L'armadio della vergogna

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"L'ARMADIO DELLA VERGOGNA" 
di Franco Giustolisi
(Ed. Nutrimenti)
"L'ARMADIO DELLA VERGOGNA" di Franco Giustolisi (Ed. Nutrimenti)

Recensioni

Pietro Gargano, Il Mattino 04/10/2004
Libro-rivelazione di Giustolisi. Fenomenologia dell’orrore in un armadio
Ci sono giornalisti ostinatamente convinti che il nostro mestiere abbia un senso etico al di là del dovere della testimonianza. Ci sono libri su un solo argomento che finiscono per raccontare l´evoluzione - l´involuzione - di un Paese meglio di un articolato saggio storico. Franco Giustolisi, inviato veterano dell’Espresso, ha speso otto anni di lavoro e di passione per scrivere L’Armadio della vergogna, appena uscito presso Nutrimenti: il racconto di un´ingiustizia, di una memoria tagliata. Nella coda della guerra, dall’agosto 1943 al maggio 1945, nazisti e fascisti di Salò ammazzarono migliaia di uomini, donne, bambini perfino in fasce o ancora nel grembo delle madri. Le dissero rappresaglie, erano eccidi. Finito l’incubo, i carabinieri indagarono e spedirono alla Procura generale militare fascicoli forse zoppi di grammatica ma densi di verità, con lunghissimi elenchi di vittime e più brevi di carnefici. Era la storia e la geografia dell’orrore, era materiale per la giustizia da fare. Senonché partì un ordine di Stato: nascondete quelle carte. Così nella sede della Procura militare, in un palazzo del Cinquecento in via Acquasparta a Roma, i fascicoli furono ammassati in un armadio con le ante chiuse a chiave e rivolte verso il muro. Un cancello munito di lucchetto proteggeva quello scandalo. Solo dopo mezzo secolo, nel maggio 1994, indagando su tutt’altro caso, il magistrato Intelisano scoprì per fatalità l’armadio oramai tarlato. 2.273 pratiche. Giustolisi ne scrisse subito e si mise a scavare. Scoprì ad esempio che ogni tanto le ante erano state pur aperte per smistare carte innocue, su reati minori o ormai prescritti o commessi da aguzzini nel frattempo morti. Le altre - sul massacro delle Fosse Ardeatine, sulle stragi in Campania, sugli altri crimini da sud a nord - erano rimaste sepolte. Il libro racconta tutto quanto, ponendosi e sciogliendo molti perché. Parte da sedici righe su Evelina, morta a Sant’Anna di Stazzema, in Toscana, il 12 agosto 1944. Era seduta su una sedia: "L’avevano sventrata. Il feto di quel piccolo essere mai nato, ancora legato alla madre dal cordone ombelicale, era in terra. Come tocco finale gli avevano sparato in testa. Il marito di Evelina era stato trucidato coi suoi fratelli qualche metro più in là". Evelina e gli altri 559 massacrati di Stazzema sono tra quelli cui fu negata memoria e verità. Così come i martirizzati di Marzabotto, Farneta, Barletta, Matera, Pietransieri, Conca della Campania dall’erba rossa, La Storta, Sarnano, Leonessa, Capistrello, Gubbio; e gli onorevoli militari di Cefalonia, Coo, Spalato, Rodi. Solo alcune citazioni da un’interminabile lista. L’ordine di occultamento partì all’epilogo dei governi di unità nazionale nati dalla lotta partigiana. Chi lo diede? Troppo semplice attribuire tutte le responsabilità ai tre procuratori generali militari del 1945-1974 - Borsari, Mirabella, Santacroce - come ha fatto l’inchiesta del Consiglio della magistratura militare. L´ordine fu politico. Dalla ricostruzione di Giustolisi emergono i nomi dei ministri Martino e Taviani (che pure fu partigiano), e a margine quello di Andreotti. Ma ce ne furono altri, prima e dopo. Il silenzio fu deciso forse perché era cominciata la guerra fredda, "vecchi alleati diventano nuovi nemici, vecchi nemici diventano nuovi alleati". O forse per proteggere, in un patto di scambio non dichiarato, i criminali di guerra italiani fuggiaschi. Meglio l’oblio. In Sudafrica un uomo di nome Mandela si comportò ben diversamente. Concesse l’amnistia a patto che i rei delle stragi raccontassero in pubblico le loro colpe. Ora che l´armadio della vergogna è stato riaperto, qualche processo contro invecchiati boia è partito, però il flusso di verità è al rallentatore. In un momento di revisionismi, contano le coscienze. E se il presidente del Senato, Marcello Pera, dice che "non c´è più ragione oggi di darsi un’identità in negativo, antifascista e basta", è il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, "a tirar fuori dai meandri di Montecitorio la proposta di legge" per la Commissione d’inchiesta sulle cause dell’insabbiamento e "a imporne la discussione conclusasi con voto plebiscitario". È stata una vittoria anche di Giustolisi e del presidente dell’Anpi, Massimo Rendina, che si sono battuti per riaprire la pista della verità. Chi vuole davvero cancellare la scia dell’odio, questo libro dovrebbe portarlo nelle scuole.

Roberto Coaloa, Il Sole-24 Ore 29/08/2004
Mosaico di eccidi impuniti
L'area appenninico-emiliana, dopo lo sfondamento del fronte di Cassino nel maggio 1944, era della massima rilevanza strategica per i nazisti. Il controllo della zona garantiva un ripiegamento sicuro nel caso di un crollo della Gotenstellung. Albert Kesserling, comandante della Wehrmacht in Italia, cercò di rafforzare la Linea gotica, invano; a settembre fu sfondata e nel corso dell'inverno Kesserling lasciò il comando a Heinrich von Vietinghoff. Ai nazisti si presentò un complesso scacchiere, allargato a Liguria, Piemonte e Oltrepò Pavese, dove si decise di condurre un'energica battaglia contro i partigiani stanziati in quelle aree. L'Italia del Nord fu denominata da Karl Wolff, capo delle SS in Italia, come Bandengebiet, "zona delle bande". I nazisti insieme ai fascisti scatenarono una mostruosa guerra che coinvolse anche i civili. (...) La fondamentale opera di Giustolisi, L'Armadio della vergogna, è divisa in due parti: la prima documenta come si è arrivati a ricostruire il mosaico delle stragi rimaste impunite e a individuare gli uomini della famigerata Totenkopf; nella seconda parte si ricordano, in pagine strazianti, gli eccidi di Fivizzano, Marzabotto, Sant'Anna di Stazzema, Farneta e le stragi dei militari italiani ritrovate nel registro del cosiddetto "armadio della vergogna", nascosto, afferma Giustolisi, per proteggere i carnefici di circa ventimila italiani innocenti, per lo più donne, vecchi e bambini. (...)

Vasco Pieri Ardizzone, Il Giornale di Sicilia 28/07/2004
Quelle stragi coperte dall'oblio. Ne L'Armadio della vergogna di Giustolisi i crimini dei nazifascisti
Può interessare al pubblico una vicenda che si situa tra storia e cronaca? "Secondo me sì. È quanto è avvenuto ai nostri nonni. Ai nostri padri. Non riesco a credere che nessuno avverta l'importanza della memoria". La pensa così Franco Giustolisi, autore del libro L'Armadio della vergogna (edito da Nutrimenti). Abbiamo parlato con l'autore del libro, Giustolisi, che è giornalista e inviato dell'Espresso, che da tempo si batte perché la storia non venga dimenticata.
"L'Armadio della vergogna". Titolo chiaro. Giustolisi, di cosa parla il suo libro?
Delle stragi commesse dai nazifascisti in Italia dall'8 settembre del 1943 al 25 aprile del '45. Stragi di civili. Bambini. Donne. Vecchi. A cui si aggiungono le stragi contro i militari italiani, non quelli uccisi in combattimento. Ma quelli che furono massacrati dopo che avevano alzato bandiera bianca. Come accadde a Cefalonia.
Ha fatto ricerche su queste stragi? Ha dei numeri?
Sono almeno ventimila. Ma sono dati che nessuno ha con certezza.
Il suo libro cerca di colmare questa lacuna però.
Esisteva tutto. I fascicoli delle stragi con i nomi degli assassini. Il loro grado e la loro appartenenza. Si conosceva tutto. C'erano state nel 1945 indagini da parte degli alleati.
E poi?
I nomi dei colpevoli, e i loro fascicoli, finirono nell'armadio della vergogna.
Il nome non lascia spazio a dubbi.
Stava nel sottoscala di un palazzo cinquecentesco della vecchia Roma. Era la sede della Procura militare. In un anfratto chiuso da un cancello con le ante rivolte verso il muro.
Lei ha visto questo armadio?
Nessuno lo ha mai visto. Tranne i magistrati. È sparito. Distrutto.
Nel libro lei spiega anche chi lo ha coperto?
Sì. I procuratori generali militari del dopoguerra. I processi, sebbene fossero pronti, non furono mai celebrati. Tutto finisce nel silenzio. Nell'oblio.
Fino a che...
Nel 1994, per caso il procuratore militare di Roma Antonino Intelisano, mentre cercava documenti per il caso Priebke, trova l'armadio. O meglio non lo trova. Gli mandano i documenti. Viene sommerso da pile di fascicoli.
E qui inizia il suo lavoro.
Ci sono elencate le stragi: 695 fascicoli.
Chi aveva coperto dunque?
La procura militare, dicevo, dava la colpa al potere politico del dopoguerra. E tutto sommato non aveva tutti i torti. Iniziava la guerra fredda e buttare fango sulla rinascente Germania non conveniva all'Occidente.
Allora la ragion di Stato poteva avere senso. Ma oggi?
Oggi è doveroso fare luce. Più passa il tempo più le cose diventano difficili. I colpevoli muoiono. I testimoni sono vecchi. E molte pratiche rischiano di venire archiviate.
Si è mosso anche il Parlamento, vero?
Sì. Grazie alle pressioni del Comitato Verità e Giustizia dell'ex sindaco di Stazzema, Giampiero Lorenzoni, la Camera prima ha aperto un'indagine conoscitiva. E poi nell'ottobre del 2003 viene creata, finalmente, una Commissione parlamentare d'inchiesta.
Una bella vittoria.
In parte. Non sa quanti mi hanno invitato spesso ad abbassare i toni...
Giustolisi, come finirà? Gli italiani verranno a sapere la verità?
Sono pessimista. La Commissione si muove male. Ha tempi lentissimi. E credo che si facciano giochi politici: io non faccio uscire le cose negative della sinistra e tu non fai uscire le cose negative della destra. Basta giochi politici. È giusto che gli italiani sappiano la verità sul loro passato.

Fabio Isman, Il Messaggero 08/07/2004
"Storia". Dentro l'armadio nascosto delle stragi nazifasciste
È assai raro che un giornalista riceva una cittadinanza onoraria a ragione del proprio lavoro; ed è ancor più significativo se a conferirgliela è il Comune di Sant'Anna di Stazzema, teatro, nel luglio 1943, d'una tra le peggiori stragi naziste nel nostro Paese, 560 vittime innocenti. Da tre anni, Franco Giustolisi, una vita al Giorno, e all'Espresso, è un cittadino di Sant'Anna. Perché la sua più recente battaglia l'ha dedicata all'Armadio della vergogna: quello dove la magistratura militare ha nascosto per quasi mezzo secolo (scandalo che proprio Il Messaggero denunciò per primo, nel 1995) 700 fascicoli sui crimini nazifascisti compiuti nel nostro Paese. E L'Armadio della vergogna è ora il titolo di un libro in cui Giustolisi ricostruisce quella vicenda incredibile; racconta, traendoli proprio da alcuni dei dossier tanto a lungo sepolti, agghiaccianti episodi per troppo tempo rimossi, dimenticati. E anche la querelle politica per far nascere (finalmente esiste: la presiede il deputato Udc Flavio Tanzilli) una commissione parlamentare che indaghi sull'incredibile "insabbiamento". È infatti soltanto dopo la scoperta di quegli atti che in Italia sono iniziati svariati processi per alcune delle stragi, in cui sono stati uccisi "almeno diecimila civili e 580 bambini": lo calcola lo storico Gherard Schreiber. Ci sono state anche alcune condanne; ma troppo spesso, ormai, i colpevoli sono morti, o le indagini divenute impossibili. Proprio per quell'armadio che non susciterà mai sufficiente vergogna.

Giancarlo Caselli, L'Unità 23/06/2004
Stragi. Chi ferma la giustizia
L’indipendenza della magistratura, di tutte le magistrature, è un punto cardine della Costituzione repubblicana (art. 101: i giudici sono soggetti soltanto alla legge; art. 108: la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali e del pubblico ministero presso di esse). La mancata o insufficiente applicazione di questi princìpi apre la via ad abusi d’ogni tipo. Persino a fatti vergognosi. Uso scientemente questa parola dopo aver letto L’Armadio della vergogna, uno sconvolgente libro di Franco Giustolisi (edito da Nutrimenti). A leggerlo vien quasi da piangere, di dolore e di rabbia, perché vi è documentato "il capitolo più infame dell’Italia postfascista e, insieme, il più ignorato". La storia di una tremenda ingiustizia. Tra il 1943 e il 1945 nazisti e fascisti, Ss e repubblichini di Salò fecero decine di migliaia di vittime, uccidendo "gente senz’armi, civili in fuga dalla guerra". "Per lo più donne, vecchi, bambini. Piccoli ancora in fasce. Altri mai nati. Li cavarono dal ventre delle madri con le loro baionette e ne fecero bersaglio delle loro armi". Lunghissimo l'elenco dei luoghi, dal Sud al Nord d'Italia, che evocano queste barbarie. "Non furono rappresaglie e, anche se le fecero passare per tali, la loro esatta definizione è: omicidi". Finita la guerra, i fascicoli delle prime indagini su quegli eccidi furono concentrati a Roma, nella sede della Procura generale militare. Fino al giugno 1947 sembrò che le cose andassero nel verso giusto e le direttive impartite dal procuratore generale dell'epoca erano univoche e precise. Poi, di colpo, tutto fu insabbiato. Per cinquant'anni non ci furono né istruttorie né processi. I fascicoli nei quali erano annotati i nomi delle vittime e degli assassini responsabili di tante stragi furono nascosti in un vecchio armadio, "rifilato in un vano recondito... nascosto e poco frequentato", "alla fine di un corridoio defilato" della Procura, "protetto da un cancello con tanto di lucchetto", con "le ante chiuse a chiave, rivolte verso il muro". L'armadio della vergogna. Vi rimasero chiusi - per cinquant'anni - ben 695 fascicoli, in 415 dei quali "erano riportati i nomi dei colpevoli". Chi ordinò l'insabbiamento? Fu certamente il potere politico ad imporre il silenzio e l'oblio. La guerra fredda e la ragion di stato lo esigevano: per facilitare il riarmo della Germania Ovest e il suo inserimento nel nuovo sistema di alleanze politico-militari, che viceversa sarebbero stati a lungo tarpati dalle "enormi palate di fango rappresentate dalle stragi contro i civili". A decretare il "macro e macabro occultamento" fu probabilmente il governo in carica dal 31 maggio 1947 al 12 maggio 1948. Ad eseguirlo furono vari procuratori generali militari, tra cui lo stesso - di nomina governativa - che in un primo momento aveva mostrato di voler agire correttamente. Con un "tentativo maldestro di coprire in parte l'enorme magagna" fu apposto sui vari fascicoli - nel 1960 - un timbro di "archiviazione provvisoria": un "istituto sconosciuto in ogni angolo del mondo e creato per l'occasione, come alibi assurdo e fragilissimo". A riprova che in un Paese democratico l'indipendenza della magistratura (soltanto nel dicembre 1988 sarà data attuazione anche per la magistratura militare all'art.108 della Costituzione, istituendo il Consiglio della Magistratura militare, omologo in divisa del Csm) è assolutamente irrinunziabile: se non si vuole che possano trovar spazio le peggiori nefandezze di un potere politico non assoggettato ad alcun controllo di legalità, e anzi capace di controllare e condizionare esso stesso il concreto esercizio della funzione giudiziaria. Passano gli anni, un bravo procuratore militare, Antonino Intelisano, quasi per caso scopre, nel 1994, quel che per anni era stato sepolto nell'armadio della vergogna. Finalmente, l'armadio si apre e i vari fascicoli vengono inviati alle Procure militari territorialmente competenti (Bari, Napoli, Padova, Verona, Torino e soprattutto La Spezia). Scoppia lo scandalo. Il Cmm apre un'inchiesta che si conclude nel 1999. Giustolisi e pochi altri ingaggiano una battaglia lunga e difficile (con iniziali resistenze anche a sinistra, dove "ci furono personaggi assai autorevoli che consigliavano di procedere con cautela e di abbassare i toni"). Alla fine, dopo oltre tre anni di articoli, lettere, interventi, incontri, manifestazioni, dibattiti e petizioni si ottiene - nel 2003 - l'istituzione di una "Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti", presieduta da Flavio Tanzilli, deputato Udc. Intanto, dal vecchio armadio della vergogna, oltre ai fascicoli "dimenticati da Dio e dagli uomini", esce un grande registro sul quale erano stati annotati con burocratica diligenza gli estremi di ogni fascicolo. E "fa un certo effetto (annota Giustolisi, che nel suo libro riproduce alcuni fogli - davvero impressionanti - di questo registro degli orrori) vedere nella stessa pagina gli anni delle stragi (1943-1944-1945) e gli anni dell'avvio, oltre mezzo secolo dopo, di quella che oggi possiamo definire giustizia negata (1994-1995-1996)". Giustizia negata anche perché è ovvio che se si fossero svolte indagini a ridosso dei fatti sarebbe stato facile individuare se non tutti, quasi tutti gli assassini. Mezzo secolo dopo l'impresa è fatica inutile. E rappresenta senza dubbio un'eccezione praticamente irripetibile quanto verificatosi in questi giorni (cfr. La Repubblica 1/6/04, pag. 24): la confessione di un nazista "pentito", Ludwig Goering, che il 12 agosto 1944, a Sant'Anna di Stazzema (vicino a Lucca) partecipò alla strage con cui i tedeschi massacrarono 560 civili. Una carneficina fra le più feroci, per la quale è ancora in corso un processo al Tribunale Militare di La Spezia. La stessa cui Giustolisi dedica la copertina del suo libro: un allegro girotondo di bambini di Sant'Anna che festeggiano la fine dell'anno scolastico; saranno tutti uccisi dalle Ss poche settimane dopo, in quel terribile 12 agosto del '44, con ferocia criminale cui l'armadio della vergogna ha garantito sessant'anni di turpe impunità. Il dilagare di ingiustizie e impunità incontra un argine robusto se l'indipendenza della magistratura scritta nella Costituzione è presidiata da garanzie effettive e concrete, a partire dal funzionamento di un solido organo di autogoverno. La dimostrazione che la difesa della Costituzione e dell'indipendenza della magistratura - oggi di estrema attualità, a fronte del discusso disegno di riforma dell'ordinamento giudiziario sostenuto dalla maggioranza - non corrisponde all'interesse corporativo di una casta di funzionari privilegiati quali sarebbero (come vuol far credere una pubblicistica embedded) i giudici italiani. È invece una difesa indispensabile per evitare - nell'interesse di tutti i cittadini, proprio tutti - che lo stravolgimento della Costituzione, imbrigliando la magistratura (a partire da quella ordinaria) apra nuovi varchi a gravi ingiustizie, anche terribili. Come accadeva nel tempo passato: il tempo degli armadi della vergogna.

Nicola Tranfaglia, L'Unità 23/06/2004
"Stragi". Chi nasconde la verità
Che cosa è "l'armadio della vergogna", di cui si parla negli ultimi nove anni, dopo il 23 aprile 1995 quando il procuratore militare Antonino Intelisano alzò il velo su uno dei troppi misteri che costellano ancora la storia dell'Italia repubblicana? Si tratta, nella descrizione del bel libro che ha appena pubblicato Franco Giustolisi (L'Armadio della vergogna, Nutrimenti editore) "di un vecchio mobile di tipo ministeriale, marrone scuro, in più parti tarlato. Stava alla fine di un corridoio defilato della Procura generale militare, in un andito seminascosto e poco frequentato del magnifico palazzo cinquecentesco un tempo proprietà della famiglia in via degli Acquasparta, a Roma. Le due ante rivolte verso il muro, forse perché a nessuno venisse in mente di aprirlo o, forse, perché, mi venne istintivo pensare, come per un atteggiamento di vergogna". Questo, in pochi tratti, il ritratto fisico dell'armadio ma anche un primo accenno a quel che significa. In quel mobile tarlato c'erano, come accertò cinque anni fa, nel 1999, dopo un'apposita inchiesta, seguita agli articoli di Giustolisi e di Alessandro de Feo pubblicati dall'Espresso tre anni prima, il Consiglio Superiore della Magistratura 695 fascicoli e quattrocentoquindici di essi contenevano nomi e cognomi, grado e reparto di appartenenza dei responsabili, italiani e tedeschi, delle stragi consumate in Italia nel 1943-45. Per quarant'anni i fascicoli erano rimasti, possiamo dirlo ormai, occultati in quell'armadio e nessun processo ai responsabili di quei crimini era stato celebrato. La commissione di inchiesta del Csm si limitò a indicare soltanto nei tre primi procuratori generali militari; Umberto Corsari, Arrigo Mirabella ed Enrico Santacroce i responsabili del lungo insabbiamento ma non c'è dubbio che altri magistrati militari abbiano saputo decidendo di non agire e di lasciare le cose come stavano. Senza togliere per questo ai giudici militari la loro pesante responsabilità dalla storia ricostruita da Giustolisi emerge con chiarezza che la decisione di accantonare i processi e consentire a gran parte dei responsabili di sfuggire alla giustizia ha una chiara ragione politica. Anche il Consiglio Superiore della Magistratura ritiene, e credo abbia ragione, che la decisione fu determinata dalla guerra fredda giacche la Germania occidentale, in cui si trovavano i criminali tedeschi, doveva riarmarsi per far fronte all'interno della Nato contro l’Unione Sovietica. Il procuratore generale, Umberto Borsari, che era stato nominato dal Consiglio dei Ministri, come avveniva sempre fino all'entrata in vigore nel 1958 del Consiglio Superiore della Magistratura (ma presto succederà di nuovo con la riforma Berlusconi-Castelli dell'ordinamento giudiziario) eseguì un ordine dei governo e i ministri allora responsabili della vicenda furono il liberale Gaetano Martino, titolare degli Esteri, e il democristiano Paolo Emilio Taviani, responsabile della Difesa, partigiano e presidente dell'Associazione partigiana volontari della libertà. Ambedue facevano parte del primo governo del futuro presidente della Repubblica Antonio Segni che rimase in carica dal luglio 1955 al maggio 1957. Questo è quello che è stato accertato dal Consiglio Superiore della Magistratura e che corrisponde, con tutta probabilità, alla realtà storica. Aggiungerei soltanto sulla base della conoscenza che ho della nostra storia che, accanto alle ragioni che riguardavano la Germania federale e lo scontro bipolare tra Stati Uniti e Unione Sovietica, sembra probabile che nella condotta decisa dal governo centrista di Segni ci fosse un'altra e non minore preoccupazione che riguardava i criminali di guerra italiani. Giacché in quei fascicoli c'erano, come dimostra lo stesso Giustolisi nella straordinaria ricostruzione delle principali stragi che si trova nel suo libro che vorrei consigliare soprattutto ai giovani di leggere, le pesanti responsabilità dei militari della repubblica di Salò che furono spesso complici degli eccidi consumati dalla Wemarcht e dalle Ss naziste. E questo, evidentemente, non andava bene in un'Italia che aveva ereditato in gran parte nelle istituzioni e persino in Parlamento, collocati nel Movimento Sociale e nei partiti monarchici ma anche nel partito cattolico, un numero assai alto di fascisti riciclati nei primi anni della guerra fredda. Soltanto così si spiegano i quarant'anni di insabbiamento di una pagina terribile della seconda guerra mondiale e dell'aspra guerra anche tra italiani che aveva caratterizzato l’ultimo biennio del conflitto mondiale. Molti altri documenti che ora stanno venendo alla luce negli Stati Uniti e in Italia (anche a me è accaduto proprio negli anni scorsi di trovarne e pubblicarne alcuni) dimostrano l'immediato recupero del personale fascista che ha luogo subito dopo la guerra sia per il forte anticomunismo che pervade la destra e i partiti di centro filoamericani sia per la paura del partito comunista italiano che appare in forte crescita politica e organizzativa. Una vicenda come questa richiede peraltro alcune pur sintetiche considerazioni. La prima è che la scelta, diciamo pure vergognosa, avviene in una fase ancora acuta della guerra fredda anche se si è alla vigilia del primo sprazzo di luce distensivo determinato dall'avvento di Kruscev e dagli incontri politici tra le due superpotenze. Ma quello che stupisce è il mantenimento di una scelta così ingiustificabile nei decenni successivi quando le cose cambiano e addirittura oltre la caduta del muro e la fine dell'Unione Sovietica. Si tratta di una forza di inerzia sospetta che conferma l'esistenza di quei poteri occulti e di quel sommerso della Repubblica che più volte chi scrive (ma anche altri studiosi) ha inutilmente indicato come una chiave di interpretazione che non è possibile accantonare. Peraltro anche la lentezza del Pci di staccarsi dall'Unione Sovietica deve aver contribuito a rafforzare un simile comportamento che suona come un'offesa terribile prima di tutto per le vittime e le loro famiglie ma anche per tutti gli italiani. E dire che proprio Paolo Emilio Taviani nel suo libro di memorie, ha scritto qualche anno fa che i pericoli alla democrazia repubblicana sono sempre venuti in Italia dalla destra e mai dalla sinistra. Un riconoscimento significativo, mi pare, da parte di chi la guerra fredda l'aveva combattuta fino all'ultimo dalla parte del blocco occidentale.

Pasquale Chessa, Panorama 03/06/2004
"Biblioteca minima". L'Armadio della vergogna
Un vecchio armadio, chiuso da un lucchetto, nascosto in un sottoscala della Procura militare di Roma in via degli Acquasparta, con le ante rivolte verso il muro, ha nascosto i segreti sui colpevoli delle più efferate stragi naziste in Italia: 695 fascicoli (dalle Fosse Ardeatine a Casalecchio di Reno, da Stazzema a Pedescala, da Marzabotto alla Storta) per un totale di vittime calcolabile tra i 15 e i 20 mila morti. Mentre gli storici ne discutono, il giornalista che per primo ha scoperto il bandolo segreto ne pubblica tutti i documenti.

Bianca Bracci Torsi, Liberazione 30/05/2004
L'Armadio della vergogna: una ricostruzione storica di Franco Giustolisi
"Un antifascista senza se e senza ma troverà, nei momenti difficili, i comunisti al suo fianco, un anticomunista finisce prima o poi, anche suo malgrado, per convergere con i fascisti", è la conclusione alla quale siamo arrivati Massimo Rendina, partigiano, giornalista, presidente dell'Anpi di Roma, e io alla fine di un dibattito sulla incompatibilità fra antifascismo e anticomunismo. Una dichiarazione certo drastica che trovo confermata, fin dalle prime pagine, dal prezioso volume nel quale Franco Giustolisi (L'Armadio della vergogna, editore Nutrimenti) racconta e documenta la lunga e faticosa battaglia condotta da lui e pochi altri - fra i quali appunto Rendina - per riportare alla luce e al giudizio dei tribunali, dopo 50 anni di colpevole silenzio, 695 fascicoli di puro orrore che testimoniano nefandezze commesse dai tedeschi delle Ss e della Wehrmacht e dai fascisti repubblichini di Salò contro prigionieri di guerra, renitenti alla leva, partigiani e "civili", cioè vecchi, donne, bambini, uccisi per rappresaglia, per rapina, per seminare terrore o anche per il semplice, sadico piacere di torturare e uccidere. A Cefalonia, dopo la resa, ufficiali e soldati furono fucilati, gettati in mare con le mani legate, deportati in Germania; a S. Anna di Stazzema sventagliate di mitra e bombe a mano uccisero oltre 500 persone, la più piccola aveva venti mesi ma c'era anche un feto colpito alla testa dopo lo sventramento della madre; a Vinca una bimba di due mesi fu lanciata in aria e crivellata di colpi; a Marzabotto i morti furono 955 compreso il parroco; a Barletta, dove il comandante di piazza coi suoi soldati resistette insieme al popolo, furono fucilati anche i vigili urbani e i netturbini; a Godenzo (Treviso) civili furono usati come scudi umani a protezione dei mitragliamenti alleati e dagli attacchi partigiani e chi non riusciva più a camminare fu ammazzato lungo la strada; a Niccioleta, in Val di Cecina, dopo il passaggio dei nazifascisti restarono solo 51 vedove e 118 orfani. Sono solo alcuni dei fatti citati nei 695 fascicoli - di cui 415 riportavano le generalità degli assassini quasi tutti facilmente rintracciabili nel 1947 quando, sotto la voce improbabile di "archiviazione provvisoria", quel mucchio di carte fu stipato in un armadio "di tipo ministeriale, marrone scuro, in più parti tarlato", chiuso a chiave e relegato, con le ante verso il muro, in un ripostiglio recondito della Procura generale militare. A salvare gli assassini e a privare le vittime della giustizia, almeno postuma, non fu la tanto favoleggiata pigrizia e incuria della burocrazia ma la precisa volontà politica di un governo i cui componenti erano espressione dei partiti antifascisti che avevano partecipato alla guerra di Liberazione. Alla estromissione di comunisti e socialisti, chiesta dagli Usa e prontamente messa in atto, era seguito un esecutivo di centro destra presieduto da Alcide De Gasperi che affidava i suoi ministeri a liberali, repubblicani, esponenti di Democrazia e lavoro ma aveva scelto come collaboratore l'allora giovanissimo Giulio Andreotti. Tutti antifascisti e tutti anticomunisti, fedeli agli Usa che, all'inizio della guerra fredda, avevano bisogno di una Germania ben armata per minacciare l'antico alleato sovietico: come si poteva gettare fango sul soldato tedesco, oggi difensore della libertà occidentale? Ma non si trattava solo di tedeschi. In ognuno dei fascicoli contenuti nell'Armadio della Vergogna erano citati, quasi sempre per nome e cognome, fascisti italiani che indicavano ai camerati chi uccidere, partecipavano agli eccidi o ne erano testimoni consenzienti e entusiasti, oltre a quelli che si erano macchiati di crimini simili in Albania, in Grecia, in Urss e soprattutto in Jugoslavia e dei quali veniva chiesta l'estradizione: ma si potevano consegnare degli italiani alla giustizia comunista? All'ambasciatore italiano a Mosca, Quaroni, che suggeriva: "Comminiamogli una trentina d'anni a testa e poi rilasciamoli non appena le acque si saranno calmate", De Gasperi ribatté con sdegno ma alla versione purgata della stessa proposta - "guadagnare tempo evitando di rispondere alla richiesta jugoslava, mantenendo un atteggiamento temporeggiante" - rispose, a nome del presidente, il sottosegretario Andreotti: "Concordiamo con le vostre conclusioni". Era il 1948. Otto anni dopo il padre di uno dei militari italiani uccisi a Cefalonia chiese che fossero rintracciati e processati trenta ufficiali tedeschi. Il governo presieduto da Antonio Segni, dc noto alle cronache per aver dichiarato di preferire una figlia morta anziché comunista, il ministro degli esteri, Gaetano Martino, liberale, il ministro della difesa Paolo Antonio Taviani, anche lui dc, già partigiano, presidente della Associazione volontari della libertà: a loro spetta la decisione di chiedere al governo di Bonn le generalità degli accusati. Tutti furono d'accordo nel ritenerlo inopportuno "nel momento che tale governo compie il massimo sforzo per vincere le resistenze che incontra in Germania la ricostruzione di quelle Forze armate di cui la Nato reclama con impazienza l'allestimento". Nel 2000, poco prima della sua morte, l'ormai anziano ex partigiano ed ex ministro, intervistato da Giustolisi per L'Espresso, dichiara che "la guerra fredda imponeva scelte ben precise... a guidarmi fu la ragion di Stato" e cerca di difendere il suo partito per quel che riguarda l'insabbiamento del '47: "De Gasperi era antifascista come Mario Scelba, checché se ne dica... Pacciardi, repubblicano, era un feroce anticomunista, Carlo Sforza, anche lui repubblicano, di comprovata fedeltà atlantica". Meno di un anno prima lo stesso Taviani aveva scritto nella prefazione del bel libro di Marisa Musu e Ennio Polito sulla Resistenza a Roma, pagine acute e appassionate sull'unità d'intenti dei partiti del Cln che ricordava con nostalgia "pur nelle sopravvenute divisioni politiche" e concludeva con l'appello a "che non venga falsata la storia ma soprattutto che non prevalgano la rimozione, la dimenticanza, l'oblio". Bisognerà arrivare all'aprile del 1995 perché l'opera del procuratore militare di Roma, Intelisano, venga alla luce su tre giornali veneti, ma sarà necessario ancora l'impegno costante di un gruppo di giornalisti, magistrati, carabinieri e dei sindaci dei paesi teatro delle stragi, primo fra tutti Stazzema, perché l'armadio sia aperto e si apra - o si riapra - qualche procedimento. Infine, l'8 ottobre 2003, le due Camere approvano l'istituzione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi ai crimini nazifascisti. Giustolisi si è battuto - senza se e senza ma - non solo contro il revisionismo di destra ma anche contro una sinistra accomodante, propensa a dimenticare in nome di una "memoria unificata" che assomiglia alla "ragion di stato" dei governi dc, per la ricerca di una verità senza la quale non ci può essere giustizia. Quella verità e quella giustizia in nome delle quali un gruppo di antifascisti ha vinto la prima, faticosa, battaglia. Spetta a noi tutti continuare la lotta.

Mirella Serri, Corriere della Sera Magazine 13/05/2004
Sul comodino di Carlo Azeglio Ciampi
A letto. La mattina molto presto o la sera tardi. Queste le abitudini di lettura di Carlo Azeglio Ciampi. Il presidente della Repubblica i libri li considera oggetti di culto. Guai alle matite rosse e blu, nessuna pagina piegata a futura memoria. Solo un lieve tratto di matita grigio chiaro. Sul comodino di regola almeno tre-quattro tomi. (...) Scoperta recentissima L’Armadio della vergogna di Franco Giustolisi (Nutrimenti). L’armadio, non metaforico, dove furono occultati i faldoni di centinaia di procedimenti per i crimini dei nazifascisti in Italia durante l’occupazione tedesca. (...)

Leonardo Coen, Repubblica.it 10/05/2004
"Blog Trotter". Il Giro e la memoria scomoda
Il Giro oggi arriva a Pontremoli, domani attraversa la provincia di Lucca, poi quella di Pistoia, risale verso quella di Bologna, raggiunge Corno alle Scale. Le strade del Giro d'Italia s'intersecano con quelle della storia d'Italia. E, purtroppo, con quelle di una memoria frettolosamente, colpevolmente cancellata. La corsa rosa sfiora Fivizzano, per esempio, e Sant'Anna di Stazzema, e tutto un corollario di minuscole località che furono teatro di efferati stragi, durante la fine della seconda guerra mondiale. Nazisti e fascisti, Ss e repubblichini di Salò massacrarono migliaia e migliaia di vittime. Gente indifesa, vecchi, donne, bimbi, persino neonati. Altri mai nati, sventrati nell'utero delle loro madri. Li cavarono con le baionette e ne fecero bersaglio delle loro armi. Una ferocia senza pari: e senza che i carnefici venissero puniti. La fecero franca perchè qualcuno, subito dopo la guerra, ordinò di non inquisirli. Alla sede romanda della Procura generale militare - in via dell'Acquasparta - affluirono i fascicoli documentati di quegli eccidi: testimonianze, interrogatori, documenti, fotografie, verbali di polizia e carabinieri che avevano fatto il loro dovere ed accertato in gran parte le responsabilità dei massacri. Tutto venne rinchiuso dentro un armadio, occultato in un vano nascosto e protetto da un'inferriata con tanto di lucchetto. Fu scoperto mezzo secolo dopo. Lo chiamarono l'armadio della vergogna. Quei poveri morti erano morti due volte. Oggi si fa un gran fracasso per ricordare il sangue dei vinti, nessuno però vuole giustizia per quello delle vittime delle stragi nazifasciste. Nessuno, tranne un pugno di uomini giusti che hanno orecchie e cuore per ascoltare quelle urla del silenzio. Uno di loro è Franco Giustolisi, firma per anni dell'Espresso con cui ancora collabora. Dal 1996 si batte perché sia fatta giustizia, perché l'armadio della vergogna sia oggetto di inchiesta parlamentare. Ha appena scritto un libro che si intitola appunto L'Armadio della vergogna (pubblicato da Nutrimenti). La sua diventa nostra indignazione. È una lettura tremenda, indispensabile. La geografia profonda, oscura, ignobile di un'Italia nera, fascista, che oggi qualcuno sta sdoganando. Nella sua introduzione Giustolisi cita una frase dello storico Alberto Asor Rosa (2000): "Avanza in Italia una nuova forma di pensiero fascista che tende, per ora, cautamente, a ricoleggarsi all'esperienza storica passata e a giustificarla, a raddrizzarla, a rimetterla sul piedistallo da cui era caduta; la manovra a tenaglia fra operazione politica e operazione intellettuale è di giorno in giorno sempre più evidente. E siamo appena all'inizio". Quattro anni dopo, nel febbraio di quest'anno, il presidente del Senato, Marcello Pera, ha detto in un suo intervento: "Non c'è più ragione oggi di darsi un'identità in senso negativo, antifascista e basta". Il presidente dell'associazione nazionale partigiani di Roma gli ha telegrafato: guarda che se tu sei lì, sulla tua altissima poltrona è perché lo devi all'antifascismo che ha costruito e permesso la democrazia in Italia. Ecco: il ciclismo del Giro d'Italia, se non altro, serve almeno a ricordare. A non dimenticare.

Simonetta Fiori, La Repubblica 03/05/2004
L’Armadio della vergogna. La politica occulta la storia
S’intitola L’Armadio della vergogna l’esemplare saggio che Franco Giustolisi, firma storica dell’Espresso, ha voluto dedicare a una pagina oscura della storia italiana. È il racconto del lungo silenzio, imposto a più riprese dal potere politico, intorno alle stragi nazifasciste perpetrate nel nostro paese tra il 1943 e il 1945: decine di migliaia di morti - moltissimi i bambini, i vecchi, le giovani donne inermi - relegati nel dimenticatoio in nome d’una superiore ragion di Stato. Ed è anche il racconto dell’ostinato lavoro d’indagine grazie al quale un giudice militare, Antonino Intelisano, e un giornalista, Giustolisi, sono riusciti faticosamente a rendere pubblici i 695 fascicoli nascosti per cinquant’anni in un vecchio armadio di via dell’Acquasparta, sede della procura militare: sulle carte segrete, i nomi degli autori italiani e tedeschi delle carneficine. Il libro non omette i nomi dei responsabili dell’insabbiamento: dai ministri che negli anni Cinquanta ordinarono l’occultamento di quelle stragi (in piena guerra fredda la loro divulgazione avrebbe indebolito la Germania occidentale, preziosa nel fronteggiare l’Urss) - il titolare degli Esteri Gaetano Martino e il responsabile della Difesa Paolo Emilio Taviani - ai politici governativi che di recente hanno tentato di ostacolare la nascita della commissione parlamentare (esitante, al principio, appare anche la sinistra). Un libro istruttivo, da suggerire nelle scuole superiori.

AdnKronos 28/04/2004
"Libri". L'Armadio della vergogna di Franco Giustolisi
Un testo che parla della più grande ingiustizia che ha colpito il nostro Paese, che cerca di rispondere al quesito: "Chi e perché ha voluto proteggere nazisti e fascisti colpevoli delle mille stragi che hanno insanguinato l'Italia fra il 1943 e il 1945?". Si tratta del nuovo libro di Franco Giustolisi L'Armadio della vergogna, edito da Nutrimenti. L'autore, giornalista dell'Espresso, racconta come in quegli anni si assiste ad una vera e propria carneficina, una strage di quindicimila, forse ventimila innocenti che percorre gli annali di storia e che attraversa i pensieri dei sopravvissuti. Nazisti, fascisti, SS e repubblichini di Salò causarono decine di migliaia di vittime. Vittime civili, di ogni età, bambini, donne e vecchi che tentavano di scappare dall'invenzione più crudele dell'uomo: la guerra. Alcuni parlano di rappresaglie. La verità è che si deve parlare di omicidi. Chi ha reso giustizia a queste vittime del terrore? Dopo la liberazione si conoscevano i nomi degli uccisori e degli uccisi, e i luoghi dove si consumarono i crudeli eccidi. Ma nulla. Non ci furono né processi, né istruttorie. Quei documenti detentori della verità sono stati trovati in quell'"armadio", chiuso a chiave con tanto di lucchetto e ante rivolte verso il muro. Grazie a quell'armadio gli assassini hanno goduto sessant'anni di impunità. Oggi gli interrogativi che si ripropongono sono molteplici: chi dette l'ordine? Quale fu esattamente? Chi chiederà perdono a nome dello Stato per questa colossale ingiuria? Secondo Pier Vittorio Buffa, coautore con Giustolisi di altri libri, "le pagine sono venute da sole. Verbale dopo verbale, testimonianza dopo testimonianza. Tutto raccolto con scrupolo in voluminose cartelle, sottolineato, annotato, selezionato. Una lunga sequenza di nomi, di raffiche di mitra, di ordini assassini, di sangue, di morte". "Non c'è niente da aggiungere, è tutto qua", afferma Franco Giustolisi. "Perché - aggiunge Pier Vittorio Buffa - le fredde parole dei verbali dei carabinieri piuttosto che le testimonianze sgrammaticate e qualche volta prolisse non hanno bisogno di commenti o spiegazioni. È il loro essere come sono a ribadire più di ogni altra cosa l'enormità dell'ingiustizia che ha tenuto tutto nascosto".

Roberto Bernabò, Il Tirreno 25/04/2004
I governi: niente processi ai nazisti. La ricerca dei responsabili dell'insabbiamento delle inchieste in un libro di Franco Giustolisi e nel lavoro della commissione parlamentare d'indagine. Ecco i documenti sulle stragi insabbiate. Andreotti: ma la politica non sapeva
Giulio Andreotti, la memoria dei segreti del Belpaese, dice di non sapere: "Mi meraviglia che la magistratura militare, se ha avuto quest’ordine, che era a mio avviso fuori della legalità, lo abbia accettato. E che mai nei decenni successivi da essa sia stata presa l’iniziativa di chiedere al potere politico - parlo di quello che io avrei dovuto altrimenti conoscere - se rimaneva quella inibizione". Andreotti non sa e lo dice al Senato - il 25 febbraio 2003 - votando sì alla commissione parlamentare d'inchiesta che dovrà far luce sull'armadio della vergogna, scoprire chi decise di insabbiare le indagini sulle stragi compiute dai nazisti dopo l'8 settembre. Nessun politico sa, o sembra sapere, lasciando ricadere tutte le responsabilità sui procuratori militari. Andreotti, però, dice di essere curioso di sapere la verità, come ha scritto all'onorevole Carlo Carli che gli ha inviato un ponderoso fascicolo sulla strage di Sant'Anna di Stazzema e che della commissione d'inchiesta è vice presidente. Il senatore comunque ha una certezza che nega alla radice il lavoro della commissione: "Queste iniziative sbagliate non corrispondono, a mio avviso, ad alcun disegno politico collegato con le nostre alleanze", disse in Senato. Mentre tutto veniva insabbiato Andreotti era in posti chiave della Repubblica: sottosegretario alla Presidenza del Consiglio tra il 1946 e il 1948 quando il governo discute di come difendere i criminali di guerra italiani richiesti dalla Jugoslavia e da altri paesi dell'Est; ancora ad inizio anni Cinquanta quando il problema è piuttosto di come sostenere la ricostituzione dell'esercito tedesco. È, infine, ministro della Difesa il 14 gennaio 1960, giorno in cui il Procuratore militare generale Enrico Santacroce scrive in calce a tutti i fascicoli: "Archiviazione provvisoria". L'insulto giuridico che segna il definitivo insabbiamento fino al ‘91, quando l'armadio è ritrovato in un antico palazzo romano. Perciò, la commissione si attende dal senatore probabilmente qualcosa di più nella ricerca della verità sui "mandanti" della Notte della Verità. Anche perché il lavoro d'inchiesta appassionato e scrupoloso di Franco Giustolisi, giornalista dell'Espresso, che da dieci anni raccoglie documenti, spulcia archivi, intervista testimoni, lascia pochi dubbi: ci fu una precisa volontà politica che portò a non fare i processi. E lo dimostra in L'Armadio della vergogna, un libro fondamentale, appena pubblicato da Nutrimenti e che stamani sarà presentato in uno dei luoghi simbolo della ferocia nazista ma anche della vergogna dell’ingiustizia: Sant’Anna di Stazzema. Ma la commissione potrà contare anche sugli archivi della Presidenza del Consiglio e del ministero degli Esteri, che si stanno aprendo per identificare i soggetti politici che ordinarono o invitarono, comunque spinsero le Procure militari prima a rallentare le indagini, poi ad insabbiare tutto. Quel virtuoso armadio della vergogna che la commissione sta ricostruendo ricevendo in copia dalle Procure distrettuali i fascicoli avuti nel 1996 sarà insomma decisivo. Mentre a fine anni Quaranta, nato per meglio coordinare le inchieste, divenne prestissimo il grimaldello dell'ingiustizia, oggi l'armadio-bis può riscattare quella brutta storia iniziata il 20 agosto 1945. Quel giorno, su invito della Presidenza del Consiglio dei ministri, si riuniscono i vertici della Procura militare, della Cassazione, dell'Aeronautica, del ministero della Guerra e degli Affari esteri. Che fare delle tante denunce, delle centinaia di rapporti dei carabinieri sulle stragi naziste? "II materiale deve essere accentrato presso la Procura militare che provvederà a esaminarlo e estrarne le denunzie del caso", viene deciso. Accentrare per indagare con più efficacia e rispedire poi agli uffici competenti per i processi, è l’obbiettivo dichiarato. Certo l’impresa appare ardua e il procuratore generale Borsari dà l'allarme sulle "gravi difficoltà materiali che comporta tale nuova incombenza che viene addossata al personale della Giustizia militare in un momento in cui trovasi eccezionalmente impegnato nel lavoro di istruzione di moltissimi reati". La decisione è presa e il 7 novembre la Procura generale militare informa la Presidenza del Consiglio che alle procure distrettuali è stato chiesto di inviare a Roma tutte le denunce per istituire un archivio generale "che servirà sia ai fini giudiziari sia allo scopo di documentare in maniera completa i delitti commessi dai tedeschi". Le denunce saranno poi trasmesse "ai tribunali competenti per territorio ai quali saranno date istruzioni per un rapido ed efficace svolgimento delle indagini". L'armadio si apre e inizia a fagocitare la verità. Un registro annota in 2.273 voci ciò che contiene: 695 fascicoli di indagini sui crimini dei nazisti; per 415 con nomi e cognomi dei responsabili. Un pieno di testimonianze, con tanto di sigle di reparti e nomi di capi militari che hanno ordinato il massacro di migliaia di civili. Ma l'attivismo della Procura militare dura poco. Si blocca praticamente nella primavera del 1947. "Al grido di ‘nessuno tocchi i nostri criminali’, ecco che tutti i criminali si salvano", sostiene Giustolisi nella sua ricostruzione. In una relazione del febbraio 1948, il segretario generale del ministero degli esteri, Vittorio Zoppi, parla infatti dei criminali di guerra richiesti dalla Jugoslavia e da altri paesi: "I processi contro i presunti criminali di guerra italiani si svolgerebbero, se fatti ora, contemporaneamente a quelli contro i presunti criminali tedeschi da parte dei tribunali militari italiani. E poiché le accuse che noi facciamo ai tedeschi sono analoghe a quelle che gli jugoslavi muovono contro gli imputati, si creerebbe una situazione alquanto imbarazzante sia per i nostri tribunali, sia per i riflessi internazionali che l’andamento dei processi potrebbe comportare". Dunque meglio prendere tempo, consiglia Zoppi. La relazione è allegata ad un documento della Presidenza del Consiglio. "Il presidente del Consiglio dei ministri concorda sulle conclusioni raggiunte dalla commissione interministeriale riunitasi presso il Ministero degli Affari esteri in merito al seguito da dare alle richieste jugoslave di consegna di presunti criminali di guerra italiani". Firmato? Il sottosegretario di Stato Giulio Andreotti. La Doppia Impunità matura lì. E Andreotti forse potrà appagare non solo la sua curiosità ma anche quella della commissione parlamentare se accetterà davvero di rispondere, a differenza di quanto fece nel 1999 con il Consiglio superiore della magistratura militare che doveva stabilire le responsabilità amministrative dell'insabbiamento dei fascicoli. Il Cmm finì per indicarne le cause nel clima della guerra fredda che imponeva di non danneggiare, con i processi ai nazisti, l'immagine della Germania Ovest che doveva ricostruire il suo esercito e diventare dentro la Nato un baluardo anti Unione Sovietica. E imputò la colpa, comunque, ai soli procuratori militari. Ma una traccia in più esce, altrettanto importante, è già uscita dagli archivi e lo stesso Andreotti, nell'intervento in Senato, l'ha confermata parlando del "disagio che si aveva nei confronti di alcuni italiani ingiustamente reclamati come criminali di guerra (ricordiamo il ministro Marazza)". Umberto Borsari, Arrigo Mirabella ed Enrico Santacroce, i procuratori generali che costituirono l'armadio della vergogna e poi lo chiusero girandolo con le porte verso il muro - per la vergogna, come felicemente scrive Giustolisi - risposero ad un duplice bisogno politico: prima assicurare l'impunità dei criminali (o presunti tali) italiani, poi difendere gli equilibri internazionali. Queste preoccupazioni per i nuovi scenari internazionali diventano progressivamente fortissime ad inizio anni Cinquanta. E un carteggio del 1956 tra il ministro della Difesa Taviani e il ministro degli Esteri Martino le mette nero su bianco. Invitato da un procuratore militare a chiedere l'estradizione dei capi militari nazisti autori della strage di almeno 6.000 soldati italiani a Cefalù, Martino si interroga "sulla sfavorevole impressione che produrrebbe sull'opinione pubblica tedesca e internazionale una richiesta di estradizione al governo di Bonn alla distanza di ben 13 anni". Le implicazioni politiche gli sembrano anche ben più gravi: un'iniziativa giudiziaria italiana alimenterebbe la polemica "sul comportamento del soldato tedesco" proprio nel momento in cui "l’attuale governo si vede costretto a compiere presso la propria opinione pubblica il massimo sforzo allo scopo di vincere le resistenze che incontra oggi in Germania la ricostruzione di quelle Forze armate di cui la Nato reclama con impazienza l’allestimento". Taviani riceve e annota in calce a penna: "Concordo pienamente con il ministro Martino". Necessità storica che non rinnegherà neanche nel 2000, non molto tempo prima di morire, in un’intervista a Giustolisi. Ma anche l’Italia era appunto sottoposta alle richieste di Unione Sovietica, Grecia, Albania e Jugoslavia che pretendevano di giudicare moltissimi presunti criminali di guerra Un centinaio erano i più ricercati per reati commessi durante l'occupazione fascista di questi Stati. In cima alla lista l'ex capo di Stato maggiore Mario Roatta e l'ex governatore della Dalmazia Giuseppe Bastianini poi diventato sottosegretario agli Esteri. Gli jugoslavi avevano addirittura richiesto l'incriminazione del ministro Achille Marazza, ex maggiore, uomo di punta della Dc. Lasciar passare il tempo fu il consiglio di Zoppi; concordo con le vostre conclusioni, scrisse il presidente del Consiglio in una nota a firma Andreotti. Così, "nei confronti di alcuni fu spiccato un mandato di cattura da parte della magistratura italiana, ma venne dato a tutti il tempo di mettersi al riparo", hanno ricostruito gli storici Filippo Focardi e Lutz Klinkhammer, principali sostenitori della tesi che la spinta iniziale, almeno temporalmente, alla lunga Notte della Verità sia stata questa. Un mix micidiale di valutazioni politiche portò dunque, nel 1960, a sprangare l'armadio della vergogna con il suo fardello di orrori. Solo negli ultimi anni le inchieste sono ripartite e qualche processo, come quello per Sant'Anna, è iniziato. La verità politica è nelle mani della commissione parlamentare d'inchiesta. In quell'armadio-bis che spulciato cercando la verità potrà forse emendare anche il suo predecessore e accendere nuove clamorose luci su questa lunga Notte. Anche se Andreotti dovesse continuare a non ricordare.

Pier Vittorio Buffa, Il Tirreno 25/04/2004
L’Armadio della vergogna: il cronista, la passione, il libro
L'Armadio della vergogna di Franco Giustolisi è un libro che, si può dire, nasce per caso e cresce per impegno e passione. Il caso è una telefonata all'Espresso del figlio di una delle migliaia di vittime di una strage nazifascista. Vuol sapere, conoscere, indagare. L'impegno e la passione sono quelli che Giustolisi, dal 1994 ad oggi, ha dedicato a ripercorrere la scia di sangue che hanno lasciato dietro di sé le armate naziste e i loro alleati di Salò. Giustolisi è cronista di lunghissimo corso. Con lui ho lavorato per anni, abbiamo scritto insieme un paio di libri e mi ha fatto vedere per una, dieci, cento volte la tenacia di un cronista. Quando sente l'odore di una notizia non molla finché non la porta a casa. Non si ferma davanti al bisogno di sonno o cibo, non lo rallenta la necessità di andare a casa di chicchessia, non si lascia intimidire dalle titubanze di questo o quel direttore di giornale. Anche questa volta, quando ha cominciato a occuparsi delle stragi del 1944, Franco ha sentito l'odore della notizia. Ma un odore diverso dal solito, più forte e pungente, che non è più riuscito a togliersi di dosso. Soprattutto quando gli hanno raccontato di quell'armadio, con le ante rivolte verso il muro, dove era stata nascosta la verità. È stato lui a battezzarlo l'Armadio della vergogna, a scriverne sull'Espresso, su Micromega, sull'Unità, sul Tirreno. Si potrebbe anche dire che, senza la sua caparbietà, non si sarebbe nemmeno arrivati alla commissione d'inchiesta parlamentare su quelle stragi. Ma sarebbe ingiusto per tutti quelli ("pochi", sottolinea sempre ricordando però, in cima a tutti, il sindaco di Stazzema) che insieme a lui si sono battuti perché si desse corso, anche dopo così tanto tempo, a un po' di giustizia. Il sistema di lavoro adottato da Franco per raccontare gli assassinii e puntare il dito contro gli assassini è quello di sempre. Un pezzetto dopo l'altro. Parlando con i magistrati, cercando nelle carte, parlando con testimoni diretti e indiretti. I risultati, preziosi, sono soprattutto due. Il primo lo si percepisce anche solo sfogliando il libro. Messe una dietro l'altra quelle raffiche di mitra contro donne vecchi e bambini diventano un boato che il tempo non può cancellare. Il secondo è nella prima parte del volume, quella in cui è sintetizzato il risultato delle indagini condotte per capire chi e perché avesse deciso di non processare i fascisti colpevoli delle stragi e creare, così, l'Armadio della vergogna. Ci sono nomi e cognomi di ministri e sottosegretari. C'è la verità storica e politica che la commissione parlamentare dovrà accertare: la giustizia è stata negata per opportunità politica. Questa è la notizia che Franco cercava. L'ha trovata.

Giorgio Boatti, La Stampa / Tuttolibri 24/04/2004
Le stragi dimenticate
Quante furono le vittime civili, dentro la guerra civile e di liberazione nazionale, che tra il 1943 e il 1945 scosse la penisola? E perché - scrutando la carta delle stragi compiute dai nazifascisti nell’Italia occupata - i luoghi dei massacri si vanno ad addensare nel cuore dell’Appennino? Perché tutti quei morti lungo vallate e poveri borghi che nessuno conosceva? Zone di silenzio e di vite appartate. Anche dalla storia, prima che fossero investite dalla selvaggia reazione dei corpi speciali e delle armate di Hitler e della Rsi che a Marzabotto, a Fivizzano, a Sant’Anna di Stazzema cancellarono interi paesi. Donne, vecchi, bambini: assassinati perché accusati di complicità con la guerriglia partigiana. A raccontare questo capitolo atroce di quegli anni e la vergogna della giustizia negata per "ragioni di Stato" ai sopravvissuti (i carteggi processuali sepolti in un armadio, per decenni) è ora Franco Giustolisi, nell’indispensabile, commosso, documentato volume L’Armadio della vergogna (Nutrimenti edizioni).

Chiara Valentini, L'Espresso 22/04/2004
Ingiustizia è fatta. Le violenze sui civili italiani tra il ’43 e il ’45. In un libro quei drammatici eventi e il silenzio imposto sulle stragi
Se qualcuno dubitasse che l’Italia è ancora ben lontana dall’aver chiuso i conti con la sua storia recente basterebbe questo libro secco e drammatico di Franco Giustolisi, L’Armadio della vergogna (ed. Nutrimenti) per costringerlo a ricredersi. In uscita proprio nei giorni in cui la commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi nazifasciste ha deciso di desecretare 60 dei 695 fascicoli sugli orrori e le violenze commessi fra il 1943 e il ‘45 ai danni di 15 mila civili inermi, L’Armadio della vergogna dimostra prima di tutto che questa giustizia arriva troppo tardi. Eppure è abbastanza eccezionale la strada all’accertamento della verità che Giustolisi, firma storica di questo settimanale, era riuscito a percorrere dal lontano 1994, quando un tenace magistrato militare, Antonino Intelisano, aveva scoperto, nel corso del procedimento di estradizione di Erich Priebke dall’Argentina, l’esistenza di un misterioso armadio alla Procura generale militare. Come via via era venuto alla luce, in quel vecchio mobile erano stati sepolti i dossier, ricchi di nomi e testimonianze, arrivati dopo la Liberazione dai luoghi in cui erano stati commessi omicidi orrendi, stragi e stupri. Erano le prove preziose di quella "guerra ai civili", di quei massacri pianificati dall’alto ed eseguiti dall’esercito tedesco e dalle milizie repubblichine, di cui alcuni storici hanno recentemente ricostruito le coordinate. Ma quelle prove, proprio quando la magistratura militare si preparava a istruire i primi processi, erano state messe sottochiave, pare su input di uno dei governi democristiani in carica dopo il ‘47. D’altra parte si è saputo di recente da un libro dello storico Michele Batini che sulle stragi italiane gli Alleati, nello stesso periodo, avevano cominciato a istruire una specie di secondo processo di Norimberga, che però poi era stato abbandonato. La ragione di questi insabbiamenti paralleli sarebbe stata nella volontà di non esagerare a criminalizzare la Germania, alleata dell’Occidente nella nascente guerra fredda. E anche di non aiutare indirettamente la crescita delle sinistre italiane. Che poi i delitti destinati a restare impuniti fossero fra i più raccapriccianti doveva essere sembrata una questione secondaria. In questi anni Giustolisi si è dedicato in particolare al caso di Sant’Anna di Stazzema (che per riconoscenza gli ha dato la cittadinanza onoraria). Le 570 vittime del paesino della Lucchesia, fra cui vecchi, bambini e donne incinte, massacrati in un solo giorno dalle Ss, per sessant’anni non erano mai state evocate in un’aula giudiziaria. Adesso, grazie al dossier uscito dall’armadio, sta finalmente per cominciare un processo. Ma gli imputati (quelli ancora vivi sono sei, tutti ultraottantenni) saranno giudicati in contumacia, visto che la Germania non concede l’estradizione. Potrebbero, in seguito, essere processati in patria, ma data l’età sembra improbabile che si arrivi in tempo. Ugualmente senza giustizia sono destinati a restare i più di 500 morti di Fivizzano (Massa Carrara), di cui una parte impiccati con il filo spinato e abbandonati all’aperto vicino al cartello "Chi seppellirà i cadaveri sarà passato per le armi". O i 39 poveri contadini di Conca della Campania, sterminati in un prato dove, ha raccontato la figlia di uno di loro, fu tanto il sangue versato che l’anno dopo l’erba spuntò rossa. E intanto sono morti o irrintracciabili sia assassini che testimoni della strage di 185 civili a Sant’Angelo di Godigo, fucilati dopo essere stati trascinati per decine di chilometri a fare da scudi umani ai nazisti in ritirata. Unico aspetto positivo in tanto orrore è che il silenzio è incrinato e arrivano da molte parti d’Italia testimonianze di altri delitti che non facevano parte dei dossier dell’armadio. Anche questo materiale servirà difficilmente alla giustizia. Ma potrà integrare una storia dove le revisioni, ultimamente, erano arrivate da una parte sola.

Ansa 21/04/2004
"Notiziario libri". L'Armadio della vergogna di Franco Giustolisi
Un vecchio mobile di tipo ministeriale, tarlato, le ante chiuse a chiave e rivolte verso il muro: per oltre 40 anni ha custodito fraudolentemente 695 fascicoli e un registro (prima scomparso e poi riapparso) con la storie e i nomi dei responsabili di eccidi compiuti dai nazi-fascisti in Italia. A lungo, come ricostruisce Giustolisi, qualcuno ha voluto che restasse chiuso. Sepolto nella sede della Procura generale militare in via degli Acquasparta a Roma, l''Armadio della vergogna" è stato riaperto solo recentemente: ci sono voluti, nel corso del tempo, un procuratore militare capo, Antonino Intelisano, giornalisti tenaci, come Giustolisi, e una legge ad hoc che nel 2003 ha istituito la Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi nazifasciste. Responsabili ''tecnici'' dell'insabbiamento furono tre procuratori generali militari: Umberto Borsari, Arrigo Mirabella ed Enrico Santacroce, succedutisi dal 1945 al 1997. Per i politici, l'autore del libro indica Gaetano Martino, liberale, titolare degli Esteri e Paolo Emilio Taviani, democristiano, responsabile della Difesa, partigiano, presidente dell'Associazione partigiana volontari della libertà, entrambi ministri negli anni 1955-56. Le ragioni: quelle della guerra fredda e la necessità di salvaguardare la Wehrmacht della Germania Ovest impegnata a fronteggiare il blocco sovietico.

Giorgio Boatti, KatawebBlog 21/04/2004
"Silhouettes italiane". Un filo di fumo
Ho finito adesso di leggere un bellissimo libro di Franco Giustolisi, L'Armadio della vergogna, Nutrimenti editore. Di che parla? Parla di quello che è successo dentro la guerra che imperversava in Italia tra il 1943 e il 1945. Anzi dentro "le guerre": perché c'era la guerra tra tedeschi e anglo-americani (con rinforzi al seguito di polacchi, brasiliani, indiani, australiani, etc, tutti ragazzi che per la bella voglia di Mussolini di farsi una vera guerra, assieme al camerata Hitler, erano stati catapultati qua da noi e non pochi ci sono rimasti per sempre). C'era la guerra tra partigiani e nazi-fascisti. C'era quella tra bombardieri alleati e popolazione civile che era la nuova moda strategica introdotta, dopo gli esperimenti in Spagna, col secondo conflitto mondiale. E poi la più spietata e ingiustificabile di tutte le guerre: quella delle rappresaglie dei corpi militari contro intere comunità. Giustolisi ricostruisce con rigore e pietas le stragi compiute dai nazifascisti contro decine e decine di paesi, sperduti borghi, responsabili di essere retrovia delle azioni partigiane. Migliaia e migliaia di vittime: donne, vecchi, bambini. Inermi e innocenti. Di questi crimini - in sessant'anni - pochissimi hanno dovuto rispondere alla giustizia. La "ragion di stato" ha consigliato di far sparire in un armadio - "l'armadio della vergogna", appunto - tutti i documenti che consentivano di aprire dibattimenti, dai quali far emergere precise responsabilità. Solo con la scoperta dell'armadio sono stati riaperti i processi: a sessant'anni di distanza. C'è una cartina - nella seconda di copertina del libro, irrinunciabile, di Franco Giustolisi. La mappa riporta tutte le decine di luoghi dove i nazifascisti hanno fatto stragi. Un puntino, una strage. Un punto più grande: un massacro con centinaia di vittime. C'è un addensamento di punti e puntini via via che ci si addentra nel cuore del nostro Appennino. Quello che era il paesaggio più appartato e vero d'Italia, il più disaccostato dalle metropoli, popolato da semplici che volevano solo vivere e non entrare nei manuali di storia, è stato lo scenario di queste efferatezze. Certo, ci passava il fronte. C'era la guerra partigiana. Ma, soprattutto, si poteva sterminare la gente di poveri paesi, distruggere case coi loro abitanti dentro, quasi senza che nessuno - al di là della linea delle colline - se ne accorgesse. Solo un filo di fumo, dalle case bruciate.

Dario Olivero, Repubblica.it 15/04/2004
"L'Armadio della vergogna" sulle stragi fasciste impunite
L'armadio della vergogna è un armadio che si trovava nella sede della Procura militare generale. Messo in un vano recondito, protetto da un cancello con tanto di lucchetto con le ante chiuse a chiave e rivolte verso il muro. Che cosa c'era dentro? Quale mostro, fantasma o demone da suscitare tanta prudenza? Quale passato inconfessabile? C'era in quell'armadio l'unica cosa che può cambiare il corso delle cose: la memoria. Un armadio stracolmo di fascicoli, 2.264 fascicoli. Ognuno un'istruttoria, ognuno un processo, ognuno una storia. Rimasti lì. Archiviati e nascosti. "Questa è la storia di un'ingiustizia. La più tremenda ingiustizia che un popolo possa subire: colpì al cuore il nostro Paese. Fu una carneficina, in quegli anni tra il 1943 e il 1945. Un esercito straniero aveva invaso l'Italia. Era affiancato da traditori. Nazisti e fascisti, SS e repubblichini di Salò. Fecero decine di migliaia di vittime. Gente senz'armi, civili in fuga dalla guerra. Per lo più donne, vecchi, bambini. Piccoli ancora in fasce, altri mai nati. Li cavarono dai ventri delle loro madri con le baionette e ne fecero bersaglio delle loro armi". È l'inizio dell'Armadio della vergogna di Franco Giustolisi (Nutrimenti). È un altro capitolo della nostra storia senza fine. È un pugno nello stomaco al revisionismo. Farà ricominciare l'infinito discorso sulla memoria storica dell'Italia. Dividerà. Ma una domanda, indipendentemente da tutto, resta. Perché quell'armadio fu sigillato? Chi e perché decise che quei processi non andavano fatti? La ragion di Stato vale sempre più della giustizia e della verità? Sempre?

Jacopo Iacoboni, La Stampa 08/04/2004
Stragi nazifasciste: cade l’ultimo velo. Da Marzabotto alle Ardeatine: Priebke a parte pochi hanno pagato, come racconta un saggio di Giustolisi. La Commissione parlamentare toglie il segreto a sessanta fascicoli dell’"armadio della vergogna": le prove furono ignorate, da chi?
Per capire questa storia dovete accendere la televisione della memoria inserire il dvd e far scorrere le immagini di un filmone anche un po' impressionante con Gregory Peck e Laurence Olivier, I ragazzi venuti dal Brasile. È la storia di un mostro, una specie di Josef Mengele, e dei suoi amici nazisti che a guerra persa si rifugiano grazie a mille complicità in Paraguay e riescono, da laggiù, a truffare persino il Destino sognando l'impossibile rinascita per clonazione del nazismo. Al limite condannati in contumacia, in realtà paf, volatilizzati. Nuove vite, belle mogliettine, figlioli... praticamente hanno preso solo Priebke. Il massacratore delle Fosse Ardeatine ormai lo conoscono tutti ma Helmut Loos? E Albert Piepenschneider? E Franz Stockinger? La cronaca li ha dimenticati e persino la Storia fa la smemorata, peccato che questi tipi siano (o siano stati) tra i più sanguinari boia nazisti in attività nei mesi bui dell'occupazione tedesca in Italia, tra le vendette del post 8 settembre e una liberazione lontana ancora più di un anno e mezzo. Ecco: se quei tre l'hanno fatta franca, suona bene che ieri la Commissione parlamentare d'inchiesta sugli eccidi nazifascisti abbia deciso di "declassificare" sessanta fascicoli segreti della Procura militare di Roma, a suo tempo ignorati: forse i conti con il male che hai sparso in giro si pagano anche postumi, nella storia o semplicemente nella memoria di chi l'ha subito. Fa persino sperare che questo sia un primo passo: in tutto sono 695 i fascicoli dell'"armadio della vergogna", lo scaffale pieno di carte sui crimini nazifascisti scoperto nel '94 dal procuratore militare Antonino Intelisano e custodito tra gli stucchi cinquecenteschi di Palazzo Cesi, a Roma. E può essere un segnale incoraggiante che su tutti i procedimenti penali (archiviati "o perché non è stato possibile identificare l'autore dei fatti, o perché è intervenuta la prescrizione") siano chiamati a deporre uomini del calibro di Giulio Andreotti, nel '60 ministro della Difesa, che la Commissione avrebbe intenzione di sentire. Tutto bene, insomma, anche l'accordo bipartisan che vede procedere unanime una commissione presieduta da un Udc (Flavio Tanzilli) e sostenuta indifferentemente da forzisti (come Pierantonio Zanetti) e comunisti (come Giovanni Russo Spena). Ma di cosa parliamo quando parliamo di un archivio chiamato "l'armadio della vergogna"? Di solito già gli armadi, a parte gli scheletri, contengono poco altro se non vestiti che nessuno metterà mai e fotografie che non riescono a restituire il passato: ma gli armadi "della vergogna" sono spesso armi improprie, contengono rivelazioni di ieri da usare contro i nemici di oggi. La storia usata per la politica. Ora: non è questo il caso. Se volete una conferma aprite il bel libro che Franco Giustolisi, storico inviato del Giorno e oggi collaboratore dell'Espresso, ha chiamato appunto L'Armadio della vergogna (Nutrimenti). E ascoltate le spiegazioni che fornisce l'autore, le sue parole rivelano cose interessanti e semi-sconosciute. Chi era Looss? "Fu quello che ispirò l'assalto all'abbazia di Farneta conclusosi con l'assassinio di dodici certosini. Al processo tenutosi a Bologna nel 1951 contro Reder, fu dato per morto sul finire della guerra. Non era vero, morì indisturbato il 25 novembre del 1988 a Brema". Chi erano Piepenschneider e Stockinger? "Gli unici due rimasti vivi dei tre assassini di Marzabotto finora individuati, uno ha 78 anni, l'altro 80 anni". Quello morto, il simpatico Albert Meier, è anche noto per avere ricostruito con significativi accenni di pentimento il senso di quella strage: "Abbiamo solo eliminato i bacilli di sinistra". E a dispetto di questa sprezzante ferocia, occorre andare a prendere questi vecchietti ovunque siano, come fa Laurence Olivier nel film facendoci tifare tutti, in quella scena finale coi dobermann? La Commissione giura, non vogliamo istruire processi "ma il dato politico è che i crimini di guerra sono imprescrittibili". Giustolisi nel suo bel libro chiede "soltanto di sapere, per esempio chi diede l'ordine di ignorare i documenti dell'armadio della vergogna, e quale fu esattamente quell'ordine". Okay la pacificazione, dice, ma per la ricostruzione della "memoria condivisa degli italiani" prima bisogna raccontare la verità. Nel film il cattivo Gregory Peck muore, e pure soffrendo. Nella vita i cattivi sono morti, dei moribondi sfuggiti al Destino abbiate pietà senza dimenticare.

Cesare Panizza, L'Indice dei Libri settembre 2004
L'Armadio della vergogna
Sarà una commissione parlamentare d’inchiesta a stabilire chi sia stato politicamente responsabile della decisione di lasciare impuniti i crimini di guerra commessi ai danni dei cittadini italiani. Le cause delle manovre di insabbiamento messe in atto dalla Procura militare generale, come ha riconosciuto lo stesso Consiglio della magistratura militare, furono infatti essenzialmente politiche. Innanzitutto, e inizialmente, sottrarre migliaia di criminali di guerra italiani ai processi che, se estradati, li attendevano nei diversi Paesi occupati dall’Italia fascista, contribuendo così alla rimozione dalla memoria italiana, del ruolo di aggressore avuto dall’Italia nel conflitto. Quindi non infastidire con il ricordo dei crimini tedeschi il riarmo della Germania democratica all’interno dell’alleanza atlantica. È impossibile stabilire precisamente, stando alla documentazione disponibile, quando la ragion di Stato ebbe il sopravvento sul desiderio di giustizia, inducendo la magistratura militare a occultare la documentazione raccolta sui crimini tedeschi nell’ormai celebre "armadio della vergogna", la cui vicenda è ricostruita da Giustolisi nella prima parte di questo libro. AI centro vi sono 695 fascicoli che, spesso accompagnati dalle generalità dei presunti colpevoli, e raccogliendo le testimonianze dei sopravvissuti, nonché gli interrogatori svolti dalle autorità militari alleate, avrebbero permesso nel 1947, quando cioè avrebbero dovuto essere inoltrate alle procure militari competenti, di fare giustizia di 2.273 episodi, fra violenze, stragi e omicidi compiuti dalle truppe di occupazione tedesca, in molti casi con l’attiva complicità di quelle repubblichine. II rinvenimento di quelle carte nel 1994, che vengono, pur senza pretesa di esaustività, analizzate con dovizia nella seconda parte del libro, ha oggi permesso di avviare, pur tra mille difficoltà, nuove indagini e in alcuni casi di celebrare finalmente i processi.

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