Cupeta: storia di un dolce enigma


A Pignola - mi si racconta - la si vedeva far capolino dalle bancarelle nelle feste che si tenevano in paese. Ed era - ci tramanda il Riviello per Potenza - anche uno di quei doni, o complimenti, che, in occasione di feste campestri, come la Buliemme, o Betlemme, il sangue di Cristo e l'Incoronata, il giovane soleva offrire alla zita quale pegno del suo amore.
Stiamo parlando della "cupeta", che, per chi non lo sapesse, era un "dolce - ci spiega il Dizionario dei dialetti di Picerno e Tito di Maria Teresa Greco - fatto con zucchero, miele e mandorle" e " in mancanza di queste lo si faceva cu i nuzzi, i noccioli di albicocca".
Manco a dirlo, era conosciuta anche fuori di Basilicata. Il Basile ne accenna nel terzo trattenimento della sua raccolta di racconti in dialetto napoletano conosciuto come Lo cunto de li cunti o Pentamenrone, pubblicato fra il 1634 e il 1636, quando descrive il momento in cui il re, grazie all'espediente del banchetto escogitato dai suoi saggi, scopre l'identità del padre dei figli di sua figlia, Vastolla: "la fava de sta copeta, il nome di questa beneficiata, era toccato a un brutto goffo, che faceva stomaco e disgusto solo a guardarlo". E l'Andreoli, autore d'un dizionario dialettale ci informa che era "in forma per lo più schiacciata, guarnita di confetti". Da ciò scaturiscono i modi di dire pignolesi s'è fattë a cupetë o è cumë na cupetë. E se a Pignola l'esclamazione cupete! vale "niente, nix", ad Anzi è addirittura sinonimo di "cacca". E... chi ha la sfortuna di andare a finire ind'a cupetë, sa bene che non gli andrà meglio di Cambronne.
Sempre a Pignola vige ancora il modo di dire ammuinë assaië e cupetë pochë, che sarebbe come dire "molto fumo e poco arrosto", e ciò si spiega col fatto che la "cupeta" si vendeva avvolta nella carta, alla maniera dei moderni torroncini.
In Abruzzo la cupetë assume, singolarmente, la funzione di cibo rituale del Natale ed è fatta di "mandorle o noci, sapa e miele".
Una puntata in Calabria ci permette di scoprire che la "cupeta" è invece fatta col "sesamo e col miele o preparato con nocciole, pigne, ecc.". Il sesamo ci porta l'odore e il sapore dell'Oriente e ci aggancia alla Sicilia dove troviamo la "cubbaita", una specie di torrone scuro fatto, appunto, con sesamo, mandorle o nocciole, e miele. E poiché anche qui la "cubbaita" si vendeva avvolta in un cartoccio di stagnola, anche qui si soleva dire "scrusciu (rumore) di carta senza cubbaita".
In Sicilia la prima attestazione della voce "cubbaita" - ed entriamo nella sua storia linguistica - risale XV secolo; ma deve essere molto più antica, poiché un atto notarile palermitano del 1287 ci tramanda un "cubaydario", un venditore di "cubbaita", di nome Federico. Mentre in Toscana - secondo il Prati - "cubata", una sorta di torta, appare nei "Bandi Antichi", che sono della metà del XVI secolo, e "cupada" è in Giovanni Pagni, metà del XVII.
I primi tentativi di analisi etimologica risalgono al XVII secolo. Il Ferrario pensò a una continuazione del greco "kopto", che significa "triturare", a cui si associò Francesco Pasqualino, autore di un vocabolario siciliano manoscritto, mentre il figlio di quest'ultimo, Michele, che riprese e pubblicò il vocabolario nella metà del Settecento, aggiunse che "copta", in latino, è una focaccia dura. A questo punto entrò in gioco il Vinci, altro vocabolarista, che corresse il tiro affermando che la base di partenza era il latino "cupediae", che significa "ghiottoneria". La proposta sembrava in realtà convincente, tanto più che il "cuppedinarius" latino, cioè il "venditore di ghiottonerie", ben si adatta a essere l'antenato del "cupetaro" dei nostri giorni.
Ma quando tutto sembrava assodato, ecco che, sul finire dell'Ottocento, incominciò a farsi sentire la voce degli arabisti. Primo l'Amari, che ci fece finalmente sapere che in arabo era chiamata "kobbeit" una specie di torrone come la "cubbaita" di Sicilia. Subito dopo il Picone sostenne che "cubaita" era, sì, l'arabo "kubbât" o "kubbeit" ma quest'ultima "si manufatturava col mosto delle uve, al quale dai nostri si è surrogato il mele".
Alla fine è prevalsa la tesi araba, tant'è vero che non è più messa in discussione dagli etimologisti dei nostri giorni. Unica voce discorde (ma ne ignoriamo i motivi), quella del Bigalke, il quale, nel ben noto "Dizionario dialettale della Basilicata", ripropone l'etimo latino "cupedia".
Ma la "cupeta" lucana, più che alla "cubbaita" siciliana, somiglia al torrone bianco del nord Italia e di Francia, e la storia si complica. Cremona ne rivendica i natali, forte del fatto che una tradizione locale vuole che, al suo apparire, avesse la forma di un torrione, e, più precisamente, del Torrazzo, la duecentesca torre campanaria del Duomo, divenuta poi il simbolo della città padana. Di diverso avviso, naturalmente, i francesi, i quali sostengono che il torrone sarebbe invece legato al culto per S. Martino, il vescovo di Tours, tanto che l'antico nome latino "panis turronis" ne proverebbe la provenienza dal capoluogo della Turenna. A quest'ultima tradizione si rifece l'abate chietino di nascita e napoletano d'adozione Ferdinando Galiani, autore di un "Dizionario napoletano", nel quale afferma che esso è "venuto a noi co' Francesi, che regnarono in questo Regno" e, a riprova, adduce il fatto che a Napoli, per la festa del santo vescovo di Tours, si consumi torrone in quantità.
Se non proprio a smentire ma almeno a mettere in dubbio questa tesi, si osserva che proprio in Francia il torrone è chiamato "nougat", dal latino popolare "nucatum", perché fatto di noci e nocciole. Ma il Galiani ha pensato anche a questo e giustifica la sua affermazione col dire che il provenzale "nugà" (da cui "nougat") è il latino "nugae", che significa "quisquilie". Il nesso fra le due parole andrebbe ricercato nel fatto che i fanciulli son golosi di questo dolce. Un po' alle strette, il buon abate ammette pure che la denominazione "torrone" possa derivare dal latino "torreo", perché preparato col fuoco. Ipotesi, quest'ultima, che trova d'accordo anche gli etimologisti moderni, che pensano a una sua provenienza, almeno linguisticamente parlando, dalla Spagna, in quanto "turrón" viene da "turrar", che a sua volta è il latino "torrere". 
A questo punto una domanda ci sembra legittima: la "cupeta" ci viene da sud o da nord? Non possiamo escludere che le due correnti migratorie possano essersi incontrate, o scontrate, dando origine a un processo di sintesi; ma, come sempre, non è facile rispondere. Usi, costumi e tradizioni emigrano da un luogo all'altro, i popoli li fanno propri senza tanti perché e lasciano agli studiosi la briga di lambiccarsi il cervello e di frugare fra le carte ingiallite dai secoli e consunte dalla polvere. Si fissano date e si inventano spiegazioni, nella presunzione di conoscere la verità: ma immancabilmente, alla fine, ci si rende conto che il segreto, il grande segreto, della loro genesi, il più delle volte, rimane inviolato nel misterioso libro tempo che non sempre si lascia sfogliare dalla mano dell'uomo.

Sebastiano Rizza

 

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