Archivio Fotografico di Giorgio Croce





San Giulio nell'isola di San Giulio del lago d'Orta
L'antichità della chiesa
Per la tradizione è la centesima tra le chiese fondate da san Giulio, che la dedicò ai XII Apostoli. L'edificio fu ancora riedificato dai vescovi di Novara Vittore e Onorato a fine V secolo, distrutta completamente dall'assedio che con il quale nel 962 Ottone I strinse le truppe di Berengario nell'isola. L'isola era sino ad allora stata uno strategico punto di comando nel Novarese, e si pensa che forse fu sede del potere longobardo; era quindi un punto di riferimento e la chiesa che in esso sorse faceva naturalmente a capo ad un territorio molto vasto.
L'edificio romanico
Riedificata in epoca romanica, è di questa fase la parte architettonica più importante dell'attuale edificio, nonostante in epoca barocca subisse complete modifiche. E' soprattutto all'interno che si percepisce ancora la dominante cultura romanica lombarda nell'alto novarese e i caratteri originari del romanico novarese derivato da questo esempio, mentre all'esterno bisogna individuare i vari elementi in mezzo alle successive modifiche.
Le absidi e il tiburio

Di impianto basilicale a tre absidi e tre navate, le originarie tre absidi romaniche sono tuttora presenti.
Tuttavia quella meridionale è occultata dalle costruzioni successivamente addossatele all'esterno, per cui la si vede solo dall'interno. La centrale (foto a lato) è la più rappresentativa, per il paramento murario molto accurato, a grossi conci squadrati e con giunti sottili, con un'articolazione di volumi architettonici definiti dalla loggia terminale di arcate a doppia ghiera.
L'abside settentrionale è pure visibile dal'esterno, sempre dallo stesso piccolo varco di cortili dal quale si intravede la maggiore(altra foto a lato). Rispetto a quest'ultima mostra però una ben differente esecuzione muraria, molto più grossolana, con prevalenza di ciottoli e mattoni, è priva di loccia o di bucature e termina in una cornice a sguscio.
Malgrado queste differenze di muratura le tre absidi dovrebbero risalire tutte alla stessa epoca.
L'abside maggiore ha una decisa impronta lombarda, questo soprattutto per i fornici di pietra con archi in cotto a doppia ghiera; delle tre monofore a spalle rette originarie resta visibile solo quella a nord.

Il tiburio ottagonale (nella foto sopra l'abside centrale) si erge all'incrocio tra navata centrale e transetto; è un altro elemento indicatore della decisa matrice lombarda, anche se in esso viene meno la tipica leggerezza dei più noti esempi lombardi. Alterato dall'apertura di nuove finestre a fine Settecento, rimane integro su un solo lato, dove mantiene la cornice continua di archetti, una trifora cieca con colonnine snelle e capitelli con fogliami appena segnati.

La torre campanaria maggiore


Il campanile maggiore (foto a lato) - ve ne sono altri due di facciata che hanno però profili più snelli - è staccato dal resto della costruzione e collocato dietro le absidi. E' massiccio, a pianta quadrata, all'interno con sei piani e all'esterno con tre ordini di specchiature - di cui i primi due doppi e il terzo più semplice, tutti segnati dal fregio di archetti. Questi caratteri lo riconducono nel solco del romanico piemontese (che si può definire una particolare accezione di quello lombardo, con ulteriori riferimenti all'Oltralpe), al contrario della chiesa che maggiormente si attiene ai modi lombardi più canonici. L'altro esempio diriferimento per questa tipologia è il superstite campanile di Fruttuaria, monumento che come la romanica San Giulio d'Orta si ricollega al nome dell'abate ed architetto Guglielmo da Volpiano, oppure al campanile della Consolazione a Torino opera di Brunengo, od alle tipologie piemontesi dei campanili di Testona, San Benigno Canavese, Susa, etc..

BIBLIOGRAFIA,San Giulio d'Orta:
B. CANESTRO CHIOVENDA, L'isola di S. Giulio nella storia e nell'arte, Como 1963
G. A. DELL'ACQUA - M. DI GIOVANNI MADRUZZI, G. MELZI D'ERIL, Isola di S. Giulio e Sacro Monte di Orta, Torino 1977

GUGLIELMO DA VOLPIANO (O D'ORTA)
e la fase cluniacense
Dall'ambito piemontese la prima figura emergente nel campo architettonico ecclesiastico è Guglielmo d'Orta o Guglielmo da Volpiano (961-1031), costruttore e uomo di cultura che operò nell’ambito dell’architettura cluniacense della fase intermedia.
Nato a Orta, figlio del conte Roberto da Volpiano, la sua famiglia apparteneva alla maggiore nobiltà, forte di stretti legami con la rete dinastica dell'Impero Romano Germanico, tanto che Guglielmo fu tenuto a battesimo dalla stessa imperatrice Adelaide, moglie di Ottone il Grande.
Poi studiò come giovane professo dell'abbazia piemontese di Lucedio, dove Saint Mayeul lo individuò e lo scelse tra gli altri studenti, per condurlo infine a Cluny.
I legami familiari ponevano questo personaggio in una rete di contatti che superavano le Alpi e collegavano con le aree franco tedesche. Guglielmo era infatti lontano nipote del marchese Berengario di Ivrea e dalla stessa parte era cugino di Otto Guglielmo, nipote di Berengario. Otto Guglielmo, adottato dal duca Enrico il Grande, una volta divenuto conte di Macon sostenne con le armi per un periodo il suo diritto alla successione sulla Borgogna, contando in ciò suo suoi potenti appoggi nella regione, in quanto marito di Ermentruda sorella del vescovo Bruno; naturalmente Guglielmo fu dalla sua parte. Appaiono così evidenti i legami con cui la rete parentale di origine franca legava alle sue sorti le aristocrazie piemontesi e borgognone, e questi legami permisero, una volta eliminati i saraceni del Frassineto, di ripristinare tra le due aree i rapporti dell'epoca carolingia. Molteplici interessi, dinastici e patrimoniali, dirigevano il Piemonte in Borgogna e qui importavano elementi di cultura lombarda, nel caso l'architettura romanica (cfr. La Borgogna, vol. 2 di Europa romanica, Jaka book, Milano 1979).
Eccellendo nel suo campo, quello dell'architettura, Guglielmo da Volpiano fu così il primo diffusore del romanico lombardo oltralpe; fu artefice quindi di primo piano dell'incontro, in Borgogna, tra le architetture mediterranea e germanica.
In oltralpe svolse un’importante opera di riformatore di monasteri ed un’ancor più importante attività architettonica quando nel 990 il vescovo di Langres, Brun de Roucy (981-1015 ca.), lo chiamò a restaurare o ricostruire Saint-Benigne di Digione. Brun de Roucy, patrocinatore del rifacimento di Saint Bénigne, era già sulla via della ricerca di un approccio al romanico padano. Una tradizione non improbabile gli attribuisce la costruzione di Saint-Vorles, chiesa che sull'atrio-avancorpo o atrio-transetto di tipo carolingio innesta il corpo a navate di richiamo lombardo. Egli chiama Guglielmo a sovrintendere alla nuova opera di cui è patrocinatore e mecenate e di recuperare le colonne, molto probabilmente dallo spoglio di monumenti romani. Guglielmo, egli stesso esperto di architettura, vi fa intervenire direttamente artefici italiani.
Si trattava di una chiesa che era stata pressoché distrutta dalle incursioni normanne ed ungare. In essa però, aggiungendo il dato del "miracoloso" a confermare le successive scelte, Guglielmo quasi per caso rinvenne il sito esatto del sepolcro di S. Benigno, santo martire e seguace di un discepolo di Giovanni, l’apostolo prediletto da Cristo.
Si trattava pertanto di un'importante reliquia, il cui culto era molto seguito, e che le incursioni avevano costretto a portare al sicuro entro il castrum.
La ricostruzione della quale a questo punto Guglielmo fu artefice ebbe una importanza basilare nel rinnovo delle arti, essenziale per gli sviluppi del romanico. Tuttavia i suoi meriti vennero da qualche storico sottovalutati, non restando molto in piedi delle sue costrusioni. Scomparsi in Francia gli edifici coevi e non conoscendo il grado di importazione di forme lombarde si poteva credere esagerata la sua importanza nell'evoluzione stilistica. Ma in base alla descrizione fattane dalla Chronique de Saint-Bénigne, dell'XI secolo, si rivaluta l'ampiezza dell’intervento mostrando che la Saint-Bénigne di Guglielmo non solo sopraelevava rendendola più maestosa la rotonda tradizionale di prolungamento ad est della chiesa basilicale, ma realizzava un edificio a due piani, con pianta a forma di T, con non meno di 104 colonne a piano terra, alcune in 4 file nelle navate ed altre a divisione del transetto, e sopra, nella chiesa, 70 vetrate e 121 colonne. Rimaneggiò la basilica carolingia facendone un edificio di tre piani di cui intitolò le parti, in ordine salendo, a S. Giovanni, alla Madonna, alla SS. Trinità. Oggi ne rimane solo il piano terra riscoperto a metà del secolo scorso, dal dosato uso dei colonnati a duplice cerchio che crea uno spazio di luce-ombra dalla predominante ispirazione mistica. Un esplicito ricordo lombardo in questa opera si può ricordare il classico motivo della serie di nicchie, poi distrutto, ma riportato nei disegni della "Histoire de Borgogne" di dom Plancher. Guglielmo attirò numerosi italiani a Saint-Bénigne tra cui Goffredo, l’arcidiacono milanese che donò un altare di onice incrostato di oro ed argento, e lo stesso patriarca di Venezia pregò Guglielmo di accoglierlo a Saint Benigne. Ma dall’Italia Guglielmo attirò anche, oltre ai tanti monaci, le maestranze comacine artefici del romanico lombardo, che operanti già nel X secolo in Catalogna, sino al XVIII secolo si sarebbero tramandate l’attività costruttiva e scultorea in Tirolo, nel Vallese, in Savoia. Ovunque lavorassero, questi clan lombardi sapevano perfettamente inserire le loro forme peculiari assimilandole sapientemente ai luoghi. Il ruolo di Guglielmo a Saint-Bénigne fu fondamentale: non fu architetto, ma come capocantiere ed iniziatore di tutti i lavori a lui spettava ogni decisione, con un compito paragonabile a quello di capomastro superiore, riducendo l'architetto vero e proprio ad un suo meccanico esecutore.
Le sue innovazioni ebbero seguito in Borgogna, cominciando dagli scambi culturali tra Saint-Bénigne a Macon, dove se la cattedrale é attribuita, seppur senza molte prove, al vescovo Gauzlin di Vienne (1019-1030), probabilmente vi ebbe parte anche il suo predecessore, Liebaud, in cattedra dal 996, che era stato affidato giovanissimo alle cure di Guglielmo, essendo stato monaco a Saint-Bénigne e da qui passato a Cluny poco prima che Saint-Mayeul morisse.

BIBLIOGRAFIA: Cluny, S. Maiolo
Tonella Regis, Franca, San Maiolo e le influenze cluniacensi nell'Italia del Nord, a cura di Cau E. e Settia A., in “Novarien”, Recensioni, 28 (257)
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