MOSTRUOSAMENTE INVIDIOSO


“Riflettete bene prima di rispondere. Ricordate sempre la regola della P. Anzi, Tom, vuoi per favore ricordarcela tu?”
“Prima Pensa Poi Parla Perchè Parola Poco Pensata Porta Pena” enunciò d’un fiato Thomas Branagh, sollevando dal banco con sforzo sovrumano il piccolo capo, che due ore di chimica avavano appesantito come un macigno.
“Perfetto. Dunque considerate con attenzione i dati del problema e cercate di pervenire alla soluzione”.
La professoressa Dickinson concluse il cerimoniale dell’esposizione del problema posando sulla cattedra il gessetto con il quale aveva appena finito di scrivere i dati alla lavagna. Dopodichè si apprestò ad un’attesa che sapeva prospettarsi alquanto breve.
Difatti l’accensione del fuoco sacro, immancabile in ogni rituale che si rispetti, non tardò ad avvenire. Tempo pochi secondi e le pupille di Katia Nisbet si illuminarono di un baluginio che squarciò la fitta coltre delle spesse lenti che la bambina portava sul naso, interponendosi tra la sua mente geniale e il resto del mondo.
La professoressa represse un moto di indignazione. Quella demoniaca bambina la aveva in pugno. Il suo irritante ed irreprensibile lampo di genio scattava immancabilmente e subitaneamente, riducendo in cenere la sacra regola della P. Quel piccolo genio si faceva beffe della regolamentare riflessione precedente la risoluzione di qualsiasi problema. Era un passaggio che non considerava. Dall’esposizione, la piccola passava per via diretta all’esatta conclusione.
L’irritazione si dissimulò in un compiacente sorriso sulle labbra dell’insegnante. “Katia? Hai qualche idea? Verresti alla lavagna ad illustrarcela?”
“Certo professoressa”. Katia si alzò e raggiunse la lavagna con rapidi balzelli, senza mostrare alcuna fatica nel trasportare l’ingente quantità di materia grigia contenuta nella piccola scatola cranica.
“Fottuta secchia di merda” sillabò Shelly Rowland, senza emettere alcun suono. Destinatario del messaggio era Cole Newport, seduto due banchi dietro Shelly, che avendolo captato annuì con convinzione e solidarietà.
I due pargoletti si servivano segretamente di un sistema di comunicazione tanto ineccepibile quanto inaccessibile. Erano infatti in grado di scambiarsi messaggi con la sola lettura delle labbra dell’interlocutore, al quale bastava accennare appena e nel più completo silenzio le proprie parole per essere compreso. Tale mezzo di comunicazione era quantomai utile in classe, nell’aura impregnata di tediato silenzio scandito dal monotono pulsare delle parole dell’insegnante. Era insostituibile, per esempio, ai fini della meritata calunnia di viscidi mostri di sapere come Katia Nisbet.
“Per risolvere il problema dobbiamo basarci sull’equazione di stato del gas perfetto” annunciò Katia, cercando di conferire un tono pomposo alla sua vocetta squillante.
“Hai centrato in pieno, Katia. Vuoi ricordare alla classe che cosa intendiamo per gas perfetto?”
“Quello che esce dal culo della Nisbet quando scorreggia. Perfettina lei, perfettissimo il gas” bisbigliò cattivo Duncan Parker all’orecchio della compagna di banco Shelly e la clandestinità della comunicazione tra la bambina e Cole fu spezzata da uno scoppio di riso.
“Shelly Rowland” la richiamò severamente la professoressa. “Non mi sembra proprio il caso di sghignazzare. Potrei sapere cosa trovi di tanto comico in un’equazione di stato?”
“La sua pertinenza con il culo floscio della Nisbet” erano le parole sulla punta della lingua biforcuta di Shelly, che però si limitò a scusarsi.
“Bene Katia. Possiamo procedere”.
“Pressione per volume uguale a numero di moli per R costante per temperatura” squittì l’alunna, con un tono di voce sempre più pericolosamente vicino a quello di un criceto con il raffreddore. “Disponendo noi della temperatura, del numero di moli e della pressione ed essendo alla ricerca del volume, è evidente che basta porre al denominatore la pressione…”
Lame taglienti come scaglie di vetro si materializzarono negli occhi di Cole.
“…e al numeratore la costante R…”
Ma inservibili, poichè fatte di luce; tanto terribili quanto impalpabili.
“…e il numero di moli…”
No, Nisbet stavolta ti sbagli. Non moli, mole, o meglio mola. La mola dell’anima di Cole affilava maniacalmente le sue lame, la cui efficacia aumentava proporzionalmente alla percezione della loro inservibilità.
“…e la temperatura a cui stiamo lavorando…”
La luce riflessa dalle lame inutili abbacinava lo sguardo di Cole, sicchè egli non poteva vedere nulla davanti a sè, non era in grado di distinguere i micidiali tratti di gesso che scalfivano la lavagna e la sua anima. Ma i sensi sono cinque. Riusciva a percepire l’odore agrodolce di quel cocktail letale di frustrazione, rabbia e impotenza che si accingeva a mandare giù d’un fiato. Sentiva il ticchettio dei passi del cameriere che gli serviva il cocktail su un vassoio arabescato, assieme ad una scodellina di arachidi ed una di olive verdi.
“…e moltiplicare tra di loro tali fattori…”
Ecco, la mano di Cole ora si stringeva sul gelido bicchiere di cristallo, poteva percepire le scalfitture delle greche che lo ornavano, peccato non poterle vedere, la vista era ancora abbagliata.
“… e dividerli per il denominatore…”
Ora Cole sollevava il bicchiere, lo appoggiava contro le labbra infantili, si accingeva a buttarne giù d’un fiato l’intero contenuto, conscio dei propri gesti e inconsapevole della reazione imminente.
“…basta eseguire I calcoli, e la risoluzone è dimostrata.”
Glu, glu, glu, glu, glu.
“Ottimo Katia”. Con gesti rilassati, la professoressa Dickinson inforcò un paio di occhiali dalla montatura rettangolare e mise a fuoco l’opera d’arte che si parava davanti ai suoi occhi. Semplici calcoli matematici si disponevano ora artisticamente sul nero pece della lavagna a formare un disegno mirabile, spettacolare,ineccepibile.
“Dopotutto è un’alunna modello. Forse sto davvero esagerando” pensò la professoressa, ignara dell’incommensurabile sforzo dei torniti muscoli del suo cervello, intenti a reprimere le ondate di astio invidioso che lo lambivano di continuo, in attesa dell’onda anomala che lo avrebbe sradicato.
“Vogliamo procedere con i calcoli numerici?”
Arg.
Tracannato alla goccia il cocktail, a Cole era sfuggito un contenuto rutto, breve incipit della reazione chimica in corso dentro di lui.
“Bene, Katia, torna pure al posto. I calcoli li lasceremo ad un altro compagno, magari che ha bisogno di integrare un po’.”
La luce accecante divenne intermittente, alterna ad un cieco buio. Diede il via al turbinio di una fantasia optical degna del miglior web designer sulla faccia della terra. L’effetto monopolizzava Cole, impedendogli di cogliere i perpetui segnali labiali di Shelly e poichè la ragazzina perseverava nell’intento, fu oggetto di un altro richiamo.
“Rowland, oggi mi hai davvero stancata!” sbottò l’insegnante, inconscia dell’onda di astio verso Katia, che, scorrendo sulla rotella del volume della sua voce, lo alzava ad un livello assordante. “Si può sapere perchè non mi hai prestato uno solo dei tuoi sudici orecchi fin dal primo momento che sono entrata qui? Beh, puoi scordarti la possibilità di rimediare. Chiamerò alla lavagna un compagno più volonteroso, e non sarà difficile trovarlo. Sarà sicuramente in grado di mettere a frutto le sue conoscenze, quella cosa che tu, Rowland, con la tua sciocca maleducazione non conseguirai mai”.
Sguishhh!
Ecco, le lame erano perfettamente affilate. Ora lui, Cole Newport, eroe degli oppressi e vendicatore dei pigliainculo, poteva brandire la sua arma letale contro lo schifoso viscido putrido mostro…
“Forza, Cole, vieni tu alla lavagna: ti ho visto bene attento, contrariamente alla tua cara amichetta”.
Mostro Nisbet?
“Cole?”
Mostro Dickinson?
“Ehi Cole, parlo con te!”
No. Mostro cameriere, fiero portatore di cocktail su vassoi arabescati.
Mostro arrotino di lame inservibili su mole usurate.
Mostro mitologico, che come Odisseo ficca un palo infuocato nell’anima, unico vero occhio dell’uomo.
Sicchè a Cole non restò che lasciare che quel suo grande occhio cieco iniziasse a versare un fiume di lacrime, il cui sale bruciava le lacere ferite interiori, che sgorgò improvviso, copioso, patetico dai suoi occhi, quelli veri. Scorreva, erodendo le sue membra infantili, mangiandosi la sua spensieratezza, cancellando la sua energia con un colpo della spugna stretta saldamente tra gli

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