La frizione: ieri, oggi

L’esigenza innata nell’uomo di sperimentare e scoprire, ha portato nel corso della storia a superare sempre nuovi limiti, raggiungendo non senza difficoltà traguardi inaspettati.

Basti pensare, che le progenitrici delle attuali moto che corrono nei GP, erano biciclette con il telaio in legno.

Nel gennaio del 1885 l'industriale inglese John Kemp Starley presenta la prima bicicletta moderna, con i pedali che trasmettono il moto alla ruota posteriore tramite una catena. È il primo passo verso la motocicletta, che infatti non si fa attendere: il 10 novembre dello stesso anno un ragazzo di nome Paul compie i primi metri con una bicicletta spinta da un motore a scoppio della “straordinaria” potenza di mezzo cavallo. Il cognome del ragazzo era Daimler, ed era figlio di quel Gottlieb l'inventore della motocicletta e uno dei padri dell’automobile. La prima moto in realtà era un mezzo un po' rudimentale, per certi versi antiquato anche per i canoni dell'epoca. Il telaio e le ruote erano di legno con battistrada di ferro, quando già si usavano comunemente telai di metallo e ruote di gomma: il primo passo era stato fatto: un motore aveva mosso per la prima volta un mezzo a due ruote.

Dopo oltre un secolo la moto è ancora fatta di telaio, motore e trasmissione e chiunque può riconoscere nel prototipo di Daimler la sua diretta antenata e propone innovazioni tecnologiche insospettabili.

Un tipico esempio di componente sul quale la ricerca non si è mai interrotta è la frizione:

In figura una moto da corsa del 1904 della bolognese G.D: si può notare la presa diretta tra motore e ruota posteriore

 

 

In principio l’esigenza della frizione non era sentita, visto che le basse potenze in gioco e i pesi contenuti non richiedevano la presenza di un cambio di velocità: era presente un solo rapporto collegato in presa diretta con il motore che richiedeva l’avviamento a spinta di un cambio di velocità che permettesse di raggiungere la coppia necessaria all’avviamento.

 

In figura la partenza di una corsa del 18 maggio 1920 disputatasi presso il velodromo di Bologna:a causa della presa diretta la moto deve essere avviata spinta

 

 

 

 

 

Diverso discorso occorre fare per gli autoveicoli: dotati di peso superiore,necessitavanoIlIl Il problema era che questi cambi di velocità, avvenivano tramite cinghie di cuoio che attraverso leveraggi venivano spostate su pulegge di diametro diverso, permettendo la realizzazione di rapporti di marcia differenti adatti alle condizioni di moto del veicolo.

 

 

In figura il triciclo leggero di Benz del 1886 con motore a quattro tempi da 0.8 Cv a 250 giri/min e  cilindro orizzontale reaffreddato con vaporizzazione d’acqua con trasmissione a catena

 

Naturalmente, essendo motore e trasmissione erano sempre solidali, i problemi d’avviamento erano solo parzialmente risolti.

L’evoluzione tecnologica ha permesso di raggiungere potenze e coppie ragguardevoli richiedendo l’adeguamento di tutta la componentistica, in particolare del gruppo frizione cambio.

Una delle caratteristiche fondamentali del motore a scoppio,infatti,è quella di funzionare regolarmente e di erogare una buona potenza soltanto in una gamma più o meno ristretta di regimi di rotazione. Nel caso di un veicolo a motore, questo comporta dei problemi nel partire da fermo o nel riprendere da bassa velocità. In pratica può accadere che, se il rapporto di trasmissione è studiato in modo da mantenere un corretto regime del motore a una velocità sostenuta, questo stesso rapporto non consente una marcia regolare a bassa velocità per l’eccessivo abbassamento del regime del motore. Per contro un rapporto adeguato a una bassa velocità impedirà al veicolo di marciare a velocità sostenuta, se non a costo di proibitivi e pericolosi regimi di rotazione del motore. Da ciò nasce l’esigenza di un dispositivo capace di variare il rapporto di trasmissione in funzione della velocità del veicolo.

Il problema è stato risolto con un metodo abbastanza rudimentale, che tuttavia non ha subito sostanziali modifiche dalla sua prima comparsa

Il cambio meccanico di velocità è un meccanismo che modifica il rapporto di trasmissione, attraverso una serie di ruote dentate che vengono alternativamente collegate fra loro, così da ottenere diversi rapporti di riduzione. Il numero dei rapporti, o come si dice correntemente marce, può variare in quanto dipende dalle esigenze di marcia del veicolo, dal tipo di motore adottato o, anche, da semplici questioni di economia.

Per molto tempo, vennero adottati dei semplici cambi a due o a tre velocità, ossia una con elevato rapporto di riduzione per facilitare la partenza, una velocità per la marcia normale ed eventualmente un rapporto intermedio che, nei modelli più veloci, compensava una eccessiva differenza fra i due rapporti estremi. Il numero così limitato di rapporti al cambio è motivato da diverse ragioni. Innanzitutto il costo e l’impegno costruttivo richiesti da un meccanismo relativamente complesso. In secondo luogo, la grossa cilindrata e la bassa potenza dei vecchi motori conferivano loro una notevole elasticità di marcia e quindi determinavano l’inutilità di un numero elevato di rapporti molto avvicinati.

Vi era poi un aspetto squisitamente pratico, legato all’impegno richiesto per effettuare la  manovra di passaggio da una marcia all’altra; la scarsa precisione del comando, unita alla durezza e alla fragilità delle frizioni dell’epoca, rendeva la manovra lunga, delicata e, in definitiva, avere a disposizione un maggior numero di marce comportava una guida più faticosa, senza aumento delle prestazioni.

A veicolo fermo era necessario introdurre qualcosa che permettesse di separare il motore dalla trasmissione: nacque la frizione.

 

In figura il gruppo frizione-cambio a due velocità del 1924 brevettato dai soci inventori Morini e Mazzetti.

 

 

 

 

 

In figura la frizione brevettata dalla MM per le sue motobiciclette nel 1927.Si applicava sull’ingranaggio del pignone motore.Si possono notare le viti realizzano,con il piatto,la precompressione delle molle

 

Grazie ad essa era possibile portare il motore ad un regime di rotazione sufficientemente elevato tale da garantire la coppia necessaria alla partenza portando gradualmente e senza strappi albero motore e primario del cambio alla stessa velocità di rotazione  e  sfruttano, come vedremo, lo slittamento di alcuni componenti.

Le prime frizioni adottavano una superficie conica, ricavata nel volano, contro cui faceva presa un cono con la superficie in cuoio, spinto da una grossa molla elicoidale coassiale all’albero.

In figura la frizione a cono della Renault 7 Hp del 1908.Si può notare l’alloggiamento per il cono d’attrito ricavato direttamente sul volano

 

 Queste primitive frizioni erano brutali nell’innesto, ma vi erano delle ragioni pratiche che giustificavano questo schema: la superficie d’attrito era disposta alla maggior distanza possibile dal centro di rotazione e la differenza fra il massimo e il minimo raggio era molto piccola. Questi sono gli aspetti essenziali nella progettazione di una frizione, perché una superficie vasta permette di dissipare più in fretta il calore sviluppato dall’attrito; una vasta area e un grande diametro permettono di trasmettere una coppia maggiore, e la ridotta differenza fra i diametri esterno e interno delle zone di attrito riduce al minimo le differenze di usura fra le varie zone.

Fra le controindicazioni rientrano il maggior peso di una frizione di grande diametro, le maggiori sollecitazioni dovute alla forza centrifuga sui suoi componenti e la maggiore inerzia di rotazione. Quest’ultima fa sì che l’albero condotto ruoti a una velocità solo di poco inferiore a quella del motore dopo il disinnesto e rende difficoltoso il cambio di velocità.

Prima degli anni trenta era abbastanza comune trovare un sistema di frenatura della frizione sulle vetture sportive: un freno meccanico che faceva contatto con la parte condotta a frizione disinnestata per fermarla rapidamente.

 

In seguito lo sviluppo si concentrò sul perfezionamento della frizione monodisco, in cui la parte condotta è un disco ricoperto d’ambo i lati con materiale d’attrito premuto con delle molle tra due superfici (la superficie del volano e il piatto spingidisco) che costituiscono un gruppo unico. Fino agli anni cinquanta vennero usate anche frizioni con materiale di attrito a base di sughero, che lavoravano immerse nell’olio,ma ben presto vennero soppiantate dal tipo a secco, che adottava materiale d’attrito a base d’amianto.

  In figura si può vedere l’immagine di una frizione, montata su vetture Daimler del 1930,caratterizzata da un ingranamento molto morbido in quanto il cambio di marcia era garantito dall’alta viscosità dell’olio circolante al suo interno

  In figura si può vedere l’immagine di una frizione, montata su vetture Daimler del 1930,caratterizzata da un ingranamento molto morbido in quanto il cambio di marcia era garantito dall’alta viscosità dell’olio circolante al suo interno

 

 

  Un ulteriore miglioramento fu apportato, negli anni sessanta, con l’impiego della molla a diaframma, consistente in una molla anulare (conica in estensione) che sostituisce le varie molle elicoidali distribuite alla periferia delle frizioni del vecchio tipo. La molla a diaframma garantisce una spinta più uniforme e richiede uno sforzo minore per il disinnesto, rispetto alle molle elicoidali. Le frizioni pluridisco, costituite da più piatti e dischi di piccolo diametro, non vengono più usate, tranne che su vetture da competizione o in casi particolari.

I vantaggi sono la capacità di trasmettere coppie maggiori, una maggiore resistenza agli alti regimi di rotazione e una inerzia inferiore; l’inconveniente notevole è la tendenza dei vari elementi a restare in contatto anche senza la spinta della molla. Normalmente il disinnesto della frizione è comandato da un pedale, azionato dal piede sinistro del pilota, collegato meccanicamente o idraulicamente a una leva a forcella che, attraverso un cuscinetto reggispinta (in materiale antifrizione o grafite) provoca il distacco del piatto di spinta dal disco frizione, vincendo la resistenza della molla.

Sono stati sperimentati altri tipi di frizione, nel tentativo di ridurre lo sforzo al pedale o addirittura per eliminare il pedale stesso. Un tipo è la frizione centrifuga, in cui il piatto non è premuto da una molla ma attraverso delle leve con dei contrappesi che si espandono per effetto della forza centrifuga: è sufficiente accelerare il motore, perché la forza centrifuga aumenti fino a provocare l’innesto della frizione. Un altro tipo è rappresentato dalla frizione elettromagnetica, nella quale l’elemento condotto è racchiuso in un tamburo contenente polvere magnetica.

 

Facendo passare corrente elettrica in un avvolgimento che circonda il tamburo, si crea un campo magnetico che riunisce le particelle di polvere, impedendo qualsiasi movimento relativo fra gli elementi. Sono stati utilizzati anche freni a nastro, che bloccano all’esterno le corone di una serie di ingranaggi epicicloidali (la corona, dentata internamente, circonda dei satelliti, che ingranano su un singolo ingranaggio planetario o sole): bloccando la corona, gli ingranaggi trasmettono il moto e si ottiene così l’accoppiamento.

 

 

 Come detto e come si evince dalla figura, per quanto riguarda le applicazioni automobilistiche, la frizione, ormai da 120 anni, viene montata con un disco solidale al volano e  con l’ altro calettato sul primario del cambio.

Tra i due dischi realizzati in acciaio da molle è interposto un unico disco d’attrito di diametro variabile tra 120¸300 mm; diametri elevati assicurano elevatissima coppia trasmissibile anche ai bassi regimi di rotazione, grazie all’elevato raggio medio che caratterizza la coppia rotoidale di spinta.

Perché nelle applicazioni automobilistiche è universalmente adottata la soluzione monodisco in luogo dei dischi multipli?

La risposta va ricercata nella sostanziale differenza tra le diverse geometrie e funzionamento del motore che caratterizzano l’automobile e il motociclo :

Autoveicolo:

  • Regimi di rotazione  contenuti
  • Coppia trasmessa elevata
  • Disposizione in serie del motore e del cambio

Motociclo:

  • Regimi di rotazione notevolmente elevati, grazie alle minori inerzie delle masse in gioco
  • Piccola coppia trasmessa
  • Disposizione trasversale del motore, unita alla scarsità dello spazio a disposizione

Questi i motivi che hanno spinto i costruttori verso una strada quasi obbligata: adottare una frizione multidisco per le motociclette ed una monodisco per le autovetture.

Ecco perché la ricerca concentra le sue forze sullo sviluppo dei materiali sempre più spinti e su soluzioni in grado di apportare notevoli miglioramenti senza stravolgere lo schema di base.

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