato dal Papa a guidare in Vaticano il pontificio consiglio Giustizia e Pace, l’Arcivescovo si trova a fare le valigie per Roma nel pieno di un rovente braccio di ferro diplomatico che ha sempre per oggetto Baghdad. Monsignor Martino ha accettato di parlare della situazione attuale in una conversazione con Tracce alla fine di ottobre, mentre l’Onu era ancora impegnata a cercare di partorire una risoluzione sull’Iraq che conciliasse le posizioni di Usa e Gran Bretagna con quelle della Russia e della Francia.
È stata anche l’occasione per una panoramica sugli altri temi caldi del mondo e per un bilancio di fine mandato da parte di uno dei protagonisti di primo piano della diplomazia mondiale, che ha fatto soprattutto del tema della difesa della vita la costante della sua azione a nome della Santa Sede.


Eccellenza, se la guerra sarà scongiurata, quale futuro vede per l’Iraq e quale compito ritiene che debba svolgere l’Onu in questa “crisi infinita”?
Nell’ultimo dei miei interventi su questo tema ho sollevato pochi giorni fa il problema delle sanzioni. Pur ribadendo di nuovo quanto la Santa Sede ha detto nel 1996, riconoscendo la legittimità di infliggere sanzioni a Paesi che non rispettano le regole del “buon vivere” internazionale, ho richiamato l’attenzione sul fatto che le sanzioni non possono durare in eterno e devono essere intelligenti, mirate a colpire chi causa i mali e non indiscriminate verso la popolazione civile. Cosa accadrà con l’Iraq? Io mi auguro che scenda a più miti consigli e accetti innanzitutto gli ispettori. Ricordiamo comunque che gli ispettori se ne andarono nel 1998 non per decisione dell’Onu. Le ispezioni furono interrotte per decisione univoca del signor Butler (l’ambasciatore che guidava all’epoca gli ispettori e che è oggi un tenace sostenitore dell’intervento armato contro Baghdad; ndr). Occorrerà vedere come sarà congegnata la risoluzione che uscirà dall’Onu, molti auspicano che sia onnicomprensiva.


Nel 1991 lei era in dialogo costante con i vertici Onu, per cercare di scongiurare una guerra che poi non fu possibile fermare. Qual è in questi giorni la posizione della Santa Sede?
Ricordo benissimo quello che ho fatto 11 anni fa, per incarico del Santo Padre e della Segreteria di Stato, per evitare la guerra. E ricordo quando Perez de Cuellar mi disse che non c’era più niente da fare. Anche in questo frangente noi, per quel che possiamo, cerchiamo di scoraggiare la guerra, che è solo spargimento di sangue, distruzione, miseria. Benedetto XV la definiva «inutile strage», Pio XII nel 1939 disse chiaro che «tutto è guadagnato con la pace, tutto si perde con la guerra» e Giovanni Paolo II ne parlò come di una «avventura senza ritorno». È una costante nella posizione della Santa Sede e dei Papi: la guerra non risolve niente, crea più problemi di quelli che risolve.

Proviamo a ipotizzare lo scenario peggiore, quello di un conflitto americano contro l’Iraq nell’ambito di un Medio Oriente dove stavolta i Paesi arabi non sono per niente d’accordo con la soluzione armata. Che accadrebbe?
È imprevedibile. Mentre nel 1991 non tutti, ma molti Paesi arabi furono in favore della guerra, adesso credo che nessuno, nemmeno il Kuwait, la sosterrebbe. Perché tutti capiscono che si frantumerebbe quel fronte contro il terrorismo che con tanta energia e entusiasmo si è voluto mettere insieme in questo anno. Sarebbe disastroso dal punto di vista della situazione mediorientale. Ci sono già problemi gravissimi in quell’area e lo sappiamo. Perché non risolvere prima quelli, che causano una guerra che quotidianamente provoca vittime dall’una e dall’altra parte? Sono convinto che se si risolvesse quella situazione, la soluzione di tutti gli altri problemi verrebbe da sola.

Lei dice che, in un momento come quello attuale, sulla scia dell’11 settembre, gli effetti sul Medio Oriente di un conflitto in Iraq sarebbero disastrosi. Le faccio la domanda che tutto il mondo si pone: perché proprio ora questa insistenza americana?
Per rispondere forse si deve far ricorso alla dietrologia, una brutta parola italiana che però esprime bene il processo intellettuale necessario. Bisogna vedere quali sono le ragioni recondite. E la tentazione è quella di rispondere con una sola parola: petrolio. Ci potranno essere altri additivi a questa parola, forse è una dietrologia troppo facile.

Il bagno di sangue in Terra Santa è un’altra di quelle crisi infinite che hanno accompagnato i suoi 16 anni all’Onu. Intravede qualche ragione di speranza?
Quei due popoli sono condannati alla pace! Non possono fare nient’altro che la pace. Solo questo permetterà loro di svilupparsi, crescere. Quella dovrebbe essere una zona di pace, di esempio per tutto il mondo, specie per noi cristiani che vediamo lì il Principe della pace. Sono popoli condannati alla pace. Non c’è alternativa. Sono così intelligenti, perspicaci e mi meraviglio come non vedano questa realtà, che ogni uomo di buon senso vedrebbe, tanto è ovvia.

Accennava prima alla lotta al terrorismo. Qual è secondo lei un’efficace modalità d’azione in questo campo?
Pochi giorni dopo l’11 settembre, ho dichiarato all’Onu che è necessario combattere il terrorismo perché è atroce quello che fa e può fare, ma la lotta non deve limitarsi ad azioni di polizia: si eliminano uno, cento, mille terroristi e si risolve il problema. No. Lo ha detto anche il Papa più volte: bisogna andare alle radici del problema. Dove c’è miseria, dove c’è oppressione e mancanza di libertà, lì è il vivaio dei terroristi. Dove c’è mancanza di sviluppo, ci sono i candidati terroristi, giovani che non hanno nessuna speranza per il loro avvenire. Vivere o morire per loro è la stessa cosa. È la negazione di un futuro decente, umano. Ed eccoli allora che vanno a farsi esplodere.

Non crede ci sia anche una guerra di religione in atto?
No, assolutamente no. È la vocazione innata nell’uomo alla libertà, all’espressione delle proprie potenzialità. Quando gli neghi questo, ecco i risultati.

Lei ha vissuto l’11 settembre in America. Come ha visto reagire il Paese e cosa è cambiato all’interno dell’Onu?
Questo Paese non si aspettava certo di essere attaccato sul suolo di casa. Si è sfatato un mito di inattaccabilità, di invincibilità. Anche l’Onu ne ha risentito, c’è più solidarietà tra tutti i Paesi nella ricerca delle cause. Adesso non siamo più soli nell’indicare la necessità della ricerca delle cause.

Aborto, pena di morte, limiti nella ricerca scientifica: il diritto alla vita è stato una costante della sua azione all’Onu in questi anni. Quali sono i successi più significativi e quali le amarezze che porterà con sé a Roma?
La difesa della vita è stato il mio leit motiv in tutti questi anni. Il successo fondamentale è stato forse quello che abbiamo ottenuto nel 1992 al Summit della Terra a Rio de Janeiro, quando abbiamo fatto passare come primo principio della Dichiarazione l’affermazione che «gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni per lo sviluppo sostenibile». Quello è stato il frutto dell’abilità diplomatica della Santa Sede, perché nella bozza, invece di “esseri umani”, si parlava di “Stati” come protagonisti dello sviluppo: stalinismo puro... E due anni dopo, alla Conferenza sulla popolazione al Cairo, abbiamo ottenuto che passasse nella dichiarazione finale la frase: «In nessun caso l’aborto deve essere promosso come metodo di pianificazione familiare». Da allora questi concetti sono rimasti al centro del lavoro delle Nazioni Unite. Questo dovrebbe caratterizzare tutta l’azione e le decisioni dell’Onu: la centralità dell’essere umano. È un principio molto cristiano, ma è anche un principio morale umano per tutte le religioni. Riusciamo a immaginare se l’Onu perdesse la prospettiva di servire gli esseri umani? A che cosa servirebbero le Nazioni Unite?

Ci sono stati però anche vari attacchi alle posizioni della Santa Sede...

Sì, dopo il Cairo nelle conferenze successive si è cercato di distruggere tutto. A Pechino, a Istanbul, ricordo lotte di giornate intere per difendere il riconoscimento della famiglia. Un giorno abbiamo discusso per un’intera mattinata su un articolo, “the”: cercavano di far passare non “la” famiglia, ma una famiglia generica, un nucleo familiare che poteva essere rappresentato anche da me e il mio cane. Perfino nella Conferenza sulla Corte penale internazionale è stato tentato qualcosa di simile, si voleva inserire il termine “forced pregnancy’’, con il sottinteso che apriva la strada all’aborto, per definire gli stupri etnici. Riuscimmo a far passare una definizione che condannasse la pratica, ma sottolineando che questo «non ha niente a che fare con le leggi nazionali che regolano la gravidanza». Quel termine, “forced pregnancy”, è stato cancellato, ma era pericolosissimo. Poteva valere per condannare il marito che convince la moglie a non avere l’interruzione di gravidanza, poteva colpire le leggi che impediscono l’aborto dopo tot settimane. Lo stesso Papa che si affaccia alla finestra e parla contro l’aborto poteva essere incriminato! Poi sono venuti fuori con la definizione di “emergency contraception”, che abbiamo tolto. Recentemente, alla conferenza di Joannesburg, l’aborto era nascosto dietro una congiunzione, “and”. Si parlava di “health care and services”, e dietro a quell’and si intendeva l’aborto. Siamo riusciti a far passare la definizione “health care services”.

Che effetto le fa essere portavoce da tanti anni, nel rapporto tra gli Stati, di un criterio di giudizio ispirato non solo dal diritto internazionale, ma soprattutto dall’avvenimento cristiano?
Mi viene in mente ciò che mi disse il Papa alla fine della sua visita all’Onu nel 1995. Eravamo in auto e tornavamo alla Missione dopo il suo intervento all’Assemblea generale, un discorso meraviglioso sulla famiglia delle Nazioni. Il Papa mi fa: «Gliel’ho detto». Io non sapevo a cosa si riferisse e gli chiesi: «Che cosa, Santo Padre?». Mi rispose: «Che Gesù è la motivazione di tutta la nostra azione». E allora gli dissi: «È vero Santo Padre, è quello che io e i miei collaboratori cerchiamo di fare ogni giorno della nostra presenza qui alle Nazioni Unite».
Questi 16 anni sono stati caratterizzati da una attività intensissima, sono contento e confuso che il Santo Padre mi abbia dato fiducia per tutto questo tempo. Per me questa è stata una preparazione pluriennale per il prossimo incarico, che naturalmente intendo svolgere con lo stesso entusiasmo, con le stesse prospettive di difendere innanzitutto il diritto alla vita, che è quello fondamentale: se non abbiamo la vita, non possiamo reclamare nessun altro diritto. È il diritto più importante.
 
 

Dio e la guerra: «Guerra: avventura senza ritorno», di Marco Bardazzi, 1 novembre 2002