IL VINO NELLA STORIA PIEMONTESE
Il vino è bevanda quotidiana nella maggior parte dei Paesi Mediterranei e ne percorre tutta la storia sin dagli albori della civiltà. Documenti in materia sono presenti in grande abbondanza sia per quanto riguarda testi specifici, che nel mondo della letteratura in generale. Il vino sembra essere ovunque, con un consumo comune e diffuso, ma proprio per questo sfuggente alle rilevazioni, tanto più imprecise in presenza di vini di difficile conservazione e di una produzione destinata all'autoconsumo.
Uno studio recentissimo condotto da paleontologi dell'Università della PennsyIvania e riportato sull'autorevole rivista scientifica "Nature", ha stabilito che il segreto della fabbricazione del vino era già conosciuto all'uomo 5000 anni prima di Cristo, ancora nell'età della pietra; i resti, venuti alla luce nel territorio dell'attuale Iran, testimoniano che gli abitanti dei luogo bevevano vino mentre mangiavano pane ed olive. Secondo gli autori dello studio, il vino era tenuto in grande valore sia per le sue qualità medicinali e ricostituenti che per gli effetti psicotropi sull'uomo. Questa scoperta ha spostato di 2000 anni indietro la data di inizio della fabbricazione di questa bevanda che ha quindi accompagnato la storia dell'uomo fin dai suoi albori, per la precisione dell'epoca della formazione dei primi villaggi e dello sviluppo delle prime attività artigianali.
Sembra che il vino in Italia sia stato prodotto fin dall'età del ferro. La sua diffusione è avvenuta nel bacino del Mediterraneo e presso le antiche cività: fenicia, greca e romana. Il fenomeno della fermentazione rimane però ignoto per secoli, anche se era uso comune far fermentare non solo uva, ma anche sostanze amilacee e zuccherine che portavano alla produzione di idromele, sidro e vino di palma.
I primi ritrovamenti di pollini che fanno pensare ad una vera e propria coltivazione della pianta della vite in Piemonte risalgono al Neolitico e precisamente agli inizi del IV millennio a.C. in località Casalnoceto. Altri ritrovamenti sono avvenuti ad Alba in località Moretta (XIV-XIII secolo a.C. - media-tarda età del Bronzo) e a Vislario (X-IX secolo a.C. - Bronzo finale) dove è stato rinvenuto un vinacciolo. Data la tendenza della vite ad avere una limitata diffusione di polline, è molto probabile che ritrovamenti di questo tipo indichino piante cresciute nelle zone abitate, e forse già coltivate.
Non si è sicuri se questi reperti indichino una vera coltivazione della vite, ma anche in questo caso non pare che l'uva rivestisse un ruolo alimentare o economico maggiore di quello di altre bacche come il corniolo, il sambuco e la mora di rovo. Anzi, le bacche di corniolo e di sambuco sono state ritrovate in maggiore abbondanza, tanto da far pensare che in quel periodo la principale bevanda alcolica venisse prodotta proprio a partire da questi frutti. Il loro succo fermentato, nei periodi più antichi, poteva quindi essere la principale bevanda dell'area piemontese, alla quale venivano affiancate birra, idromele e sidro, bevande alcoliche ampiamente diffuse all'epoca in tutta l'Europa.
Intorno al 400 a.C. i Galli cominciarono ad infiltrarsi nell'Italia settentrionale opponendosi agli Etruschi e fondendosi con le popolazioni liguri locali oppure ricacciandole sugli Appennini. Il risultato di questa migrazione fu una celtizzazione delle popolazioni piemontesi. A sud del Po la fusione tra Celti e Liguri portò ad una simbiosi tanto profonda che diede origine a tribù definite celto-liguri dagli stessi autori antichi. In questa discesa verso il Mediterraneo i Celti subirono delle forti influenze etrusche. Proprio daquesti ultimi appresero rapidamente le tecniche di coltura della vite e le svilupparono in Piemonte. Si trattava allora di arbustum, arrampicato su tutori vivi, principalmente pioppi, olmi, aceri.
Il rapporto instaurato fra gli Etruschi e le popolazioni celtiche fu caratterizzato da una impronta particolare. A differenza dei coloni Massalioti, che tendevano a esportare essenzialmente delle merci, gli Etruschi condivisero con i popoli del Nord le loro conoscenze tecniche in diversi settori, e lo fecero anche per la viticoltura.
D'altro canto se i Galli appresero dagli Etruschi le tecniche di viticoltura a loro volta introdussero l'utilizzo della botte. Le botti di legno erano estranee alla pratica enologica greca e a quella centro-italica. I testi antichi cominciano a parlarne solo in riferimento alla Gallia Cisalpina.
Eppure questi contenitori presentavano notevoli vantaggi: erano più capienti delle anfore, si trasportavano bene e inoltre parevano particolarmente adatti a conservare il loro contenuto in zone dove si riscontravano frequenti variazioni di temperatura. Lo notarono gli autori classici come Virgilio e Plinio i quali rilevarono le loro proprietà isolanti, molto utili per proteggere il vino dal freddo.
Scrive infatti Plinio: "I metodi per conservare il vino differiscono grandemente a seconda del clima. Nelle regioni alpine lo si racchiude in recipienti di legno rinforzati con cerchiature e persino nel pieno dell'inverno, lo si preserva dal gelo, accendendo dei fuochi."
Nell'elaborazione e nella diffusione dell'arte del bottaio i popoli gallici ebbero una parte di primo piano. La loro diretta influenza è ampiamente documentata dall'eredità linguistica che ci hanno lasciato. Il termine gallico *bunda ha dato origine al canavesano bunda e al piemontese bondon "cocchiume, il foro della botte e il tappo che la chiude". Anche i termini *brenta (recipiente per il trasporto a spalle) e bonz (botte carreggiata) sono stati diffusi nei dialetti del Piemonte a partire dalle parlate galliche. Lo stesso termine "bricco" deriva dal celtico brich, che significa sommità, altura.
Il primo ingresso dei Romani nella regione subalpina risale al 223 a.C. , quando un piccolo villaggio, Clastidium (Casteggio), venne occupato dai legionari comandati dal console C.Flaminio. La posizione strategica del villaggio era fondamentale, sia in quanto zona di comunicazione sia perché costituiva un punto di agevole controllo sulle aree occupate dai Liguri e dai Gallo cispadani. Guerre successive portarono a un dominio sempre più serrato della regione. Questo si affermò lentamente, attraverso lunghi periodi di ostilità. I Romani impiegarono più di cento anni per assicurarsi un controllo completo di questa parte dell'Italia. Vi riuscirono definitivamente soltanto intorno al 100 a.C.. In quegli anni fondarono un gran numero di colonie fra cui Pollentia (Pollenzo), Augusta Bagiennorum (Bene Vagienna), Aquae Statiellae (Acqui), Hasta (Asti), Alba Pompeia (Alba), Eporedia (Ivrea) e romanizzarono la capitale dei Taurini alla quale diedero il nuovo nome di Julia Augusta Taurinorum (Torino).
Secondo il loro tipico modo di procedere, i Romani seguirono anche in Piemonte il costume di far avanzare di pari passo le conquiste militari e la costruzione delle strade. L'ampliamento della rete viaria era considerato essenziale; rappresentava infatti il metodo per allacciare le nuove zone con la capitale, serviva da rafforzamento dei confini che in tal modo erano più agevolmente raggiungibili dall'esercito e costituiva anche un mezzo vantaggioso per ulteriori conquiste, dato che consentiva lo spostamento rapido di ingenti truppe.
A partire dalla conquista romana, intorno ai primitivi stanziamenti latini cominciòad estendersi un intenso processo di romanizzazione delle campagne. Fu allora che esse vennero sicuramente e fittamente abitate.
La gestione del terreno agricolo secondo il modello latino portò ad una riorganizzazione della proprietà fondiaria. Questa non venne totalmente sovvertita rispetto all'epoca celto-ligure, ma fu integrata e venne resa più funzionale. Uno dei metodi per il miglioramento produttivo delle aree fu l'assegnazione di terra a veterani dell'esercito romano. I terreni tolti ai popoli vinti diventavano infatti proprietà pubblica: ager populi romani.
Con la colonizzazione romana la viticoltura venne praticata più estesamente in Piemonte e si avvalse di nuove conoscenze. Questo fenomeno inizialmente interessò soprattutto i principali nuclei abitati e si concentrò lungo le vie di comunicazione, prima di espandersi su un più ampio raggio. I ritrovamenti di antiche anfore in Piemonte si sono rivelati molto utili per seguire il tracciato delle vie commerciali del vino. La tradizionale produzione celtica di birra e idromele deve aver comportato inizialmente delle importazioni molto limitate. Nel VI-V secolo a.C. manca una produzione locale di grandi anfore, tuttavia nelle tombe di Lumellogno (NO) compaiono delle piccole anfore vinarie locali. Si pensa quindi che la mancanza di grandi anfore non sia segno dell'assenza di una produzione di vino, ma indichi che il vino era trasportato in otri e botti di legno. Con il passare del tempo e con lo sviluppo dei legami commerciali con altri popoli dell'Italia, il sistema di conservare e trasportare il vino nelle anfore d'argilla, metodo tipico della società romano-mediterranea, si sovrappose, pur non soppiantandolo, all'uso prettamente gallico degli otri e delle botti. Gli studi archeologici relativi alle anfore indicano dunque che nel Primo e Secondo secolo d.C. il Piemonte pare ben inserito nei commerci del vino adriatico, con scarsi apporti di vino tirrenico. L'alto numero di reperti fa rilevare che la ricchezza della regione doveva ormai essere ad un buon livello, tanto da permettere una considerevole spesa per l'importazione dei vini italici ed egei.
Tra i dati archeologici che attestano l'attività del commercio di vino in Piemonte, in epoca romana, troviamo due interessanti stele funerarie del primo secolo d.C. . Queste rappresentano una tipica espressione artistica e culturale della regione, infatti erano molto diffusi in Piemonte i rilievi funerari che commemoravano con una epigrafe e con una immagine l'attività svolta dal defunto. La prima stele riguardante la vendita del vino proviene probabilmente da Cherasco ed è stata scolpita in onore di Q. Veiquasius Optatus. Sulla lapide è stato rappresentato un carro tirato da due muli. Sul rimorchio è ben visibile una grande botte nella quale un servo sta versando del vino. Non molto distanti dal carro sono raffigurati due uomini che contrattano. La scena viene interpretata come un'immagine della trattativa commerciale che doveva necessariamente accompagnare il commercio del vino. E' da notare che nella decorazione della stele sono riprodotte delle figure femminili che portano grosse ceste d'uva sulle spalle, il che rafforza il tema enoico con il richiamo della scena vendemmiale.
Nel III secolo d.C. l'impero romano era entrato in una grave crisi. Era una crisi tanto più profonda in quanto era caratterizzata da molteplici sfaccettature: militari, economiche, religiose. In generale le difficoltà economico-politiche danneggiarono fortemente la complessa rete commerciale che aveva permesso di coordinare la produzione delle diverse regioni dell'impero. Non fu più possibile far arrivare sui mercati quello che i consumatori desideravano. I molti problemi sociali ebbero riflesso diretto anche sulle strutture di produzione agricola che dovettero subire pesanti contraccolpi. Come conseguenza sia la produzione che il commercio del vino si trovarono ad affrontare delle difficoltà considerevoli.
Questo fu un periodo difficile segnato da guerre di invasione dalla fame. Nel 402 si abbatterono sulla regione i Visigoti di Alarico, sconfitto poi da Stilicone presso Pollenzo. Nel 450 imperversò una grande carestia. Nel 476 arrivarono le schiere di Odoacre e quattordici anni dopo, i Goti di Teodorico. Verso la fine del secolo giunsero anche i Borgognoni di Gundebaldo, poi fu la volta dei Longobardi. Essi si avvalsero dell'esperienza del diritto romano. A quello appunto si ispirò Rotari per promulgare il suo celebre editto del 643. Nell'Editto di Rotari si codificavano specificamente i comportamenti relativi alla vite e al vino e si stabilivano le multe da applicare ai trasgressori.
Nel periodo che va tra il IV e il VI secolo si attuò un processo storico e culturale di grande portata: l'introduzione del Cristianesimo. Vi sono studiosi che situano nel I e II secolo l'introduzione in Piemonte della nuova religione, ma sebbene si possa ammettere che in quell'epoca vi siano state le prime conversioni, si trattò di avvenimenti sporadici che non ebbero carattere rilevante almeno fino al III-IV secolo.La cristianizzazione ebbe un'influenza profonda sui territori dove si diffuse. Prima coinvolse le città più grandi, o quelle più vicine ai nodi viari più importanti, poi si diffuse in campagna nei pagi e nei vici. La diffusione delle comunità cristiane ebbe delle notevoli ripercussioni sulla ricostituzione del paesaggio agrario. La volontà di ripopolare le campagne e di recuperare la coltivazione delle terre furono fattori decisivi per la ricostituzione del vigneto. Con l'avvento del Cristianesimo l'importanza della vite si arricchì di nuove connotazioni: il vino, oltre che ambita bevanda della parca dieta medievale, era diventato la bevanda sacra per eccellenza, il simbolo del sacrificio di Cristo. Già in precedenza le religioni e le culture del Mediterraneo avevano assegnato alti valori alla vite, all'uva, al vino. Il Cristianesimo riprese riferimenti e immagini antiche dando loro nuove interpretazioni e nuovi valori sacri. Il tralcio della vite, i grappoli e i pampini diventano simbolo della "vite del Signore", secondo la parole evangeliche: "Ego sum vitis vera". Dall'VIII secolo queste tematiche si fanno più frequenti nelle decorazioni di capitelli, pilastri, plutei, portali delle chiese. Ne troviamo testimonianze nella zona del Piemonte sud-occidentale presso l'abbazia longobarda di San Costanzo, nella cattedrale di Alba, in reperti provenienti da S. Frontignano e S. Lorenzo di Caraglio
Dopo l'VIII Secolo la viticoltura si considerò sempre più interessante, tanto che era frequente l'invito dei proprietari ai propri coloni affinché aumentassero lo spazio vitato. In certi casi si indicava anche in quale zona del podere la nuova vigna andava piantata. In molti atti privati si elencavano al colono le operazioni agricole necessarie per una buona coltivazione del vigneto, al fine di evitare cattivi raccolti. Talvolta l'invito ad espandere la vigna era un ordine puro e semplice, talvolta l'incitamento era rappresentato dalla richiesta di un canone molto inferiore a quello abituale che esigeva la metà del vino prodotto dalle viti. Un esempio di canone particolarmente basso è quello che si trova in un contratto di livello del 972, riguardante il territorio di Gavi. Il proprietario concedeva per 25 anni due pecie di vigna, in cambio di un versamento annuale di due denari e due polli.
Il periodo tra il 1100 ed il 1300 fu l'età d'oro dei Monferrato. Imparentati con le principali case regnanti d'Europa, impegnati in azioni politico-militari in Oriente, rappresentavano la corte signorile più ricca e celebre dell'Italia del Nord. Grazie ai contatti politici tra il Monferrato e l'Oriente, alle azioni militari e ai matrimoni, il periodo tra il 1150 e il 1250 vide molti Monferrini in viaggio per la Grecia e la Terrasanta. La prima occasione importante per conoscere costumi e abitudini dei popoli d'Oltremare fu la seconda crociata, capeggiata dal re Luigi VII di Francia e dall'imperatore Corrado di Germania. A questa impresa partecipò anche Guglielmo, Marchese del Monferrato (1113 -1191). I contatti poi proseguirono intensamente per tutto il XIII secolo. È difficile fare un bilancio di quanto questi contatti con il mondo orientale abbiano potuto modificare le abitudini o gli atteggiamenti tradizionali dei Piemontesi rispetto alla viticoltura. Sicuramente mise i nobili del Piemonte a conoscenza delle abitudini alimentari e dei vini dell'Oriente, e portò a conoscenza dei dotti i testi agronomici greci.
Tra la fine del XI secolo e l'inizio del XII si era affermata nelle città una forma autonoma di governo, che si era dotata di proprie strutture per amministrare la giustizia e si era fornita di una propria indipendente organizzazione militare. Questo nuovo organismo sociale era il Comune. Si vide così tra il XII e il XIII secolo la formazione in ciascun Comune di un corpus scritto di consuetudini locali, che dovevano obbligatoriamente venire osservate nei rapporti tra privati. Queste compilazioni presero il nome di "Statuti". Oggi sono fra le fonti più importanti per analizzare e studiare la vita sociale dell'epoca.
Nel XIV e nel XV secolo si trovano attestazioni che riguardano la viticoltura praticamente in tutte le zone del Piemonte. I vigneti non sono solo presenti nei terreni agricoli ad essi tradizionalmente destinati, ma sembrano coltivati dappertutto: all'interno delle città e nei paesi si trovano pergolati situati nei cortili, alteni negli orti, piccole vigne presso le case, vigneti più importanti vicino alle chiese, come avvenne ad esempio per la chiesa di San Giovanni di Novara, che venne pertanto definita "de intus vineis".
Di fronte all'importanza sempre crescente e all'ampia diffusione della vite si rese necessaria una protezione ufficiale ed autorevole. Durante il XIII secolo si provvide dunque all'inserimento negli statuti comunali di numerose norme riguardanti specificamente la vite e il vino: coltivazione, raccolta, produzione, manomissioni, furti o altri danneggiamenti, consumo e commercializzazione.
Mentre nel periodo romano la preferenza per i vini bianchi ad alto tenore alcolico aveva sfavorito i vini piemontesi, nel medioevo la tendenza a preferire vini rossi giovani fece sì che i vini rossi del Piemonte cominciassero a godere di una certa rinomanza. Ogerio Alfieri, cronista astigiano vissuto tra il 1230 e il 1294, esprime pieno apprezzamento per il vino di Asti, che definisce "bono et optimo". Analogo apprezzamento venne espresso da parte del celebre Pier de Crescenzi, che nel 1271 fu giudice del podestà di Asti.
Le tecniche di vinificazione in Piemonte non erano diverse da quelle tipiche del periodo: si pigiava con i piedi, dentro tini di legno. Non si conoscevano i metodi di diraspatura, mentre esistono riferimenti a strumenti che probabilmente servivano per la separazione delle bucce dal mosto nel caso della preparazione del vino bianco. Le operazioni di pigiatura venivano compiute in genere nel vigneto o nella sua prossimità. Allo scopo si utilizzavano dei locali dove oltre alla pigiatura sovente si svolgeva anche la fermentazione. Il mosto o il vino venivano poi portati nella cantina dell'abitazione. Queste costruzioni campestri venivano chiamate in modi diversi che ricordavano la loro funzione di riparo, ad esempio"tecto" o "cassina" ad Asti o "caboto" a Pinerolo.
La torchiatura delle vinacce era una pratica libera ed abituale. Raramente per torchiare era necessario avere un permesso, come avveniva a Serralunga d'Alba, e altrettanto raramente si pagava una somma, come accadeva a Giaglione presso Susa, dove si trova registrato che il monastero di San Giusto riceveva alcuni denari per il "pistagium" delle uve.
I classici recipienti da vino del Piemonte medievale erano le botti, realizzate frequentemente in rovere e in castagno, anche se non mancano riferimenti all'impiego di legno di larice o di abete. Fino al 1500 i cerchi delle botti continuarono ad essere di legno. L'uso del ferro, materiale molto più costoso, per la cerchiatura fu adottato solo in epoca più tarda. L'operazione di misurare la capacità delle botti era affidata ai brentatori, che si servivano di un recipiente di forma particolare, che veniva portato a spalle, di origine probabilmente celtica: la brenta.
La brenta, di forma oblunga e munita di cinghie per fissarla alle spalle del portatore, era nel contempo recipiente d'uso e unità di misura. È certamente uno dei simboli dell'enologia piemontese.
A parte le vendite dirette effettuate dai produttori cittadini, nel medioevo, il grande punto di vendita al minuto era la taverna. Il mestiere di taverniere si strutturò e si regolamentò. Gli osti vennero obbligati a prestare alle autorità comunali un giuramento, in cui dichiaravano di vendere vino puro e a giusta misura. A differenza delle locande, che fornivano anche da mangiare e da riposare ed erano destinate soprattutto ai forestieri, le taverne erano tradizionali punti d'incontro e di aggregazione degli uomini di un quartiere o di un paese. Erano gestite in genere da uomini, più raramente erano condotte dalle "tabernarie". A volte venivano contrassegnate da insegne, oppure erano evidenziate da frasche. Negli statuti si trova spesso il divieto di mettere troppo in evidenza la presenza di una taverna. A Cuneo le frasche potevano essere solo fatte da rami come il sambuco, senza frutti che le persone potessero mangiare. A Vercelli nel secolo XIII era invece vietato ogni tipo di insegna, ogni tipo di richiamo fatto da tavernieri o dai loro garzoni ai passanti, ed era proibito persino mostrare "frascas" o "ramas". L'unico segnale lecito era lo "spaerum", che era probabilmente un vaso rotondo, messo fuori dalla porta del locale per indicare che si vendeva vino.
Dopo il 1000 la vite in Piemonte era coltivata in "vinee" o in "gricie". Le viti erano tenute a cespuglio basso (in bussono), oppure a spalliera (ad filagnos) ed erano sostenute da pali (detti brope o tegle), con i tralci legati a paletti trasversali per mezzo di vimini o ginestre. Le gricie dovevano corrispondere alla coltivazione a filari. Si legge in documenti del 1400 che le gricie erano disposte a file, e del resto in dialetto piemontese "gherssa" significa "fila, riga". Il terreno agriciato, oltre alla vite ospitava anche dell'arativo. In un contratto di affitto di terra agriciata in Andezeno venne concordato un canone che comprendeva sia uva che grano. In un altro contratto stipulato nel Chierese, gli affittuari di terra agriciata si impegnavano anche ad arare.
A partire dalla fine del 1200 si trovano le prime testimonianze di una nuova pratica colturale l'alteno o terra altenata. Questa si sviluppò prima in terreni con lieve dislivello e poi si espanse gradualmente in molte parti del Piemonte. Nel 1254 una delle prime attestazioni si riscontra in un toponimo di Monticello d'Alba, dove una località era chiamata "in Altinis".
Nell'alteno le viti erano tenute alte e sostenute da tutori vivi, come olmi, aceri, salici. Nella terra altenata erano associate tre colture: vite, cereali e albero tutore. Gli ampi spazi che intervallavano questa coltura oltre a fornire la possibilitàdi coltivare frumento, legumi e ortaggi, permettevano di effettuare le lavorazioni agricole con l'aiuto degli animali. Nonostante la sua clamorosa avanzata l'alteno non sostituì mai completamente la vigna. In certe zone della regione come l'Astigiano, l'Alessandrino e il Casalese l'alteno non ebbe alcuna diffusione rilevante e la vigna rimase predominante.
A partire da questo secolo le notizie sulla viticoltura e sull'organizzazione della produzione di vino sono sempre più numerose. Una originale testimonianza sulla vinificazione tra la fine del 1500 e l'inizio del 1600 è ci viene data da Giovanni Battista Croce, gioielliere di casa Savoia che scrisse un'opera intitolata "Della eccellenza e diversità dei vini che nella Montagna di Torino si fanno e del modo di farli". Egli descrive le tecniche di produzione del vino torinese e fornisce importanti indicazioni sulle preferenze della nobiltà piemontese. Innanzi tutto chiarisce il fatto che esistono molti tipi di vino, che appaiono adatti a tutti i gusti e alle diverse stagioni. Questa varietà è dimostrata dal gran numero di ricette che presenta: vi sono nel trattato ben 28 diversi metodi di vinificazione, che producono vino bianco (3 ricette), grigio, sottratta, chiaretto (8 ricette), passito (3 metodi), frizzante (7 ricette), schiappato (3 ricette). La classificazione organolettica del 1600 si fa sulla base del colore, del gusto e del piccante (frizzante). Se si deve giudicare dal numero di metodi e di riferimenti, le preferenze vanno ai vini rosati, dolci e frizzanti. Alla base del processo di vinificazione Croce mette la scelta delle uve. Il vitigno che risulta preferito è il Nebbiolo, ma è evidente che si riconoscevano molte varietà diverse, se ne sapevano valutare pregi e difetti, e a seconda della loro qualità venivano vinificate con tecniche specifiche. Il Moscato era in questo periodo un vino secco. I vini bianchi dolci venivano prodotti con uve non aromatiche, come l'Erbaluce. Croce pur conoscendo la filtrazione su sacchi, non la usava per i bianchi, bensì solo per i chiaretti.
Altre notizie ci giungono, per esempio, relativamente al consumo di vino alla corte di Emanuele Filiberto. Esso era regolato dalla "someglieria" o "bottiglieria", un'istituzione gerarchica comprendente due someglieri, due aiutanti someglieri, uno o due provveditori di vino, alcuni garzoni e un portabarrale. Il volume di vino utilizzato era ingente. Nel 1547 erano ben 124 le persone che avevano diritto a una razione quotidiana. Aggiungendo a queste il vino per la cucina e per il corpo di guardia, si arriva al consumo di ben 263 pinte al giorno, pari ad una quantitàcomplessiva di circa 1600 ettolitri all'anno. La someglieria doveva procurare e distribuire due qualità di vino: il vino "di bocca" destinato al duca di Savoia e ai suoi ospiti, e il vino "del comune" destinato al personale.
A Sud-Est di Torino si stende un'ampia zona collinare, che corre quasi parallela al Po. I punti più elevati sono molto vicini alla città, distano appena un'ora e mezza di cammino, e raggiungono un'altitudine variabile tra 600 e 670 metri. Da questa spina dorsale si dipartono numerosi contrafforti, che arrivano fino al fiume formando molte piccole valli, di forma e grandezza diversa.
In questo piacevole scenario di campagna, Filiberto Pingone barone di Cusy, nel 1565 fece gettare le fondamenta di una dimora estiva. In questa abitazione si rifugiò durante un'epidemia di peste, sopravvisse in buona salute e compilò anche una storia di Torino. Fu lui il primo nobile a eleggere la collina torinese come sede di villeggiatura estiva. Il suo esempio venne presto seguito da molti altri concittadini.
Intorno al 1577 la moda della villa in collina divenne un vero fenomeno di costume per i ceti più ricchi di Torino. Questa abitazione collinare venne chiamata "Vigna" per sottolineare l'importanza del vigneto nel fondo agricolo che circondava la villa.
Fino alla fine del 1600 le tecniche enologiche erano ancora mancanti dell'ultimo ed essenziale anello: la conservazione in bottiglia del vino finito, con la chiusura del tappo di sughero. I tappi di sughero, già conosciuti alla fine del 1500, appaiono utilizzati per chiudere temporaneamente il cocchiume delle botti, ma non ci sono riferimenti che mostrino una tappatura stagna delle bottiglie. A partire dal 1660 in Inghilterra si cominciano a usare pesanti bottiglie di vetro prodotte da sir Kenelm Digby, chiuse ermeticamente con tappi di sughero, per la produzione di "sparkling Champaigne". Alla fine del 1600 l'utilizzo di bottiglie di vetro e tappi di sughero per la produzione dello Champagne era passata in Francia. Questo tipo di chiusura permetteva anche di conservare più a lungo i vini rossi o chiaretti. Un trattato francese del 1718 dichiarava che ormai si era in grado di conservare il vino per "quatre, cinq et même six ans". In quegli anni quest'uso si affermò anche in Piemonte. A partire dai primi decenni del 1700 si effettuarono acquisti di bottiglie e tappi per imbottigliare il vino alla corte. Appariva ormai chiaro che il vino in bottiglie di vetro ben chiuse aveva una durata ben maggiore di quello esclusivamente conservato in botte, e che per di più era in grado di mantenere le sue caratteristiche organolettiche anche per la durata di 4 o 5 anni. I tappi si acquistavano a Lione. Nel 1717 la corte comprò una "balla di boccioni di liège". Nel 1719 un "ballotto di taponi di nata", nel 1721 un "ballotto di ottomila boccioni di nata". Il vino di bottiglia era ormai sinonimo di qualità e di pregio. Nel 1722 si imbottigliarono 1205 bottiglie del "vino bianco che beve Sua Maestà".
Nella seconda metà del secolo Lavoisier diede la prima spiegazione chimica del fenomeno della fermentazione alcolica e alcuni decenni più tardi Gay-Lussac ne stabilì l'esatta formula.
Nel clima culturale di fine secolo si formò a Torino una prestigiosa associazione culturale; La Società Agraria. Fu istituita ufficialmente il 24 maggio 1785. I suoi scopi erano il progresso, il perfezionamento dell'agricoltura, delle industrie agricole, delle condizioni igieniche e alimentari dei contadini, l'insegnamento, la sperimentazione, la fondazione di istituzioni a giovamento dell'agricoltura. Trattò temi di grande interesse per l'economia piemontese quali la viticoltura, la risicoltura, l'irrigazione, le scuole agrarie gratuite, la concimazione, la meccanizzazione, il calendario georgico, l'allevamento del baco da seta, la produzione di lana.
Il panorama della viticultura della prima metà dell'800 era segnato da una
grande complessità e da una certa confusione. Ci si rendeva conto della
difficoltà di destreggiarsi tra i vitigni, i loro nomi, i loro sinonimi locali,
i termini dialettali, c'era incertezza su quali fossero i più adatti alla
vinificazione, su quale fosse la loro produttività, la loro adattabilità alle
condizioni pedoclimatiche. L'esigenza di un miglioramento delle conoscenze fece
nascere in ambito piemontese diversi studi e varie sperimentazioni viticole. I
nomi che spiccano in questo campo sono quelli del conte Nuvolone Pergamo, del
marchese Filippo Asinari di San Marzano, del marchese Leopoldo Incisa della
Rocchetta, di Leardi e Demaria e, naturalmente, quello del conte Giuseppe di
Rovasenda, che diventò celebre in tutta Europa.
A partire dal 1840 nelle vigne del Monferrato iniziò la lenta diffusione dell'uso del filo di ferro. In Piemonte la prima utilizzazione del filo di ferro su scala importante si deve al farmacista Martino Moschini, assistente di fisica al collegio di Novara. A Barolo quest'uso apparve nel 1850, al posto delle tradizionali pertiche e canne orizzontali. Tuttavia non avendo ancora idee sufficientemente chiare su questa pratica, gli inconvenienti riscontrati indussero ad abbandonarla per almeno un decennio. A partire dal 1860, i proprietari sperimentarono la novità applicandola in diversi modi. C'era chi tirava un solo filo, chi persino tre. Il conte di Mirafiori nella sua celebre tenuta di Fontanafredda aveva adottato il sistema a tre fili e sopra il più basso metteva una cannetta per evitare lacerazioni ai germogli. Presso un suo podere di La Morra il dottor Matteo Ascheri ideò una palizzatura che univa la pratica tradizionale e l'innovazione. Aveva predisposto ai capi del filare due robusti pali fra i quali aveva tirato due fili di ferro a una distanza di 50 cm. Sotto ai fili erano piantati diversi corti pali di sostegno affioranti 70 cm dal terreno. Tutti questi pali erano uniti alla sommità da una lunga traversa inchiodata. La vite si legava con un vimine al palo tutore e si faceva passare sopra la traversa, con la punta rivolta all'ingiù. I nuovi tralci man mano che si allungavano si legavano al primo, poi al secondo fil di ferro. Sempre con la mente necessariamente rivolta al contenimento delle spese, si sottolineava che i pali ai capi dei filari dovevano essere nuovi, mentre i paletti di sostegno potevano anche essere gli "scaluss", ovvero i pali già usati.
La necessità di studi locali, l'esigenza di maggiori informazioni, la volontà
di migliorare la produzione condussero alla fondazione della Stazione Enologica
di Asti (R.D. 18 gennaio 1872) e della Stazione Enologica Sperimentale di
Gattinara (R.D. 17 maggio 1872).L'attività di questi istituti concerneva
l'analisi chimica della vite e le ricerche sulle sue malattie, le analisi
fisico-chimiche dei terreni, le ricerche sui concimi, l'analisi dell'uva nelle
varie fasi di maturazione, le ricerche chimiche sui fenomeni della
fermentazione, le analisi del mosto e del vino sulla loro composizione,
falsificazioni e malattie, le ricerche sui migliori sistemi di fabbricazione e
di conservazione del vino, lo studio delle macchine, degli strumenti e degli
arnesi a tale scopo destinati.
Oltre all'esame organolettico dei vini circa la limpidezza, il colore, il sapore, lo stato, si determinavano anche il peso specifico, l'alcol, l'acidità totale, le materie estrattive e la cenere pura, si eseguivano due prove al microscopio, una appena sturato il vino, l'altra dopo un certo periodo di contatto con l'aria. Si misuravano il tannino per i vini rossi e lo zucchero per i dolci. I risultati dei lavori dovevano essere diffusi e pubblicati tramite gli Annali.
Nel 1881 l'esigenza di formare del personale tecnicamente preparato e specializzato nell'ambito del vigneto e della cantina portò alla fondazione della Scuola di Viticoltura ed Enologia di Alba. All'atto della sua istituzione la scuola possedeva un podere in collina di circa sei ettari coltivato per lo più a vigna, con un caseggiato rustico, una cantina, una tinaia.
Il suo primo direttore fu il professor Domizio Cavazza, docente preparato ed entusiasta che offrì un grande contributo non solo all'affermazione e ai progressi della Scuola, ma diede anche impulso alla sperimentazione di nuove tecniche nell'ambito della viticoltura e dell'enologia locale. Il suo nome è inoltre legato alla creazione della tipologia secca del Barbaresco.
La scuola albese
oltre all'insegnamento impartito agli alunni diede istruzioni ai viticoltori per
combattere la peronospora, la tignola dell'uva, diffuse la pratica dell'innesto
e dell'ibridazione delle viti americane con le viti locali. Nel 1889 si dotò di
un laboratorio chimico per l'effettuazione delle analisi enologiche, dei terreni
e dei prodotti della viticoltura. Il laboratorio funzionava anche per conto
terzi. Dal 1886 la Scuola ospitò una Mostra permanente di Macchine agrarie,
allo scopo di diffondere la conoscenza delle diverse macchine utilizzabili in
agricoltura, con speciale riguardo alla viticoltura e all'enologia.
A partire dalla metà del '800 cominciarono a fare la loro comparsa in Italia nuove malattie della vite importate dall'America. I primi allarmi si diedero in Francia, nella primavera del 1848, quando i vivaisti della regione parigina constatarono il disseccamento dei germogli della vite. La malattia proveniva dall'Inghilterra e portava il nome di Oidium Tuckeri. Era stato il giardiniere delle serre di Margate, Tucker, che l'aveva osservata per la prima volta nel 1845 su delle varietà di uva importate dell'America. Il botanico Borkeley denunciò il 27 novembre 1847 "una muffa particolare dal carattere più pernicioso". I venti del Nord trasportarono le spore del fungo nella Francia settentrionale. Nel 1850 vennero colpite le viti del Giardino di Luxembourg a Parigi. Nel 1851 la malattia aveva ormai invaso il Sud della Francia e il Nord dell'Italia: Piemonte, Lombardia e Toscana.
La "Crittogama della vite" arrivò in Piemonte nel 1851. Nella regione venne chiamata popolarmente Marin.
Come Primo Ministro del Regno e ancor più come uomo di esperienza agraria Cavour incaricò la Reale Accademia di Agricoltura di Torino di studiare la malattia e trovare un rimedio. Per tutto l'agosto 1851 fra lo statista e l'Accademia si scambiò un carteggio sul grave problema. L'Accademia venne ufficialmente incaricata di creare una commissione per analizzare la malattia e i possibili rimedi. Al termine dello studio, si presentarono i risultati in un'adunanza straordinaria del 10 settembre 1851. Si indicò lo zolfo come mezzo di difesa.
La fillossera della vite fu individuata da C.H.Fitch nel 1854 su foglie di vite selvatica dell'America del Nord. Nel 1863 l'insetto venne riconosciuto per la prima volta in Europa: J.O.Westwood la notò sulle foglie e sulle radici di viti coltivate a Londra, nelle serre di Hammersmith. Le prime segnalazioni della presenza della Fillossera in una vigna furono francesi, ed avvennero tra il 1868 e il 1869. A partire dal 1879 l'evento temuto da oltre un decennio da tutti i vignaioli piemontesi si verificò. L'invasione fillosserica venne notata per la prima volta in Italia. I viticoltori, ben consci del pericolo, sapevano di trovarsi di fronte alla possibile distruzione dell'intero sistema vitivinicolo. Il Piemonte fu tra le prime regioni colpite. L'infiltrazione della fillossera venne attestata nel 1879 inizialmente in provincia di Como per dilagare poi nella provincia di Novara e Varese. Il ministero costituì nel 1879 un organo apposito, la Commissione consultiva sulla Fillossera, i cui atti, pubblicati negli "Annali di Agricoltura" dal 1880 al 1895, costituiscono una importante fonte di informazioni per quanto riguarda lo sviluppo della malattia. Nel 1880 venne creato il "Consorzio Antifillosserico Subalpino" che immediatamente consigliò l'uso degli insetticidi da utilizzarsi per frenare l'avanzata dell'insetto. Dal 1890 divenne ormai chiaro che la sola metodologia di salvezza dei vigneti piemontesi era legata ai vitigni americani, sia come "produttori diretti", sia come porta-innesti delle varietà tradizionali.Nel 1880 fece la sua comparsa la peronospora . Questa muffa, di origine nord americana, era comparsa in Francia nel 1879.
La nuova malattia, che fece sentire i
suoi effetti a partire dal 1884 - 1885, indusse Stazioni Sperimentali, Istituti
agricoli, fito-patologi e viticoltori a studiare e sperimentare i possibili
rimedi. Nella lotta contro la peronospora si sperimentarono diverse sostanze. Si
formarono in merito tre grandi correnti: una a favore dello zolfo, una in favore
della calce, una in favore del solfato di rame. Alla domanda se fosse più
efficace applicare i rimedi in forma di polvere o in forma liquida si generò
un'altra divisione, quella fra "polveristi" e "liquidisti".
Sperimentazioni, studi e osservazioni sulle sostanze antiperonosporiche
condussero alla proposta di diverse formule in cui la calce e il solfato di rame
erano miscelati in vario modo allo stato liquido. A questa categoria apparteneva
la poltiglia Bordolese, in seguito ampiamente utilizzata.
Data
dell'ultimo aggiornamento: 3-02-2002
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