Arrivavano
uno dopo l'altro con gli occhi ancora inzuppati di sonno. Arrivavano e
si sedevano nella loro vecchia panchina sotto i portici di Don Gino,
su quella panchina trascorrevano tutte le ricreazioni, ci avrebbero
trascorso pure l'alba degli esami. Facevano colazione masticando
cornetti e rabbia e bevendo caffè al rancore. Avrebbero potuto
studiare di più, preparare meglio le cartucciere, pregare con più fede
in chiesa. Avrebbero potuto fare tante cose i ragazzi della V^ E. Solo
Lorefia non aveva niente da rimproverarsi, sgobbava da tre settimane
sui libri e sulle fisarmoniche che aveva saccheggiato nelle varie
bancarelle. Il sonno non sapeva più che fosse, non dormiva da tanto.
C'era un bel miscuglio su quella panchina, Stefania scacciava tutti
quelli che la salutavano, Stefano fischiettava e stonava Max Gazzè,
Carlo sbadigliava e scoreggiava, Calogero non riusciva a staccare le
labbra dalla ventosa che Stella aveva sotto il naso. Gli altri
sfumacchiavano Marlboro light e sfottevano Roby. Tutti facevano lo
stesso gesto meccanico a intervalli regolari, taliavano e ritaliavano
l'orologio trattenendo l'alitosi mattutina.
Alle 7.59 di quel 21 giugno il corteo s'avviò verso l'ingresso del
liceo, un piede alla volta dietro un'invisibile bara. Il solito
deja-vù abbracciò i sopravvissuti, gli capitava ogni volta che
s'avvicinavano al portone d'ingresso, forse erano solo lontane eco
della membrana infernale. Poteva anche essere semplice paura…
Il presidente della commissione sembrava la versione omosessuale di
Michael Douglas in "UN GIORNO D'ORDINARIA FOLLIA", dietro una
montatura dorata aveva due occhietti tipici di quei babbasoni innocui
che poi t'inculano senza chiederti niente, con violenza e senza
vaselina. Si doveva stare attenti solo a lui e a quella di scienze,
una racchia repressa con il buco del culo sigillato tra le mutandine.
Gli altri due erano abbastanza simpatici, si vedeva che erano pronti a
sbranarti alla minima impreparazione ma almeno erano due belle facce.
Quello di filosofia aveva una bella barba brizzolata sotto due occhi
azzurri come l'oceano.
Quella di matematica monopolizzò tutte le erezioni, era una
cavalluccia niente male che aveva messo a Carlo tanta voglia di
studiare la sua materia.
E ora s'entrava, già da fuori si vedevano i banchi sparpagliati per il
corridoio a casaccio, uno a destra e uno a sinistra. Il presidente
zigzagava stringendo l'elenco delle due classi della sua commissione.
Lo stringeva con le sue mani sudaticce e intanto osservava proprio
Stefano, quel bestione con i capelli, la maglietta e i jeans neri.
Tutto in coordinato, c'avrebbe pensato lui ad annerirgli il culo. Come
si chiamava? Stefano Re, in quel corridoio l'unico re era lui. Aveva
anche letto di sfuggita la sua pagella, quella sottospecie d'armadio a
quattro ante aveva una media di tutto rispetto, con un bel 10 in
italiano. Più lo rimirava da lontano e più non capiva. Perché la
Montebianco gli aveva fatto una testa così a vantarlo? Sembrava uno di
quei dannati scapigliati della nuova leva intellettuale che si sentono
sulle spalle il grave compito di cambiare la società, bubbole! Portava
i capelli a mezzo collo, gli occhiali da sole sciddicati sul naso e
ridacchiava caoticamente. Lo doveva tenere sotto controllo, poteva
dargli delle grane, se lo poteva permettere con la sua pagella e con
il feeling che aveva con la Montebianco. Non lo poteva sapere, ma il
presidente Calvaruso stava pensando gli stessi pensieri di Lorefia.
Avanzavano compatti i ragazzi di Laurentius, erano cresciuti ma erano
sempre i suoi ragazzi. S'infilarono in ordine alfabetico guidati dal
presidente. Carlo era tranquillo, solo lui e Stefano non s'erano fatti
prendere la mano dalla tensione che si respirava in quel corridoio.
Qualcuno canticchiava, molti pregavano. Stavano aspettando la busta
con le otto tracce del Ministero. Stefano era indeciso tra l'analisi
testuale e l'articolo, se la cavava benissimo con tutte e due. La
Repubblica aveva pronosticato che Saba sarebbe uscito dalla busta a
sorpresa, ci azzeccò.
Il tempo passava e ancora le buste non arrivavano, il Presidente aveva
fatto dei piccoli tocchetti di foglio, ci aveva macchiato sopra le
lettere dell'alfabeto e ora le shakerava davanti le pupille dilatate
di Paride. Uno strano scherzo del destino: un altro Paride era
chiamato a fare un'ardua scelta, stavolta non c'erano mele d'oro. Il
vecchio Paride Senzangelo si sarebbe guadagnato solo l'eterno odio del
primo sorteggiato.
-Agitali bene! Mi raccomando…- la voce dell'arruso con gli occhialini
gli solleticava le trombe d'Eustachio. Aveva scelto, era uscito il
corso E e la G.
-Garbo sarà il primo!- esclamò entusiasta la loro prof. d'inglese.
Carlo la odiò, s'agitava scosso da una strana vibrazione, s'aspettava
altre tre settimane per studiare e invece la sua testa sarebbe stata
mozzata tra cinque giorni. Solo cinque giorni per recuperare quello
che non aveva nemmeno letto! Forse s'era cagato addosso, avrebbe
controllato più tardi, ora avrebbe volentieri stritolato Paride.
La busta fu aperta dalla scienziata repressa, ne uscirono una dozzina
di fogli, numerati, intestati e con altrettanti codici a barre. Tutto
divenne nero nella testa di Carlo, la tranquillità gl'era caduta
assieme alle palle.
Lo scheletrino urlante di Munch faceva capolino dal suo ponte, un bel
temuccio quello del male di vivere. L'avevano macinato spesso, magari
troppo spesso. Tutte le tracce erano abbordabili. Iniziarono a
scrivere alle 9 e 17.
Alle 10 e 13 Stefano aveva già finito. Manola aveva acchiappato
l'analisi testuale e sembrava stranamente ispirata. Stefania incideva
il foglio con chilometri d'inchiostro e Carlo cercava nell'aria
qualcosa da scrivere. Le cartucce uscirono una dopo l'altra mentre
Stefano stonava Blowing in the wind per la trentaduesima volta. Molti
occhi fecero finta di non vedere, tranne i due occhietti d'un
inquietante verde rame del presidente. Acchiappò una sedia e si andò
ad assittare proprio davanti a Paride…
Alle 13 e 30 il corridoio iniziò a spopolarsi, uscivano uno dopo
l'altro come piccole caccole dalle narici del Liceo, uscivano
massaggiandosi i polsi doloranti a forza di scopiazzare senza criterio
dalle microscopiche fotocopie che gonfiavano le varie magliettine.
Stefano leggeva e rileggeva da quattro ore il suo capolavoro, ogni
tanto alzava gli occhi dal foglio e guardava Stefania, era proprio
dietro di lei. Guardava anche Dario. Era bastato fissare per un solo
istante il suo vecchio amico per ritornare a quella strana mattinata a
Praga.
…l'ultima notte all'hotel Slavia, l'ultima notte a Praga. Stefano,
Biagio, Carlo e i milicioti erano andati con la Montebianco a
passeggiare sul ponte Carlo. Lì, sorvegliata da statue di santi e eroi
c'era la più grande discoteca del centro Europa: Karlovy Lazne.
Ballavano i ragazzi della V^ E, ballavano di tutto e gli esami
sembravano così lontani… Gli altri erano gasati ma Dario era
impazzito. Pedro gli aveva fatto bere un Erectus, una micidiale
bevanda energetica. Dario non beveva, non fumava, non rullava. Quella
bevanda arrivò dritta al cervello danneggiando irreparabilmente lo
sventurato. Non sarebbe stato più il vecchio Dario, non sarebbe più
riuscito a scrivere un tema decente. Tutto merito di Pedro. Calogero
non stava ancora con Stella, Stella aveva ancora Dario nel cuore.
Avevano ballato sino all'alba, la Montebianco era semisvenuta in un
tavolino del disco pub, s'era tolta le scarpe e ascoltava a fatica le
sconnesse elucubrazioni di Stefano. Aveva bisogno d'una ragazza,
chiaro e lampante, solo una donna poteva aggiustarlo a dovere. Forse
Stefania era quella adatta.
Quattro taxi li avevano riportati all'albergo, Stefano aveva solo
voglia di staccarsi dagli occhi le lentine e fare un fosso nel letto.
S'era dimenticato della festazza che aveva organizzato proprio nella
sua stanza. Rum a tignitè, marlboro al mentolo e abbordaggio libero.
Mancavano soltanto Luis e la sua sbanda di scuncumiddati, la
spaccatura continuava ad esserci nonostante i "rapporti interpersonali
all'interno della classe" restassero un costante punto all'O.d.G. di
ogni dannata assemblea di classe.
Stefano aveva invitato perfino i vicini di stanza, due artisti
spagnoli. Le lesbiche belghe erano partite la sera prima lasciando
orfano il cazzo di Paride.
Calavano forte i ragazzi di Laurentius, Stella li aveva sfidati e ora
delirava invocando Dario. Era una scena strappalacrime, la rossa
ubriaca che continuava a vomitarsi addosso e tra un conato e l'altro
continuava la sua litania. Dario ti amo, ti amo, l'ho fatto solo per
farti ingelosire…
Dario le stringeva dolcemente la mano, si vedeva che piangeva dentro.
Ci volevano due palle così per accettare quella situazione. Stella di
giorno stava appiccicata a Calogero, ogni volta che spariva si sapeva
bene dov'era e ora chiamava solo Dario. L'amava ancora, s'amavano
ancora ma erano forse troppo diversi. Troppo.
Quello non era stato un bell'anno per Dario, si vedeva che ci soffriva
ancora, lo capivi da come inclinava la bic, da come sfogliava il
dizionario alla ricerca delle doppie che sbagliava ogni volta.
Anche Stefano n'aveva viste di cose, aveva sfiorato l'abisso tante
volte e sempre era riuscito a risollevarsi. L'incubo nella piramide
era una bazzecola, la vita s'era rivelata molto più faticosa. Non
bastava sapere rispondere alle domande giuste, non bastava saper
riempire le colonne di un tema.
|