I RACCONTI DI...



ALEXDEMIAN



DAGHMA (io...)



MARYLEE



ATHOS



VENTO DELL'OVEST



ALTRI RACCONTI...


LA STRADA RETTILINEA
Di Murdok

Camminava lungo quella strada, Edward, noncurante dello sciame di gente che gli ronzava attorno! Solitamente quel confuso e rapido sovrapporsi di voci e immagini lo rendeva nervoso e spaesato, ma vagando, in quel momento era più spavaldo e i suoi occhi non fissavano che un punto fisso, mentre i suoi timpani non erano tesi all’ascolto di qualche frase in particolare. Egli sentiva solo una melodia ripetitiva e cacofonica che dava eterodiegeticità a quel quadro in movimento che schematicamente alternava le stesse immagini! Passo dopo passo Edward perdeva colore e i contorni della sua sagoma si rivelavano sempre più astratti e indefiniti.
Cosa provasse in quegli istanti era impossibile da comprendere. Egli sentiva solo un progressivo appesantirsi delle membra man mano che si avvicinava alla meta. Ma qual era la sua missione? Che domanda avrebbe dovuto porre all’oracolo della sua esistenza? Si stava rapidamente facendo sopraffare da una sensazione di angoscia. Il percorso era dritto e non esistevano deviazioni. Si sentiva schiacciato dal peso dell’importanza e dall’impossibilità di tramutare il suo destino, ma continuava a procedere come se fosse costretto da qualcuno. Le sue guance erano ora solcate da lacrime e lui si dimenava come un bambino, provava a fermarsi, a tornare indietro, a cercare aiuto tra la folla, ma tutt’ad un tratto capì cosa cercava. E capì anche perché non poteva tornare indietro! Anzi sarebbe meglio dire: ricordò. La segretissima missione popolò di nuovo la sua mente ritornando ad essere per lui la prima delle priorità. Allora Edward si riappropriò del suo baldanzoso passo e continuò il suo retti
lineo desideroso di port
are quel messaggio!
Ora, se qualcuno si fosse fermato ad osservare quello strano personaggio dal carattere così mutevole, si sarebbe accorto di come i suoi vestiti e la sua carnagione perdessero sempre di più colore fino a diventare grigi. Era strano e divertente vederlo! In perfetto coordinato con il marciapiede. Avrebbe suscitato l’ilarità o il terrore generale se qualcuno si fosse accorto della sua presenza. Ma come era possibile che nessuno avesse posato il suo sguardo annoiato su Edward? Forse Edward era solo un’invenzione di un ragazzino fantasioso e cupo o eravamo noi la sua invenzione?
Ora quella figura spossata era giunta alla meta, uno stanzino piccolo e non arredato, e facendo capolino ghignava soddisfatto rivolgendosi verso la folla. Perché Edward si era mosso verso quello strano posto? Cosa avrebbe trovato lì? Quesiti futili quando si è giunti al termine. Ecco un atroce rumore che si trasformava in luce e quindi in elettricità che lo percorse come un fiume in piena! Poi il silenzio, la nobile morte era venuta a prendere quell’uomo assopito! Avvolto in un manto nero come la notte Edward guardava quel lungo miglio da lui appena percorso e capì, anzi ricordò: la strada, la folla, la musica. Solo un ultimo desiderio prima di spegnersi come una cometa! Solo un ultimo tuffo della mente schizofrenica di un pazzo omicida.



UNA FARFALLA CON LE ALI ROSSE
Di Barby77

Un cestino di paglia, di quelli che si comprano al mercato, tirando il prezzo almeno per un caffè con panna e cacao amaro. Un cestino di paglia confezionato in qualche fabbrica di Taiwan. Ha le maniglie di finto legno. Messo sul balcone al quarto piano non sfigura con i gerani della vicina che è in pensione dopo quarant’anni di attività floreale. E’ arancione. Un cestino di paglia che passa inosservato. Un fazzoletto ricamato non vi entra. Saranno i ricami. Lo porta con disinvoltura. Lo poggia sul bancone. Nel frattempo guarda lo smalto rosso passato male sul mignolo destro. Ha una voglia sulla spalla destra. A forma di sedia a dondolo, color crema, con riflessi cammelli senza gobba. Vorrei chiedergli di cosa sia. Fa freddo. Ho il condizionatore puntato sulla nuca, che mi crea una stalattite. Un brivido sulla schiena. Ho il sedere distrutto. Questa sedia va cambiata. Un altro mese così e sarò costretto a chiedere il prepensionamento per incapacità di intendere e volere. Il cestino di paglia è ancora qui. Si è seduta. Ha una gonna di raso. Intravedo il rigo dello slip. Sarà di quel cotonaccio d’importazione russa. Al solo pensiero mi viene in mente mia nonna che mi sgrida per aver fatto la pipì nel bidet. Ha una camicia color gorgonzola. All’inizio pensavo fosse macchiata, poi riguardandola ho capito che c’erano imbrattati dei fiori. Su sfondo bianco con chiazze blu. Non ha il reggiseno, ma non riesco a vederle i capezzoli. Dovrei prendere la bottiglia d’acqua sul tavolo affianco per poterla vedere bene. Ha ancora gli occhiali da sole. E’ truccata. Mi fanno impazzire le donne truccate. Legge. Ha preso il giornale. Chissà su quale pagina sarà. Spero veda il mio oroscopo. Sa io sono cancro. Lei di che segno sarà? No, no pesci no. L’ultima era un’anguilla vestita da ostrica. Se le chiedo il nome? Se la sbatto sul pavimento? Pessima idea. Ha una cavigliera. D’argento con un pesciolino appeso. No è pesci, me lo sentivo! Guarda tu Dio che disgrazie che mi devono succedere. Si tocca i capelli, si tira su gli occhiali. Vado lì. No fermo. Arriva un signore. Buongiorno. Si siede accanto a lei. La inizia a toccare. Le mette prima la mano sulla gamba, poi sotto la gonna. Non ci credo. Rimango senza fiato. Scarto una caramella. La mastico, anzi la succhio. Le bacia il collo. No qui no! Lei rimane ferma. Non reagisce. Se ci fossi io al posto di quel mezzo tizio tutto incravattato, la farei impazzire. Si alza. La guarda. Le da uno schiaffo. Oh mio Dio! Non so cosa fare. Rimango nel mio silenzio agognante di poterla avere appena lui sarà andato via. Infatti va via. Prendo coraggio e mi avvicino. Il cestino di paglia è ancora sul bancone. La guardo. Piange. Mi verrebbe voglia di farla ridere mentre gode. Si toglie gli occhiali. Ha il rimmel sfatto. Prendo il vassoio e vado via senza dire una parola. Quanto sono imbecille? Mi siedo. Guardo il tavolo e non c’è più. Il cestino di paglia arancione è ancora sul bancone. Lo prendo. Lo apro. Dentro solo un fazzoletto ricamato. Una farfalla con le ali rosse.

CASSONETTO DIFFERENZIATO
Di Paola

Ho già deciso come farò, perché bisogna avere rispetto del destino. Già una volta gli sono sfuggito per colpa di un intervento imprevisto. Occorre rimettere a posto le cose. Correggere ciò che è stato deviato da un inutile e dannoso fervore.
Aspetterò il terzo giorno del mio quarantunesimo anno di vita.
Il terzo giorno, perché voglio concedere al fato, alla natura, la possibilità di sistemare le cose spontaneamente. Sarebbe tutto più facile, per me, se il destino compisse il suo corso senza il mio intervento.
Aspetterò il terzo giorno del mio quarantunesimo anno di vita, ma in realtà tutto è già pronto. Mancano esattamente 77 giorni.
Ho già rubato un sacco nero per la raccolta dei rifiuti dalla cassetta che giace nel locale spazzatura del mio condominio.
Non sarà una cosa difficile da fare.
Lavoro in una ditta di spedizioni e la settimana scorsa mi sono fatto regalare, al reparto imballaggi, una confezione di quei fiocchetti di polistirolo che sembrano cipster. E anche un bel pezzo di cellofan con le bollicine. Mi divertivo un sacco a farle scoppiare, quando ero bambino, e anche con le patatine mi sarei divertito. Ma non sarà un gioco tra 77 giorni, anche se sarà facile.
Aspetterò il terzo giorno del mio quarantunesimo anno anche per un motivo molto più banale: perché sarà lunedì. Il lunedì è il giorno in cui il grande camion dei rifiuti ritira la spazzatura.
Ho studiato attentamente il processo: alle otto di sera un uomo apre il locale condominiale e, con l’aiuto di un carrello, porta tutti i sacchi neri sul marciapiede di fronte al cancello d’entrata.
Io dovrò entrare in azione nel lasso di tempo che passa dal compimento del suo lavoro all’arrivo del camion. Avrei preferito predisporre il tutto nella buia intimità del locale spazzatura, ma non posso correre il rischio che l’addetto del condominio si faccia domande sul peso anormale del mio sacco.
Certo, anche l’operatore ecologico dell’azienda municipale di smaltimento rifiuti potrebbe notarlo, ma mi sembra meno probabile. Soprattutto se l’imballo sarà fatto come si deve. E comunque, per ridurre il rischio al minimo, ho iniziato una dieta ferrea.
Ho preparato le pasticche di sonnifero e la bottiglietta di acqua minerale che mi accompagneranno. Preferisco essere profondamente addormentato quando il sacco verrà gettato fra i denti metallici del camion. Non voglio che un’inutile ripensamento o un improvviso rigurgito di terrore mi facciano urlare.
Il polistirolo ed il cellofan dovrebbero mascherare la natura anomala del contenuto. Non farà freddo e se dovesse piovere, succede spesso in quel periodo dell’anno, ciò tornerà a mio vantaggio perché il peso eccessivo potrà essere attribuito all’acqua assorbita. Poi, sotto la pioggia, gli operai presteranno certo meno attenzione a quel che accade.
Sono una persona corretta, non voglio creare problemi a nessuno. Ho fatto anche un test per verificare. Sono sieronegativo e non soffro di epatiti. Non contagerò nessuno.

IL CERCATORE DI CONCHIGLIE
Di Holden

Il cercatore di conchiglie ascolta il mare camminando dove la schiuma bacia la sabbia voltandosi a volte a guardare le impronte che lente svaniscono.
Porta con sé uno stupido sacchetto di plastica odoroso di pasti che avevano fretta e di pesci lontani.
Ogni tanto si china a comparare la forma di gusci diversi, li annusa, li ascolta, e se il suono lo incanta li serba con cura avvolgendoli in carta stagnola.
Che il profumo non si disperda.
Schiva attento i piccoli granchi cercando di imitarne il cammino trasversale, li segue a distanza carezzandone i passi con lo sguardo.
Ha indosso vestiti che ricordano una vita che non è più e lunghi capelli si intrecciano stanchi sfiorando la curva disegnata dalle spalle.
Vede la bambina solo un’istante prima, è quasi del tutto coperta di sabbia, persa in un gioco che gli procura un intenso, doloroso ricordo.
La bambina apre gli occhi.
- Ciao, cosa hai in quella busta?-
- La musica del mare-
- Davvero? Non ho mai sentito la musica del mare-
- Bisogna saperla ascoltare, e tu che ci fai sotto la sabbia?-
- Aspetto i granchi, li faccio camminare sul mio corpo-
- E non hai paura?-
- E tu non hai paura della musica del mare?-
Il cercatore infila la mano nella busta e ne tira fuori un paio di involucri che scarta con cura. Due conchiglie gemelle diffondono nell’aria un profumo di alghe, di gioia e di disperazione; le porge alla bambina:
- Ascolta-
- Non sento la musica di cui mi hai parlato, ma solo il rumore del vento e le grida dei gabbiani-
- Non sei ancora pronta per questo, conserva queste conchiglie ed una volta l’anno riprova. Nessuno può dire quando succederà, un giorno, un anno, tutta una vita…
- Ascolta per me allora e racconta.-
La bambina dice queste parole e porge le conchiglie al cercatore che le osserva attentamente come se le vedesse per la prima volta, ne tasta la consistenza e poi le accosta alle orecchie socchiudendo le palpebre. Sorride felice, poi appare turbato e piange.
- E’ così triste la musica che ascolti?-
- E’ una musica dolcissima, troppo per il mio cuore sottile-
- Come vorrei poterla sentire anch’io-
- Non devi avere fretta, aspetta il tuo tempo-
E nel dire queste parole allontana le conchiglie, e mentre le avvolge nella stagnola alcune lacrime gli cadono confondendosi all’umore che ne vela la cavità, poi le avvolge delicatamente nella stagnola e le posa sui palmi tesi della bambina, richiudendoglieli con dolcezza.
La bambina lo guarda in silenzio mentre si perde lontano e serra le mani come a non voler perdere il suono e il profumo che esse racchiudono, poi torna a confondersi con la sabbia e i suoi granchi.
Il cercatore di conchiglie si volta a guardarla fin quando è soltanto un granello di sabbia, poi posa il sacchetto e ne estrae la conchiglia più grande. La scarta e la accosta all’orecchio per un solo istante e subito la allontana sconvolto. Ne annusa in silenzio il profumo, la accosta ancora e mentre le lacrime gli inondano il viso cammina nel mare verso quel punto lontano dove precipita il cielo e infine scompare.

SCUSATE IL RITARDO
Di Alexander

Scusate il ritardo.
Mi perdonerete il silenzio di questi ultimi giorni.
Ma in ospedale non avevo il computer e comunque c'era dell'altro più urgente da fare.
Laggiù mi hanno rigirato da tutte le parti e alla fine hanno sputato la sentenza: glioblastoma multiforme.
Tradotto, ho un cancro al cervello.
Sicuro.
Inoperabile.
Mi hanno dato tre mesi di vita.
Al massimo.
Voi non mi conoscete granché (sono stato un po' reticente e ho giocato a nascondermi), ma io ho quarant'anni, una moglie, dei figli, un lavoro, amici, interessi, desideri, sogni e una vita ancora da vivere.
Credevo.
Lo credevo nonostante quel lontano mal di testa che mi prendeva la mattina e che mi ha portato dal mio medico.
Per un controllo.
Per uno sfizio.
Per fugare uno stupido presentimento da ipocondriaco quale sono sempre stato.
E ora sono qua, con questo giudizio di condanna che ancora non riesco nemmeno a concepire, per quanto non pensi ad altro.
Giorno e notte.
Notte e giorno.
Avete mai contato quanti minuti ci sono in tre mesi?
129.600.
Centoventinovemilaseicento.
In lettere sembra anche più lungo.
Ma per arrivare fino a questa riga(benché abbia scritto tutto in un fiato) ne ho già consumati tre.
E un quarto se ne sta partendo.
Eppure non so che altro fare di meglio se non aggrapparmi a questo acquario dove passa tutto il mondo con i suoi pensieri, le sue frustrazioni, le sue conquiste, i suoi saperi, le sue illusioni, le sue parole, le sue catene infinite ed eterne di parole alle quali mi voglio attaccare, come un ramarro, non perché abbia un'idea o una verità o una storia da raccontare, ma soltanto per poter sentire ancora una volta di esserci, di esistere, di condividere, se solo questo non fosse un lusso sempre più caro, perché i minuti passano e mi attardo a navigare senza meta, perché intanto non devo andare più da nessuna parte e devo solo trovare un posto, un buco, lontano e inaccessibile dove fermarmi e respirare e calmare questo mio cuore rotto e per una volta guardarmi dentro, veramente, e toccarmi finché ci sono ancora e prosciugarmi di ogni lacrima e di ogni linfa e di ogni memoria e aspettare che venga il giorno, l'ora, il minuto, quell'ultimo minuto, quello raro, quello forse irriconoscibile, in cui mi spegnerò e semplicemente non sarò.

MICHELA E IL MOSTRO
Di Diana

La madre passo' davanti alla TV e guardo' inorridita la scena: un gorilla con delle pinne al posto delle mani e la testa gocciolante di sangue si dimenava in graziosi balletti. Michela, quattro anni, non faceva una piega, immobile, pallida e composta seguiva il cartone animato al massimo dell'interesse. Lo stesso che se ci fosse stato un grazioso gattino.
- Amore, non vieni a far merenda? - disse la madre con tono forzatamente indifferente. Sapeva che in certi casi i bambini vanno assecondati, mai riversare le nostre ansie adulte sul mondo infantile cosi' coraggioso e asettico verso l'abnorme. Il solito discorsetto del logopedista.'Vedrà che la bambina si sbloccherà. I mostri dei cartoni animati? la naturale proiezione della mostruosità della vita moderna. Il pc, i telefonini. Le sembrano cose normali? I bambini percepiscono un concetto diffuso di anomalia. Sono migliori di noi in questo, pronti ad accettare il diverso, lo strano'
' Sarà....pensava lei, e intanto Michela non parlava. Balbettava qualche parolina dell'area delle necessità, sonno, fame, pipi' e piu' nulla.
Si nutriva avidamente di cartoni animati dove macinavano di tutto, scene raccapriccianti e figure orribili senza scomporsi piu' di tanto, come se fossero cose quotidiane e normali. Lei all'età di Michela aveva paura dell'impronta di una mano su un vetro, Michela passava indifferente davanti al negozio di giocattoli pieno di brutture senza esprimere nè desiderio nè raccapriccio. Non amava le Barbie, provava solo una debole simpatia per un certo bambolotto che a spingergli la pancia tirava fuori una linguaccia tutta insanguinata.
'Che coraggio questi bambini...' dicevano le altre madri all'asilo. Ma lei in cuor suo sapeva che non era coraggio, ma qualcosa che non le sarebbe servito piu' di tanto.
Una mattina suonarono alla porta. Era Michela accompagnata dalla madre di una bambina. Aveva le guance accaldate e la gonna tutta sversata.
- Signora, una cosa terribile..- e dopo aver spinto via Michela le spiego' che al bagno un certo bidello era stato sorpreso appena in tempo mentre cercava di toglierle la gonnellina.
La bambina, per il trauma, miracolosamente parlava.
Con calma, dopo qualche ora, la mamma cerco' di capire cosa fosse successo.
E Michela, con noncuranza:
- quel signore era come Scheletro Matto quando cerca di rubare i vestiti all'orsetto Minu'....-

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