La figura della matrigna, arcigna e crudele nei confronti dei suoi figliastri, è una costante anche della tradizione brembana.

Questa storia ne riassume efficacemente le connotazioni, compresa l'immancabile punizione finale.

Viveva dunque in un paese della Valle Brembana un povero vedovo, con due figli in tenera età, che erano l'unico scopo della sua vita, da quando la sua amata moglie l'aveva lasciato.

Da tempo aveva pensato di risposarsi, per poter tirare avanti e per educare nel migliore dei modi i suoi bambini, ed ecco che un bel giorno incontrò nel paese vicino, durante una festa patronale, una vedova che a sua volta aveva due figli, un maschio e una femmina, proprio come i suoi.

La donna non era proprio un gran che: era alta e allampanata, con un lungo naso aquilino e dei capelli neri come la pece e, per giunta, aveva un caratteraccio, era invidiosa e malevola oltre ogni dire e morbosamente attaccata ai suoi figli, per i quali nutriva un affetto viscerale ed esclusivo.

Spinto dalla necessità il pover uomo, che pur conosceva le scarse virtù della donna, le fece senza troppo pensarci la proposta di matrimonio, cosa che lei accettò al volo, come se non avesse aspettato che quello.

E così, sposatala, se la portò a casa, assieme ai figli e si diede a trattarla come una regina, non facendole mancare nulla e dando fondo a tutte le sue risorse pur di accontentare ogni suo desiderio.

La donna, lungi dal ricambiare tante attenzioni con l'affetto che avrebbero meritato, si comportava con freddezza, soprattutto con i figliastri, quantunque in presenza del marito si sforzasse di apparire premurosa e gentile.

Ma quando il marito era al lavoro, la cattiveria della donna si rivelava in tutta la sua drammatica evidenza. Giulia e Giovannino, questi erano i loro nomi, dovevano allora subire ogni sorta di maltrattamenti: la matrigna li lasciava senza mangiare, li picchiava, li mandava nel bosco a fare legna e li obbligava a pulire la casa. Per contro trattava con in guanti i suoi due veri figli, che venivano preservati da ogni fatica.

Quando il marito tornava a casa, la moglie non mancava di lamentarsi, accusando Giulia e Giovannino di ogni sorta di malefatte, e chiedendo a gran voce l'intervento punitivo del padre il quale, per mostrare la sua autorità, sgridava severamente i figli e li mandava a letto senza cena, sotto gli occhi divertiti e sbeffeggianti dei due fratellastri.

Ma c'era di peggio!

Nemmeno di notte i piccoli erano liberi dall'incubo della matrigna, la quale appariva loro in sogno sotto le sembianze più spaventose: a volte diventava un cane rabbioso, altre volte un gattaccio dagli occhi fiammeggianti, oppure una cornacchia che emetteva versi sguaiati o una capra sbrégiola che faceva l'atto di brucare i loro piedini rattrappiti dal freddo.

Tutto questo non faceva che atterrire ancora di più i due sfortunati bambini che, nel timore di chissà quali tremende rappresaglie, non osavano raccontare al babbo le loro disavventure e quindi vivevano in costante angoscia.

Un giorno, inviati come al solito nel bosco per raccogliere legna, i due si trovarono in mezzo a una verde radura tutta tempestata dal giallo intenso di migliaia di botton d'oro. Ne raccolsero un mazzo con l'intento di decorare la tribulina situata lungo la mulattiera che percorrevano tornando a casa.

Così fecero e, dopo aver sistemato i fiori nel vaso, si misero a pregare, confidando alla Madonna le loro pene e chiedendo di essere liberati dalla triste condizione in cui vivevano. A un certo punto parve loro che la Vergine li guardasse sorridendo, come se volesse confortarli e assicurare la sua protezione.

Così, con animo più sereno, presero i loro pesanti fasci di legna e si incamminarono verso casa. Ma come al solito furono accolti dalle parole irate della matrigna che li rimproverò per il ritardo e li accusò di essere dei perditempo e dei buoni a nulla, accuse che vennero ribadite sfacciatamente dai due fratellastri, intenti come sempre a giocare.

La conseguenza inevitabile di quella nuova sfuriata fu che Giulia e Giovannino, per quanto affamati, dovettero andare a letto senza cena, accompagnati, per giunta, dai duri rimproveri del papà.

A notte fonda, ecco i loro sogni popolarsi dei soliti incubi. Questa volta la matrigna appare loro come un grosso cane rabbioso che abbaia a più non posso.

Ma, prodigio inatteso, il cagnaccio non appartiene più solo ai sogni agitati dei due bambini, bensì prende corpo e diventa un animale vero, in carne e ossa, in procinto di scagliarsi contro quelle infelici creature che, svegliatesi di soprassalto e oltremodo spaventate, invocano a gran voce l'aiuto del papà.

Costui accorre di corsa al richiamo e, resosi conto del grave pericolo che corrono i figlioletti, brandisce un bastone e si avventa contro l'animale, colpendolo con tutta la forza delle sue robuste braccia.

Picchia e picchia, a un certo punto si accorge che al posto del cagnaccio c'è la moglie che urla di dolore e invoca pietà, confessando tutte le sue cattiverie nei confronti di Giulia e Giovannino. Anche i due figli della donna, accorsi alle grida, confermano la confessione della madre.

Chiarita una volta per tutte la vicenda, la cattiva matrigna e i suoi due non meno perfidi figlioli vengono cacciati di casa e costretti a mendicare per sopravvivere, mentre Giulia e Giovanni restano a vivere accanto al papà e, divenuti grandicelli, lo aiutano nei lavori di casa e nella campagna, felici di aver finalmente trovato la serenità.

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