Vittorio Bottego
Esploratore, nato a S.Lazzaro di Parma nel 1860 e morto a Daga Roba in Etiopia nel 1897. Ufficiale d'artiglieria e abile cavallerizzo, sognando un'esistenza eroica, si fa trasferire in Eritrea nel 1887. Esplora la Dancalia fino ad Assab(1891), quindi si propone di penetrare nella regione del Giuba. Con il capitano Matteo Grixoni parte da Berbera nel 1892, raggiunge il Ganale Doria, cioè l'alto corso del Giuba e risale il fiume fino alle sorgenti (marzo 1893). Andatosene il Grixoni, Bottego tocca il Daua Parma, scopre le cateratte poi chiamate Barattieri e Dal Verme sul Giuba e, infine, raggiunge Brava(settembre 1893). Il resoconto del suo viaggio, costato 35 morti, appare nel libro "Il Giuba esplorato" (1895). Torna in Italia e nell'ottobre 1895 riparte per un altra spedizione da Brava con 250 ascari e 4 bianchi (sotto gli auspici della Società geografica italiana); cerca di risolvere il problema del fiume Omo. Raggiunto il Lago Pagadè (chiamato poi Regina Margherita) tocca l'Omo e lo segue fino al Lago Rodolfo (settembre 1896). Tenta di attraversare l'Etiopia, ma è invitato dai messi di Menelik a cedere le armi; preferisce combattere e viene ucciso sul colle di Daga Roba paese dei Galla, il 17 marzo 1897.
Temerario esploratore e valente militare, Vittorio Bottego fu anche un attento naturalista che si dedicò per anni allo studio e alla classificazione di quegli stessi esemplari di fauna africana che costituiscono oggi la ricchezza del “Museo dell’Università” a Parma a lui intestato. Nelle lettere ai genitori e al cognato Pio Citerni, Bottego, che intanto lavora assiduamente al suo libro Il Giuba Esplorato, non risparmia aspre critiche alla presenza militare degli Italiani in Africa, e fotografa con il suo sguardo curioso di ricercatore uomini e donne delle tribù, ippopotami abbattuti durante le cacce, elefanti e soldati incontrati sul suo cammino. Durante l’estate del 1889 Vittorio Bottego tornò in licenza a Parma e facendo visita al Gabinetto zoologico dell’Università si accorse della scarsezza dei materiali faunistici riguardanti le regioni africane da poco colonizzate dal Regno. La visita al gabinetto - scrive Strobel - “... determinò in lui, valente cacciatore, il proposito di mandare al medesimo in dono quanto di prodotti animali vi avrebbe potuto raccogliere, per formare così in Parma una collezione zoologica, che rappresentasse la fauna di quelle poco note contrade; comprendendo tosto intuitivamente che in tal modo avrebbe reso un servigio alla scienza e cresciuta importanza al gabinetto e lustro all’ateneo ed alla città natale. Scriveva Strobel nella sua Guida al Museo Eritreo Bottego in Parma (Battei, Parma, 1891): “La collezione essendo, specialmente quanto ai mammiferi ed agli uccelli, quasi completa, è senza dubbio la prima in Italia, del suo genere e di un valore eccezionale, né altra simile potrà farsi in avvenire, a meno del ritorno dell’Eritrea all’Abissinia, in quanto che collo stabilirsi colà degli Europei è incominciata la distruzione della selvaggina, e sarà senza tregua continuata sino al suo sterminio od alla cacciata della medesima da quel territorio”
Da L'esplorazione del Giuba:
La terza va dalla stretta fino a dove il fiume Dáua si unisce col Ganána. Nei due primi giorni di marcia le boscaglie vi si mantengono ancor fitte: poi, diradandosi, lasciano luogo a coltivazioni. Il corso del fiume è sempre seguito da boschi di palme.
Forse si potrebbe, con un ben inteso sistema d’irrigazione, trarre qualche profitto agricolo dalle zone piane vicine al Dáua. Lungo il corso di questo fiume abitano due popolazioni ben distinte: i Bóran (che si dividono in Bóran propriamente detti ed Uáta, e parlano galla) ed i Somáli Gárra.
Per fauna, la valle del Dáua è la più ricca di tutte quelle che formano il bacino del Giuba. Vi sono ippopotami, rinoceronti, cinghiali, elefanti, giraffe, antilopi, struzzi, una quantità sterminata di galline faraone (Numida vulturina e ptilorhyncha) e molta varietà d’altri uccelli.
Le acque del fiume sono ricchissime di pesci.
Ganána, venerdì 14 luglio. - Un mio soldato assassinato. - Quando sto sulle mosse i Gárra corrono a salutarmi, portando bestiame e dura da vendere.
Agg Alí raccomanda di non lasciar che i beduini si avvicinino lungo la strada, e, se avrò da fare acquisti, di mandar per trattare, fuori del campo, le due guide Helolé e Cannó.
Passiamo vicino a Bentél, villaggio in due frazioni, abitato da Gubahín. Lungo il cammino parecchi altri villaggi occupati dalla stessa gente ed altri da Merihán, che i Gárra dicono Ogadén. Dappertutto venditori di viveri che m’aspettan sulla via. Da una piccola carovana, che torna da Lugh, so che in quel paese vi son due bianchi abbandonati.
Appena costrutta la zeríba, un soldato vede nel bosco un uomo alto, nero, come un Sudanese, armato di moschetto e cartucciera; chiamatolo, scappa via. È uno dei disertori di Lugh.
Mi dicono che un mio uomo è stato ucciso a pochi passi dal campo, vicino al fiume; di lì a poco me lo portano sopra un top. È uno degli scampati dall’eccidio del drappello di Uarsámal! Ha quattordici ferite di coltello, due mortali; una nel fianco che penetra in cavità e una, sotto la nuca, gli recide il collo per un terzo. Fa raccapriccio. Racconta che due Somáli, che prima parlavan con me, gli saltarono alle spalle mentre attingeva acqua, gli buttarono il fucile nel fiume e lo accoltellarono. Egli, benché disarmato, ne afferrò uno, che gli sfuggì, lasciandogli nelle mani il top; indi cadde svenuto. È una vittima della propria imprudenza, io ho ripetutamente ammonito i soldati di non uscire dal campo soli per nessun motivo.
Le due guide danno per certo che gli assassini sono stati Merihán, ne’ cui villaggi si offrono di condurmi domattina presto, perché possa fare la mia vendetta. Respingo la proposta dicendo ch’è ingiusto coinvolgere nella rappresaglia colpevoli ed innocenti; chè anzi probabilmente i primi ci sarebbero sfuggiti; che sarebbe peggiore del delitto farne ricadere la colpa sull’intera tribù.
Allora Cannó, la guida, con voce tranquilla e senza cambiar di posa, mi fa questo racconto:“C’era una volta una famiglia composta del padre, di un figlio e di una figlia. Un giorno alcuni ladri rubarono un cane che apparteneva alla ragazza; questa si querelò col padre perché cercasse di riaverlo e la vendicasse; ma egli le rispose che per un cane non valeva la pena. Dopo qualche tempo i ladri ritornarono e rubarono un asino, anch’esso della fanciulla. Le nuove rimostranze di lei non ebbero risposta migliore. I ladri, la terza volta, non si contentarono di rubare, ma uccisero anche il giovane fratello di lei. Il genitore addolorato voleva correre per punire i colpevoli; ma la giovinetta, vedendogli prendere lancia e scudo, disse: – “Quanto poco giudizio possiedi; tu sei vecchio e vuoi correre a punire gli assassini? Non otterrai nulla, ed ammazzeranno anche te. Prima, quando il danno era piccolo, potevi punire i colpevoli con l’aiuto d’un giovane; ma tu li hai lasciati venire impunemente per ben due volte, ed ora che il male è irreparabile vorresti agire?” – “Così succederà di te” – prosegue la guida. – “Tu ora non vuoi vendicarti, ma i Merihán ritorneranno, ti ruberanno gli asini ed ammazzeranno gli uomini; poi uccideranno te pure. Non sai che questi beduini credono che l’uccisione di un cufr (infedele) dia diritto al paradiso?”.