Le
ragioni giuridiche del "si" al referendum sull'art. 18
Referendum,
felix culpa
Intervista sul Manifesto al giuslavorista Piergiovanni Alleva. Che spiega perché il
referendum per l'estensione dell'articolo 18 serve ad allargare i diritti a
tutti quelli che non ce l'hanno e non è in contraddizione - anzi - con le
proposte di legge della Cgil. Ed è un freno per il progressivo smantellamento
dello Statuto dei lavoratori perseguito dal governo e dalla Confindustria.
Manuela
Cartosio
«Il
sì al referendum sull'articolo 18 non esclude, anzi rafforza, l'estensione dei diritti
per via legislativa». Lo sostiene il giuslavorista Piergiovanni Alleva che ha
collaborato alla stesura delle proposte di legge della Cgil.
1.
Perché sbaglia chi oppone il referendum alle leggi?
Chi
predica l'astensione o la libertà di voto trascura il fatto fondamentale:
l'articolo 18 in questo momento è di nuovo sotto il pesante attacco di governo
e Confindustria anche per chi ce l'ha, per chi lavora in aziende con più di 15
dipendenti. Nella legge 30 sul mercato del lavoro, già approvata,
l'attacco è indiretto. Con la modifica delle norme sul trasferimento dei rami
d'impresa e l'introduzione dello staff leasing sarà facile per le aziende non
superare formalmente la fatidica soglia e, quindi, eludere l'articolo 18.
L'attacco è diretto nella delega 848 bis, ancora in itinere.
Nell'interpretazione più blanda, questa sospende la giusta causa nelle aziende
che crescono oltre i 15 dipendenti. La vittoria del sì il 15 giugno
sventa entrambi gli attacchi. L'abolizione della soglia, infatti, rende inutile
gran parte della legge 30, ne frustra lo scopo. Se l'articolo 18 vale per
tutti, frazionare artificiosamente un'azienda è un buco nell'acqua. Nello
stesso tempo, la vittoria del sì rende illigittima l'ipotetica traduzione in
legge dell'848 bis. Il parlamento, infatti, non potrebbe approvare una legge
che ripristina la soglia appena cancellata dal referendum.
2.
L'impossibilità è certa?
E'
di questo avviso la miglior dottrina costituzionalista. L'articolo 37 della
legge che regola l'istituto del referendum prevede che il presidente della
Repubblica possa ritardare la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del
risultato positivo della consultazione per permettere al parlamento di
«aggiustare» la normativa vigente. E' pacifico che l'aggiustamento deve
rispettare l'esito del referendum. Di qui la certezza: se il 15 giugno la
soglia dei 15 dipendenti sarà abrogata, il parlamento non potrà ripristinarla.
3.
Dunque, chi annuncia futuri referendum per abrogare la legge 30 e quella che
recepirà l'848 bis non si accorge, o finge di non accorgersi, che il referendum
c'è già.
E'
proprio così. La legge 30 e l'848 bis valgono come giustificazione a posteriori
del quesito referendario. Ammesso e non concesso sia stato un errore proporlo,
si è rivelata una felix culpa. Posso capire le iniziali riluttanze verso
lo strumento referendario. Lo scenario però è cambiato perché il governo ha
servito la palla ai promotori del referendum.
Nato
in maniera discutibile, il referendun che estende e nello stesso tempo difende
la giusta causa in caso di licenziamento è diventato lo strumento per
respingere immediatamente l'attacco di governo e Confindustria. Non cogliere l'occasione è a dir
poco miope.
4.
Il partito antireferendum sostiene che si è data troppa importanza a un
articolo «usato» raramente. In effetti, i licenziamenti illegittimi che
arrivano a sentenza sono poche centinaia all'anno.
L'articolo
18, oltre a un grande valore restitutivo, ha un enorme valore preventivo e
deterrente. E' definito il diritto dei diritti perché è l'architrave che
permette al lavoratore di non subire ricatti. Per questo Confindustria vuole
restringerlo. Senza lo scudo protettivo dell'articolo 18, quante sarebbero le
cause per mobbing, per essere riconosciuti come dipendenti, per avere gli
straordinari in busta paga? Pochissime e lo so perché da 32 anni faccio
l'avvocato del lavoro. Persino il tasso di sindacalizzazione - la differenza
tra aziende sotto e sopra i 15 addetti è di 1 a 5 - dipende dall'articolo 18. In questo senso, un sindacato che
non si schiera per il sì al referendum si dà una zappata sui piedi.
5. L'altra
obiezione mossa al referendum è che l'estensione dell'articolo 18 dello Statuto
lascerebbe comunque scoperti i lavoratori atipici.
L'obiezione
è per metà stupida. Una buona metà dei Co.co.co sono falsi atipici. La vittoria
dei sì permetterà anche a quelli che lavorano nelle piccole aziende di fare
causa per essere riconosciuti come dipendenti a tutti gli effetti. Per i
Co.co.co veri, ci vuole una legge. Questo è un limite del referendum, non una
ragione per farlo fallire. La vittoria del sì agevolerà, per quanto è possibile
con questa maggioranza di destra, leggi come quelle proposte dalla Cgil. La
vittoria del no, invece, le terrà chiuse nel cassetto. Per questo, insisto, non
c'è contraddizione tra referendum e leggi.
6.
Come giudica i progetti di legge, come quello Treu-Ichino, che sostituiscono il
reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa con un indennizzo?
Sono
contrario alla monetizzazione come alternativa secca al reintegro. Se ne può
discutere, ma solo in determinati casi e a certe condizioni. Ad esempio, in una
piccola impresa dove i rapporti tra titolare e dipendente sono gomito a gomito
il reintegro può risultare difficile e, al limite, non desiderato neppure dal
lavoratore. In questa situazione, è plausibile pensare a un indennizzo, a
condizione che il datore di lavoro rinunci ad appellarsi contro la sentenza a
lui avversa. L'indennizzo, inoltre, per funzionare come deterrente deve essere
pesante. E deve essere modulato, non forfettario. Perdere il lavoro per un
operaio di 30 anni di Reggio Emilia costituisce un danno diverso che per una
commessa quarantenne di Foggia.
Occorre
poi distinguere tra licenziamenti per ragioni economiche e per ragioni
disciplinari. Per il giudice in genere è difficile valutare la fondatezza delle
prime. La proposta di legge della Cgil che estende gli ammortizzatori sociali
alle piccole imprese può essere d'aiuto. Rende obbligatorio il ricorso
preventivo alla cassa integrazione e ai contratti di solidarietà. Solo dopo un
licenziamento per ragioni economiche può essere giustificato.
- Le
mie ragioni per il “si” al referendum
-
-
1.
Per prima cosa va chiarito che votare
“si” al referendum per l’eliminazione dei limiti di applicabilità
dell’art. 18 l. n. 300/70, significa rispondere “pan per focaccia”
all’aggressione (posta in essere da governo e Confindustria) tesa
alla rimozione della misura del “reintegro” a fronte del
licenziamento ingiustificato, misura introdotta dall’art. 18 dello
Statuto dei lavoratori.
- I
lavoratori non possono rimanere inerti e “sotto scopa” di un governo e
di una Confindustria tra i meno affidabili nella storia del Paese.
- La
reazione del referendum se la sono voluta i provocatori.
- I
lavoratori sul punto specifico dell’art.18 – altre e diverse sono le
strade per l’estensione degli stessi diritti e tutele per i lavoratori
atipici – non si sarebbero mossi se non stuzzicati. La provocazione ha
innescato la reazione “referendaria”, con la quale ai provocatori si
tende a sottrarre lo “sconto” che il legislatore del 1970 aveva fatto
alle piccole imprese; uno sconto basato su sole motivazioni economiche ma
che era, al tempo stesso, un’amputazione agli eguali ed inalienabili
diritti di civiltà e parità giuridica, spettanti a tutti i lavoratori.
- D’altra
parte non va dimenticato, dal lato prettamente giuridico, come la misura
del “reintegro” non sia così eversiva come gli oppositori (politici e
giuridici) la presentano. Il “reintegro” di cui all’art. 18 l. n.
300/’70 ha beneficiato estensivamente solo i cd. licenziamenti
inefficaci (per vizi di forma) o invalidi (per ingiustificatezza), non già
quelli già di per se nulli, giacché, a mente del brocardo latino “quod
nullum est, nullum effectum producit” per quest’ultimi il
“ripristino” della
situazione precedente (il “reintegro”, in sostanza) sarebbe
automaticamente conseguito dai principi generali del diritto.
- Far
sì che si ripristini la situazione “quo ante” per tutti a fronte di
un atto illegittimo e antigiuridico datoriale che ti estromette
ingiustificatamente dal posto di lavoro, è operazione di civiltà
giuridica improntata alla effettività dei diritti e alla loro non
mercificazione, specie per quelli della personalità dell’uomo. Ed è
quello che ora, con il voto
“si” al referendum, si persegue appunto per tutti i lavoratori,
indipendentemente dall’assetto dimensionale dell’impresa.
-
- 2.
Si dice che se vincesse il “sì” si creerebbe nelle piccole
imprese il “disagio” di reinserire l’ingiustificatamente licenziato
a rilavorare a fianco a fianco dell’imprenditore che lo ha espulso (si
noti: per motivi ingiustificati!); che questa è una situazione
psicologica insostenibile nei fatti e non ricorrente nella media o grande
impresa spersonalizzata e spersonalizzante, che il “reintegro” se lo
può in un certo qual modo permettere.
- E’
in parte vero. Ma va rilevato che, fattualmente, il reintegro raramente
avviene anche nella grande impresa, poiché il licenziato
ingiustificatamente mal sopporta il disagio del reinserimento e – a meno
che non si trovi in età di incollocabilità altrove – opta per
l’alternativa economica delle 15 mensilità di indennizzo per abbandono
del posto di lavoro (che si cumulano alle mensilità di retribuzione non
percepita e spettantegli per l’arco temporale che va dal licenziamento
alla emissione della sentenza).
- Lo
stesso avverrà presumibilmente nelle piccole imprese: il licenziato
ingiustificatamente di norma opterà per le 15 mensilità, misura peraltro
molto superiore all’attuale monetizzazione prevista dalla l. n.
108/’90 che contempla importi compresi tra le 2,5 e le 6 mensilità
(maggiorabili con l’anzianità).
- Quello
che è da evidenziare come elemento apprezzabile e dirimente della nuova
soluzione (ipoteticamente scaturente dalla vittoria del “si” al
referendum), è il fatto che rimane in capo al singolo lavoratore di
essere arbitro e valutatore dei propri concreti interessi all’opzione
economica, senza lasciarla in mano al datore insofferente o al magistrato
(come vorrebbero taluni proponenti), che ad essi è estraneo o poco li
conosce.
-
- 3.
Non c’è poi da
sottovalutare che l’estensione generalizzata
dell’art. 18 – specie dopo le innovazioni alla disciplina del
trasferimento d’azienda apportate dalla l. n. 30/2003 e apportabili
dalla delega applicativa del Patto per l’Italia – vanifica la corsa
alle frantumazioni aziendali (in unità al disotto delle 16 unità), alla
costituzione ex novo di fittizie società sottodimensionate, alle
esternalizzazioni fraudolente di “rami d’azienda” e simili, giacché
tali operazioni finiscono per essere prive dell’attuale convenienza
(come sottolinea anche Alleva).
- Anche
questa vanificazione di un ipotizzato quanto realistico attivismo
datoriale fraudolento (chi lo nega come Carinci
conosce molto la vita e le beghe accademiche, molto meno le realtà
aziendali!), va valutata in termini positivi perché introduce nel mercato
del lavoro elementi di trasparenza e correttezza.
-
- 4.
Le obiezioni che si sentono in giro (cessazione delle assunzioni da
parte delle aziende sottodimensionate, ricorso massiccio al lavoro nero,
alle co.co.co, ecc.) sono in parte realistiche ma per la gran parte
ascrivibili, da un lato a posizioni politiche o sindacali di evidente
collateralismo all’attuale compagine governativa, dall’altro ad
impostazioni da “cacadubbi”, quando non basate su una preconcetta
indisponibilità verso quella che ritengono una iniziativa monopolistica
di Rifondazione comunista, che dal successo si rafforzerebbe (alla quale
anche noi imputiamo gli errori di miopia per aver concorso alla caduta del
governo Prodi). Ma queste sono valutazioni politiche più o meno
condivisibili, non utilizzabili come argomentazioni valide per opporsi o
far fallire l’iniziativa referendaria.
- Intanto
contrastiamo – reindirizzando verso i provocatori
come un boomerang – l’attacco sferrato contro i lavoratori; poi
tempo e spazio non mancano per aggiustare, migliorare e costruire nel loro
interesse, come andrà fatto e si farà di volta in volta.
- Non
si può infatti abdicare all’azione ed alla presa di posizione, per il
solo timore di una astratta “auto - prospettazione di contromisure”
delle controparti, in presenza delle quali opporremo i rimedi e le
iniziative adeguate, al momento opportuno.
-
- 5.
Né si coltivi l’illusione che facendo fallire il “si”,
l’assetto dell’art. 18 rimarrà inalterato. L’attuale situazione di
stallo è solo temporanea e strategica. All’opposto il governo attuale utilizzerà mediaticamente
(ed in questo è maestro e padrone assoluto!) questo “insuccesso” come
comodo alibi o riprova confermativa per
muoversi nella direzione mai smarrita e per accelerare lo
smantellamento dei diritti sociali (anche per chi attualmente li detiene).
Quindi sia l’impostazione astensionista sia quella del “no”, altro
non si risolvono – anche se in buona fede – che in un aiuto
“immeritato” verso l’opposizione governativo/economica che traguarda
apertamente (oltre a mettere la mordacchia alla magistratura e ai
giornalisti che non gli fanno da “scendiletto”: emblematico il
conduttore di “Excalibur”!) obbiettivi di regressione e
controriformisti anche nel campo del lavoro e del sociale e che non si
contrasta se non con posizioni di “netta” e auspicabilmente unitaria
contrapposizione.
-
- Roma,
11 maggio 2003
- Mario
Meucci