Il viaggio come metafora attraverso la prosa

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Le avventure di Penelope
di Marina Torossi Tevini

Erano ormai trascorsi sette anni da quando Ulisse era rimasto solo, con un figlio ancora piccolo e le parole di Penelope che, riempiendo la sacca di cartucce, divise e berretti, gli aveva promesso: "Tornerò tra pochi mesi, vedrai. Non sarà una guerra lunga".
E invece nel Vietnam la guerra sembrava non finire mai e poi, anche quando era finita, di Penelope si erano perse le tracce.
Ulisse intanto aveva il suo bel da fare a rintuzzare gli attacchi delle sue amiche che lo tenevano per ore inchiodato al telefono oppure lo invitavano a cenette stuzzicanti che finivano sempre con le parole "Ma tu non puoi continuare a vivere da solo. E poi il bambino, avrebbe bisogno di una mamma". Ed era ovvio che ognuna proponeva se stessa in quella veste.
Ulisse sorrideva a tutte, mangiava allegramente, raccontava a loro delle balle, poi, si sa, da cosa nasce cosa, non diceva neppure di no, ma quanto a sostituire Penelope.... Penelope era unica, con quel suo piglio deciso, quella sua aria da avventuriera, la sua incoscienza, la sua bellezza.
Si erano conosciuti dieci anni prima nel caos di una indiavolata Manhattan. Ma il tempo felice era durato solo qualche breve stagione. Il tempo di mettere al mondo Telemaco, di allattarlo, e già, alle prime pappette, Penelope mordeva il freno, frequentava un corso per marines, e pensava che presto se ne sarebbe andata. Ulisse però sperava sempre di convincerla a rimanere o almeno a ritardare la sua partenza finché Telemaco fosse andato a scuola. Ma, aveva obiettato Penelope, la guerra non aspettava e lei vole-va scrivere la storia.
Ulisse riuscì a contattare altre donne che avevano militato assieme a Penelope e che erano da poco ritornate. Sì, tutto bene, per quanto ne sapevano, ma dopo la partenza dal Vietnam non avevano avuto più notizie. Qualche contrattempo forse, e poi, si sa, Penelope i guai se li andava a cercare.

Ulisse aspettava paziente. Eludeva l'attacco della vicina di casa servizievole che gli faceva trovare davanti alla porta la spesa e anche qualche buon piatto per la cena, chiudeva sgarbatamente il telefono alla madre che lo voleva convincere ad andare a vivere con lei, sostenendo che un uomo non è in grado di badare ad un bambino e a se stesso; insomma si dava un po' da fare per poter infine, tranquillo, mettersi a giocare a pallone con il bambino tra i mobili di casa. Cose che mai una donna avrebbe consentito!
Ulisse faceva il maestro e, dopo scuola, si metteva il grembiule e preparava il pranzo. "E' solo questione di organizzazione" diceva a chi gli chiedeva stupito come riuscisse a fare tutto. "Gli uomini sono più costruttivi . Le donne perdono tempo a la-mentarsi, a piangersi addosso, a raccontare quello che fanno. Meglio lavorare invece. E poi essere un po' elastici.... non è detto che tutto debba essere sempre in ordine".
E infatti ci si aggirava spesso tra calzini lanciati e libri a terra. Ma in quella casa era piacevole vivere. E Telemaco cresceva bene.
Ulisse gli raccontava della madre lontana, delle sue imprese, e alimentava in lui la speranza che un giorno sarebbe ritornata.
Con gentilezza decisa teneva a bada le sue colleghe, amiche e vicine e riusciva quasi sempre ad evitare che si insediassero a casa sua la domenica, raccontando loro che aveva da finire di costruire la barca.
Era una barca che stava costruendo da anni, nel box che aveva affittato allo scopo, e che avrebbe dovuto portarli, lui, Penelope e Telemaco a fare delle piacevoli scampagnate sul fiume.
Il discorso della barca otteneva sempre l'effetto voluto.
"Sarò tutto il pomeriggio impegnato" e le sue amiche petulanti desistevano. Il bambino annusava felice la vernice oppure passava il tempo giocando ai videogames.

Penelope intanto era lontana. Guardava l'orizzonte seduta sulla roccia, mentre in lontananza si iniziavano a vedere i primi rilievi himalaiani.
Quel paesaggio grandioso le infondeva un senso di pace. In esso si annullava e la sua anima ondeggiava felice. La luce soprattutto, quella luce speciale che oscilla tra l'azzurro, il verde e un incredibile rosa, era penetrata in lei, seducendola per sempre.
Era un mondo stregato quel mondo. Come si poteva sottrarsi al suo fascino?
La magia dei contrasti, splendore e orrore, vita e morte avvinghiate. Lo aveva scoperto nelle foreste tropicali tra farfalle stupende e carcasse in putrefazione, fiori carnosi e sanguisughe. La vita gridava in tutta la sua forza devastante. Non le si poteva mettere il bavaglio come a Manhattan.

Ma qualcosa non le permetteva di abbandonarsi completamente a quel piacere. Quando aveva lasciato la base militare e quasi tutte le sue colleghe erano ritornate nelle rispettive case, con tre compagne aveva preso il volo per Lhasa e da là si era avventurata in direzione delle vette più affascinanti della terra. Il Tibet le attraeva. La religione, i costumi, gli usi di quella gente. A Saigon aveva scoperto che il mondo non era solo Manhattan, sul Mekong aveva conosciuto gente diversa, ne era rimasta affascina-ta. Aveva pensato che, a guerra finita... No, non aveva pensato di rimanere, di rinunciare a ritornare a casa. Era stato solo qualche strana coincidenza. Un volo perduto, il fascino dell'av-ventura, un amico niente male. Anziché per New York avevano preso il volo per Lhasa.

Però ora che si trovava in quel paradiso e guardava tra le la-crime le cime dei monti che si intravedevano enormi, sentiva affiorare il desiderio della casa lontana. Certo, a Manhattan avrebbe dovuto inserirsi nel solito tran tran della quotidianità. E lei amava l'avventura, la vita che si inventa ogni giorno, e dormire nei bivacchi, e svegliarsi rabbrividendo per la rugiada. Però si sentiva in colpa. E non aveva degli dei a cui delegare la responsabilità delle proprie scelte. La vita di noi esseri razio-nali è dura quando non possiamo scaricare la responsabilità del nostro operato su qualche forza trascendente.
Penelope avrebbe voluto vivere nel contempo in Oriente ed a Manhattan. Desiderava entrambe quelle vite. Nessuna delle due da sola l'appagava. Ma non aveva un dio Posidone su cui lasciare ricadere la responsabilità di ritardare il suo ritorno. E Penelope piangeva.

Samuel le cinse la vita "Perchè piangi? Pensi alla tua casa?"
Penelope lo guardò. Era così dolce Samuel con quei suoi modi misurati da orientale da cui l'aggressività era, almeno esteriormente, bandita. In fondo, se era rimasta in Oriente, l'aveva fatto soprattutto per lui. Per godere ancora un po' quell'amore fuori dal tempo, fuori dal caos e dalla fretta di Manhattan. Ma sentiva rimorso di non dar notizie, di far soffrire chi amava.
La libertà sconfinata è un sogno. E a non rassegnarsi alle quo-tidiane limitazioni si rischia di convivere assieme a quantità insopportabili di rimorso.

Insomma, in capo a qualche mese, Penelope aveva deciso di ritornare. Di rinunciare all'avventura. Moge fecero a ritroso la strada che avevano qualche mese prima percorso con tanto entusiasmo. Sotto una torrenziale pioggia monsonica tra l'altro, in anticipo quell'anno.
A Lahore si separarono. Samuel non cessava di abbracciarla. E Penelope si asciugava di nascosto le lacrime, cercando di non far colare il trucco.
Nel volo interno Lahore - Dheli, ormai rassegnate, sistemate ai loro posti, mentre davano ancora qualche sbirciatina alle montagne lontane e l'aereo stava già per decollare, sedette vicino a loro un signore dall'aria distinta e dai modi raffinati e genti-li.
"Americane?" aveva chiesto e, in un inglese ineccepibile, aveva cominciato a raccontare la sua vita.
Penelope e le sue compagne si divertivano e ridevano allegramente. Trascorsero piacevolmente quel breve tratto di volo. Poi, quando già stavano per sbarcare e congedarsi, l'uomo fece loro la proposta di fermarsi per un po' nella sua villa nello Yemen: un parco bellissimo, spiagge incantevoli, un vero paradiso. Il mondo descritto da Jludi sembrava allettante e poi a poche ore di volo. Insomma si lasciarono tentare.
Finirono però in un vero e proprio harem, tra profumi di sandalo e musiche orientali, inebetite dalle droghe, tra molli cuscini in un'intimità non solo cameratesca con le altre donne. E non c'era modo di fuggire. Per anni Penelope studiò ogni mezzo, ed infine vi riuscì, rocambolescamente, ingannando il sorvegliante, correndo con il cuore in gola per una strada di ciottoli, con i piedi gonfi e sanguinanti, trovando infine un vecchio autobus sgangherato che, dopo ore di deserto, la portò a San'a. Al consolato, senza soldi e documenti, aveva supplicato che la facessero ritornare in patria. Sola, perché le altre non avevano voluto fuggire con lei.

E così Ulisse una sera si vide comparire davanti una donna che somigliava vagamente alla Penelope di tanti anni prima. Con uno strano vestito a brandelli, i capelli lunghi, tutta impolverata. A tutta prima non la riconobbe ma Penelope sollevò con una mano i capelli facendo vedere il suo sorriso e gli occhi azzurri. Ulisse l'accolse felice. Aveva sempre saputo che sarebbe ritornata. Non finivano di parlare e di raccontarsi quegli anni.
Penelope si tolta via la polvere della sua avventura d'Oriente e si era lavata e legata i capelli. Avrebbe avuto bisogno di un buon parrucchiere. Ma per quella sera andava bene così.

Qualche giorno dopo, mentre Ulisse stava mettendo nel forno una torta al cioccolato che solo lui sapeva fare con i canditi e i marrons glacés, entrò Penelope con aria strana "Sono stata al distretto. Mi dicono" si interruppe "mi dicono che dovremo partire entro l'anno... Per una spedizione di pace, un contingente dell'ONU..."
Ulisse si tolse il grembiule a fiori e passando una mano tra i folti capelli neri sedette. "Penelope, a questo punto le cose vanno un po' ridimensionate. Ridiscutiamole. Per giustizia, per un po' di equità "
Era vero. Ma nel passato nessuna Penelope aveva con determinazione decisa posto le sue condizioni.

Marina Torossi Tevini è nata a Trieste è laureata in lettere classiche, insegna al Liceo "Dante Alighieri".
Ha pubblicato nel l99l la raccolta di poesie "Donne senza volto" (II classificata nel premio "Parchetti" di Zagarolo, III classificata al premio "Cesare Pavese); nel 1994 la raccolta di racconti "Il maschio ecologico" - edizioni Campanotto (finalista al "Carrara Hallstammer") e nel 1997 la raccolta di poesie "L' unicorno" - edizioni Campanotto (premio speciale della Giuria al Felsina 1997).
Ha ricevuto anche numerosi riconoscimenti per opere inedite tra cui nel 1993 il I premio al concorso letterario "Il leone di Muggia".
Ha curato la pubblicazione postuma del romanzo del padre "La valle del ritorno" (Campanotto).
Collabora a giornali e riviste e fa parte del direttivo di alcune Società culturali triestine.

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