TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI

Pietro Pascoli: I Deportati - pagine di vita vissuta (1960)

presentazione di Ferruccio Parri

Capitolo 8 - Dachau

«LE CAMERE A GAS NON SONO MAI ESISTITE...»

 

Il campo di Dachau, situato su una vasta pianura a venti chilometri a Nord-Est, di Monaco di Baviera, è un campo modello che ospita 40 mila prigionieri. Blocchi e servizi sono disposti in perfetta simmetria intorno al piazzale delle adunate e lungo un ampio viale, che da quel piazzale si protende a Nord diritto come una antica strada romana. All'ingresso del campo il solito palazzotto del comando, in muratura, a due piani, con un passaggio al centro, sormontato da una torre, sulla quale sventola la bandiera del Reich. Sopra la cancellata si legge la scritta: «In der Arbeit ist die Freiheit». Nel lavoro c'è la libertà... Attorno all'immenso piazzale sono disposti i saloni per lo spogliatoio e per la doccia collettiva; indi il magazzino viveri, le cucine, i magazzini vestiario, i laboratori, i Bunker sotterranei per la compagnia di disciplina, dalla quale ben pochi prigionieri fanno ritorno. Ai lati del grande viale sono disposti i blocchi e parte del Revier, contrassegnati con numeri pari e dispari. Ve ne sono trenta. Questi blocchi sono separati tra loro da un cortile, chiuso alle due testate da un'alta rete metallica a filo spillato. Poi il «bordello» per i fedeli di Hitler, composto da due salotti e dodici camere illuminate con lampade rosse e servizi igienici. Sulle pareti del corridoio due quadri ad olio raffigurano pudiche dame e casti cavalieri del Settecento bavarese, in atteggiamenti scenici di amore romantico. C'era del buon gusto, insomma, lì dentro. Indi una grande moderna conigliera che conteneva migliaia di esemplari, di razza angora, dotata di ambulatorio, di medicamenti e di medicinali, per fornire carni saporite per SS e lana per aviatori. Poi il canile, che ospitava decine di cani lupo ammaestrati. Chiude il campo un grande orto che fornisce la verdura per la mensa delle SS, coltivato con le ceneri dei morti bruciati nel crematorio. Nelle adiacenze vi è il blocco delle donne. Attorno al campo una prima strada perimetrale, indi la fossa anticarro, un doppio ordine di filo spillato attraversato da corrente ad alta tensione, le torri di guardia ed una seconda strada esterna. Al di là di quella strada, su un lato del campo, le casermette delle SS. circondate da un alto muro di cinta. A Est la grande fattoria. Fuori del campo, sul lato Nord, tutt'ora intatta, vi è la «zona storica», così definita dalle Autorità occupanti dopo la liberazione del campo. In questa zona un edificio in muratura contiene il crematorio con dodici bocche di fuoco, il mattatoio, dove i prigionieri venivano impiccati ad una serie di uncini metallici e squartati come tanti buoi per esperimenti scientifici o per la fabbricazione del sapone, e la camera a gas. All'esterno di quell'edificio il famoso «albero delle impiccagioni», muto testimone di centinaia di esecuzioni, e la «fossa del sangue» per i massacri in massa. La camera a gas consiste in uno stanzone quadrato munito di due porte in ferro a tenuta stagna con spioncino in vetro. Venti diaframmi metallici collocati simmetricamente al soffitto lasciavano cadere l'acqua a rosa sulla polvere di cianuro sparsa sul pavimento in calcestruzzo che sviluppava, a contatto con l'acqua, il gas mortale. All'ingresso di quella stanza della morte il visitatore, oggi, può ancora leggere la scritta a caratteri cubi tali: «Bagni di pulizia». I prigionieri, in gran parte ebrei - uomini, donne, bambini - venivano introdotti in questa stanza a scaglioni di cinquanta o sessanta per volta. La porta veniva chiusa ermeticamente alle loro spalle e l'acqua scendeva sulla polvere di cianuro. In pochi minuti l'operazione era compiuta. I cadaveri dalla camera a gas venivano trasportati direttamente ai forni crematori, per la seconda purificazione... L'introduzione nei forni maledetti, che funzionavano giorno e notte, veniva fatta mediante lettighe metalliche scorrevoli su guide installate all'imboccatura di ogni forno, com'è tutt'ora visibile. Le ceneri cadevano dalla graticola in un loculo sottostante, chiuso oggi ai visitatori, e da qui raccolte e sparse nelle vaste campagne della vicina fattoria delle SS. Sul piazzale della «zona storica», lasciata intatta per ordine delle Autorità occupanti, gli Alleati hanno eretto un monumento al Deportato, di modesta fattura, nel cui basamento si legge la scritta: «Onore ai morti e monito ai vivi». Quanti uomini furono trucidati nel campo di Dachau? Nessuno ci ha mai fornito una statistica attendibile, ma pensiamo di non andare lontani se calcoliamo a due milioni i morti di Dachau, sui dodici milioni e più sacrificati nei Lager del Terzo Reich. Ma ad onta di questa drammatica documentazione il visitatore che si reca oggi a Dachau per rendere un doveroso omaggio a tanti Martiri della libertà, giunto nella famosa cittadina tedesca, nota oramai in tutto il mondo, si sentirà dire da quella popolazione che il martirio subito dai prigionieri nel Lager è pura fantasia, che le camere a gas non sono mai esistite, ecc. ecc. come è toccato a noi, sulla piazza di Dachau, dinanzi alla chiesetta gotica, giunti in quella città nel decennale della Liberazione in devoto pellegrinaggio. Cosa si nasconde dietro questo linguaggio: la mortificazione di un popolo per gli orrori compiuti; o un desiderio represso di rivincita sul piano politico e militare?

 

I BUNKER D'ONORE

 

Nelle adiacenze del campo si trovano i cantieri di ricupero, dove i prigionieri più fortunati, affiliati ai comandi di lavoro, sono addetti alla demolizione di strumenti scientifici, macchinari, cavi conduttori, apparecchi radio, ecc. saccheggiati nei vari paesi d'Europa, per estrarne i materiali pregiati. Altri prigionieri sono comandati al lavoro nelle officine di Monaco e nella fattoria di campagna o sono trasferiti nei campi minori. Una polizia speciale «Lager Polizei», pistola e verga in mano, mantiene l'ordine nel Lager. Una squadra di «monatti» scelti tra i prigionieri più in forma, trasporta giornalmente cataste di morti al crematorio, con un carro che gironzola per il Lager, sul quale le salme vengono buttate alla rinfusa, completamente denudate, con gli arti stecchiti che penzolano fuori dalle sponde. Pare una leggenda. Anche a noi superstiti queste vicende lontane sembrano oramai una leggenda: una cruda drammatica leggenda che affonda, però, le sue radici nella viva realtà. Il campo di Dachau tra i suoi 40 mila prigionieri politici ospitava in apposite villette situate fuori del recinto spinato più di 150 personalità del mondo politico, militare ed ecclesiastico internazionale, classificate come «prigionieri speciali» ivi compresi una ventina di donne e diversi tedeschi antinazisti. La Francia annoverava Leon Blum con la moglie, il principe Xavie di Borbone, Gabriel Piquet Vescovo di Clermont Ferrand. L'Austria antinazista era rappresentata dall'ex cancelliere Schuschnigg, con la moglie ed un figlioletto di quattro anni, e dal dott. Ferdinando Wedenig, oggi Landeshauptmann della vicina Carinzia a Klagenfurt. Tra gli italiani: Mario Badoglio, deceduto dopo il rientro in Italia, figlio del noto generale, che proveniva dal campo di Mauthausen. Mario Badoglio era stato catturato a Roma per aver preso parte al complotto antinazista organizzato dal gen. Marazza, morto a Dachau, in collaborazione coi generali Armellini e Bencivenga, coi colonnelli Lordi e Montezemolo ed il diplomatico francese Granet, trucidati alle Fosse Ardeatine in Roma. Poi, Sante Garibaldi, nipote dell’Eroe dei due mondi, arrestato in Francia; e il dottor Appollinio, del Servizio segreto. Tra i tedeschi: il nipote del Kaiser, figlio del Kronprinz, morto nel Lager; il principe d'Assia, sposo di Mafalda di Savoia, morta nel campo di Buchenwald, il quale era segnato per spregio con una croce alla schiena ed adibito a bassi servizi; il dottor Hjalmar Schacht, ex ministro dell'economia del Reich; il generale Volkenhausen, già governatore del Belgio; l'avv. Müller, eletto capo del governo della Baviera dopo la liberazione; il generale Adler, ex capo di Stato Maggiore tedesco; il celebre Pastore Niemöller. Vi erano inoltre, tra questi prigionieri, molti russi tra i quali Vassili Molotov, nipote dell'ex ministro degli esteri sovietico; il generale Papagos con tutto lo Stato Maggiore greco; von Nikolaus Horty, figlio del Reggente d'Ungheria e tutti i membri del Governo ungherese succeduto a Horthy, che ebbe tre giorni di vita, tra cui von Hallay, Presidente del Consiglio, von Ilashy, Segretario di Stato, il Barone Wallt, von Igmandy ed altri. Infine vi erano numerosi membri delle famiglie degli organizzatori del famoso complotto di Berlino del 20 luglio 1944 mirante a rovesciare il potere di Hitler, considerati come prigionieri di stirpe «Sippenhäftling» e custoditi dalle guardie personali di Himmler. Tra questi i membri della famiglia dell'ufficiale di Stato Maggiore von Stauffenberg, che collocò la bomba nel Bunker di Hitler; i membri della famiglia di von Gardeler, capo della organizzazione civile del complotto; la signora Fey Hassel in Pirzio Biroli di Brazzà, figlia di von Hassel, che fu ambasciatore della Germania a Roma dal 1932 al 1938, organizzatore del complotto, proposto a Ministro degli esteri del governo democratico del Reich in caso di successo, impiccato l'11 settembre 1944 a Plotzensee, assieme ad altri tremila indiziati. La signora Pirzio Biroli-Brazzà, nata Hassel, fu deportata dal Friuli in seguito all'arresto del padre suo, avvenuto in Germania, con i suoi due figlioletti, Corrado, di due anni e mezzo, Roberto, di un anno e mezzo, separata da queste sue creature appena varcato il Brennero. I due figlioletti furono collocati, senza nome, presso un Istituto in Austria. Essi furono rintracciati dopo faticose ricerche a guerra finita dalla nonna materna nei pressi di Innsbruck. Questa categoria di prigionieri era trattenuta come ostaggio, in grande segreto e senza stato civile, per ordine personale di Himmler, capo delle SS tedesca, all'insaputa dello stesso Führer, il quale aveva dato ordine di ucciderli per estinguerne la stirpe. Lo scopo segreto di Himmler era quello di effettuare con questi prigionieri speciali un baratto per porre in salvo la propria vita in caso di una sconfitta militare. I Bunker d'onore erano ubicati fuori del Lager, presso le casermette militari, circondati da due alti muri di cinta e separati da una fossa anticarro. In altre parole i Bunker d'onore costituivano una vera e propria fortezza. Il trattamento usato a queste due categorie di prigionieri era freddo e riservato, ma civile e sopportabile. Non venivano bastonati o seviziati, non erano condotti al lavoro forzato, non adibiti a duri servizi del campo. Vestivano con gli abiti propri, erano ospitati uno per cella in stanzette separate, munite di finestre a bocca di lupo e dotate di una brandina con materasso, lenzuola e coperte, tavolino, sgabello e lavandino con acqua corrente. Il vitto era quello delle SS, un po' ridotto: zuppe, verdure, patate, carne, pane, formaggio, wurst, margarina, caffé, the, ecc. I pasti venivano somministrati tre volte al giorno. Le stanzette, per alcuni prigionieri, rimanevano aperte l'intera giornata cosicché essi potevano scambiarsi le visite.

 

SALVATI IN EXTREMIS

 

Pochi giorni prima della liberazione del Campo, questi due gruppi di prigionieri speciali - in numero di 130 - furono avviati per ordine di Himmler, con un lungo corteo di automobili, a Villa Bassa, in Val Pusteria, scortati dalle SS, con l'ordine di sterminarli, «in mancanza di altre istruzioni dal centro...». Il 25 Aprile 1945 - giorno dell'armistizio dell'esercito tedesco in Italia - stava per compiersi il massacro preordinato, quando intervenne, nell'ultimo tratto della marcia fatale, un reparto germanico di cavalleria corazzata, che mise in fuga le SS di scorta, con un attacco improvviso, liberando i prigionieri, i quali furono poi condotti all'albergo di Braies sul Lago omonimo, e consegnati successivamente all'esercito americano. Questo salvataggio in extremis fu organizzato dal Colonnello tedesco Bonin, prigioniero a Dachau, il quale, d'intesa col Comitato Internazionale di Liberazione, che operava nel Campo, varcò il filo spinato... per raggiungere il Gen. Viettinghoff, comandante del settore Sud dell'esercito germanico, con il quale concertò la memorabile impresa. Himmler, caduta Berlino, scomparso Adolfo Hitler, s'illudeva di continuare la resistenza nel ridotto del Basso Tirolo, con la segreta intenzione di tentare quivi il famoso «baratto» per porre in salvo, come si è detto, la propria vita. Il  suo destino doveva essere, invece, un altro! I potenti della Terra, i geni del male, trovano sempre un freno alle loro pazzie, - non si sa perché - nell'ordine universale delle cose... Ed ora, tracciato un quadro storico di questi prigionieri di classe, offriamo in visione al lettore e agli storici di domani, un documento prezioso, inedito, per gentile concessione della Signora Von Hassel Pirzio Biroli di Brazzà: un elenco di firme autentiche, da essa raccolte, in quei giorni di agonia, su un foglio di carta ormai ingiallita dal tempo, nei Lager di Stutthof, Hindenburg Baude, Buchenwald e Dachau.

 

I SACERDOTI A DACHAU

 

Dachau è stata l'ecatombe dei preti polacchi. Dei 3000 sacerdoti che vennero deportati dalla Polonia in questo campo, a liberazione avvenuta erano ridotti a qualche centinaia, tutti gli altri vennero eliminati nella camera a gas, o finiti per fame e per maltrattamenti; e, tra questi, il vescovo di Varsavia. Al momento della liberazione nel campo di Dachau vi erano 1200 preti, di 20 nazionalità, tra i quali 30 italiani e un buon numero di tedeschi, internati, questi, già prima della guerra in seguito alla crisi religiosa tedesca, aperta da Alfredo Rosenberg, il teorico del nazismo, che mirava alla fondazione della Chiesa Nazionale Germanica a fondo pagano, quale strumento efficiente nelle mani di Hitler, rivolta ai suoi fini. I sacerdoti a Dachau vennero trattati alla stregua di tutti gli altri prigionieri: vestiti a zebra, lavoro coatto, zuppa di rape, bastonate, umiliazioni, degradazioni e maltrattamenti di ogni genere. Essi vennero adibiti alla pulizia del campo, al trasporto delle marmitte, alla cucitura di tele, al lavoro manuale nelle tenute agricole delle SS fuori del Lager; furono comandati a spargere la cenere dei morti nell'orto delle SS e furono persino obbligati a fare la pulizia nel «postribolo» al servizio delle prostitute. Né mancarono le sevizie sui loro corpi. Nel campo di Dachau casti sacerdoti furono costretti a subire atti immondi sui loro corpi, praticati per spregio da aguzzini degeneri e perversi. Questi trattamenti inqualificabili provocarono a Dachau una aperta ribellione da parte di un giovane sacerdote, il quale si buttò addosso ad un aguzzino strappandogli un pezzo di naso coi denti. Era la frusta che Gesù usò contro i profanatori del Tempio. Quel prete coraggioso fu battuto a sangue e tradotto nei Bunker della Compagnia di Disciplina, la famosa «Strafkompanie», dalla quale non fece più ritorno... Gli esercizi religiosi erano proibiti nel campo, ma i sacerdoti a Dachau riuscirono a celebrare Messe clandestine ed a distribuire ostie consacrate. Prima della liberazione del famoso campo di concentramento i sacerdoti furono riuniti tutti al blocco 26, ove era stata eretta una Cappella, dinanzi alla quale essi si alternavano per celebrarvi la S. Messa. Gli italiani, superstiti di Dachau, ricorderanno certamente con sincera simpatia e con devoto affetto le nobilissime figure di Don Giovanni Fortin; parroco di Terranegra (Padova); padre Manziana, dell'Oratorio di Brescia; Don Vismara di Bergamo; Don Andrighetti, parroco di Soave (Verona), ed altri che si prodigarono di tutto cuore, specie dopo la liberazione del campo, a portare assistenza ai prigionieri italiani, ai sani e agli ammalati, rischiando spesso, per il contatto con gli ammalati di tifo petecchiale, di venire colpiti dallo stesso morbo. Ed i superstiti friulani ricorderanno con pari simpatia quattro loro sacerdoti deportati a Dachau che ebbero la fortuna di fare ritorno in Patria: Don Albino Fabbro, parroco di Vendoglio; Don Erino d'Agostini, oggi parroco di Osais (Prato Carnico) ; Don Eugenio Marin, parroco di Brugnera di Pordenone e Don Giacomo Belletto, di Meduno, già in età avanzata, morto dopo il suo rientro in Friuli. Tra i sacerdoti tedeschi internati a Dachau si trovava anche Mons. Johann Neuhausler vescovo ausiliario di Monaco, che pubblicò nel 1960 un interessante volume dal titolo: «So war es in Dachau».

 

LA «RESISTENZA» ENTRO IL LAGER

 

Una notte d'aprile del 1945 seicento soldati della SS, suddivisi in squadre, presero d'assalto alcuni blocchi e vi irruppero furibondi. Si cercavano armi. Il comando del Lager aveva sospettato che i prigionieri fossero venuti in possesso di armi per organizzare una rivolta all'avvicinarsi delle truppe Alleate. Naturalmente da quella perquisizione non saltarono fuori che miseri stracci. L'episodio non è privo di significato e va collegato alla effettiva esistenza nel Lager di un comitato clandestino, l'«International Prisonier Comité». Comitato che si proponeva, entro i limiti del possibile, l'assistenza morale, materiale e sanitaria ai prigionieri di ogni Nazione, il ritardo delle partenze dei gruppi, destinati alla falcidia, quando già si udiva il cannone, l'organizzazione di squadre d'assalto. Fu questo Comitato che si presentò agli Americani al loro ingresso nel campo e che assunse poi, come vedremo più avanti, la direzione dei servizi del Lager e altri compiti sotto il controllo americano. Ed ecco un episodio che documenta l'attività del Comitato clandestino entro il Lager famoso. Nella seconda metà di ottobre 1943, 1500 prigionieri furono adunati al blocco 17, in assetto di partenza. Si ignorava la loro destinazione, né si sapeva se essi avevano una destinazione. Ad un tratto si udì chiamare un nome, anzi un numero, poi un altro ed un altro ancora. Dieci in tutto. Perché quei dieci e soltanto quei dieci? Che cosa volevano fare di essi? La staffetta del comando ordinò loro di seguirla. Appena fuori del blocco 17 l'uomo che li guidava li guardò e sorrise. Erano salvi. Stava per imbrunire. I prigionieri che partivano per ignota destinazione avevano varcato il cancello ed i loro zoccoli di legno scricchiolavano sul fango ancora ghiacciato della strada. Al di là del filo spinato passavano gli autocarri carichi di cadaveri nudi, ed il vento che spirava da Nord portava dal crematorio l'odore di carne bruciata. Qualcuno spiegò più tardi come attraverso un falso ordine fosse stato possibile il salvataggio in extremis di quei dieci uomini. Tutta una organizzazione aveva dovuto mettersi in moto per ottenere la cancellazione di quei nomi dall'elenco dei partenti per aggiungerli poi sapientemente al registro del blocco 25, al quale essi furono avviati. Era l'opera del Comitato clandestino, come ci dirà più tardi il compagno Giovanni Melodia, che fu l'anima, per gli italiani, di quel Comitato. Naturalmente un'azione di questo genere, se fosse stata scoperta, sarebbe stata punita con l'impiccagione immediata; ma vi sono creature nel mondo - religiose o positiviste - che sanno rischiare la propria vita per salvare la vita di persone che essi neppure conoscono. II campo di concentramento ci ha mostrato l'orrido ed il sublime. Ci ha mostrato cioè l'intima natura dell'uomo, dominata dagli istinti primitivi, bestiali, e dai più alti valori dello spirito.

 

LA VITA NELLA IV STUBE

 

Dato uno sguardo d'insieme al famoso campo di Dachau, riprendiamo ora il nostro itinerario. Giunti in questo campo nelle condizioni oramai note al lettore, sostammo per lunghe ore inquadrati sul piazzale delle adunate; indi, condotti al bagno di pulizia e consumata finalmente una razione di zuppa, fummo avviati al blocco 28, che è ubicato sul lato sinistro del viale, immediatamente dopo quello dei sacerdoti. Le baracche a Dachau sono divise in quattro reparti, chiamati Stube. La Stube a sua volta comprende tre distinti locali: soggiorno, gabinetti con lavabi, dormitorio. Ogni Stube, costruita per alloggiare cento persone, ne contiene quattrocento ed anche cinquecento. lo venni assegnato alla 4a Stube, assieme all'amico Polo di Gorizia, Rizzello Armando di Tarcento, il prof. Moviglia, il maresciallo Cirillo Mari, Silvestre Quaia da S. Quirino di Pordenone, Belardinelli e altri. Qui il rancio è servito regolarmente. L’appello è fatto all’aperto nella mattinata, non più alle 4.30 di notte. Le bastonate sono cessate. La guerra stava per concludersi con la sconfitta della Germania e gli aguzzini avevano giudicato prudente sospendere i maltrattamenti per timore di una prossima resa dei conti. Al blocco 28 un mattino entrò a farci visita il prof. Violino, di Udine, il quale ci comunicò che molti amici udinesi si trovavano nel campo: l’avv. Egidio Zoratti, già membro del C.L.N. Provinciale, l’industriale Paolo Spezzetti, il dott. Fausto Barbina, deputato al Parlamento nella cessata legislatura, il dott. Agnoli, il prof. Zampari, il colonnello Talamo, il prof. Milocco e molti altri. A questo punto è doveroso documentare qui, per inciso, un episodio toccante e significativo della Resistenza italiana. Verso gli ultimi di luglio del 1944 un reparto delle SS circondò in un baleno il palazzo della Questura di Udine, arrestando 40 funzionari ed agenti di P.S. sospettati di attività antinazista. Tutti furono condotti con gli automezzi tedeschi al campi contumaciale di via Cividale, mentre le loro abitazioni venivano minutamente perquisite. Qualche giorno dopo 13 su 40, e cioè i maggiori indiziati, furono trasferiti alle carceri giudiziarie di Via Spalato, che il lettore già conosce. Qui venne fatta una seconda scelta ed il 29 agosto 10 di essi vennero deportati nel campo di Dachau. Eccone i nomi: Sgroi Dott. Giuseppe, Accoranti Dott. Filippo, Savino Dott. Maio e D’Angelo Dott. Antonio: commissari di P.S.; CAscio Giuseppe: impiegato; Toschi Sparsero: maresciallo; Bodini Bruno: vice brigadiere; Comini Mario, Bodolin Alberto e Pisani Anselmo: agenti. Ben nove di questi nostri Compagni di sventura, sottoposti a torture, alla fame, ai lavori forzati, furono ridotti in cenere in terra tedesca: uno solo si salvò, l’amico Toschi, testimonio oculare del crimine, che ebbe la fortuna di riabbracciare in Patria la sua sposa ed il suo figliolo. A Dachau ebbi la gioia di riabbracciare l’amico Mario Nicoloso e il dott. Da Villa, provenienti da Kammenz. Il campo di Dachau era diventato un centro di raccolta di prigionieri civili evacuati dalle zone occupate dai Russi e dagli Alleati, e si può calcolare che oltre 40 mila uomini erano alloggiati in quell’epoca nelle 30 baracche del Lager, dove si parlavano 20 lingue. Per un’intera settimana ci tennero nel blocco completamente nudi, avvolti in una coperta di cotone, come tanti fantasmi, in attesa che i nostri abiti fossero passati per la disinfezione. A cagione del sovraffollamento del campo, molti prigionieri, sani e ammalati insieme, erano costretti a dormire sul nudo pavimento dei blocchi. Qui assistiamo per la prima volta ad uno spettacolo nuovo: a notte inoltrata, russi e polacchi, perfettamente organizzati, prendono d’assalto i francesi, sorprendendoli nel sonno, per derubarli dei pacchi viveri che questi fortunati mortali ricevevano dalla Franncia a mezzo della Croce Rossa Internazionale. La «dura lotta per la vita» aveva fatto regredire questi uomini, come già si è visto, ai loro istinti primari; e li aveva resi insensibili dinanzi alla morte e dinanzi al dolore. Del resto anche gli individui più dotati vennero toccati, più o meno, da questo processo di involuzione dell’Io cosciente e razionale. Il compagno Polo, ad esempio, di cui ho più volte parlato in queste pagine, che fu l’amico più fedele e più vicino che io ebbi in quei duri mesi in Germania, tentò un giorno, nel Lager di Dachau, di strapparmi di mano, con un gesto incontrollato, la razione di pane, perché, in quel giorno, per pura coincidenza, era più grande della sua. Capita la situazione mi limitai a gridargli: «Polo, che fai?». Bastò questo richiamo per farlo rientrare in se stesso. Se dovessimo fare qui una graduatoria sul comportamento dei gruppi etnici nei Lager nazisti, dovremmo porre in prima linea, per aggressività, sadismo, violenza, il gruppo teutonico ed il gruppo slavo; mentre il gruppo latino si è rivelato più umano, più civile. Ungheresi, austriaci, olandesi, rivelarono dignità e gentilezza d'animo. È evidente che questi dati stanno ad indicare il substrato collettivo di una razza, di un popolo, giacché i valori etici e morali, vale a dire la sovrastruttura della personalità, in campo di concentramento, come si è già detto, erano pressoché livellati dal comune martirio.

 

L'OMBRA DI EICHMANN

 

Non si può calare il sipario sul dramma qui documentato ignorando quella che è stata, in particolare, la spaventosa tragedia degli Ebrei. Aprendo una breve parentesi nel testo, mi limiterò a segnalare, a questo punto, un solo episodio sull'argomento, riferito al Friuli; episodio che compendia in se tutto l'orrore scaturito dall'odio di razza, che trova la sua manifestazione concreta nel processo di sistematica «liquidazione degli Ebrei, instaurato dal nazismo in Europa». Ed eccomi al fatto. In un freddo mattino del 26 marzo 1944 un capitano delle SS, armato di pistola, accompagnato da un maresciallo con mitra a tracolla, entrava di prepotenza nella stanza n. 11, piano II, reparto dozzinanti, dell'ospedale civile di Udine, allontanando con crudezza suore medici e personale di servizio. Quella stanza ospitava da sei mesi una delle personalità più rappresentative del Friuli: il barone Elio Morpurgo, israelita. Sindaco di quella città dal 1889 al 1895, deputato, senatore, più volte sottosegretario di stato nei governi liberali di Sonnino, Boselli e Orlando, per un quarantennio presidente della Camera di Commercio di Udine e di altre importanti istituzioni. Elio Morpurgo, gentiluomo di vecchio stampo, fu ricoverato in quell'ospedale, ormai ottantasettenne, colpito da grave decadimento senile, da ipertrofia prostatica, da broncopolmonite a da cateratta bilaterale agli occhi, che lo rendeva quasi cieco, affidato alle cure sapienti e amorose del prof. Azzo Varisco, allora primario dell'ospedale stesso. Il vegliardo fu obbligato ad alzarsi e ad indossare in tutta fretta qualche indumento: i pantaloni, la veste da camera, pantofole ai piedi. Null'altro. Suor Costanza, caposala, che si era avvicinata per infilare le calze al paziente, fu respinta bruscamente; mentre l'infermiere, che cercava di tirare un po' a lungo le cose nella speranze che giungesse qualcuno a liberare l'illustre infermo, si vide puntare la pistola sul petto. Stile tedesco. Vestito in quella foggia, il barone Elio Morpurgo fu trascinato fuori di peso, caricato su un automezzo militare e condotto a Trieste, al centro di raccolta di S. Sabba. Il 29 marzo, tre giorni dopo, l'illustre friulano transitava per la sua città, rinchiuso in un vagone bestiame piombato, agganciato a una tradotta; formata a Muttaglie, presso Fiume, e diretta alla volta di Auschwitz, in Polonia. Quel convoglio era riservato ad un contingente di Ebrei - uomini, donne, vecchi e fanciulli e, tra questi, una puerpera con un bambino di tre giorni - prelevati in buona parte negli ospedali, negli ospizi, nei manicomi e nelle case di cura del «Litorale Adriatico». La tradotta, comandata da un maresciallo tedesco, controllore Franz Huber, era scortata da otto carabinieri italiani, al comando del maresciallo Giuseppe Polignano, da Urbe di Savona - deportato a sua volta in un campo di concentramento del Reich, dal quale non fece più ritorno - tra i quali tre friulani: Giovanni Bortolutti, da Faedis, Aldo Braida, da Manzano; Aldo Buiatti, da Martignacco, fuggito dalla sua Legione dopo quella triste esperienza e tenuto nascosto dai suoi familiari, per mesi e mesi, in un fienile. Durante una breve sosta alla stazione di Tarvisio - come si è potuto accertare nel dopoguerra - da quel convoglio si udì un debole straziante lamento. Il ferroviere Firmino Burini, da S. Maria la Longa, verificatore ai treni, avvicinandosi al vagone, poté scorgere, attraverso una fessura della porta, il senatore Morpurgo rannicchiato in un angolo, con la bava alla bocca, che invocava con un fil di voce due nomi: «Enrico» (suo figlio) e «Remolo» (il fedele amministratore di casa Morpurgo). Il convoglio fece due ore di sosta a Villacco. Qui i prigionieri furono fatti scendere dai vagoni per consumare una scodella di brodaglia; ma il barone Morpurgo non si mosse. Era entrato in agonia... Tra le stazioni di Mallnitz e Badgastein, nella catena dei Tauri, il senatore Elio Morpurgo, l'uomo che aveva dedicato tutta una vita al pubblico bene, con abnegazione, con probità e con disinteresse personale, esalava l'ultimo respiro, ucciso dall'odio di razza e dalla crudeltà nazista. In una fermata nei pressi di Salisburgo, il maresciallo Polignano, rivolgendosi ad un carabiniere friulano ed indicandogli il terzo vagone di quel convoglio, esclamava: «Ehi, furlan, là c'è un tuo paesano morto. Dicono che sia un gran signore...». Al parco merci della stazione di Salisburgo, dove il convoglio sostò un'intera notte, fu visto alzare una catasta di cadaveri a più strati, sistemati a graticcio. Qui la salma di Elio Morpurgo, secondo una dichiarazione resami dall'ex carabiniere Aldo Buiatti, un onesto contadino dei Colli morenici, avviluppata in una semplice veste da camera, fu vista per l'ultima volta. Da quel momento calò un velo sulla tragica vicenda e nessuno seppe più nulla. Il convoglio n. 5001, partito il 29 marzo da Trieste con 500 persone a bordo, stipate su sette vagoni, quasi tutte ammalate, arrivò alcuni giorni dopo a Auschwitz con 50 vivi, destinati, com'è facile comprendere, alle camere a gas. La «soluzione finale del problema ebraico», affidata dalle supreme gerarchie naziste al colonnello Adolf Eichmann, era in atto.

 

BANDIERA BIANCA SULLA TORRE DEL COMANDO

 

Le giornate passano relativamente tranquille nel blocco 28. Voci incoraggianti si diffondono nel Lager. - I Russi hanno occupato Vienna. - Gli Americani sono entrati a Monaco ed hanno costituito un Governo democratico. - L'Italia è tutta liberata. - Fra pochi giorni, forse fra poche ore, il nostro destino si compirà. Una tragica ansia, velata da un'intima speranza di salvezza, pervade i nostri cuori trepidanti. In alto, sopra il Lager della morte, stormi di velivoli alleati sfrecciano come meteore lucenti per le vie del cielo. Il sole colora il paesaggio. Tuona il cannone. Si ode il crepitio della mitraglia. La grande ora sta per scoccare. Il cuore di 40 mila uomini batte all'unisono. Il 26 aprile una notizia sensazionale si diffonde come un baleno entro il blocco: «Gli Americani sono entrati nel campo». Duemila uomini del blocco 28 si gettano fuori d'un balzo dalle porte e dalle finestre. Solo gli ammalati gravi, immobili nelle cucce e sul pavimento di legno, rimangono ai loro posti. Un grido echeggia altissimo: «Siamo salvi!». Il delirio raggiunge il parossismo. L'amico cerca l'amico, il compagno di fede cerca il compagno di fede, per vivere assieme il grande momento. Tutti si abbracciano. Ogni contrasto di razza, di nazionalità, di ideologia, di carattere, di sentimenti, messi allo scoperto dalle durezze del Lager, sono scomparsi. Siamo salvi! Questa euforia durò mezz'ora: gli Americani non si vedono. I prigionieri cominciano a chiedersi l'un l'altro: «Chi ha visto gli Americani? Dove sono?». «Li ha visti il tale... il tal altro...». «Anch'io li ho visti» mi confermò il buon Travaglia. «Erano in cinque: sono passati or ora per il viale». «Ma, ne sei proprio certo?» insistetti io. «Certo, signor Pascoli; ho anche parlato con loro». Gli Americani invece erano nella fantasia dei prigionieri: Si trattava, come si è saputo più tardi, di una Commissione della Croce Rossa Internazionale. Ci voleva poco, allo stato normale, come ognuno può pensare, a distinguere una Commissione civile da un esercito occupante; ma tale era il desiderio di venir liberati che i prigionieri, allucinati, vedevano i soldati americani attraverso le proprie immagini mentali, proprio come capitò ai Crociati, accampati sotto le mura di Gerusalemme, i quali videro sopra le mura vetuste della città, per un fenomeno di contagio mentale e di allucinazione collettiva, San Giorgio montato a cavallo che indicava loro le porte del Santo Sepolcro. Il Lager è in movimento. Una prima colonna di settemila uomini, in gran parte russi ed ebrei, è partita per ignota destinazione. Il blocco 30 sfolla: la colonna parte, poche ore dopo rientra. Che cosa stanno ad indicare questi movimenti? L'indomani altri cinquemila uomini, ed io fra questi, vestiti tutti a nuovo con abiti zebrati, sono inquadrati nell'Appelplatz in assetto di partenza. Ma perché mai ci vestivano a nuovo? Buona parte di quegli uomini aveva ricevuto in dotazione il cibo per tre giorni di viaggio: pane, formaggio, una scatola di carne. Tra i duemila italiani incolonnati su quel piazzale c'erano decine di friulani: Zoratti, Barbina, Spezzotti, Agnoli, Violino, Zampare, Morrà, Dessy, Esposito, da Villa, Mario Nicoloso, Don Albino Fabbro, Don Erino d'Agostini, Don Marin, Don Belletto, il maresciallo Mari, Pezzetta, Milocco, Cristofori, Billiani, Quaia, Turchetti, Rizzello, Cappelletti, Franco Alessio, Bellardinelli, Toniutti, Jacobuzio, Bortoluzzi, Galanda, Passon Ferruccio, Giorgio Morocutti - deceduto nel Lager dopo la liberazione - e tanti altri. - Dove ci condurranno? - Nel Tirolo, disse qualcuno. - A piedi? - A piedi. Nessuno del gruppo Hersbruck ce l'avrebbe fatta. Il ricordo della tragica marcia da Hersbruck a Dachau ci faceva rabbrividire. Mentre le colonne sostano inquadrate sul vasto piazzale, una notizia sconcertante si diffonde nel Lager: i settemila uomini partiti due giorni prima erano stati decimati sul limitare di una foresta a pochi chilometri da Dachau. La stessa sorte era stata decisa per noi. Infatti, a liberazione avvenuta, il nostro giornaletto da campo «Gli italiani a Dachau», redatto a cura del Comitato Italiano, pubblicava il testo integrale di due telegrammi di Himmler, diretti al comandante del Lager e sequestrati poi dagli Americani, così concepiti: Primo telegramma: «14 aprile 1945. Quanto segue non deve essere discusso. Il Lager deve venire immediatamente evacuato. I prigionieri sono contro la popolazione civile e debbono seguire perciò la stessa sorte di quelli di Buchenwald». Secondo telegramma: «17 aprile 1945. Evacuare il Lager. Rimane il Revier. Liquidare tutti»;. Liquidare tutti!... Il cannone continua a battere. Si ode il fragore delle mitragliatrici. Neri nembi si addensano nel cielo di Dachau. Tuoni. Lampi. Folgori. Una pioggia torrenziale precipita con violenza inaudita scrosciando sui tetti, sollevando miriadi di zampilli dal suolo. Cinquemila prigionieri civili, inquadrati sull'immenso piazzale, attendono, sotto l'infuriare degli elementi, l'ordine di marcia: la marcia verso la morte. In quell'istante sopraggiunge un contr'ordine. «Tutti nei blocchi!». Le truppe americane avevano anticipato la loro marcia su Dachau ed erano entrate in contatto telefonico col comandante del Lager. La notte sul 28 aprile il crepitio della mitraglia si fa più intenso, più vicino. I soldati delle SS che montano la guardia sulle torri abbandonano i loro posti. Nel famoso campo di annientamento, che ha inghiottito come un mostro favoloso due milioni di esseri umani, di ogni lingua e condizione, vi è un silenzio di tomba. Le ombre di quei morti pare abbiano placato la sete di sangue dei vivi. Nei trenta blocchi nessuno dorme. Gli animi sono tesi. Ognuno pare trattenga il respiro. L’indomani mattina qualche soldato delle SS si aggira ancora come un'ombra fuggente, come uno spettro solitario, tra i viali del campo, ossequiente forse ad un ordine estremo, mirante a salvare, col sacrificio di alcuni uomini, l'onore del Terzo Reich. Sulla torre del comando sventola la bandiera bianca.

 

LIBERAZIONE!

 

Gli Americani, si afferma, sono vicini: sono a cinque, a tre, a due chilometri dal campo. Alle 17.30 del 29 aprile 1945 un primo carro armato Alleato irrompe sul viale esterno del campo, poi un altro ed un altro ancora. Un grido alto si leva dai blocchi: «Gli Americani! Gli Americani!... ». Un'emozione travolgente invade gli animi dei prigionieri e li affratella. Sono grida e pianti di gioia. È uno stato di agonia e di sgomento che finisce. È la nostra liberazione fisica e spirituale che si compie. Tutti si abbracciano con slancio indescrivibile. È l'ora più solenne della nostra vita. Quarantamila uomini riacquistano la loro Personalità. La vita è salva. I prigionieri balzano fuori in massa dai blocchi, tagliano le reti metalliche, scavalcano le fosse anticarro e si riversano come una immensa fiumana sui viali esterni e sui piazzali del campo. I soldati americani, con ordine perfetto e con rapidità fulminea, si appostano attorno al Lager, frugano le vie e le abitazioni adiacenti, montano sulle famose torri di guardia gettando al suolo le armi tedesche. Il comandante delle truppe di occupazione, ritto su un carro armato all'ingresso del campo, casco in testa e fucile imbracciato, dirige le operazioni. Un plotone entra nel Lager. Qua e là colpi di fucile e raffiche di mitra. Ufficiali, sottufficiali e soldati delle SS, scoperti nei loro nascondigli, sono passati per le armi all'istante. Tutto il campo di concentramento è un grido. Solo gli ammalati, ricoverati al Revier o distesi sul pavimento e nelle cucce del blocchi, incapaci di muoversi dal loro posto di sofferenza, mancano alla manifestazione di esultanza. Migliaia e migliaia di mani pallide e scarne si agitano in alto in segno di saluto. «Viva gli Americani!». «Viva la Russia!». «Viva gli Eserciti Alleati!». Ufficiali e soldati rispondono sorridendo al saluto, fermi ciascuno al loro posto di battaglia. Rivolgo il saluto ad un soldato appostato sugli argini della fossa anticarro. Quel militare mi risponde nella lingua di Dante. «Sono un figlio di italiani all'estero» mi disse. «Siamo molti qui, quasi un quinto delle truppe». Quegli accenti pronunciati nella mia lingua mi toccarono il cuore. Siamo in molti, quasi un quinto... Disprezzati e umiliati da tutti come eravamo, la presenza di quei figli di italiani nell'Esercito vittorioso, che ci restituiva alla vita, mi suscitò un senso di intima soddisfazione e di giustificata fierezza. I soldati americani ci offrono del pane, delle sigarette, della cioccolata. Intanto sul piazzale del campo si vanno adunando migliaia di uomini e decine di donne. Quell'immensa folla di redivivi, stanchi, affamati, ridotti a scheletri, che non si reggono in piedi, trovano ancora la forza di agitarsi, di esprimere la loro gioia, la loro gratitudine all'Esercito liberatore. Quella marea umana, così eterogenea per diversità di lingue, di costumi, di ideologie, di posizioni sociali, si trasforma in folla: folla delirante, pazza. Una forza irresistibile la sostiene. Si grida ancora: «Viva l'America!». «Viva la Russia!». «Viva gli Eserciti Alleati!». Sulla torre del comando e sui tetti dei blocchi vengono issate come per incanto le bandiere di quasi tutte le nazioni d'Europa, che sventolano in un cielo purissimo inondato di sole. Anche la nostra bandiera, la bandiera italiana, sventola al sole. Grandiosi cortei si formano tra i prigionieri, raggruppati per nazionalità, e muovono verso il palazzo del comando, cantando i rispettivi inni nazionali. Poi, dopo un attimo di silenzio, si levano alte solenni vibranti nel cielo azzurro, le note della Marsigliese, cantata da migliaia di voci. Indi, dal fondo del viale alberato, si muove a passo sicuro, spedito, come volesse marciare alla conquista di un mondo nuovo, un corteo con bandiera rossa in testa: sono i comunisti, i comunisti di tutti i Paesi, uniti attorno ad un unico simbolo. Da quel corteo si alza severo maestoso il canto dell’Internazionale. Gli Americani dal palazzo del comando girano un cortometraggio ed incidono su un magnetofono il giubilo di quella folla. Un giornalista belga al seguito delle Truppe di occupazione entra nel Lager portato a spalla dai prigionieri. La moltitudine si assiepa attorno a lui: impossibile avvicinarlo. I soldati americani entrati nel campo fraternizzano coi prigionieri. «Dove sono i tedeschi? Diteci, dove sono i tedeschi?». Numerosi aguzzini, che avevano ucciso e malmenato migliaia di prigionieri e, tra questi, il Rapportführer, che aveva sulla coscienza oltre mille morti, freddati a colpi di pistola dietro le orecchie, vengono trascinati fuori dalle loro tane e consegnati agli americani. L'ora dei conti è suonata anche per questi traditori, per questi miserabili, che avevano sputato sulla vita dei loro compagni di sventura per una doppia razione di zuppa. I colpi di cannone e le raffiche di mitragliatrice si allontanano, si affievoliscono. Cadono le ombre della sera e la moltitudine dei sopravvissuti, riacquistata la libertà, rientra silenziosa e disciplinata nei blocchi. Il 3 maggio 1945, sul piazzale delle adunate, che vide tanti orrori, si ergono un Altare ed una altissima Croce in legno, che pare voglia abbracciare tutte le miserie umane rinchiuse in quel luogo di martirio e di morte. Dinanzi all'immagine di una Madonna nera, tre sacerdoti in abiti liturgici forniti dal Cardinale Faulaber di Monaco, celebrano la S. Messa, mentre la folla dei superstiti si china in ginocchio ed innalza una preghiera. La bufera, tragica, tremenda, è passata. La vita, con le sue ansie e con i suoi dolori, con le sue speranze e con le sue delusioni, aveva ancora uno scopo. Qualche giorno dopo alcuni diplomatici giunti nel campo da diversi Paesi d'Europa, porgono, dall'alto di una grandiosa tribuna, eretta sull'immenso piazzale, il saluto fraterno delle libere Nazioni ai sopravvissuti, ricordando con parole accorate i Caduti del Lager. Le truppe americane al loro arrivo a Dachau hanno trovato oltre quattromila cadaveri ammucchiati sulle tradotte in arrivo, davanti al crematorio e lungo i viali del campo, che attendevano il loro turno per passare ai forni crematori. E trovarono settemila ammalati: cinquemila nel Revier e duemila nei blocchi. Tutti gli altri prigionieri erano ridotti ad ombre umane: questa l'istantanea presa al momento della liberazione del campo. Forse fu questo orrendo spettacolo che indusse gli americani a passare per le armi tutti i militari tedeschi che venivano scoperti nel Lager o nelle immediate adiacenze all'atto dell'occupazione.

 

IL GOVERNO DEMOCRATICO DEL CAMPO

 

II Comitato clandestino «l'International Prisonier Comité», che operava, come si è visto, in difesa del deportato, assunse, con la liberazione, la direzione del campo, sotto controllo del Comando Militare Americano. In pochi giorni il campo di Dachau fu trasformato in una vera e propria Repubblica Federale. Ogni schieramento nazionale aveva un proprio Comitato, rappresentato nei blocchi da capi Stube e da fiduciari di blocco, con funzioni d'autogoverno. I presidenti di ogni singolo Comitato nazionale costituivano il Governo federale del campo, vale a dire la Comunità internazionale. In questo Governo gli italiani erano rappresentati da Giovanni Melodia, comunista, un uomo intelligente e dinamico, che aveva scontato parecchi anni di carcere sotto il regime fascista. Non mancavano certamente gli uomini «qualificati» a Dachau per costituire un tale Governo!... Il Comitato internazionale assunse i seguenti compiti:

- Riorganizzare i servizi del Lager sabotati dalle SS in fuga o danneggiati dalle azioni di guerra: infermeria, magazzini, cucina, pulizia del campo, acqua potabile, luce, lavanderia, prigioni per le SS scampate dalle fucilazioni e per i loro servi fedeli.

- Organizzare i rimpatri.

- Collaborazione con le Truppe liberatrici per ogni operazione riguardante il Lager.

- Ricupero degli effetti personali sequestrati ai prigionieri.

Ai Comitati nazionali furono demandati i seguenti servizi:

- Riunire i connazionali organizzandoli per blocchi e per Stube.

- Distribuzione a mezzo fiduciari di blocco e capi Stube di viveri, medicinali, vestiario, ecc.

- Compilare i bollettini giornalieri d'informazione.

- Predisporre le pratiche per i rimpatri, assumendo indirizzi e dati caratteristici per ciascun prigioniero.

- Epurare gli indegni.

- Distribuzione rancio, sistemazione ambulatori, ecc.

- Raccogliere i nomi dei Caduti.

- Restituzione degli effetti personali ed oggetti di valore recuperati.

Il lettore si provi ad immaginare questa macchina amministrativa all'opera, edificata in un batter d'occhio e con mezzi di fortuna, ed avrà subito un'idea di quello che era diventato il campo di Dachau all'indomani della liberazione.          

Ed ecco ora i nominativi del Comitato italiano di Dachau:

 

PRESIDENTE

- Giovanni Melodia, di Milano.

 

MEMBRI

- Colonnello Scotti Luigi, di Milano.

- Padre Manziana Carlo, di Broscia.

- Dottor Faustino Barbina, di Udine.

- Ing. Ettore Ziegrist, di Genova-Pegli.

- Avv. Egidio Zoratti, di Udine.

- Don Giovanni Fortin, parroco di Terra Negra (Padova).

- Cortolezzis Ferdinando, di Treppo Camico (Udine).

- Capellani Fabio, di Catania.

- Ten. Col. Ughi Ugo, di Genova.

 

SEGRETARI

- S. Ten. pilota Civada Ferdinando, delle Puglie.

- Dottor Franco Davide, di Trieste.

- Rag. Paolo Spezzotti, di Udine.

- Marinaio Borisi Narcisio, di Trieste.

 

REDATTORE del giornalino «Gli Italiani a Dachau»

- Sbardella Mario, di Roma.

 

INTERPRETI

- Ing. Ferdinando Gandusio, di Trieste.

- Battaggion Aldo, di Bergamo.

- Gonzatti Franco, di Torino.

 

SANITARI

- Dottor Slongo Antonio, di Belluno.

- Dottor Barzotto Bruno, di Pasiano di Pordenone (morto dopo il suo rientro in Patria).

 

INFERMIERI

- Martinelli Nuccio, di Cernobio (Como).

- Vide Donalisio, La Spezia.

 

LA VITA NEL LAGER SOTTO IL CONTROLLO AMERICANO

 

Gli Americani scrissero una pagina a Dachau che nessun superstite potrà mai dimenticare, ma il loro controllo sul campo ebbe tali deficienze che ebbero effetti perniciosi sui prigionieri, fino a compromettere la vita di molti e molti compagni che fino a quel giorno si erano salvati. Sotto il controllo americano, infatti, i prigionieri furono bloccati nelle loro baracche come prima, con divieto di circolare persino entro il Lager; la razione del rancio aumentò a dismisura in quantità senza tener conto di alcuna norma dietetica e senza alcun miglioramento qualitativo; perdurò per molto tempo il sovraffollamento nei blocchi; la pulizia nel campo lasciò alquanto a desiderare; gli ammalati entro i blocchi furono lasciati in promiscuità coi sani. «La morte bianca è ancora sospesa su di noi» mi disse il prof. Moviglia pochi giorni prima di morire. I prigionieri di Dachau erano presi oramai da una unica ansia: tornare a casa; ed una sola domanda usciva da tutte le bocche: «Quando ci rimpatrieranno?». Dalla Francia, dal Belgio, dall'Olanda, dalla Jugoslavia, e persino dalla martoriata Polonia, giungevano ai prigionieri i primi soccorsi organizzati in Patria: cibi, medicinali, indumenti; e giungevano suore, sanitari e crocerossine. Solo la Russia e l'Italia erano le grandi assenti in questa nobile gara di solidarietà nazionale. Fu un colpo al cuore, questo, per tutti noi italiani. La Patria ci aveva ignorati. Un mese dopo la liberazione, però, una Commissione italiana, guidata, ci dissero, da un vescovo, giunse a Dachau con qualche genere di conforto anche per noi. In questo periodo molti prigionieri, con la solidarietà dei soldati americani, saltavano i reticolati del campo e si portavano nelle vicine fattorie per chiedere cibi e vestiari. In quei giorni di attesa, infatti, nei cortili dei blocchi ardevano a decine i fuocherelli con pentole piene di ogni ben di Dio. Si fecero delle buone minestre, intingoli, di patate, pastasciutte, si cucinò della carne e si fece persino la polenta. Alcuni prigionieri fuggirono in quei giorni dal campo per raggiungere, a piedi e con mezzi di fortuna, le loro famiglie. Fu così che raggiunse Udine l'amico Paolo Spezzotti, assieme ad altri due concittadini, il prof. Milocco ed il rag. Cristofori, ansioso di arrivare dalla sua giovane sposa che stava per dar gli una creatura: la piccola Paola. Ed arrivò in tempo, il buon Paolo, non senza aver superato molte peripezie durante l'avventuroso viaggio. Arrivò per primo ad Udine e per primo portò notizie a molti familiari, pubblicando sui giornali i nomi di quanti conosceva e che sapeva ancora in vita a Dachau. Tra questi nomi figurava anche il mio. Sapeva l'amico Paolo che io ero ricoverato in gravissime condizioni al lazzaretto americano, perché mi vide all'ingresso del Revier, quando, il 12 maggio, ammalato di tifo e portato a spalle da due miei compagni, venni accolto in corsia per interessamento del Comitato nazionale; ma egli tenne nascoste a mia moglie le mie gravi condizioni di salute, per non crearle un maggior stato di ansia e di dolore, convinto che me la sarei cavata e che sarei tornato a casa con il secondo o con il terzo convoglio. E fu così. Paolo.

 

AL LAZZARETTO AMERICANO

 

Il sovraffollamento dei blocchi, la promiscuità tra sani e ammalati, l'eccessivo aumento quantitativo del rancio, la scarsa pulizia, le montagne dei cadaveri in putrefazione, aggravarono le condizioni igieniche e sanitarie del Lager. Nella mia qualità di fiduciario per gli italiani del blocco 28 io denunciavo tutte le sere al Comitato nazionale le gravi condizioni dei prigionieri, derivanti da quelle circostanze, invocando provvedimenti adeguati, ma tali segnalazioni, per cause forse assai complesse, non ebbero molta fortuna. A stomaci malati come i nostri, guastati dalla fame e dai cibi adulterati, si distribuiva un chilo di pane nero, fabbricato con segatura di legno, e mezzo chilo di carne in scatola, per un solo pasto. Non occorreva essere medici o specialisti in materia per comprendere l'errore grossolano di una simile dieta. I prigionieri, mai sazi, mangiavano a dismisura e cadevano ammalati. In alcuni blocchi si giaceva ancora quattro per cuccia e molti dormivano, come prima, sul pavimento di legno. In quanto alla pulizia gli americani provvidero, è vero, alla disinfezione delle persone e delle cose con mezzi meccanici moderni, ma tutto ciò fu assolutamente insufficiente. Le malattie si moltiplicarono. Centinaia di prigionieri furono colpiti da tifo petecchiale. Qualche giorno dopo la liberazione passammo tutti la visita medica. lo venni classificato, in un certo modo, tra i sani. Nulla avrebbe quindi impedito il mio rimpatrio che attendevo di giorno in giorno; ma tre giorni dopo tale visita mi prese la febbre accompagnata da dissenteria e foruncolosi. li medico del blocco 28, un polacco, si limitò a segnare sul suo registro: «fievre», e mi rimandò al posto senza darmi alcuna cura e senza più occuparsi di me. I giorni passavano e la febbre continuava alta, persistente. Chiesi di venire ricoverato al Revier, ma non c'era posto. In quello stato, ignorando il terribile morbo che mi aveva colpito, io dormivo sul nudo pavimento di legno e continuavo a svolgere, con molta fatica, le funzioni di fiduciario di blocco. La febbre continuava a bruciarmi il cervello ed il mio organismo, già sfinito dagli stenti e dai malanni, cedeva. Fu in quella circostanza che il buon Travaglia, gentile come sempre, mi cedette il suo posto in cuccia, mentre il compagno Quaia da S. Quirino di Pordenone, colto da dolori lombari, scendeva a stento dal terzo piano di quei castelli per cedermi la sua coperta di cotone. Cosa era quella febbre? Il 12 maggio il Comitato italiano ottenne l'autorizzazione dal Comando militare americano di far passare un visita medica al Revier a tutti i connazionali ammalati, giacenti nei blocchi. Portato a spalla lungo tutto il viale del campo dall'amico Polo di Gorizia e dal compagno Milan di Portogruaro, fui condotto all'infermeria. Qui il compagno Sbardella del Comitato nazionale, impressionato del mio stato, mi introdusse nell'ambulatorio medico facendomi passare con precedenza su tutti gli altri. Il medico mi guardò negli occhi, mi tastò il polso, mi osservò la gola. Fu un attimo. «Tifus»: pronunciò. Il calvario non era dunque terminato, e la vita era tuttora e più che mai in pericolo, proprio alla vigilia del rimpatrio. Così capitava a molti altri. Si trattava, come è oramai risaputo, di tifo esantematico, accompagnato, nel mio caso, da dissenteria, foruncolosi diffusa, dolori sacro-lombari, edemi di fame agli arti inferiori e deperimento organico grave. Ne avevo abbastanza. L'indomani mattina un'autoambulanza militare mi trasportava a tutta velocità dal Revier al lazzaretto americano, fuori del campo. lo ebbi appena coscienza di tutto questo movimento. Qui mi trovai disteso su una brandina metallica con materasso, lenzuola e coperte, in un grande salone luminoso, inondato di sole, circondato da medici e da infermieri in camice bianco, tra centinaia di altri ammalati. Il morbo fu aggredito coi mezzi più moderni di cura, praticati da specialisti americani. Per venti giorni consecutivi la febbre batté i 41° e i 42° e per tutti quei giorni stetti a completo digiuno. Perdetti la conoscenza, e, per qualche tempo, perdetti completamente la memoria. Quando, per la prima volta, credetti di poter lasciare la brandina per portarmi al lavabo, caddi con un tonfo sul pavimento. Fui sollevato fraternamente da un giovane comunista di Leningrado e da un giovane socialista di Varsavia, che aveva perduta l'intera sua famiglia sotto le macerie di quella città. Osservandomi qualche giorno dopo in uno specchio presi spavento di me stesso: ero ridotto ad un fantasma vivente, ad una maschera umana. Pesavo 34 chili. I servizi al lazzaretto furono perfetti. Cure mediche pronte e assistenza morale ottima. Oltre il 90 per cento degli ammalati di tifo furono salvati. Sia detto questo ad onore della classe medica americana ed a conforto di quei congiunti che possono aver perduto un loro caro in quei tristi frangenti, a Dachau, dopo la liberazione del campo. In un secondo tempo, domata l'epidemia, i medici americani furono sostituiti da medici tedeschi, ma sempre sotto controllo Alleato, ed anche con questi medici le cure continuarono pronte e perfette. Quei tedeschi, piegati dalla forza delle armi, avevano ritrovato il loro volto umano. Siamo fatti così. Giovani ed eleganti crocerossine francesi, giunte da Parigi, prodigavano la loro assistenza affettuosa a tutti gli ammalati, e non soltanto ai loro connazionali, mostrando così di ignorare, nei riguardi degli italiani, la «pugnalata alla schiena» che era stata data alla Francia da Benito Mussolini.

 

CORTOLEZZIS

 

Cortolezzis Ferdinando, di Troppo Carnico, era l'unico prigioniero civile, oltre i sacerdoti, che entrava a far visita al lazzaretto. Egli veniva per me e veniva puntualmente: ogni giorno, ogni due giorni. II Cortolezzis, che era un puro, aveva lasciato la Francia nel settembre del '43, dove era emigrato da vent'anni, per prendere parte alla lotta di liberazione nazionale in Friuli, nella sua terra natale. Arruolatesi nelle Formazioni garibaldine in Carnia, il Cortolezzis venne comandato un giorno a valicare le Alpi a capo di un gruppo di «guastatori» per sconfinare clandestinamente in Austria, con l'incarico di far saltare con una carica di tritolo un ponte ferroviario sulla Gail. Raggiunto l'obbiettivo, dopo aver superato mille difficoltà, egli stava per dare fuoco alla miccia quando fu colpito da una scarica di mitra. Ferito gravemente in più parti del corpo, fu catturato e condannato a morte. Il Cortolezzis fu salvato da una dottoressa austriaca che ebbe pietà di lui e fu deportato in Germania, ove venne rinchiuso per alcun tempo in un duro carcere, indi trasferito nel campo di Dachau. Egli veniva, come dissi, quasi tutti i giorni da me per portarmi la parola amica e le notizie del mondo; ma verso gli ultimi di maggio non lo vidi più. Seppi pochi giorni dopo, da Don Fortin, che il Cortolezzis era rimpatriato il 29 maggio col primo contingente di sopravvissuti che era partito per l'Italia. Quel buon compagno, animato da una grande fede e guidato da un grande cuore, non aveva avuto il coraggio di venirmi a salutare, sapendomi in grave stato, per evitarmi evidentemente una emozione che poteva essermi fatale, e, forse, per non subire lui stesso uno strappo al cuore. Egli rimpatriava con altri millecinquecento superstiti mentre io e molti altri italiani rimanevamo in un lazzaretto, in fin di vita, in terra straniera incerti ancora se la sorte ci riservava la gioia di rivedere il bel sole d'Italia ed i nostri cari. Rividi più volte Ferdinando Cortolezzis a Udine dopo il mio rimpatrio mentre mi trovavo a letto coi postumi del tifo, sotto le cure premurose e disinteressate del dottor da Villa, già citato in queste pagine, e lo rividi in miseria, avvilito e malandato in salute. Per venirmi a trovare egli usciva dall'Ospedale Militare della Misericordia, col braccio ancora al collo per le ferite riportate un anno prima sotto il ponte della Gail, nei pressi di Arnoldstein. Era ammalato di t.b.c., la sua casa era stata distrutta dai tedeschi, la moglie ammalata, una figlia morta per un incidente stradale, privo di mezzi di fortuna, dimenticato e ignorato da tutti. In questa dolorosa situazione il Cortolezzis aveva perduto la fiducia in Dio, nel prossimo ed in se stesso. Queste le condizioni non solo del Cortolezzis, che riuscì soltanto dopo due anni di disoccupazione a sistemarsi a Roma, per l'interessamento di un compagno autorevole, ma di molti altri superstiti dei Lager nazisti, che si trascinano ancora oggi, a proprie spese, negli ambulatori medici e nelle stazioni di cura, dinanzi agli Uffici di Collocamento o nelle corsie dei sanatori, ignorati e trascurati da tutti, dopo aver offerto la vita per ridare la libertà, l'onore e il prestigio nazionale alla loro Patria. In queste condizioni non c'è nessuna meraviglia se qualcuno si domandi, alla fine: «Valeva la pena? ...».

 

UN VATICINIO

 

Il sole muoveva alto all'orizzonte nelle radiose giornate di maggio. Ondate di profumo campestre penetravano dalle finestre spalancate nelle ampie sale del lazzaretto americano di Dachau. Le crocerossine francesi entravano ogni mattina nei saloni con fasci di fiori freschi tra le mani. Queste ondate di freschezza, di luce, di poesia, esercitavano sugli ammalati un potente richiamo alla vita. L'epidemia di tifo era debellata e gli ammalati, entrati oramai nella prima fase di convalescenza, muovevano i primi passi all'aperto lungo i vialetti alberati del recinto. In quei viali incontrai Mario Nicoloso, Franco Alessio, Annando Rizzello, Jona lacobuzio, Bruno Cicotti, di Buttrio, e molti altri. Rividi più volte tutti quei cari compagni in Friuli, dopo il nostro rimpatrio; rividi anche Bruno Cicotti, ma lo rividi dimagrito e pallido in volto nelle bianche corsie del Forlanini a Udine, ammalato di tisi. Deportato in Germania assieme al padre e ad un fratello, il Cicotti, perduto il padre a Dachau, superato il martirio della prigionia, fu preso dal morbo fatale e con tale viatico venne ricondotto in Italia. «Coraggio, Bruno» gli dissi «ne abbiamo passate tante in Germania, passerà anche questa. Coraggio!». Due mesi dopo il buon Bruno moriva. Oh, quanti ricordi mi balzano alla memoria che non hanno trovato posto in queste pagine: ricordi buoni e ricordi cattivi, ricordi che sono lembi di cielo purissimo e ricordi che sono oscure voragini dell'inferno. Vorrei dimenticare. Già... anche noi, superstiti, vorremmo talvolta dimenticare questo dramma immane, come fanno gli altri, come hanno fatto gli altri; ma non possiamo, noi, dimenticare. Questo dramma è penetrato oramai, con le sue sensazioni e con le sue tremende visioni, nei recessi del nostro spirito: fa parte di noi stessi. Ricordo, ad esempio, quel caro ragazzo di Leningrado, Pavlovski Stanislao, addetto ai servizi della sala, che mi passava, superata la crisi del male, doppie razioni di latte, di pane bianco, di cacao per ridarmi la vita. «Du musst essen, Pascoli!» mi diceva. Tu devi mangiare! Ricordo il compagno Franco Alessio di Buia, il quale, entrato in convalescenza prima di me, mi sorreggeva con le braccia sulla mia brandina di ferro portando il cucchiaio del latte e del cacao alla mia bocca, come si fa con un lattante. «Non posso mangiare. Franco» gli dicevo. «Non mi va giù». È noto che il tifo lascia completa inappetenza ed un pessimo palato. «Devi mangiare. Pascoli: devi mangiare altrimenti resterai a Dachau». Il compagno Franco pochi giorni dopo fece una repentina ricaduta, ma si salvò anche lui e ritornò a casa, tra i ridenti colli di Buia, verso la fine di luglio, con l'ultimo convoglio di italiani che lasciava Dachau. Non mi abbandonò neppure quel giovane polacco, che il lettore già conosce e di cui ignoro il nome. Fu questo ragazzo, che vedeva forse in me l'immagine del suo babbo perito sotto le macerie di Varsavia in fiamme, che mi sorresse a spalla per i vialetti ombreggiati del recinto per farmi fare i primi passi all'aperto. Ma debbo anche ricordare qui, tra le nobili creature che incontrai in quei tristi recinti, un prete polacco che mi regalò una medaglietta sacra nel momento stesso in cui gli aguzzini ci mettevano in colonna per l'evacuazione del Lager, destinati, come eravamo, alla decimazione in massa. Portai quella medaglietta alle mie bambine. E debbo ricordare qui, per ultimo, ancora una volta, Don Fortin, il quale mi mostrò un giorno, durante la mia prima convalescenza a Dachau, un notes tascabile. Su quel notes c'era un nome indicato con una crocetta accanto. Quella crocetta voleva dire: spacciato. Quel nome era il mio. Riabbracciai Don Fortin qualche anno dopo davanti alla Basilica del Santo a Padova; lo riabbracciai con una profonda emozione nel cuore e con le lacrime agli occhi. Ero andato a trovarlo per dirgli «grazie», e per rendere un doveroso omaggio alla Salma del Deportato Ignoto, custodita nel magnifico Tempio, da lui eretto in Terranegra (Padova), con encomiabili sacrifici, a ricordo dei Caduti d'Italia nei Lager nazisti.

 

L'AMORE UNISCE CIÒ CHE L'ORGOGLIO DI RAZZA DIVIDE

 

La seconda guerra mondiale era cessata su tutti i fronti, era cessata con il trionfo della dignità e del diritto dei popoli sullo spirito di potenza e sulla tirannia organizzata. Fascismo e nazismo erano debellati con le armi. Il suolo della mia Patria ed il suolo di questa nostra vecchia Europa, che profuse la sua Civiltà a tutti i Continenti, erano liberati. Dal campo di concentramento partivano tutti i giorni contingenti di sopravvissuti per i loro Paesi d'origine. Un mattino venni a conoscenza che il 22 giugno partiva un secondo convoglio per l'Italia. Da quel momento non ebbi più pace: volevo partire. Mi pareva che tutto il male fosse cessato come per incanto e sentivo rinascere in me le energie vitali al solo pensiero di tornare a casa. Il mio spirito viveva oramai tutto fuori del campo di concentramento: viveva nella mia terra natale, accanto alle mie creature. Chiesi il nulla-osta per il rimpatrio. Il medico del mio Reparto, un tedesco, mi passò la visita. «Impossibile, signor Pascoli» mi disse. «Lei non è in condizioni di affrontare il viaggio». «Dottore, io sto bene» risposi «sono guarito. Vi assicuro che sono guarito. Sento in me la forza di intraprendere il viaggio: lasciatemi andare a casa». «Eccovi il nulla-osta, signor Pascoli. Vi chiedo una gentilezza: imbucatemi questa lettera appena arrivate in Italia». «Grazie, dottore: sarà fatto». Quella lettera era una missiva privata diretta ad una professoressa di Bergamo: la ragazza del suo cuore. L'amore univa ciò che l'orgoglio di razza aveva diviso.

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