Percorsi di Fede

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 IL PARADISO DESCRITTO DA S. DOMENICO SAVIO IN

UN SOGNO A LANZO TORINESE DI S. GIOVANNI BOSCO

 

Immagine dal sito web "Don Bosco Institute" Skilling Nepal affiliated to Ctevt

Segni Straordinari del Beato

Ultimo controllo Mercoledì 28 Febbraio 2018 ore 06.40

 

La notte del 6 dicembre 1876 D. Bosco, trovandosi nel collegio di Lanzo, vide in uno de’ suoi sogni il suo caro discepolo e gli parlò a lungo e di cose molto importanti. La sera poi del 22 ne fece il racconto all’intera famiglia dell’Oratorio dopo le orazioni e la penna fedele di D. Lemoyne lo raccolse.

La sera nella quale mi fermai a Lanzo, venuta l’ora del riposo, mi accadde di essere occupato dal seguente sogno. È un sogno che non ha nulla di relazione cogli altri sogni. Ne ho già raccontato uno quasi simile nel tempo degli esercizi, ma e perché non vi eravate tutti voi, e perché molto differente, ho deciso di raccontarvi questo. Sono cose molto strane. Ma voi sapete che coi miei figli io apro tutto il mio cuore; per essi non ho segreti. Fatene quel conto che volete: ma siccome dice S. Paolo: “quod bonum est tenete” (1 Tessalonicesi 5,21), così se troverete in questo sogno qualche cosa che faccia bene all’anima vostra, approfittatene. Chi non vuol credere, non mi creda, ciò non importa niente; ma nessuno metta mai in ridicolo le cose che sono per dire. Vi prego ancora di non volerle raccontare ad altri che non siano della casa e neppure scriverne fuori. Ai sogni si può dare l’importanza che i sogni si meritano, e coloro che non conoscono la nostra intimità, potrebbero pronunziare un giudizio erroneo e chiamare le cose con nome diverso dal loro proprio. Non sanno che siete i miei figli e che io a voi dico tutto quello che so, e alcune volte anche quello che non so (risa generali). Ma ciò che manifesta un padre ai suoi amati figliuoli per loro bene, deve stare lì tra padre e figliuoli, e non più oltre. Ed anche per un’altra ragione. Per lo più, raccontandosi fuori il sogno, o si travisa il fatto, o se ne racconta solo una parte non capita; e da ciò nasce danno e il mondo disprezzerebbe ciò che non deve essere disprezzato.

Bisogna che sappiate che i sogni si fanno dormendo. Dunque la notte del 6 di dicembre, mentre ero nella mia camera, senza saper bene, se leggessi o girassi qua e là per la camera, ovvero fossi già a letto, entrai nel sognare.

In un momento mi sembrò di essere sopra un piccolo rialzo di terra o collina, sulle sponde di una pianura immensa, i cui confini l’occhio non poteva raggiungere. Si perdeva nell’immensità. Era tutta cerulea come un mare in piena calma, ma quello che io vedevo non era acqua; sembrava come un terso lucente cristallo. Sotto i miei piedi, dietro di me ed ai lati, vedevo una regione configurata come quelle di un litorale in riva all’oceano.

Quella pianura era divisa da larghi e giganteschi viali in vastissimi giardini, di bellezza inenarrabile, tutti scompartiti in boschetti, praterie, ed aiuole di fiori, di forme e colori diversi. Nessuna fra le nostre piante può darci un’idea di quelle, benché in qualche modo si vedesse una somiglianza. Le erbe, i fiori, gli alberi, le frutta erano vaghissime e di singolare aspetto. Le foglie erano d’oro, i tronchi e i gambi di diamante e il resto corrispondeva a questa ricchezza. Non era possibile contare le differenti specie: ed ogni specie ed ogni individuo splendeva di una propria luce. Io vedevo in mezzo a quei giardini e in tutta l’estensione della pianura innumerevoli edifici di un ordine, vaghezza, armonia, magnificenza, vastità così straordinaria, che nella costruzione di uno di questi, sembrava non dovessero bastare tutti i tesori della terra. Io dicevo a me stesso: — Se i miei giovani avessero una sola di queste case, oh come godrebbero, come sarebbero felici e vi starebbero volentieri! — Cosi io pensavo, potendo vedere quei palazzi solamente all’esterno. Quanto maggiore non doveva essere la magnificenza interna!

Mentre ero meravigliato di tante stupende cose che ornavano quei giardini, ecco diffondersi una musica dolcissima, e di così grata e soave armonia, che io non posso darne un’idea adeguata. Quelle di Don Cagliero e di Dogliani non hanno nulla di musicale poste a confronto con quella. Erano centomila strumenti e tutti davano un suono differente l’uno dall’altro e tutti i suoni possibili svolgevano per l’aria le loro onde sonore. A questi si univano i cori dei cantori.

Vidi allora una moltitudine di gente che si trovava in quei giardini e si divertiva allegra e contenta: chi suonava e chi cantava. Ogni voce, ogni nota faceva l’effetto come una riunione di mille strumenti, tutti diversi l’uno dall’altro. Contemporaneamente si udivano i vari gradi della scala armonica, che si possano immaginare, dal più basso al più alto, ma tutti in perfetto accordo. Ah! per descrivere quest’armonia non bastano paragoni umani.

Si vedeva dalle facce di quei felici abitatori, che i cantanti non provavano solamente un piacere straordinario di cantare, ma sentivano nello stesso tempo immenso gaudio nell’udire cantar gli altri. E quanto più uno cantava, tanto più gli si accendeva il desiderio di cantare, e quanto più ascoltava tanto più desiderava di ascoltare. Ecco il loro cantico: Salus, honor, gloria Deo Patri Omnipotenti... Anctor saeculi, qui erat, qui est, qui venturus est indicare vivos et mortuos in saecula saeculorum.

Mentre estatico ascoltava questa celeste armonia, ecco apparire una quantità immensa di giovani, dei quali moltissimi io conosceva ed erano stati nell’Oratorio e negli altri nostri collegi; ma di essi la maggior parte mi era ignota affatto. Quella folla sterminata veniva verso di me. Alla loro testa si avanzava Savio Domenico, e subito dopo di lui procedevano D. Alasonatti, D. Chiala, D. Giulitto e molti, e molti altri chierici e preti, ciascuno guidando una squadra di giovani.

Interrogava me stesso: — Dormo o son sveglio? — E batteva le mani una contro dell’altra e mi toccava il petto, per accertarmi essere una realtà quanto io vedeva. Giunta tutta quella folla innanzi a me, si fermò alla distanza di otto o dieci passi. Allora brillò un lampo di luce più viva, cessò la musica e si fece un profondo silenzio. Tutti quei giovani erano pieni di gioia grandissima, che loro traspariva dagli occhi, e sul loro volto si vedeva la pace di una felicità perfetta. Mi guardavano con un dolce sorriso sul labbro e sembrava che volessero parlare; ma non parlavano.

Savio Domenico si avanzò solo di qualche passo ancora e si fermò così vicino a me, che se io avessi stesa la mano, l’avrei certamente toccato. Taceva, guardandomi esso pure sorridente. Come era bello! Le sue vesti erano al tutto singolari. La tonaca candidissima che gli scendeva fino ai piedi era trapuntata di diamanti, e d’oro tutta intessuta. Un’ampia fascia rossa cingeva i suoi fianchi, ricamata così di gemme preziose che una quasi toccava l’altra; e intrecciandosi nel disegno meraviglioso, presentavano tale bellezza di colori, che io nel vederli mi sentiva trasportare fuori dei sensi per l’ammirazione. Dal collo gli pendeva un monile di fiori pellegrini ma non naturali: sembrava che le foglie fossero di diamanti uniti insieme su gambi d’oro e così tutto il resto. Questi fiori risplendevano di una luce sovrumana, più viva di quella del sole, che in quell’istante brillava in tutto lo splendore di un mattino di primavera; e riflettevano i loro raggi su quel viso candido e rubicondo in una maniera indescrivibile; e così l’illuminavano che non si potevano neppur ben distinguere le loro varie specie.

Il capo aveva cinto di una corona di rose. La capigliatura gli scendeva ondeggiante giù per le spalle e gli dava un aspetto così bello, così affettuoso, così attraente che sembrava... sembrava... un angelo!

Anche le persone di tutti gli altri risplendevano di luce. Erano vestiti in vario modo, e sempre stupendo; chi più, chi meno ricco; chi in una, chi in altra foggia; chi di un colore dominante, chi di un altrove quelle vesti diverse avevano un significato che nessuno saprebbe comprendere. Ma tutti avevano i fianchi cinti con eguale fascia rossa.

Io continuava ad osservare e pensava: — Che cosa vuol dire questo?... Come ho fatto a venire in questo luogo? — E non sapeva ove mi fossi. Fuori di me, tutto tremante per riverenza, non osava andare avanti. Anche tutti gli altri continuavano a rimaner silenziosi. Finalmente Savio Domenico aperse la bocca: — Perché tu stai lì muto e quasi annichilito? Non sei tu quell’uomo che una volta di nulla ti spaventavi, ma affrontavi intrepido le calunnie, le persecuzioni, i nemici e le angustie e pericoli di ogni fatta? Dov’è il tuo coraggio? Perché non parli?

Io risposi a stento quasi balbettando: — Non so che cosa dire. Sei tu dunque Savio Domenico?

— Sono io! Non mi riconosci più?

—  E come va che ti trovi qui? — io replicai sempre confuso.

E Savio affettuosamente: —- Son venuto per parlarti! Tante volte ci siamo parlati sulla terra! Non ti ricordi quanto un giorno tu mi amavi? Quante volte tu mi hai dati numerosi pegni di amicizia e mi hai usato tanti tratti di benevolenza! E questo tuo vivo amore non era da me corrisposto? Era tanto grande la mia confidenza in te! Perché dunque sei così sgomentato? Perché dunque tu tremi? Orsù fammi qualche interrogazione!

Allora io mi feci animo e gli dissi: — Io tremo, perché non so ove mi sia.

— Sei nel luogo della felicità, mi rispose Savio, ove si godono tutte le gioie, tutte le delizie.

— È questo adunque il premio dei giusti?

— No, no! qui siamo in un luogo dove non si godono i beni eterni, ma invece dove, benché grandi, si hanno solamente beni temporali.

— Sono dunque naturali tutte queste cose?

— Sì; abbellite però dalla potenza di Dio.

— E a me pareva, io esclamai, che questo fosse il paradiso!

— No, no, no! rispose Savio. Nessun occhio mortale può vedere le bellezze eterne.

— E queste musiche, io continuava, sono le armonie che godete in paradiso?

— No, no, e sempre no!

— Sono suoni naturali?

— Sì, sono suoni naturali, perfezionati dall’onnipotenza di Dio.

— E questa luce che supera la luce del sole, è luce soprannaturale? È luce di paradiso?

— È luce naturale, ravvivata però e perfezionata dall’onnipotenza di Dio.

— E non si potrebbe vedere un poco di luce soprannaturale ?

— Non si può vedere da alcuno senza che sia giunto a vedere “Iddio sicut est”. Il minimo raggio di quella luce farebbe morire un uomo all’istante, poiché non è sostenibile dalle forze dei sensi umani.

— E si potrebbe avere una luce naturale ancor più bella di questa?

— Oh se tu sapessi! Se vedessi solamente un raggio di luce naturale portata ad un grado superiore a questo, tu ne rimarresti fuori di te.

— E non si può vedere almeno un raggio di questa luce che tu dici?

— Sì che si può vedere; avrai la prova di ciò che io dico; apri gli occhi.

— Li ho aperti, io risposi.

—- Sta attento e guarda là in fondo al mare di cristallo.

Guardai in su e nello stesso tempo comparve d’improvviso nel cielo ad una immensa distanza un’istantanea striscia di luce, sottilissima come un filo, ma così splendente, così penetrante che i miei occhi non poterono resistere. Li chiusi e mandai un grido tale da svegliare D. Lemoyne (qui presente) che dormiva nella camera vicina. Spaventato, mi domandò al mattino che cosa mi fosse accaduto nella notte, da essere stato così agitato. Quel filo di luce era cento milioni di volte più chiaro del sole, e col suo fulgore basterebbe ad illuminare tutto l’universo creato.

Dopo qualche istante spalancai gli occhi e domandai a Savio Domenico: — Che cosa è questo? Non è forse un raggio divino?

Savio rispose: — Non è luce soprannaturale, benché in confronto della luce del mondo sia così superiore in fulgidezza. È questa niente altro che luce naturale resa più viva in tale modo dalla potenza di Dio. Se una zona immensa di luce, simile a quella striscia vista là in fondo, fasciasse tutto il mondo, non ti darebbe ancora un’idea degli splendori del paradiso.

— E voi che cosa godete in paradiso?

— Eh, sì!... dirtelo è cosa impossibile. Quello che si gode in paradiso, non vi è uomo mortale che possa saperlo, finché non sia uscito di vita e riunito al suo Creatore. Si gode Iddio! Ecco tutto.

Io intanto, essendomi pienamente riavuto dal mio primo sbalordimento, era assorto nel contemplare la bellezza di Savio Domenico e gli chiesi con franchezza:

— Perché hai un vestito così bianco e smagliante ?

Savio tacque senza dar segno di voler rispondere. Il coro ripigliò allora la sua armonia, accompagnato dal suono di tutti gli strumenti, e cantò: Ipsi habuerunt lum- bos praecinctos et dealbaverunt stolas suas in sanguine Agni.

— E perché, interrogai ancora finita quella musica, perchè quella fascia rossa ai tuoi fianchi?

Savio neppure questa volta rispose, anzi fe’ come segno di non voler rispondere.

E allora D. Alasonatti da solo si mise a cantare: Virgines enim sunt et sequuntur Agnum quocumque ierit.

Allora io intesi come quella fascia rossa, color di sangue, fosse simbolo dei grandi sacrifizi fatti, dei violenti sforzi e quasi del martirio sofferto per conservare la virtù della purità: e come per mantenersi casto al cospetto del Signore, fosse stato pronto a dare la vita, se le circostanze così avessero portato: era anche simbolo delle penitenze che mondano l’anima dalle colpe. La bianchezza poi e splendore della veste, significano l’innocenza battesimale conservata.

Io intanto attratto da quei canti e contemplando tutte quelle falangi di giovani celestiali schierati dietro a Savio Domenico, gli domandai: —- E chi sono coloro che ti stanno attorno?... E come va che voi siete tutti così splendenti? io ripetei agli altri. — Savio continuava a tacere e tutti quei giovani si posero a cantare: Hi sunt sicut Angeli Dei in caelo. Io intanto notava come Savio sembrasse avere la preminenza su quella moltitudine che era dietro a lui un dieci passi, quasi in rispettosa distanza e: — Dimmi, o Savio: tu sei il più giovane fra i molti che ti seguono e fra quelli che morirono nelle nostre case: perché dunque vai così innanzi ad essi e li precedi? perché tu parli e gli altri tacciono?

— Io sono il più vecchio di tutti questi.

— Ma no, io replicai; altri molti sono di te più avanti negli anni.

— Io sono il più antico dell’Oratorio, ripeté Savio Domenico, perché sono stato il primo a lasciare il mondo e ad andare nell’altra vita. E poi legatione Dei fungorì

Questa risposta mi indicava il motivo di quella apparizione. Era l’ambasciatore di Dio. — Dunque, io dissi, parliamo ora di quelle cose che più in questo istante ci importano.

—  Sì, e fa presto a domandarmi ciò che desideri ancora sapere. Le ore passano e potrebbe finire il tempo

che mi è concesso per parlarti e non potresti più vedermi.

— Io credo che tu abbia qualche cosa di somma importanza da comunicarmi.

— Che cosa debbo dirti io, misera creatura? disse Savio in atto di umiltà profonda; dall’alto ho ricevuta la missione di parlarti. È per questo che sono venuto.

— Dunque, io esclamai, parlami del passato, del presente, dell’avvenire del nostro Oratorio. Dimmi qualche cosa dei miei cari figliuoli, parlami della mia Congregazione.

— Riguardo a questa avrei molte cose a dirti.

— Palesami dunque ciò che sai: dimmi del passato.

Savio: — Il passato cade tutto sopra di te.

Ed io: — Ne ho fatta qualcheduna delle mie?

Savio: — Quanto al passato ti dico che la tua Congregazione ha già fatto molto del bene. Vedi laggiù quel numero sterminato di giovani?

— Li vedo, risposi. Oh quanti! e come sono felici!

Ed egli: — Guarda; che cosa sta scritto all’entrata di quel giardino?

— Vedo: sta scritto Qiardino Salesiano.

— Or bene, continuò Savio, furono tutti Salesiani, o furono educati sotto di te, o con te ebbero qualche relazione, da te salvati o dai tuoi preti, o chierici, o altri che da te furono posti sulla via della loro vocazione. Còntali, se puoi! Ma sarebbero cento milioni di volte più numerosi, se tu avessi avuto maggior fede e confidenza nel Signore.

Io sospirai con un gemito. Non seppi che cosa rispondere a questo rimprovero e proponeva tra me stesso: Guarderò di avere per l’avvenire questa fede e questa confidenza. Poi dissi: — E il presente?

Savio mi mostrò un magnifico mazzo di fiori che teneva fra le mani. Vi erano rose, viole, girasoli, genziane, gigli, semprevive o perpetue e in mezzo ai fiori spighe di grano. Me lo porse e mi disse: — Osserva!

— Vedo... ma non capisco niente, io risposi.

— Questo mazzolino presentalo ai tuoi figli, perché possano offrirlo al Signore quando sia venuto il mo

mento; fa che tutti l’abbiano, che non vi sia alcuno che ne sia privo e che nessuno loro lo tolga. Con questo sta sicuro che ne avranno abbastanza per essere felici.

— Ma che cosa significa questo mazzo di fiori?

— Prendi la Teologia, mi rispose: essa te lo dirà, te ne darà spiegazione.

Ed io: — Ma la Teologia l’ho studiata e non saprei come ricavare da essa ciò che tu mi presenti.

Savio: — Sei obbligato strettamente a saper queste cose.

— Orsù, cavami dall’ansietà, dammi la spiegazione.

Savio: — Vedi dunque questi fiori? Rappresentano

le virtù che più piacciono al Signore.

— E quali sono?

Savio: — La rosa è simbolo della carità, la viola dell’umiltà, il girasole dell’obbedienza, la genziana della penitenza e della mortificazione, le spighe della comunione frequente; il giglio indica quella bella virtù della quale sta scritto: Erunt sicut Angeli Dei in caelo: la castità. E la sempreviva o perpetua significa che tutte queste virtù devono durare sempre: la perseveranza.

— Or bene, mio caro Savio, io gli domandai, dimmi: tu che hai praticate queste virtù in vita, quale cosa più ti consolò in punto di morte?

— Quale sembra a te che possa essere? rispose Savio.

— Forse l’aver conservata la bella virtù della purità?

— Eh no; non è questo solo.

— Forse ti rallegrò l’aver la coscienza tranquilla?

— È già una buona cosa, ma non è ancor la migliore.

— Sarà stato dunque tuo conforto la speranza del paradiso ?

— Neppure!

— Dunque, sarà l’aver fatto tesoro di molte opere buone ?

— No, no.

— Quale dunque fu il tuo conforto in quell’ultima ora? — Così gli dissi con aria supplichevole, imbarazzato dal non riuscire ad indovinare il suo pensiero.

E Savio: — Ecco: ciò che più mi confortò in punto di morte fu l’assistenza della potente ed amabile Madre del Salvatore! E questo dillo ai tuoi figli! Che non si dimentichino di pregarla finché sono in vita. Ma fa presto, se vuoi ch’io possa ancora risponderti.

— E pel futuro che cosa mi dici?

— Nell’avvenire, l’anno prossimo venturo 1877 avrai da provare un grande dolore. Sei più due fra coloro che ti sono più cari saranno da Dio chiamati all’eternità. Ma consolati: saranno trapiantati da questo campo del mondo nei giardini del paradiso. Saranno incoronati. Non temere però; il Signore ti aiuterà e ti darà altri figli anche buoni.

— Pazienza! E per ciò che riguarda la Congregazione?

— Riguardo alla Congregazione sappi che Iddio ti prepara grandi cose. Per essa l’anno venturo sorgerà un’aurora di gloria cosi splendida che illuminerà come un lampo i quattro angoli del mondo, dall’oriente all’occidente, dal mezzodì al settentrione. Grande gloria è per lei preparata. Ma tu procura che il carro sul quale sta il Signore, non sia trascinato dai tuoi fuori delle guide e del sentiero. Se i tuoi preti sapranno cosi condurlo ed essere degni della loro alta missione, l’avvenire sarà splendidissimo ed apporterà salute ad una infinità di persone. Ad una condizione però: che i tuoi figli siano devoti della Beata Vergine e sappiano conservare la virtù della castità, che tanto piace agli occhi di Dio, per l’universalità della Casa.

— Ora io vorrei, soggiunsi, che tu mi dicessi qualche cosa della Chiesa in genere. «ri

— I destini della Chiesa sono nelle mani di Dio Creatore. Ciò che è stabilito nei suoi infiniti decreti non posso rivelartelo. Egli riserva unicamente per sé tali arcani e nessuno degli spiriti creati può esserne partecipe.

— E di Pio IX?

— Ciò che posso dirti si è che il Pastore della Chiesa non avrà più da combattere a lungo su questa terra. Poche sono le battaglie che deve ancor vincere. Fra poco

sarà tolto di seggio e il Signore gli darà la meritata mercede. Il resto si sa. La Chiesa non perisce. Hai qualche altra cosa da domandarmi?

— E in quanto a me? io gli chiesi.

— Oh se sapessi quante vicende hai ancora da sostenere!... Ma sbrigati che è più poco il tempo che mi è concesso per parlarti.

Allora con slancio io tesi le mani per afferrare quel santo figliuolo, ma le sue mani sembravano aeree e nulla strinsi.

— Folle! che cosa fai adesso? mi disse Savio sorridendo.

— Ho paura che tu mi fugga, esclamai. Ma tu non sei qui col corpo?

— No, col corpo. Lo riprenderò un giorno.

— Ma cosa sono queste tue sembianze? Se io vedo proprio in te la figura di Savio Domenico!

— Vedi, ei diceva, quando l’anima è separata dal corpo e con permissione di Dio si fa vedere a qualche mortale, conserva la sua forma ed apparenza esterna, con tutte le fattezze del corpo stesso, come quando viveva sulla terra, e così, sebbene grandemente abbellite, le conserva finché a lui non sia riunita nel giorno del giudizio universale. Allora lo terrà seco in paradiso. Perciò ora ti sembra che io abbia mani, piedi, capo, ma tu non potresti fermarmi essendo io puro spirito. È questa forma esterna che mi ti fa conoscere.

— Ho inteso, io ripresi. Ascoltami. Ancora una risposta. I miei giovani sono tutti sulla buona via per salvarsi? Dimmi qualche cosa, perché io possa dirigerli bene.

— Riguardo ai figli che la Provvidenza Divina ti ha affidati, si possono dividere in tre classi. Vedi queste tre note? (e me ne porgeva una). Osservale.

Io guardai la prima nota. Sopra di essa era scritto Invulnerati: cioè coloro che il demonio non aveva potuto ferire; che non hanno macchiata la loro innocenza di colpa alcuna. Erano in gran numero questi sani, e li vidi tutti. Molti di essi io già li conosceva; molti era la prima volta che li vedeva, e forse dovranno venire all’Oratorio negli anni futuri. Camminavano diritti per uno stretto sentiero, nonostante che fossero continuamente fatti bersaglio alle saette e ai colpi di spade e di lance che partivano da ogni parte. Queste armi che formavano come siepe lungo le due sponde della via, li combattevano e li molestavano senza ferirli.

Allora Savio mi diede la seconda nota. Vi era scritto sopra: Vulnerati: cioè coloro che erano stati in disgrazia di Dio, ma ora risorti in piedi, avevano curate le loro ferite, essendosi pentiti e confessati. Erano costoro in numero maggiore dei primi e avevano riportate le ferite sul sentiero della loro vita, dai nemici che facevano siepe al loro viaggio. Lessi la nota dei loro nomi e tutti li vidi. Molti andavano curvi e scoraggiati.

Savio aveva ancora in mano la terza nota. Sopra questa c’era l’epigrafe: Lassati in via iniquitatis. Vi erano scritti i nomi di tutti quelli che si trovano in disgrazia di Dio. Era impaziente di conoscere quel segreto: quindi stesi la mano. Ma Savio mi disse con vivacità: — No; aspetta un momento e ascolta. Se apri questo foglio, tale ne uscirà un fetore, che né tu né io potremmo sopportarlo. Gli angeli debbono ritirarsi stomacati e inorriditi per questo, e lo stesso Spirito Santo sente ribrezzo della puzza orribile del peccato.

— Ma come, io osservava, ciò può essere, se Dio e gli angeli sono impassibili? Come possono sentire il puzzo della materia?

— Sì, perché quanto più le creature sono buone e pure, tanto più si avvicinano agli spiriti celesti: al contrario quanto più uno è cattivo, disonesto e sozzo, tanto più si allontana da Dio e dagli angeli, i quali da lui si ritraggono, divenuto per loro oggetto di schifo e di nausea. — Quindi mi diede la nota, e: — Prendila pure, mi disse, aprila e sappi farne profitto per i tuoi giovani: ma ricordati sempre del mazzolino che ti ho dato: fa che tutti l’abbiano e lo conservino. — Ciò detto, dopo avermi data la nota, si ritirò in mezzo ai suoi compagni, quasi in atto di fuggire.

Apersi la nota. Non vidi alcun nome, ma all’istante mi furono presentati in un colpo d’occhio tutti gli individui scritti in quella, come se io vedessi proprio in realtà le persone stesse. Tutti li vidi e con amarezza. La maggior parte io li conosceva e appartenevano a questo Oratorio ed agli altri collegi. Vidi pure molti che in mezzo ai compagni figurano come buoni, anzi alcuni che compariscono ottimi, e tali non sono. Ma nell’atto di aprir quella carta, si sparse intorno un tale fetore che era insopportabile. Fui subito assalito da dolori acerbissimi di capo e da sforzi di vomiti tali che temeva morirne. Intanto l’aria si fece oscura, e in essa svanì la visione, e nulla più vidi di quel meraviglioso spettacolo. Nello stesso tempo guizzò un fulmine e rimbombò un colpo di tuono così forte e terribile, che mi svegliai tutto spaventato.

Quell’odore penetrò in tutte le pareti, s’infiltrò nelle vesti, di modo che molti giorni dopo mi pareva di sentire ancora quella pestilenza. Tanto è puzzolente agli occhi di Dio perfino il nome del vizioso! Ancora presentemente, appena mi ritorna alla memoria quella puzza, mi vengono i brividi, mi sento soffocare e lo stomaco viene eccitato al vomito.

Là a Lanzo ove io mi trovava, ho incominciato ad interrogare l’uno e l’altro, ho avvertito parecchi giovani ed ho scoperto che quel sogno non mi aveva ingannato. È dunque una grazia del Signore che mi fece conoscere lo stato dell’anima di ciascuno; ma io però di questo non dirò nulla in pubblico.

 

D. Bosco terminò dicendo che vi sarebbero state molte spiegazioni da fare, ma che le riserbava per un’altra sera. Quando dalle successive interrogazioni fatte a certi giovani fu ben certo che la cosa veniva da Dio, parlò. Altre conferme le arrecò poi il tempo con il compimento delle quattro predizioni udite.

La prima era la più importante. Nel 1877 sei più due de’ suoi figli sarebbero morti. Morirono infatti sei giovani e due chierici. Se ne possono ancora vedere i nomi nei registri della prefettura esterna dell’Oratorio. La seconda, un’aurora splendida nel medesimo anno. Può essere stato il Bollettino Salesiano, sorto nel secondo semestre del 1877 e pubblicato oggi in tante lingue. La terza, la non lontana fine di Pio IX, morto 14 mesi dopo il sogno. La quarta, le molte vicende che egli avrebbe avuto da sostenere prima di terminare la via. Egli visse ancora 11 anni e 2 mesi, e quante lotte, fatiche e sacrifici gli costò il consolidamento della Società Salesiana!

Mons. Salotti (o.c., p. 269), riportato questo sogno, osserva che quanti ravvisano in esso un’apparizione degna di essere piamente creduta « sentiranno in se stessi consolidarsi quella venerazione che professano per Domenico Savio ».

Fonte: San Giovanni Bosco, Il beato Domenico Savio. Torino, SEI 1950 pag. 229-243

 

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