Unione per le Libertà a Cuba


Liberta per i Prigionieri Politici Cubani

Home    Chi siamo    News     Iniziative     Contatti    Denuncie    Commenti    Archivi     Links    Collabora

 

Notizie

Cuba, autunno di sangue per un dittatore

di CARLOS FRANQUI

Lo scontento popolare, il fatto che la gente comincia a parlare apertamente, la paura di perdere il potere, ma anche la sua perdita di protagonismo sulla scena internazionale: c’è tutto questo dietro l’ultima ondata repressiva scatenata da Fidel Castro, un uomo che - l’ho detto più volte e ne sono sempre più convinto - comanda ma non governa. In questi giorni ne abbiamo ancora una conferma: la linea del regime non è quella della repressione costante, ma è caratterizzata piuttosto da fasi alterne. Permettere che si sviluppino germogli di nuovi movimenti per poi stroncarli alla radice. È un modo per non lasciare spazio all’illusione, per spazzare via ogni entusiasmo. Negli ultimi anni ho scoperto un fenomeno interessante, uno dei più interessanti occorsi in un paese comunista: la stampa indipendente. A un certo punto, a Cuba, siamo arrivati ad avere più di cento giornalisti indipendenti: si trattava in parecchi casi di persone che avevano lavorato in passato nei media ufficiali e che decidevano di passare dall’umiliante terreno della propaganda all’esercizio di una informazione vera. A questo progetto ho cercato, e sto cercando, di dare un contributo con la rivista Carta de Cuba , che dirigo qui da Portorico e che raccoglie, quando è possibile, testimonianze dirette provenienti dall’isola, racconti di vita vissuta sotto un regime dittatoriale. La sfida era delle più coraggiose, tanto che Castro non ha tardato molto a stroncarla: verso il 2000 almeno la metà dei giornalisti indipendenti sono stati costretti a fuggire all’estero, o deportati in zone sperdute del paese, privati degli strumenti di lavoro, parecchi di loro arrestati a più riprese. Eppure, nonostante le minacce e le intimidazioni, negli ultimi due anni il movimento si era ripreso, coincidendo con lo sviluppo di quello che è stato il più coraggioso progetto per una transizione democratica a Cuba, il Progetto Varela.
Vale la pena di ricordare che il regime non ha avuto, almeno in apparenza, un comportamento lineare nel corso di questi decenni: ci fu l’epoca (anni Sessanta soprattutto) delle condanne pesantissime contro i dissidenti, condanne fino a vent’anni di carcere e anche di più; negli anni Novanta ci era sembrato di assistere a un parziale ammorbidimento (pensiamo al movimento La Patria es de Todos ), con pene contenute intorno ai cinque anni di reclusione. Ora siamo tornati alla linea del passato, di nuovo i vent’anni di carcere, quasi a mettere sull’avviso che la dissidenza non ha futuro. L’idea di Fidel Castro è chiara, il potere si mantiene con il terrore. E quanto più si sviluppa un nuovo movimento, tanto più dura e spietata dev’essere la reazione.
Si è detto che tra gli elementi che possono aver concorso a provocare questa nuova ondata repressiva - le decine d’arresti, i processi estremamente sommari senza le garanzie di difesa, le condanne «esemplari» - ci può essere stata la linea dura scelta dalla Casa Bianca con la nomina di un nuovo capo della «sezione d’interessi» Usa all’Avana, un esponente dell’ala intransigente dell’amministrazione, incaricato di condurre una politica da agente provocatore, con un appoggio esplicito ai gruppi della dissidenza. In realtà non è questo il fattore fondamentale. Sin dal trionfo della Rivoluzione, non si è mai permesso lo sviluppo di una opposizione pacifica: la linea è stata sempre e solo una, quella di reprimere. E dall’inizio è stato proprio questo uno dei più gravi motivi di contrasto tra me e Fidel Castro.
È vero, la causa principale che è stata addotta per condannare queste persone è stata quella di aver mantenuto rapporti con ambasciate straniere. Ma questo è il trionfo dell’ipocrisia. Negli ultimi anni Castro ha ricevuto centinaia di americani, anche di seconda classe, perché era convinto che il dollaro americano avrebbe salvato l’isola. Quando i talebani catturati furono trasportati a Guantanamo, Raúl Castro arrivò a dire che, se avessero tentato di fuggire, li avrebbe restituiti alle forze Usa. In un mio libro, del resto, scrivevo della relazione che abbiamo avuto con gli Stati Uniti ai tempi della clandestinità. Non si dimentichi che il 14 aprile 1958 gli Usa decisero l’embargo nella vendita di armi al regime di Fulgencio Batista, cosa che gli risultò fatale. Insomma, allora era normale avere rapporti con gli Usa, ora è diventato un delitto.
Da sempre, quello che più interessa a Fidel è stare sulle prime pagine dei giornali. Credo che non sopporti di aver perso, almeno in parte, un ruolo da protagonista sulla scena mondiale. In quest’ultimo caso, almeno la scelta dei tempi lascia pensare che l’obiettivo fosse l’opposto: cercare di passare il più possibile inosservato. L’arresto dei 78 dissidenti, tra i quali quasi trenta giornalisti, è avvenuto proprio in coincidenza con l’inizio della guerra in Iraq, quando tutta l’attenzione dei media internazionali era concentrata su quello scenario bellico. Ma le dimensioni dell’operazione repressiva, e il fatto che per la prima volta dopo 15 anni si sia arrivati ad applicare la pena di morte, non potevano non provocare una reazione forte nell’opinione pubblica mondiale. Ora si tratta di vedere se alle parole seguiranno i fatti, e quali fatti. La sfida del dittatore prima agli Usa e poi all’Europa - con la manifestazione di massa contro Aznar e Berlusconi - è una sfida solo verbale. Se la sua ira è così grande, se è davvero convinto che ci sia un complotto contro di lui, perché non ha subito espulso il capo della «sezione d’interessi» americana? E perché non nazionalizza gli hotel spagnoli all’Avana? O non decide di espellere Benetton o altre imprese italiane? Scatena la propaganda contro i governi ma non tocca gli interessi economici.
È proprio su questo terreno che si misurerà la volontà effettiva dell’Europa di agire contro questo regime. Per quanto Castro possa essere convinto del contrario, non può e non potrà mai vivere completamente isolato dal mondo, non potrà rinunciare anche all’Europa dopo aver tagliato i ponti con l’America. E allora l’Unione europea - che è sempre stata molto importante per Cuba - può e deve aumentare la pressione. Ci sono imprese, molte imprese europee, che operano a Cuba come complici del regime: bisognerebbe prenderne atto e agire di conseguenza. I governi renderebbero un grande servizio al nostro popolo se mandassero aiuti che arrivino effettivamente alla gente, cercando di evitare che passino attraverso i canali ufficiali per finire poi nei negozi per stranieri, dove medicine e beni di vario tipo vengono messi in vendita in dollari. E poi l’informazione, elemento chiave in un paese dove il regime fa di tutto per tenere la popolazione all’oscuro di tutto ciò che accade nel mondo. Perché le radio pubbliche europee non pensano di produrre notiziari che possano essere trasmessi nell’isola? Sarebbe un aiuto straordinario.
Sono solo alcuni suggerimenti, un esempio di quello che si potrebbe fare. Quello che chiede l’opposizione cubana è azione, solidarietà concreta. Non esclusivamente da parte dei governi, ma anche da parte della sinistra europea, che solo in parte ha cambiato il suo atteggiamento. Questa dittatura ha avuto la più grande complicità mondiale che si sia mai vista. A sinistra ma anche a destra, si sono troppo a lungo esaltati i falsi valori della Rivoluzione, si sono perdonati errori e prevaricazioni intollerabili. Una parte della sinistra ha cominciato a ragionare seriamente già da parecchio tempo.
Ricordo che alla fine degli anni Settanta, a Roma, a un convegno organizzato da Paolo Flores d’Arcais, emergeva questa linea dagli interventi di alcuni degli esponenti più rappresentativi della cultura italiana di sinistra: tutto quello che di negativo si dice del comunismo è vero, ma i regimi restano lì. In Italia devo riconoscere che sin dagli anni Sessanta c’era una parte importante della sinistra che ci appoggiava, ad eccezione - ovviamente - del Partito comunista, ancora lontano dalla rottura con il blocco sovietico. Oggi restano ancora scampoli di una sinistra che è rimasta cieca, che si rifiuta di vedere la realtà: ed è da lì che vengono le sue sconfitte: dagli italiani di Rifondazione comunista agli spagnoli di Izquierda Unida, questi ultimi ancora troppo timidi nella loro critica. Ma la cosa veramente importante è che, ormai, la grande maggioranza dei partiti e movimenti progressisti europei sono schierati dalla parte dei gruppi della dissidenza e dell’opposizione al regime totalitario. Agli altri, quelli che sono ancora legati nostalgicamente al passato dell’utopia comunista, posso solo suggerire per il loro bene che pensino a un altro modo di cambiare il mondo.
La domanda, a questo punto, è quando e come termineranno le sofferenze di un popolo sottoposto al giogo della dittatura, privo di qualunque spazio di libertà. Io non ho dubbi che anche questo sistema crollerà, esattamente come i regimi dell’Est. Quando e come, è difficile dirlo. Probabilmente si sbagliava chi ad un certo punto ha creduto che Fidel Castro volesse avviare una transizione lenta e morbida attribuendo alla Chiesa cubana un ruolo da protagonista. Credo che in realtà, in un certo momento, che culminò con l’organizzazione della visita del papa, cinque anni fa, egli arrivò a fare questo tipo di ragionamento: la Chiesa si occupi dello spirito, che io mi occupo dei corpi. A patto che non si metta in

politica. Il rischio era contenuto perché a Cuba, non dimentichiamolo, la gerarchia ecclesiastica non ha avuto un ruolo simile a quello esercitato in paesi come il Nicaragua, il Cile e la Polonia. L’unico brivido lo vivemmo proprio in quei giorni in cui Giovanni Paolo II visitò l’isola quando in più di una occasione, durante le messe oceaniche, si levò un insolito grido: «Libertà, libertà».
Sul comunismo io ho un’idea molto precisa: distrugge tutto nella prima fase, nella seconda paralizza tutto, nella terza si autodistrugge. Ecco, credo che a Cuba siamo arrivati alla fase dell’autodistruzione. Sui tempi e i modi, si possono fare molte speculazioni. È vero che il regime, con gli ultimi processi, ha cercato di stroncare ogni speranza di poter dar vita a un movimento dell’opposizione. È anche vero che la gioventù cubana pensa, in maggioranza, che l’unica speranza di salvezza è nella fuga, a Miami o in Europa. Però ci sono un milione di persone senza lavoro. E ci sono ventimila cubani che, un anno fa, hanno avuto il coraggio di sottoscrivere il Progetto Varela, il primo tentativo serio di avviare il paese sulla strada della democrazia. Ci sono insomma tutti gli elementi per pensare che in futuro possa riprendere corpo un movimento della dissidenza. In un sistema comunista, la morte del leader unico è sempre molto importante. La scomparsa di Fidel Castro, quando avverrà, precipiterà di certo gli eventi. Ma non è detto che provochi automaticamente la caduta del regime. Il controllo dell’economia e della struttura militare è saldamente in mano al fratello Raúl. Già da tempo, c’è una parte consistente dell’apparato che è preoccupata e pensa seriamente al da farsi nel caso in cui le cose si mettano male. L’Europa può darci una grossa mano, aumentando la pressione, accelerando l’isolamento. Solo così il regime può avviarsi inesorabilmente verso l’autodistruzione.

Corriere della Sera