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Gli strumenti dell’azione educativa: la ComunicazioneLa
comunicazione è un fatto talmente importante nelle relazioni e nella convivenza
umana che moltissime discipline di studio se ne sono occupate per tentare di
capirne il senso e la dinamica. E in realtà gli uomini comunicano più
efficacemente di quanto non conoscano della comunicazione. Ma dobbiamo anche
riconoscere che capirsi non è facile. Al punto che alcune correnti di pensiero,
e non da oggi soltanto, hanno sostenuto una sostanziale incomunicabilità fra
gli uomini. Capire come funziona la comunicazione significa ricorrere, allora,
alle conoscenze e ai modelli interpretativi di cui disponiamo per renderla più
efficace. Modelli che tentano di decifrare i meccanismi della comunicazione
secondo diversi parametri teorici (da quello cibernetico a quello semiologico,
ad esempio). Diversità
di modelli interpretativi
Qualunque
sia il modello principale di riferimento, tuttavia, arriviamo a situazioni e
livelli in cui la comunicazione si intreccia con il problema morale: chi
possiede meglio i meccanismi della comunicazione può utilizzarli per servire
meglio il cammino degli altri ma può anche servirsene a proprio esclusivo
vantaggio. Si tratta perciò di uno straordinario strumento di servizio
educativo ma anche un possibile strumento di manipolazione o di mortificazione
dell’altro. Porsi di fronte a questa ambivalenza è importante per chiunque, ma è fondamentale per chi ricopre un ruolo educativo. Perciò la comunicazione, come in altre occasioni abbiamo avuto modo di dire, può essere intesa chiaramente come condizione, strumento dell’educazione ma non dobbiamo dimenticare che essa rappresenta anche una grande sfida soprattutto quando essa si pone, in qualche modo, come problema di verifica dell’intenzionalità formativa e della coerenza fra strumenti e valori. Dobbiamo
superare, in ogni caso, un consueto modello di comunicazione che viene
frequentemente usato per la sua apparente semplicità. Il limite fondamentale di
tale modello è quello di prospettare una struttura di tipo lineare: emittente
> canale > codice > messaggio > destinatario. Struttura che
indicherebbe un semplicistico modo di pensare e cioè, in parole povere, che il
messaggio arrivi al destinatario così come è stato confezionato da colui che
lo lancia. La
complessità della comunicazione umana
In realtà nella comunicazione umana la situazione è molto più complessa. Si tratta di un fenomeno che richiama una struttura ad andamento circolare e inter-attivo. Questo implica che quando l’emittente comunica un messaggio non può far a meno di anticiparsi tutta una serie di elementi relativi a colui che riceverà il messaggio e correggendo, anche in itinere, la propria comunicazione sulla base delle reazioni dell’interlocutore. Il tipo di aggiustamento legato a tali elementi contribuisce, in modo sostanziale, a "confezionare" il messaggio stesso. Ed, ancora, colui che riceve il messaggio non lo intende necessariamente secondo le intenzioni di colui che lo "spedisce" ma primariamente secondo quanto la propria competenza e le proprie aspettative consentono di ricevere. Per
certi versi quanto detto potrebbe essere sconcertante poiché potrebbe
significare che non ci si capisce mai o, il che è lo stesso, che ciascuno
capisce quello che vuole capire. E molte volte è così. Sta
di fatto, comunque, che semplificare ciò che invece è complesso non sempre
serve a spiegare i fenomeni di cui ci occupiamo. Uno dei padri della
cibernetica, N. Wiener, già avvisava che "non si è mai sicuri di ciò che
si è detto finché non si riceve la risposta a ciò che si è detto". Per
essere capiti non è sufficiente, cioè, dire, spiegare, e, tanto meno, urlare.
È necessario suscitare la disponibilità a capire e trovare i modi per
accertare quanto e come di ciò che intendevamo comunicare è arrivato a
destinazione. La
comunicazione nel gruppo
Questa struttura circolare o, se vogliamo, dialogica, vale tanto per la comunicazione interpersonale quanto per quella di gruppo. Un educatore deve comunque essere consapevole che nella comunicazione con il gruppo si incontrano problemi che non sono gli stessi che si incontrano nella comunicazione a tu-per-tu. Anche qui è esperienza comune che i ragazzi presi uno per uno offrono impressioni di ragionevolezza di disponibilità che possiamo non ritrovare quando essi sono affrontati come gruppo. Anche in questo caso i meccanismi sono complessi. Quando parliamo a tu per tu i problemi di relazione presenti nel gruppo sono, per così dire, messi fra parentesi. Chi è disposto a confidarsi in un colloquio interpersonale, ad esempio, non è detto che sia disposto ad esprimere le proprie opinioni di fronte al gruppo intero. Un educatore dovrà essere attento e abile in entrambe le situazioni di comunicazione.
Dentro
la comunicazione
Consideriamo
ancora i seguenti punti secondo una prospettiva di tipo "pragmatico". È
impossibile non comunicare
Tutto
il comportamento è comunicativo, non solo le parole. Quindi comunichiamo sia in
modo verbale che non verbale: gesti, sguardi, tono della voce, atteggiamenti,
abbigliamenti, silenzi, ecc. Siamo in un circuito ininterrotto di comunicazione.
Siccome è impossibile non comportarsi è impossibile non comunicare. Per un
educatore è una presa di coscienza decisiva. Può sembrare una cosa ovvia.
Tuttavia se genitori, insegnanti, dirigenti, allenatori avessero una chiara
consapevolezza di questa ovvietà probabilmente i comportamenti, le scelte e i
discorsi che coinvolgono i ragazzi sarebbero molto spesso diversi. Comunicazione
e relazione
In
questo circuito comunicativo c’è sempre un qualche cosa che si comunica
(contenuto) e c’è un come lo si comunica (forma). Il come può ribadire o
contraddire il che cosa. Basta il tono della voce a trasformare il significato
di un messaggio (si pensi all’ironia). Ma esiste anche un ulteriore livello:
il che cosa e il come possono essere intesi come indicatori dello stato
relazionale dei rapporti. L’altro capisce, in qualche modo, se e come lo
teniamo in considerazione. La simpatia o l’antipatia, l’attenzione o il
disinteresse, ad esempio, si percepiscono anche se non sono dichiarati e/o al di
là delle dichiarazioni. Da questo punto di vista molti contenuti espliciti di
comunicazione sono un "pretesto" per lanciare messaggi sulla
situazione relazionale. È
decisivo, in educazione, segnalare l’esistenza e la persistenza del rapporto
("Io per te ci sono", "tu per me sei importante"). Martin
Buber chiamava questi messaggi conferma. E cioè un complesso di messaggi e di
atteggiamenti che indicano un riconoscimento, una attestazione di esistenza
fornito agli interlocutori. Il suo contrario, la disconferma, quando sia
sistematica, invia messaggi devastanti psicologicamente ("Tu per me non
esisti", "non sei nessuno", "non mi interessi",
"per me è come se non ci fossi"). E tutto questo passa in modo
particolare attraverso la comunicazione non verbale. Il rifiuto invece
significa, comunque, un riconoscimento dell’altro, anche se conflittuale,
anche nel disaccordo di opinioni, di scelte e decisioni. Un educatore si troverà
spesso ad assumere atteggiamenti di disaccordo, di conflitto e di rifiuto ma non
dovrebbe mai ignorare e disconfermare i suoi ragazzi. I
punti di vista nella comunicazione
Ancora
è importante la comprensione dei punti di vista. Si sente spesso dire che
bisogna mettersi "nei panni dell’altro". È un modo di dire che
indica una operazione tutt’altro che semplice. Per mettersi nei panni
dell’altro bisognerebbe avere i suoi stessi vissuti esperienziali. E questo è
impossibile per definizione. Possiamo tuttavia compiere sforzi per ascoltare e
capire il punto di vista dell’altro. Poiché, se non facciamo questo, ciascuno
di noi comunica attribuendo all’altro un punto di vista immaginato e filtrato
secondo il proprio punto di vista. Ora in qualsiasi situazione o ambiente il
requisito minimo di un educatore è almeno lo sforzo di comprendere quali siano
gli attuali punti di vista dei propri interlocutori. Qualsiasi cambiamento e
qualsiasi apprendimento significativo, infatti, è operazione compiuta non
dall’educatore ma dall’educando ed avvengono solo a partire dagli schemi
motori, cognitivi e morali da lui posseduti in quel momento. I quadri di
riferimento, cognitivi e valoriali, posseduti dall’adulto costituiscono, per
così dire, un possibile orizzonte di sviluppo solo se riusciranno, attraverso
efficaci strategie comunicative, a connettersi costantemente con l’esperienza
dei soggetti in apprendimento. Comunicazione
e asimmetria
Conviene
ribadire che questa diversità di punti di vista è un dato strutturale, in
qualche modo ineliminabile, che ha a che vedere con il significato stesso
dell’educazione. I ruoli educativi nascono dalla diversità e dalla
responsabilità morale dovuta alla maggiore esperienza e alla maggiore
competenza che sono messe al servizio della crescita di chi questa esperienza e
questa responsabilità non possiede. Nella comunicazione questa percezione
della diversità è decisiva. Ragazzi e adulti non sono alla pari ma nemmeno gli
adulti sono considerati dai ragazzi alla pari fra di loro. La credibilità di un
adulto è in qualche modo collegata anche al ruolo sociale che occupa. Ma
attenzione. Il ruolo funzionale, e cioè il compito istituzionale che un adulto
svolge (per es. un insegnante), non coincide sempre con il suo ascendente
socio-emotivo (stima, autorevolezza, affetto). Nel caso nostro, ed è questa una
delle straordinarie risorse dei gruppi associativi, il ruolo funzionale di
allenatore non è sufficiente a garantirgli l’incidenza e l’ascendente sui
ragazzi. Deve conquistarseli sul campo, con la propria capacità comunicativa,
con l’attenzione, con l’abilità di incoraggiare senza illudere, con una
presenza costante che diventi punto di riferimento emotivo e ideale. In un
gruppo associativo i ragazzi hanno possibilità di rimanere o abbandonare a
seconda dell’offerta di clima e di attività che vi si svolgono. È la forza e
il limite di questi ambienti educativi. Mentre in situazioni istituzionali, come
famiglia e scuola, gli adulti sono, per così dire, obbligatori, nel caso
dell’extrascuola c’è una possibilità di scelta - e cioè "rimango se
mi trovo bene" - che connota queste esperienze di un fascino particolare
sia per i ragazzi che per gli adulti. La
comunicazione come incoraggiamento
Un
educatore non comunica mai a un ragazzo medio e con strategie che possano andar
bene per tutti. Se l’apprendimento e lo sviluppo sono strettamente personali,
un adeguato aiuto a crescere non può che tentare di essere calibrato sul
singolo. E un singolo che cambia, che è in divenire, che ha crisi di identità,
che può essere euforico ma anche scoraggiato. Lo scoraggiamento è ovviamente
un nemico dell’impegno nell’attività (qualunque essa sia). È abbastanza
ovvio che ragazzi scoraggiati, con poca fiducia in se stessi, afflitti da
complessi di inferiorità, o anche solo ragazzi in crisi, creano problemi agli
educatori. Incoraggiare, dare fiducia, restituire la voglia di impegnarsi, sono
tentativi, più o meno riusciti, che tutti gli allenatori devono continuamente
affrontare. Più che mai si tratta di un intervento del tutto personalizzato. L’incoraggiamento
ha a che vedere principalmente con processi di valutazione. Bene o male i
ragazzi utilizzano criteri di valutazione a riguardo delle proprie prestazioni e
di quelle degli altri. E gli adulti, a loro volta, non possono non formulare
valutazioni qualitative sulle stesse. Un problema fondamentale, dal punto di
vista educativo non è quello, eventualmente, di non valutare - che è, appunto,
impossibile - ma quello dei modi con cui esprimiamo le nostre valutazioni e del
senso che attribuiamo loro nei processi educativi. Valutazione
e autostima
È
fondamentale che i ragazzi percepiscano la differenza fra un giudizio su se
stessi, in quanto persone, e le valutazioni di singoli comportamenti e di
prestazioni che, pur incidendo sulla percezione di sé e sull’autostima,
rientrano nel quadro normale dei rapporti e dei confronti. Ma se i ragazzi
soffrono a causa di critiche e giudizi negativi su se stessi non hanno tuttavia
bisogno né di valutazioni né di lodi continue per impegnare le proprie capacità.
Hanno bisogno soprattutto di attenzione e - come si è detto - di conferma,
hanno bisogno di percepire che l’adulto che si prende cura di loro, li ha
presenti e li segue con preoccupazione. Incoraggiare, perciò, non significa
esprimere sempre e comunque lodi e valutazioni positive sulle prestazioni e sui
comportamenti dei ragazzi. E ciò per due buone ragioni. In primo luogo perché
se le valutazioni non sono sincere, la comunicazione non verbale smentirà
quella verbale offrendo al soggetto la convinzione della nostra incoerenza o
inautenticità. (Esempio tipico è fornire verbalmente valutazioni positive
sulle capacità di un ragazzo ma non facendolo mai giocare in squadra, senza
spiegare). In secondo luogo perché il senso dell’incoraggiamento non è tanto
quello di fornire sopravvalutazioni illusorie delle capacità del soggetto,
quanto quello di fornire indicazioni per una percezione realistica di esse che
non impedisca, ma anzi stimoli, il desiderio di impegnarsi per migliorarle e per
dare ad esse un significato. Un
criterio a cui attenersi può essere questo: è sempre meglio appoggiarsi a ciò
che i ragazzi sono in grado di fare piuttosto che rilevare ciò che non sono in
grado di fare. Nelle competizioni e nelle prove i ragazzi stessi hanno chiara
percezione della eventuale non-riuscita e il rilevarla o il sottolinearla,
semplicemente, non aiuta a migliorare le prestazioni. Partire da ciò che essi
sanno fare, mostrare e ricercare i motivi delle difficoltà e le ipotesi di
ulteriori miglioramenti rappresentano, invece, un reale incoraggiamento alla
crescita. La
motivazione intrinseca nell’attività sportiva
Un altro elemento che può servire a suscitare o recuperare interesse per l’attività sportiva è l’attenzione alla motivazione intrinseca o la sua riscoperta. Tutti sappiamo che i ragazzi molto presto sono sollecitati all’attività sportiva da spinte e suggestioni che, per molti versi, sono esterne all’attività stessa (identificazione imitativa con campioni, desiderio del guadagno, suggestioni ricavate dai media, desiderio di assecondare i genitori, necessità di compensazione psicologica, ecc.). Spinte e suggestioni fragili e, comunque, fuorvianti. Un interesse autentico sarà mantenuto, anche in coloro che non raggiungeranno altissimi livelli, solo se si scopre il fascino dell’attività di per se stessa, perché fornisce gratificazione nel fatto stesso di compierla (è lo spirito del gioco che può rinascere continuamente all’interno di qualsiasi attività)19. La passione e cioè una attività coinvolgente che mobilita le risorse personali è un elemento formativo che dovrebbe essere recuperato in molte attività umane (lavoro, studio, impegno sociale, ecc.) a prescindere dal riconoscimento economico che ne può derivare.
Per un uso particolare della comunicazione verbale in rapporto ad attività motorieIn un
ambito come quello dell’attività sportiva possono essere utili alcune
considerazioni sul ruolo della comunicazione verbale come aiuto e spiegazione
relativi ad attività motorie, a tecniche esecutive, a correzione o
miglioramento di movimenti. Comunicazione verbale e apprendimentoMolti ritengono che nelle attività motorie gli apprendimenti avvengano fondamentalmente per imitazione e per tentativi ed errori e che, quindi, siano solo l’esercizio e la ripetizione a consolidare le padronanze. Ci sono alcuni slogan, a questo riguardo, usati come verità indiscutibili. È il caso, per esempio, di "a nuotare si impara nuotando". In questo slogan, come in tutti gli slogans, c’è ovviamente una parte di verità. È fuori discussione che imparare a nuotare, come imparare qualsiasi altra cosa, è una operazione, o una serie di operazioni, compiute da un soggetto che deve dedicare tempi, tentativi, una propria fatica attiva, insomma, per diventare capace di padroneggiarle. E nessuno, ovviamente, può imparare a nuotare al posto di un altro. Tuttavia lo slogan non nega che ad imparare a nuotare si possa essere aiutati. Che è cosa diversa. Anzi dal dibattito psicologico sappiamo che sono determinanti, per qualsiasi prestazione, il tipo di aiuto e le condizioni che vengono create a favore del soggetto che apprende. Sappiamo bene che ci sono persone che, meglio di altre, sanno mettere bambini e ragazzi in condizione di imparare meglio, o più velocemente. Fra
le strategie di aiuto che si possono mettere in atto, come educatori, per
facilitare anche gli apprendimenti di carattere motorio, la comunicazione
verbale può giocare un ruolo determinante. E possiamo suggerire una ipotesi di
lavoro che può consentire di raggiungere meglio alcuni obiettivi che già
abbiamo enunciato. E cioè quelli di mostrare in modo più evidente quel legame
mente/corpo che rappresenta un momento fondamentale della presa di coscienza
delle proprie possibilità. Una via adeguata, riteniamo, a rendere consapevoli i
ragazzi dei progressi che stanno compiendo e a fornire dei validi strumenti
autocorrettivi che rendano l’esercizio, necessario al consolidamento delle
padronanze, una fatica meno meccanica e ripetitiva. A proposito di una teoria dei "piani" motoriCi si riferisce in modo particolare alla teoria di Miller, Galanter e Pribram, ripresa e sviluppata anche da Nuttin20. Molto schematicamente questi autori ritengono che attraverso il concetto di "piano" sia superabile la distinzione fra processi psichici inferiori e superiori che stanno alla base di molte psicologie. Ogni operazione da noi compiuta - sia essa motoria oppure mentale - è interpretabile come un piano, un progetto, e cioè come una sequenza di operazioni orientata a risolvere un problema. Anche un gesto o un repertorio di gesti non sono mai una accozzaglia casuale di movimenti ma sono sempre l’organizzazione ordinata o coordinata di movimenti mirata al raggiungimento di un determinato risultato. Questa organizzazione e questo coordinamento seguono una logica finalizzata e dunque razionale e intelligente. Queste logiche, o interne giustificazioni della sequenza dei movimenti e dei modi o strategie che debbono essere seguite per compiere le operazioni, non sono sempre esplicitabili verbalmente. Ma ogni volta che noi riusciamo a ricostruire dei piani verbali corrispondenti ai piani motori, individuando le sequenze e le giustificazioni delle operazioni, abbiamo uno strumento in più per essere consapevoli di ciò che dobbiamo realizzare. E questo vale, in teoria, sia per movimenti semplici come per articolate e complesse procedure. Una
teoria perciò che offre un contributo notevole al recupero di dignità della
manualità e della motricità. Nel nostro caso utile a ripensare e a intervenire
sia a proposito di gesti e movimenti sia di articolate e complesse procedure di
un gioco di squadra. Piani verbali e piani motoriUn esempio, analogo a quello fornito dagli autori citati in precedenza, può chiarire meglio quanto detto. Tutti ricordano le prime lezioni di scuola guida. Una semplice operazione da imparare era "scalare una marcia", per esempio dalla terza alla seconda. In realtà si tratta di una sequenza ordinata di operazioni che chiama in gioco il nostro controllo di frizione, acceleratore, cambio, senza dimenticare il volante ed eventualmente il freno. Una schematica ricostruzione verbale del piano motorio potrebbe essere, allora: staccare l’acceleratore, premere il pedale della frizione, disinserire la terza marcia, passare da folle, inserire la seconda, alzare il pedale della frizione, premere l’acceleratore. Il tutto in parallelo ad altre operazioni compiute con la mano sinistra e ai controlli visivi. È fin troppo ovvio che la padronanza della operazione in questione si può dire buona quando la sequenza delle operazioni non costituisce più un problema e cioè quando è diventata automatizzata. E automatizzata al punto che è perfino difficile ricostruirla verbalmente in modo adeguato. Ma in fase di apprendimento la difficoltà era quella di organizzare e velocizzare la successione giusta di movimenti, di per sé discreti e isolati (prima questo poi quello, poi quest’altro, ecc.). E in quella fase il compito dell’istruttore era appunto quello di suggerire l’ordine e il senso delle operazioni nel caso che qualcosa non funzionasse. Ora per il fatto che questa sequenza sia stata perfettamente automatizzata non ha perduto il suo carattere di organizzazione dei movimenti in sequenza, ordinata da ragioni tecniche. Ragioni, se vogliamo, anche banali ma comprensibili e che ci giustificano, ad esempio, il perché tecnico del fatto che un movimento debba precederne un altro e non viceversa. La possibilità di ricostruire piani verbali, corrispondenti a vari tipi di operazione motoria, offre perciò enormi vantaggi agli allenatori: - nel compiere analisi dei movimenti e delle esecuzioni che possono consentire interventi verbali molto più efficaci e mirati rispetto a generiche valutazioni ("non così!, non ci siamo! stai più attento!", che sottolineano l’errore ma non offrono spiegazioni o elementi di comprensione per fare meglio); - nel far emergere e spiegare le "ragioni" e le "logiche" dei movimenti, delle difficoltà e degli esercizi, permettendo ai ragazzi una presa di coscienza delle proprie capacità e dei propri miglioramenti, dei propri limiti e dei propri errori; - nel poter utilizzare, nelle inevitabili valutazioni, criteri ed espressioni verbali che riguardano la prestazione piuttosto che le competenze globali del soggetto; (è molto diverso dire a uno "sei balordo!, non sei capace!" oppure "attenzione che per compiere efficacemente questo movimento è necessario fare così e così, ...per queste ragioni..."); - nel fornire ai ragazzi preziosi elementi di autocorrezione e di autovalutazione; - nel prestare attenzione e cura ai processi e alle difficoltà di apprendimento anziché limitarsi solo a constatare prestazioni e risultati; - nel costruire materiale di analisi e di confronto per corsi di aggiornamento e di preparazione. Una condizione indispensabile, però, per poter utilizzare adeguatamente questa ottica è che ciascuno, e meglio ancora impegnandosi in esercizi di analisi con colleghi, provi su di sé e sui propri movimenti queste strategie di descrizione e le usi come un "canovaccio" provvisorio da sottoporre costantemente a verifica. |
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