LAMIA
Sebbene Lamia in Filostrato sia un’espressione popolare sinonimo di Empusa, queste sono due realtà mitologiche che possono ritenersi distinte, ma che hanno in comune il vampirismo.
A Lamia possiamo attribuire un’ascendenza “Nobile”: era figlia di Belo, il re di Libia, ed ebbe la disgrazia di essere amata da Zeus al quale generò numerosi figli. Era, gelosa del marito, fece sì che i figli di Lamia morissero strangolati (solo Scilla, il mostro situato sullo stretto di Messina di cui narra l’Odissea, riuscì a scampare alla furia di Era), Lamia si nascose in una caverna e diventò un mostro orribile, geloso delle madri più felici di lei delle quali spiava i figli per poi rapirli. Alcune testimonianze aggiungono che Era avesse privato Lamia del sonno, ma Zeus le concesse il privilegio di potersi togliere gli occhi ed appoggiarli dentro un vaso per poter riposare: quando Lamia era priva degli occhi non era pericolosa. Graves aggiunge anche che «Lamia era la libica Neith, dea dell’amore e della battaglia, chiamata anche Anatha e Atena; il suo culto fu soppresso dagli achei ed essa finì per diventare uno spauracchio per i bambini. Il suo nome, Lamia, pare apparentato con Lamyros (ingordo) da laimos (gola), cioè, per una donna, lasciva, e il suo orribile volto è la maschera profilattica della gorgone, usata dalle sacerdotesse durante la celebrazione dei misteri di cui l’infanticidio era parte integrante. La leggenda degli occhi di lamia fu probabilmente tratta da una raffigurazione della dea nell’atto di conferire a un eroe capacità divinatorie offrendogli un occhio». (R. Graves, op. cit., p. 184).
|
1. In questo bassorilievo greco del 400 a.C. custodito al British Museum, la Lamia, un vampiro che si diceva fosse ghiotto del sangue di bambini, rapisce un neonato. Rappresentata qui come un demone alato, con il torace di donna e la parte inferiore di uccello, la Lamia veniva accusata di divorare i bambini per vendicarsi della morte del proprio figlio, avvenuta per volere degli dei.
(Le Metamorfosi, Hobby & Work, 1995)
2. Illustrazione dal poemetto Lamia dellinglese John Keats, in cui si racconta la storia dellamore di Licio per Lamia, la quale, dopo aver conquistato lamante con la sua bellezza, riprende il suo aspetto di mostro demoniaco.
(Daniel Farson, Creature del Male, Rizzoli, 1976)
|
Un’altra interpretazione attribuisce etimologicamente il nome “Lamia” al verbo “laniare” (lamiae… vel potius lanie e lanciando, quia laniant infantes), ma è contestata da numerosi autori.
Aristofane conferisce a Lamia caratteri ermafroditi attribuendole un pene e l’attrezzatura sottostante:
E primo fra tutti io ho combattuto proprio col cinghiale zannuto, cui dagli occhi fungevano terribili sguardi di Cinna, mentre intorno cento adulatori scellerati gli leccavano in giro la testa, e aveva la voce di un torrente che porta devastazione e fetore di foca e coglioni di Lamia mai lavati… (Aristofane, La Pace).
Anche lamia poteva trasformarsi in animale e donna bellissima, inoltre poteva presentarsi in numero maggiore di uno (solitamente tre).
Le lamie si univano alle Empuse quando esse apparivano nei trivi e insieme cercavano i giovani per berne il sangue dopo averli sfiniti con i rapporti sessuali.
Un’antica tradizione dei dintorni del Parnaso comprende una “Lamia del mare”, un demone che catturava i giovani che suonavano il flauto sulla spiaggia a mezzanotte e a mezzogiorno. Se questi rifiutavano di unirsi in matrimonio con lei, erano brutalmente uccisi. Probabilmente questa creatura è erede delle sirene, che seducevano i marinai col loro canto per privarli d’ogni bene, anch’esse erano donne alate, ma avevano il volto e il tronco di donne umane.
Una scultura ellenica, che attualmente si trova al British Museum, raffigura le Lamie che corrono con un bambino stretto fra le braccia, del quale probabilmente poi berranno il sangue; hanno un paio d’ali spiegate e i lunghi capelli fermati con un monile a forma di teschio.
Lamia rimase, con le medesime connotazioni di divinità malevola, anche nella cultura romana. Fu presto associata alla figura della strega, dalla quale rimase inscindibile anche nel Medioevo e nel Rinascimento: le cause sono da ricercarsi nel fatto che i delitti erano compiuti prevalentemente nottetempo e le vittime preferite erano i bambini (dei quali le streghe cercavano soprattutto il grasso, per preparare unguenti, e il sangue, che per la sua purezza poteva far da tramite col demonio). Un’altra caratteristica che accomuna queste creature sia alle streghe che ai vampiri è la capacità di trasformarsi in uccello notturno, per non essere riconosciute quando entravano nelle case a cercare le loro vittime.
Sia il popolo greco che quello romano manifestavano atteggiamenti contradditori nei confronti delle donne, una sorta d’ammirazione/timore: accanto alle capacità seduttive convivevano enormi potenzialità distruttive.
In Luciano leggiamo: (La Lamia) Non esita a uccidere se ha bisogno di sangue caldo che fuoriesca a fiotti da una gola recisa, e se le funebri mense richiedono visceri palpitanti; così con uno squarcio nel ventre, estrae i feti da porre sulle are ardenti e non per la via che la natura richiede (M. Centini, Il Vampirismo, Xenia, 2000, p. 37).
La simbologia del sangue, presente nell’antica Roma, non era molto dissimile da quella della Grecia classica. Pochi erano quelli che conoscevano i segreti per estrarre il sangue, conservarlo e usarlo nel modo migliore per ottenerne benefizi: le custodi di quest’arte erano principalmente donne, capaci di portare alla vita le creature, ma altrettanto abili a porvi fine. L’Asino d’Oro o le Metamorfosi di Apuleio reca il resoconto di un certo Aristomene di una vicenda accaduta al suo amico Socrate:
«E, spinta di fianco la testa di Socrate, gli immerge traverso la clavicola sinistra la spada fino all’elsa, poi accosta un piccolo otre e raccoglie diligente il sangue che spicciava senza versarne in terra neppure una goccia. Son cose queste che ho visto coi miei occhi. Inoltre la buona Meroe, per portar io credo, alcuna innovazione nei riti che regolano i sacrifici, introdusse la destra traverso la ferita e, dopo molto frugare, ne trasse il cuore del mio povero compagno, mentre dalla sua gola, squarciata pel violento colpo di spada, più che voce usciva un incerto gorgoglio, e il fiato sfuggiva sotto forma di bolle».
Le stesse donne che avevano compiuto il misfatto fecero in modo, con un sortilegio, che Aristomane rincontrasse l’amico ancora vivo.
Ne L’Arte Poetica di Orazio le Lamie sono descritte come esseri mostruosi, in grado di ingoiare i bambini e di restituirli ancora intatti se si squarcia loro il ventre (l’integrità dei corpi è, però, solo apparente, infatti all’interno sono svuotati d’ogni umore). Nelle Odi, sempre di Orazio, abbiamo un vero e proprio inno dedicato a Lamia:
Per Lamia
Caro alle Muse, voglio dare ai venti
Più ribelli le ombre e le paure,
che le portino via sul mare crètico
forse ora, su fredde rive, sotto l’orsa,
un re è temuto, o Tiridate trema:
io sono in questa mia unica pace.
Ma tu gioisci delle fonti pure,
dolce Pimplea: e intreccia
fiori caldi di sole,
intreccia la corona del mio, Lamia:
ogni mio omaggio è vano senza te.
Su corde nuove batte il plettro lesbio
Ma voi dovete consacrare lui,
tu con le tue sorelle
(Orazio, Odi ed Epodi, Bur, 1994, p. 139)
|
ALTRI VAMPIRI AL FEMMINILE
La letteratura latina annovera anche altri “protovampiri”, ma difficilmente li fa uscire dall’ambito femminile; Ovidio nei Fasti parla di Striges:
Vi sono ingordi uccelli, non quelli che rubavano il cibo
dalla bocca di Fineo, ma da essi deriva la loro razza:
grossa testa, occhi sbarrati, rostri adatti alla rapina,
penne grigiastre, unghie munite d’uncino;
volano di notte e cercano infanti che non hanno accanto la nutrice,
li rapiscono dalle loro culle e ne straziano i corpi;
si dice che coi rostri strappino le viscere dei lattanti,
e bevano il loro sangue sino a riempirsi il gozzo.
Hanno il nome di Strigi: origine di questo appellativo
È il fatto che di notte sogliono stridere orrendamente.
Sia che nascano dunque uccelli, sia che lo diventino per incantesimo,
e null’altro che siano vecchie tramutate in volatili da una nenia della Marsica,
vennero al letto di Proca: Proca nato da cinque giorni,
sarebbe stato una tenera preda per questi uccelli;
con avide lingue succhiano il petto dell’infante,
ma il povero bambino vagisce e chiede aiuto.
(Ovidio, I Fasti, BUR, p. 449).
|
La letteratura Latina è piena d’esempi di donne, dai costumi non proprio integerrimi, dedite alla magia e al vampirismo. Orazio, nel quinto dei suoi Epodi (Il Profumo della Strega), descrive Canidia, Sagana, Veia e Folia nell’atto di sacrificare un fanciullo, alla luce della Luna, con lo scopo di preparare un beveraggio con i suoi umori; e Properzio, nelle Elegie, quando parla delle maghe tessale non usa certo toni rassicuranti.
Queste Streghe Latine, probabilmente, derivano dalle furie greche: Aletto, Tisifone e Megera, nate dal sangue sgorgato dall’evirazione d’Urano, avevano il compito di punire gli spergiuri irrispettosi della dea-madre terra, che venivano meno al decoro richiesto nei costumi familiari. Sono vecchie orribili con la testa di cane e il corpo di colore nero, e recano sul dorso grandi ali di pipistrello. Era costume non nominarle mai, oppure erano chiamate Eumenidi. Eschilo nella Tragedia Le Eumendidi le descrive con questi termini:
…Tu vedi ora queste Furie già dome; cadute nel sonno vedi le vergini maledette, queste vecchie vergini nate in un tempo remoto. Nessuno si congiunge con loro, né dio né uomo né bestia selvatica. Per il male esse nacquero, e nell’ombra maligna del Tartaro, giù sottoterra vivono, odio degli uomini e degli dei dell’Olimpo (Eschilo, Le Eumenidi in Tutte le Tragedie, Newton & Compton, 1991, p. 209).
Anche le Baccanti o Menadi, nella tragedia di Euripide, scatenano indomite la loro forza per uccidere Penteo, che aveva vietato la celebrazione del culto di Bacco:
Noi ci demmo alla fuga ed evitammo di essere dilaniati dalle Mènadi; ma quelle a mano armata si avventarono sopra i vitelli al pascolo sull’erba. Ne potevi vedere una tenere le braccia aperte, una giovenca florida; mugghiante; e le altre, intanto, dilaniavano vitelline. Vedevi fianchi e zoccoli biforcuti scagliati in alto, in basso, penduli dagli abeti e insozzati di sangue che gocciolava. (…) Poi, librandosi come uccelli, vanno di corsa nelle vaste piane (…). Come nemici piombano su Isia ed Eritra, al di qua del Cicerone, mettendo tutto a sacco; dalle case rapivano i bambini, e tutto quello che si mettevano in spalla aderiva senza legacci e non cadeva al suolo nero. (…) I villici rapinati da loro s’infuriavano, prendevano le armi: lo spettacolo fu allora impressionante, sire. Il ferro di quelle lance non s’imporporava; loro invece, scagliando dalle mani i tirsi, li ferivano, volgendoli in fuga, loro, donne, quelli ch’erano uomini (…) (Euripide, Le Baccanti, in Tutte le Tragedie, Newton & Compton, 1991, p. 308).
Nei giorni dedicati a Bacco, chi beveva vino assumeva il sangue del Dio. Anche se il culto era stato vietato, le baccanti ebbero comunque modo di ottenere sangue.
IL RITORNO DELLE VAMPIRE
Con la caduta dell’Impero Romano, le invasioni barbariche e il forte potere della religione cattolica, non si fece quasi più menzione di queste creature nella letteratura. La ricomparsa di questi vampiri al femminile, nelle opere letterarie, si ebbe nell’età romantica, come conseguenza del recupero delle tradizioni classiche e del gusto delle testimonianze lasciate dalle antiche civiltà (a loro volta conseguenti all’opera di razionalizzazione dello scibile attuata dall’Illuminismo).
Empusa rimane la donna morta che ritorna per essere amata, mentre Lamia conserva le sue caratteristiche di divinità nefasta, ma ciò che consente la loro ricomparsa è un mutamento del senso estetico degli scrittori che sono attratti da un tipo di bellezza mortifera, sepolcrale, e l’amore s’appropriò della componente dolorosa come indispensabile per il raggiungimento dell’estasi.
Goethe, con La Fidanzata di Corinto, mette in versi le vicende raccontate secoli prima da Filostrato, ma i connotati vampirici s’impongono con maggior forza:
Avida, ella sorbì con bocca bianca il vin, che nero in sangue si colora. Ma del pan della spica che egli con mano amica le offriva, il labbro sua nulla disfiora. Ed al giovane porge la bevanda, ch’egli, ingordo, tracanna giù d’un sorso. Nella segreta cena, amor domanda; d’amor lo punge avuta al seno il morso. Ma più volte è respinto, e alfin, d’affanno vinto, si piega al letto, e al piangere diede corso. S’accosta, e accanto a lui cade in ginocchi, “Oh, quanto soffro a questi tuoi tormenti! Ma se le membra mie tu avvien che tocchi, quel ch’io t’ascosi, con terror tu senti! E’ come neve candida, ma come ghiaccio gelida, colei che tu d’amare t’accontenti.” Impetuoso allor, con forza salda giovanile, ei la stringe tra le braccia: Qui, sul mio petto starai calda, se ritorno dal favel tu faccia! Baci a mille profusi! Aliti insieme confusi! Senti l’ardor che il gelo tuo discaccia?” Amore in nodi l’uno e l’altra ha stretti; le lacrime si mischiano al godere; cupida sugge dai labbri diletti le fiamme: l’un nell’altro ha il piacere.
Della Lamia si occupa Keats, che accanto al folklore mediterraneo aggiunge frammenti di quello celtico, lasciando immutate le sue caratteristiche di creatura appartenente all’ambito delle divinità.
|
LAMIA, demone della mitologia greca, nel suo aspetto caratteristico di mostro dal corpo di animale e dal volto di donna.
(D. Farson, Creature del Male, Rizzoli, 1976)
|
In Italia sono gli Scapigliati, poeti melanconici, tristi e destinati ad una morte prematura, a subire il fascino delle donne vampiro; Emilio Praga (a sua volta influenzato dai decadenti francesi), con le sue tre versioni della Dama Elegante, si fa interprete della visione della donna dalla bellezza ipnotica e demoniaca, il cui bacio differisce ben poco da un morso letale.
In America, invece, la vittima delle Empuse è Edgar Allan Poe, irrimediabilmente attratto da donne pallide ad un passo dalla tomba; è il caso di Ligeia, che non si rassegna a “riposare in pace”, ma perseguita fino a far morire la seconda moglie del protagonista del racconto.
La donna Vampiro appartiene all’ambito del perturbante in maniera più palese del suo corrispettivo maschile, incontrarla rappresenta una pericolosa ed irresistibile agnizione con quanto è rimosso dal punto di vista sessuale, e l’apice narrativo lo troviamo con Carmilla di Le Fanu, Clarimonde di Gautier e Aurelia di Hoffman.
Lo storico rumeno Mircea Eliade, col suo Signorina Cristina realizza uno splendido connubio tra folclore vampirico e romanzo; è la storia d’amore di una giovane donna morta da oltre vent’anni e divenuta vampiro:
Egor tremava, ma non era più uno spasimo di terrore, bensì l’impazienza di tutto il suo corpo, il suo struggersi delirante nell’attesa del piacere supremo. La sua carne si disfaceva impazzita, perché la voluttà lo soffocava, lo umiliava. La bocca di Christina aveva il sapore dei frutti di sogno, il gusto di ogni ebbrezza proibita, maledetta. Neppure nelle più diaboliche immaginazioni d’amore stillava tanto veleno, tanta rugiada. Tra le braccia di Christina Egor sentiva le gioie più empie, unite ad una celeste dissipazione, una fusione completa e totale. Incesto, crimine, follia. Amante, sorella, angelo… Tutto si raccoglieva e si mescolava vicino a quella carne infuocata e tuttavia senza vita… (Mircea Eliade, Signorina Christina, Jaka Book, 1984, p. 175).
Anche il cinema ha “dato alla luce” numerose vampire, di cui la più famosa è Theda Bara: con lei è nato l’appellativo Vamp, come sinonimo di Donna Fatale.
La produzione fumettistica italiana ha, a buon titolo, proposto l’immagine della vampira nell’ambito dell’erotismo, ma raramente ha rispettato le caratteristiche ben più sublimi del mito e della letteratura, sconfinando in una sessualità gratuita e con fini esclusivamente onanistici. Fabio Giovannini fa giustamente notare che le ragioni di questa inflazione di vampire è dovuta principalmente al fatto che se ne sono occupati prevalentemente uomini; ma il rinnovato interesse per questa figura da parte delle nuove autrici neogotiche promette un vampirismo di fine secolo dal volto di donna e dal colore lunare.
|
|
|