TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI

Pietro Pascoli: I Deportati - pagine di vita vissuta (1960)

presentazione di Ferruccio Parri

Capitolo 9 - Ritorno in patria

LE GRANDI OMBRE

 

22 giugno 1945: mattino. Una colonna di automezzi della Commissione Pontificia di Assistenza, seguita da 13 autoambulanze, in gran parte americane, lasciava il campo di Dachau. Il cielo era coperto. Nel Lager avevamo lasciato 150 connazionali ammalati, tutti in condizioni piuttosto gravi, ed alcuni membri del Comitato italiano con a capo Giovanni Melodia e Padre Manziana. Il distacco da quei nostri compagni fu per noi una stretta al cuore. Ad un tratto mi parve di vedere le Ombre dei nostri Caduti: le Ombre dei Caduti di Dachau, di Auschwitz, di Buchenwald, di Mauthausen, di Belsen, di Flossenbürg, di Hersbruck, di Ravensbrück, e di tutti i Lager tedeschi che si erano date convegno per il nostro rimpatrio. «Andate - ci dissero le grandi Ombre - e siate felici nella vostra terra. Siate felici, ma non dimenticate gli ideali per i quali noi siamo caduti, e levate alto il vostro grido nel mondo perché tanto orrore non abbia più a ripetersi sul globo». Alzai gli occhi e mi guardai d'attorno come trasognato: le Ombre si erano dileguate. Si erano dileguate in silenzio, così come in silenzio si erano date convegno.

 

UNA BANDIERA TRICOLORE

 

L'autocolonna percorre in rapida fuga le ampie strade asfaltate tedesche tra il verde dei prati, magnifiche fattorie, candidi villaggi e dense abetaie che si susseguono ininterrottamente dinanzi ai nostri occhi come una suggestiva visione cinematografica. Sul primo autocarro sventola una bandiera tricolore. Si canta. Quegli uomini sfiniti, ridotti allo scheletro, trovano ancora la forza di cantare. Cantano gli inni nazionali. Alle otto del mattino eccoci a Monaco di Baviera. La superba città, culla del nazismo, orgoglio dei tedeschi, che esprime l'arte, la cultura e la vita mondana del Reich, è un immenso cumulo di rovine. Centinaia di edifici, ridotti ai muri maestri, si profilano all'orizzonte come una miriade di castelli sventrati. Montagne di materie ingombrano il suolo. Una pioggerella fine cade sulle nostre spalle; ma che conta questo? «Si va a casa!». Verso mezzogiorno eccoci ad Innsbruck, la vezzosa capitale dell'Alto Tirolo, bagnata dall'Inn, circondata da verdi poggi e da superbe rocce che svettano al cielo. Centro di gran turismo, Innsbruck, mostra ancora tra le ferite della guerra tutto il suo fascino e tutta la sua bellezza. Un'ora di sosta, colazione al sacco, indi i motori si rimettono in moto. I sopravvissuti guardano verso mezzogiorno il crinale delle Alpi; al di là di quelle Alpi: l'Italia.

 

I SUPERSTITI BACIANO IL SUOLO DELLA PATRIA

 

Le macchine rombanti percorrono una strada a tornanti ed arrancano in salita. È la salita del Brennero. Si sale in alto; sempre più in alto. Lungo il percorso qualche piccola sosta per raffreddare i motori. Alla sommità delle Alpi, che dividono il mondo mediterraneo da quello nordico, ecco ci ad un valico alpino con un villaggio semidistrutto. Le case e gli alberghi sono sinistrati. La stazione ferroviaria è ridotta in macerie. Il Brennero! La colonna motorizzata si ferma davanti ad una prima sbarra di legno. Pochi minuti di sosta per alcune formalità di frontiera, poi la sbarra si alza lentamente e la colonna si rimette in moto attraversando a passo d'uomo la zona neutra. I superstiti trattengono il respiro, come attratti da una visione di sogno. Una seconda sbarra si alza. Poi, passato il convoglio, la sbarra cala lentamente alle nostre spalle. Gli automezzi si fermano. Italia! Un grido irrompe unanime dai petti di centinaia di cuori esultanti. È il momento così a lungo sospirato È l'attimo fuggente. Vi sono situazioni nella vita che nessuna lingua umana riuscirà mai a tradurre con le parole. Quelle situazioni si «sentono» in fondo al cuore e fanno vibrare tutto il nostro essere coll'immenso palpito dell'universo: ecco tutto. Italia! Casa nostra. Molti hanno le lacrime agli occhi: sono lacrime di gioia e di dolore insieme. Sono lacrime di gioia per aver toccato il suolo natio; sono lacrime di dolore per le infinite sofferenze patite e per tanti Compagni lasciati dietro di noi, in una terra che ci fu nemica, dalla quale non faranno più ritorno. Per alcuni minuti tutto è silenzio: il silenzio dei momenti solenni. Dopo qualche attimo i redivivi scendono dagli automezzi, si piegano sulle ginocchia e baciano il suolo della Patria.

 

DELUSIONI IN TERRA ITALIANA

 

Passato l'attimo di emozione profonda, ci accorgiamo di essere completamente soli. Nessuno è ad attenderci. Nessuno ci dà il benvenuto nella nostra Terra, tanto sognata, per la quale avevamo sofferto il martirio, offrendo in olocausto la nostra stessa vita. Quattro bambini, alla finestra di un edificio ancora intatto, incuriositi di quello spettacolo, agitano le manine in segno di saluto. Dopo pochi minuti la colonna si rimette in moto percorrendo la Valle dell'Isarco attraverso splendidi paesaggi alpini sotto un sole smagliante ed un cielo di cobalto: il bel cielo italico. Alle quattro del pomeriggio il convoglio raggiunge Bolzano. La bella città, che mostra, nelle linee architettoniche dei suoi palazzi e nei gruppi etnici, la convivenza di due stirpi, resa industre dal lavoro italiano, rivela anch'essa i segni del turbine che ha sconvolto il mondo. Attraversate le vie del centro abitato, la colonna infila un ampio viale alberato - il viale che conduce alla stazione climatica di Merano - varca un cancello ed entra in una caserma abbandonata, dove ha sede il Centro di Assistenza. Qui ci chiedono le generalità e ci forniscono di un «foglio di riconoscimento». Sulle pareti dei saloni, negli ampi corridoi, nei cortili, centinaia di cartelli, scritti in caratteri cubitali, chiedono notizie di prigionieri che non hanno ancora fatto ritorno. Saranno ancora vivi, o saranno passati nei forni maledetti? Brave ragazze, ingaggiate dalla Commissione Pontificia di Assistenza, ci servono, su enormi tavoli improvvisati, una buona minestra in brodo, pane bianco e formaggio. Si mangia a volontà. Dopo mesi e mesi di fame esasperante il nostro stomaco riceve finalmente alimenti sani e nutrienti. Ai rimpatriati, ai «reduci», come ci chiamavano allora in Italia, vennero distribuiti degli indumenti: una camicia, un paio di mutande, due fazzoletti da naso. L'autocorriera della Commissione Pontificia di Udine, che veniva a Bolzano a giorni alternati a prelevare i rimpatriati, era partita da due ore. Una breve sosta a Bolzano era più che desiderabile, per rinfrancarci un poco dal logorio del viaggio. Mi ero appena disteso su un lettino con lenzuola e materasso quando l'altoparlante, collocato in ogni sala, annuncia: «È in partenza una automezzo per Udine». Che fare? Mi consigliai con un medico ungherese, rimpatriato con noi, che raggiungeva la città di Genova, dove, prima della deportazione, aveva un suo ambulatorio. In quell'istante passò di lì il compagno Maranzana Ercole, di Buia; un giovane sui vent'anni, ancora in forma, risparmiato dal tifo. «Andiamo, Pascoli» mi disse. «Si va a casa». «Non ce la faccio, Ercole» risposi. «Preferisco rimanere qui per riposarmi un poco e per mettermi un po' in forma...». «Andiamo» insistette egli. «In poche ore siamo a casa nostra». Cedetti a quelle insistenze. Sull'imbrunire mi trovai su un camion scoperto, carico di fagotti e di masserizie, assieme ad altri venti compagni, saliti alla rinfusa. Quel camion, che faceva trasporti per conto terzi, non andava a Udine, ma a Treviso. «Lì» ci disse il camionista «troverete il treno che vi condurrà a Udine...». A Trento, sosta notturna all'addiaccio... All'alba si riparte imboccando la Val Sugana. Bassano del Grappa. Qui, all'angolo del Viale dei Martiri, ove furono impiccati agli alberi, dalle bande nazi-fasciste, 41 patrioti, altro ristoro: caffé-latte e pane bianco. Durante il percorso nessuno ci degna di uno sguardo. «Abbiamo fatto male a ritornare?» mi chiese un compagno. «Non darti pena, gli italiani hanno altre cose per il capo, adesso; forse, chissà, si ricorderanno di noi durante la prossima campagna elettorale...». A Borgo Valsugana una donna del popolo leva dal suo canestro mezzo chilo di pane «tesserato» e ce lo porge per omaggio. Verso mezzogiorno si arriva a Treviso. Il camionista ci scarica sul selciato esterno della stazione ferroviaria, ridotta ad un cumulo di macerie, sotto un sole cocente che ci brucia le cervella, e fila via, senza prendersi alcuna cura di noi. Quel bivacco di scheletri viventi, coperti di stracci, è uno spettacolo pietoso, raccapricciante. Qualcuno dei nostri, i più in gamba, si recano in città e ritornano con un sacerdote. In pochi minuti ci furono distribuiti due panini imbottiti a testa e delle ciliegie. Ciliegie! Le avevamo tanto sognate in campo di concentramento. Altri compagni si presentano al capostazione. «Per gentilezza, a che ora parte il treno per Udine?». «Che treno?» rispose quel funzionario, meravigliato della domanda. «Non ci sono treni per Udine. C'è una tradotta Alleata questa sera alle otto, ma non carica civili». «Ma, il camionista ci ha detto...». «Non ci sono treni, ripeto». Un contadino ci porta un canestro colmo di uova. Di lì a poco arriva un messaggio: «La Baronessa Franchetti vi ospiterà stanotte nella sua villa e domattina penserà a farvi proseguire per Udine». Mentre si svolgevano queste conversazioni si avvicina un gruppo di ferrovieri. «Animo, compagni! Stasera vi faremo salire noi sulla tradotta, anche contro la volontà del capostazione».

 

PLENILUNIO

 

Alle otto in punto i ferrovieri ci fecero salire su un vagone bestiame coperto. Il convoglio si muove. È plenilunio. Dopo un breve percorso ecco un nastro d'argento che scintilla al chiarore lunare: il Piave. Poi il Livenza... Il Tagliamento... Codroipo... Basiliano... Udine. Sono precisamente le due di notte del 24 giugno 1945. Il cuore mi sale alla gola. Troverò tutti vivi a casa mia? La mia città sarà in piedi, o sarà rasa al suolo dai bombardamenti aerei? Nessuno ci attendeva. Nessuno sapeva nulla del nostro arrivo. Porgo una stretta di mano ai miei compagni, che mi aiutano a scendere dal vagone bestiame, e mi avvio, solo a passi brevi, per le vie silenziose e deserte. Cammino stentatamente, come un novantenne, osservando al chiarore della luna la mia città mutilata. Il 22 per cento dei fabbricati, come seppi dopo, erano stati danneggiati o rasi al suolo. Sentivo in cuor mio che avrei trovata intatta la mia casa, che la mia gente viveva e stava bene. Al centro della Piazza De Rubeis vi è un soldato che monta la guardia, impalato come una statua. Quel soldato mi squadra dall'alto al basso ma non mi ferma, né mi rivolge la parola. Mi avrà certamente preso per un nottambulo, per uno straccione senza fissa dimora. «Lasciamolo andare» avrà detto tra sé quel tutore dell'ordine. Ed eccomi in Piazza Garibaldi. Sulla mia sinistra una casa sventrata; sulla destra il palazzo Giacomelli, sede, allora, del mio ufficio. Quel palazzo è ancora in piedi ed il rosso della sua facciata assume una tinta smorta al chiarore della luna. Da quel palazzo ero partito il 9 dicembre per la Valle dello Judrio. Quante cose erano passate, per me e per tanti altri, in così pochi mesi! Ed eccomi sul Piazzale XXVI Luglio: a Porta Venezia, come direbbero i vecchi udinesi. Sono a pochi passi da casa mia. Sul Piazzale il palazzo Sandri mostra solo i muri maestri, diroccati, e qualche trave sbrecciata sospesa nel vuoto. Provo un attimo di sgomento. No, non è possibile!... Il Tempio Ossario, che custodisce 30 mila Salme dei caduti della guerra 1915-18, è intatto nella sua imponente mole architettonica e la sua cupola ardita disegna un arco simbolico nel cielo cinereo. Eccomi finalmente in Via Luigi Moretti. In fondo a quella Via c'è la mia abitazione: la mia famiglia. Mi trascino pian piano sulla sinistra, verso l'ingresso principale del campo sportivo, per accertarmi della realtà. Tutto il mio debole corpo è un fremito. La casa, l'ultima di quella Via, è intatta. Nel silenzio della notte tutto è quiete. Gli uomini e gli elementi della natura pare abbiano stretto un patto tra loro in quel momento: un segreto patto di pace e di armonia. Mia moglie dorme. Le mie due bambine dormono. Forse sognano il loro babbo lontano. Certamente ignorano che io sia lì, sulla soglia di casa. Sono le 3.30. Mi siedo dieci minuti sui gradini esterni per prendere fiato, in uno stato di calma perfetta, indi busso alla porta e chiamo un nome: «Margherita !». Prima che l'uscio della mia abitazione si aprisse, pensai bene di prevenire mia moglie su quello che era il mio stato: «Non prendere paura nel vedermi; sono ridotto ad uno scheletro, ma sono tornato: ti avevo detto che sarei tornato».

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