Non dicevano gli esperti che il futuro era degli insetti?


Mi hanno incastrato. Mi sono messo io nelle loro mani. E’ stata colpa mia. Ho letto il loro volantino su un lampione al parco mentre portavo fuori il cane. Cercavano delle persone. Niente di particolare. Non diceva altro e io mi sono detto che potevo fare al caso loro. Ero in un periodo della mia vita in cui l’unica certezza era l’essere una persona. Non mi ero montato la testa per il fatto di avere tre lauree, due vite matrimoniali parallele, un auto sportiva e un cane. Ero uno coi piedi per terra. Così quella sera telefonai al numero del volantino. Una donna, probabilmente la segretaria dell’organizzazione, mi diede l’indirizzo e mi spiegò come arrivarci. Era molto gentile e si mise a chiacchierare del più e del meno. La verità è che cercava di coprire le voci di qualcuno lì da lei che trovava la mia telefonata divertente. Ero un pesce e i pesci prima o poi abboccano. Domandai alla donna se stessero ridendo di me. Mi disse che mi stavo sbagliando. Doveva trattarsi di un brutto giro a sentire i loro nomi, ma non mi tirai indietro. Dovevo presentarmi subito. Un appuntamento di lavoro nel pieno della notte era quello che cercavo. Le mie due mogli parallele non fecero storie. Saltai in macchina e dopo dieci minuti arrivai.
Mi aprì una donna con le occhiaie. Le dissi che avevo letto il volantino. Lei mi rispose che lo sforzo non doveva essere stato così enorme. Mi fece entrare. La stanza era decisamente una sala d’aspetto. C’erano svariati individui. Non avevano volti disperati, erano solo persone. La donna mi disse che dovevo aspettare come tutti gli altri. Per me non c’erano problemi. Subito dopo entrò un altro tizio. Gli dissi che ero l’ultimo. Lui mi disse che avrebbe preferito non saperlo. Smisi di fare il generoso e presi un libro dal tavolino. Mattatoio n°5 di Vonnegut. Non sapevo che farmene della fantascienza, ma mi misi lo stesso a leggere. Non volava una mosca. Tutti la stavano prendendo un po’ seriamente questa faccenda del volantino. Dopo un’ora lasciai perdere il libro e mi alzai a fare quattro passi. Tutti si facevano i fatti loro. L’ambiente si stava facendo veramente pesante. La donna con le occhiaie uscì dalla porta per domandare se ci andasse o meno della musica diffusa. Nessuno rispose. Dopo un po’ cominciarono a sentirsi dei rumori. Mi guardai in giro ma non intuii da dove potesse arrivare la musica. Quei rumori divennero presto dei gabbiani. Da non credere. Facevano tanto discarica a cielo aperto. Gli altri sembravano gradire. Nella merda c’eravamo sul serio.
Per quindici ore restai in quella stramaledetta sala. Fuori intanto il pianeta era sul punto del collasso. Me ne sarei potuto andare quando volevo, ma a vedere le facce di quelli che uscivano dalla porta mi ero fatto delle idee strane. Finalmente era arrivato il mio turno. Entrai. Dentro c’erano un tizio ben vestito e un tizio mal vestito. Stavano sorseggiando del caffè. Non me lo offrirono. Il tizio ben vestito mi spiegò il trucco, perché così lo chiamava. Il tizio mal vestito era un debole e io potevo aiutarlo. Come? Semplice. Facendomi deliberatamente insultare in cambio di qualche verdone. Non mi indignai. Non mi importava sapere perché semplicemente non se ne andasse per strada a insultare il primo di passaggio. Certo, in quel modo il tizio mal vestito doveva sentirsi al sicuro. Il tizio ben vestito me le avrebbe suonate se solo io avessi alzato le mani su quell’altro. Accettai. L’accordo era per sei giorni alla settimana. Quella sera cominciammo con due minuti di prova. Mi pagò anche per quei due minuti. Niente male. Andai avanti così per sei mesi, poi alla fine il tizio mal vestito divenne mio amico. A quel punto non si poteva più proseguire. Le due mie mogli parallele vennero a sapere di quel mio lavoretto perché ero stato io a dirglielo. Non sapevo mantenere un segreto. E poi mi rodeva che non mi facessero mai domande sulle mie fughe nel pieno della notte. Mi presero per matto. Addio mogli parallele. Ora mi rimangono le tre lauree, l’auto sportiva e il cane. E forse incomincio a montarmi un po’ la testa.

 

paolo

 

 

 

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